composizione di classe – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache marsigliesi / 5: un bilancio. https://www.carmillaonline.com/2023/06/08/cronache-marsigliesi-5-un-bilancio/ Thu, 08 Jun 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77498 di Emilio Quadrelli

La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

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La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

Al momento, sulla scia dei materiali raccolti, provare a tracciare un bilancio appare utile. Inevitabilmente il “viaggio marsigliese” si è intersecato con ciò che in questi mesi è andato in scena in Francia in relazione al movimento che ha provato a opporsi alla legge relativa al prolungamento dell’età lavorativa. A partire da ciò proveremo a delineare gli intenti e la “linea di condotta” del comando per, in un secondo momento, parlare degli effetti di questo sul tessuto sociale francese e della composizione di classe, rispetto alla quale abbiamo assunto Marsiglia come elemento paradigmatico, sulla quale abbiamo concentrato i nostri articoli-inchiesta. Infine, ma in un successivo articolo, si proverà a ragionare sulle prospettive, ma anche le contraddizioni, che il “nuovo soggetto operaio” si porta appresso. Delineato l’indice del testo entriamo direttamente nel merito delle questioni.

Cominciamo, quindi, con il parlare del movimento che si è opposto alla riforma delle pensioni. In piena solitudine abbiamo sostenuto che non fosse proprio “tutto oro ciò che brillava” e che gli abbagli presi in Italia a proposito di quel movimento fossero colossali. I più, catturati dall’imponenza delle manifestazioni e dalle non secondarie scaramucce imbastite da alcune frange di manifestanti con le forze dell’ordine, hanno intravisto in quelle manifestazioni qualcosa di non dissimile da un momento pre–insurrezionale. Certo, vista soprattutto la prevalente apatia che serpeggia in Italia, un numero di manifestanti così ampio e il prodursi di qualche battaglia di strada, comprensibilmente poteva far sorgere più di un entusiasmo tuttavia è sempre il caso di ricordare che le insurrezioni o i suoi tentativi presuppongono la presenza di strutture organizzate predisposte all’attacco. Di tutto ciò non si è avuta alcuna traccia per cui parlare di momento pre–insurrezionale appare, come minimo, una forzatura.

Identico ragionamento si può fare se dall’ipotesi dell’insurrezione passiamo a quella della “spallata”. In questo caso non necessariamente deve comparire, se non in forme minime, il conflitto armato ma, sicuramente, occorre l’esercizio di una “forza” in grado di arrecare danni considerevoli al nemico di classe. Perché si possa parlare di fase insurrezionale occorre che quanto emerge nelle piazze sia una lotta contro lo stato e per il potere mentre, nel caso della “spallata”, più modestamente, e forse anche più realisticamente, l’obiettivo è la caduta del governo. Nessuna delle due ipotesi, oggi lo possiamo dire sulla base di una prosaica constatazione empirica, è stata perseguita e questo, altro aspetto non proprio irrilevante, senza che il governo abbia dovuto intervenire in maniera eccezionale. In altre parole il governo, per far rientrare il tutto, non è stato obbligato a alcuna “forzatura emergenziale” non ha dovuto, cioè, promulgare alcun “stato d’eccezione”, affidare un qualche potere speciale alle forze di polizia, porre in stato dall’erta l’esercito, così come nessun restringimento delle “libertà democratiche” (individuali e collettive), nessuna parvenza di coprifuoco, limitazione della libertà di stampa ecc., sono state messe in campo e neppure ventilate. Il governo si è limitato a agire sicuramente con fermezza, ma dando anche l’impressione di mantenere entro perimetri piuttosto bassi i livelli repressivi. A sguardi minimamente attenti, oltre che consci degli abituali livelli repressivi posti in atto dalle forze di polizia nei confronti della racaille, è apparso subito chiaro come la polizia si sia mossa con il freno a mano tirato. Evidentemente, e non senza ragione, il governo aveva la netta sensazione di trovarsi di fronte al classico: tanto rumore per nulla. Quelle masse non sarebbero andate oltre. Tutto ciò, del resto, non poteva rientrare negli intenti dei settori di classe che sono scesi in piazza.

Come abbiamo, sin da subito evidenziato, la lotta ha interessato esclusivamente il settore pubblico mentre gli operai e i proletari del settore privato, i precari e i disoccupati ne sono rimasti sostanzialmente estranei. La stessa componente studentesca ha visto una spaccatura simile. A fronte della mobilitazione delle università e delle scuole superiori di élite, la componente studentesca maggiormente legata alla condizione operaia e proletaria, il cui orizzonte è esattamente finire tra le schiere dei non garantiti, ne è rimasta fuori. Il motivo di tutto ciò è abbastanza semplice. L’attacco governativo alle pensioni riguardava, principalmente, quei settori operai e proletari del settore pubblico che, per semplificare, possiamo catalogare come “garantiti” o, per usare un lessico un po’ datato ma non del tutto inattuale, come “aristocrazia operaia”. Un ambito che, in Francia, può vantare numeri considerevoli oltre che postazioni di forza e di potere non secondarie. Questo settore può vantare condizioni salariali, lavorative e previdenziali invidiabili e, se paragonate a quelle italiane, addirittura inimmaginabili. Ciò è il frutto di due cose, da un lato l’esercizio e di una forza sindacale costruita con le lotte; dall’altro la possibilità di usufruire di una parte dei profitti che il neocolonialismo francese è in grado di rastrellare, soprattutto in Africa, tramite il Franco CFA o i suoi surrogati. Non è certo una novità il fatto che settori di classe operaia usufruiscano di modeste ma significative parti dei profitti imperialisti e neocoloniali. In Francia, ciò, è quanto mai evidente.

Questi settori di classe hanno provato a difendere, per questo possiamo definirla come una lotta, per quanto corposa, di retroguardia, una condizione che appartiene, sotto il profilo storico, a un’epoca in fase di archiviazione anzi, per essere più precisi, a un’epoca già archiviata dal contemporaneo “piano del capitale” (di ciò l’Italia ne incarna con ogni probabilità il punto più avanzato). Una fase storica segnata in profondità da quel “patto socialdemocratico” il quale, con sfumature diverse, ha fatto da sfondo all’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Un patto sicuramente non esente da conflitti, spesso anche molto accesi, dove, però, l’idea della rottura non animava alcuna delle parti in gioco.

Se escludiamo il falò del Maggio e la “anomalia italiana” degli anni ’70, solo paese dell’Europa occidentale dove l’ipotesi della rottura si è concretamente dato tanto da delineare, pur se di breve intensità, lo spettro della “guerra civile”, nel resto dei paesi europei tutto ciò è rimasto sostanzialmente assente. Sovente, questo conflitto, non è andato molto oltre il “simbolico” dove, per “simbolico”, si intende la messa in scena di un conflitto, anche dai toni minacciosi, ma che non va mai oltre la rappresentazione.

L’epilogo di ciò, insieme alla sua infelice conferma, si è avuto proprio nel corso della battaglia per il ritiro della legge sulle pensioni a riprova di come, nella storia, la farsa segua sempre la tragedia. Il 16 marzo, l’opposizione parlamentare, ha interrotto la porta voce del governo alzandosi in piedi e intonando la Marsigliese. Peccato che, a tutto ciò, non abbia fatto seguito alcuna “marcia su Versailles”, alcuna “presa della Bastiglia” e, soprattutto alcuna “formazione di battaglioni”. Prigioniera di un mondo che non c’è più, l’opposizione parlamentare ha fatto ciò che, con ogni probabilità, nel passato sarebbe stato un atto dimostrativo sufficiente per obbligare il governo a una mediazione. Come tutti sanno, le cose sono andate in maniera decisamente diversa. Con ciò l’opposizione ha dimostrato più che la sua inadeguatezza il suo essere fuori contesto. Il canovaccio attuale predisposto dal comando non prevede che in scena vadano “battute” simili e farle non comporta altro che andare incontro a clamorose gaffe.

Con ogni probabilità, Mélenchon e soci, più che intestardirsi con un marxismo–leninismo d’antan trarrebbero maggiori vantaggi dalla lettura di Goffman!!! Una retorica alla quale, del resto, non si è sottratto neppure quella parte di movimento studentesco sceso in piazza. Chi ha seguito le manifestazioni avrà colto, cosa che probabilmente in un primo momento li avrà riempiti di entusiasmi, le non secondarie assonanze con il Maggio, i suoi slogan e le sue parole d’ordine ben velocemente, però, è diventato chiaro come, a conti fatti, la rievocazione del Maggio fosse del tutto in linea con il fare simbolico dell’opposizione in parlamento. Così come non vi è stata alcuna “marcia su Versailles” e il “Quartiere latino” ha dormito sonni tranquilli.

Ironie a parte un dato, che racconta molto sulla realtà di questo movimento, è la totale assenza della questione guerra nelle manifestazioni. Tutto ciò che concerne la guerra, il conflitto interimperialista in corso e le ricadute di questo anche dentro la Francia non ha trovato alcun spazio e, del resto, neppure poteva trovarlo. Il mondo dei “garantiti” o “aristocrazia operaia” che dir si voglia è, e questo da sempre, legato al carrozzone del “proprio imperialismo”, pertanto il conflitto non può varcare una certa soglia a meno che quella stessa condizione non inizi a incrinarsi. Qualche avvisaglia di ciò si è iniziata a intravedere nel corso delle “giornate francesi”, ma di tutto questo ne parleremo meglio nella seconda parte dedicata alla “soggettività della classe”. Prima di passare a parlare del “piano del capitale”, anche perché così diventa più semplice comprendere il senso di quanto asserito, un passaggio sulla scena italiana appare utile.

Per quanto in maniera sicuramente minimale, ma di segno identico, anche in Italia abbiamo avuto il nostro clamoroso abbaglio. Ci riferiamo a quanto andato in scena attraverso il “Collettivo di fabbrica GKN” e alle retoriche consumatesi intorno a “Insorgiamo”. La lotta della GKN era ed è, tra l’altro, non uno ma cento passi indietro rispetto alla Francia. Se, in Francia, la lotta di retroguardia dei “garantiti” mirava a difendere una postazione di forza e di potere dove a primeggiare era il “diritto a vivere” e non a lavorare, la lotta della GKN era del tutto perimetrata intorno a quel “diritto al lavoro”, che in soldoni significava semplicemente cercare un nuovo padrone, proprio di quella “destra operaia” che, in epoche ormai remote, ambiva a “farsi stato”. Tutto interno alla CGIL, per quanto legato a quella ipotetica sinistra della quale non se ne sono mai capiti contorni, programmi e intenti, il “Collettivo di fabbrica GKN” di questa organizzazione ne assumeva per intero tutte le retoriche. Produttivismo, ideologia del lavoro, concertazione senza dimenticare il legalitarismo, la reiterata manifestazione di fiducia nelle istituzioni e così via. Palesemente, nonostante i non pochi ammiccamenti nei confronti del “movimento”, la sua interlocuzione principale rimaneva Nardella (sindaco di Firenze), piddino di formazione renziana, il quale se sicuramente non è Lenin non è neppure lontano parente di Pietro Nenni. Facendosi forte di una consolidata tradizione “consociativa”, propria della “destra operaia”, il “Collettivo di fabbrica” considerava la mediazione istituzionale un atto pressoché dovuto il che non è stato. Ciò che il “Collettivo di fabbrica” non ha compreso è che, per la forma attuale del comando il “patto” con la “destra operaia” ha perso qualunque valenza strategica e, con questo, anche tutto l’insieme di “rituali” che gli hanno fatto da sfondo. L’epoca degli “atti simbolici” è abbondantemente alle spalle e “insorgere” nel nulla, come ha fatto il “Collettivo di fabbrica GKN” trascinandosi dietro gran parte del cosiddetto movimento antagonista, può essere ben chiosato con Sartre L’essere e il nulla. Di tutto ciò la Francia ne ha dato qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Passiamo così a parlare degli obiettivi che il “governo Macron”, il quale ha ben poco di francese ma è parte di prim’ordine del comando internazionale del capitale, ha voluto perseguire con la sua riforma. Come in molti ricorderanno uno spettro, da tempo, aleggiava tra le classi subalterne francesi: “Non fare la fine degli italiani”. Con non poca ragione, queste masse, identificavano nell’Italia il paese che più di altri sintetizzava la macelleria sociale del nuovo ordine capitalista il che con non poche ragioni. Per quanto anche in Francia, negli ultimi anni, si sia assistito al proliferare di politiche neoliberiste che hanno modificato radicalmente la composizione di classe del paese e a un non secondario ridimensionamento delle politiche di welfare, agli occhi di un visitatore italiano la Francia appariva pur sempre come il paese dei balocchi.

Con la mossa sulle pensioni, che ne prevede già immediatamente un’altra sulla sanità, il “governo Macron” intende por fine a quella che, per molti versi, appare come la grande anomalia europea. Ciò che deve essere battuta, ridimensionata e tendenzialmente estinta è proprio quella notevole porzione di classe operaia e proletariato “garantito” che in Francia, e in parte in Germania, incarna al meglio la tipologia delle relazioni industriali provenienti dal ‘900 e non è certo un caso che proprio in Francia e Germania si siano prodotte, proprio a opera di questi settori operai, le lotte maggiori.

In Francia questo settore di classe è ancora troppo vasto e non può più essere tollerato, ma deve essere allineato a quella condizione nella quale, non da oggi, sono state ascritte quote considerevoli di forza lavoro. Precarietà, lavoro nero e disoccupazione devono diventare i “luoghi comuni” delle masse operaie e proletarie senza che alcuna significativa forma di welfare li attenui. Proprio considerando questo il “cuore” del progetto politico del “governo Macron” abbiamo assunto Marsiglia come possibile paradigma del presente. Come abbiamo ascoltato in molte delle interviste riportate negli articoli precedenti, Marsiglia sembra presentarsi come un vero e proprio laboratorio per il “piano del capitale”. A renderla tale, aspetto che negli articoli pregressi è stato posto poco in evidenza, è la sua composizione “etnica”. Marsiglia è una città sicuramente abitata da francesi ma non bianca in quanto la presenza di una popolazione “postcoloniale” sembra essere maggioritaria.

Perché questa condizione ne farebbe il luogo ideale per la messa a punto delle politiche che stanno a cuore del comando? Perché Marsiglia si presta, si potrebbe dire come autentico modello ideal – tipico”, a essere uno di quei “sud del mondo” sui quali si delineano le attuali politiche del comando e del dominio dove “razzializzazione” e “neocolonialismo” sono i presupposti per l’attuale ciclo di accumulazione. Questo è il passaggio fondamentale attraverso il quale diventa possibile comprendere il senso dell’attacco a tutto tondo portato dal “governo Macron” al mondo dei “garantiti”. Marsiglia, quindi, come vero e proprio specchio del presente. Si tratta di una asserzione probabilmente non semplice e persino in apparenza eccessiva che, pertanto, deve essere argomentata.

Per comprendere il senso di questo passaggio dobbiamo chiederci qual è il modello delle relazioni industriali che il comando sta perseguendo. Lo scarto tra il passato e il presente è colossale in quanto da una relazione simmetrica si è passati a una decisamente asimmetrica. Con ciò, non senza ironia, si può asserire che il comando è andato “oltre Marx” poiché ha esattamente posto in mora quel: “A pari diritti, vince la forza” attraverso cui Marx, se da un lato indicava la “forza” come elemento essenziale del rapporto tra le classi (da qua la funzione dello stato come apparato di classe), dall’altro ne presupponeva l’eguaglianza sotto il profilo giuridico–formale.

Figlio del suo tempo e forzatamente eurocentrico, Marx assumeva le relazioni sociali europee come modello universale ponendo, con ciò, tra parentesi tutta la storia coloniale e, con questo, sia il ruolo svolta da questa nella cosiddetta accumulazione originaria e, in contemporanea, i modelli relazionali sui quali si fondava l’esercizio del dominio nei confronti dei colonizzati. Nasce esattamente dentro questo processo la svalutazione, “antropologica” ancora prima che “politica”, di ciò che le retoriche di senso comune inizieranno a definire come “sud del mondo”. Con ciò il “sud del mondo” diventava l’altro e la relazione con questo, si potrebbe dire per “natura”, non poteva che essere di tipo asimmetrico, ovvero regolata esclusivamente sull’esercizio della forza. Con ciò la storia delle masse subalterne europee e quelle quelle extraeuropee non poteva che essere scritta attraverso due sintassi tanto diverse quanto incommensurabili.

Una storia che ha funzionato sino a quando, attraverso i processi di globalizzazione, i rigidi confini che separavano, a quel punto il mondo occidentale dal resto del pianeta, si sono di fatto azzerati. A quel punto, questa volta per davvero, la condizione subalterna ha iniziato a farsi universale e lo ha fatto assumendo nei nord del mondo le condizioni in uso nel sud. Ciò che dagli articoli d’inchiesta abbiamo appreso è la condizione di esclusione e marginalità sociale nella quale versano coloro che compongono i ranghi della nuova composizione di classe così come, al contempo, abbiamo appreso lo svuotamento della città metropolitana dalle attività industriali, confinate nelle vicine “città satelliti”, a fronte del proliferare delle attività turistiche al suo interno. In questo modo la città viene liberata dall’ingombrante presenza dell’industria e della sua classe operaia, il cui confinamento geografico contribuisce non poco a renderla invisibile, mentre frotte di turisti possono “vivere la città”. Un fenomeno, questo, ben conosciuto in Italia. La nuova classe operaia è stata, per lo più, espulsa dalle città diventate, non a caso, anche queste mete turistiche e dislocata in quegli immensi territori un tempo extraurbani ma oggi, a tutti gli effetti, sterminate periferie delle metropoli oppure confinate, in condizioni servili, negli invisibili comparti agro–alimentari. Ma torniamo a Marsiglia.

Riprendiamo un tema ben affrontato in alcune interviste, affrontando il nesso indissolubile che lega militarizzazione, repressione e ciclo economico. Chiunque abbia visitato Marsiglia solo qualche anno addietro e lo rifaccia oggi noterà come militarizzazione del territorio insieme a repressione e confinamento della racaille abbiano conosciuto una crescita esponenziale soprattutto ultimamente quando, dopo anni di governo cittadino di destra, l’amministrazione è passata nelle mani di una giunta di sinistra. Potrebbe sembrare un non senso ma, in realtà, l’effetto di questa trasformazione ha ben poco a che fare con le possibili “visioni del mondo” delle donne e degli uomini politici che governano la città ma ha invece molto a che vedere con i processi economici che l’hanno investita. Come sempre non è guardando ai mondi celestiali delle idee e della politica ma andando a scavare tra gli inferi della produzione che diventa possibile comprendere i mondi reali.

Marsiglia, negli ultimi anni, ha conosciuto una veloce e repentina impennata in chiave turistica. Su ciò si sta rimodellando e lo sta facendo su più piani, al proposito apriamo un doveroso inciso. Il turismo di cui stiamo parlando è un turismo di massa cioè di quella robusta middle class che rappresenta l’ossatura dei vari nord del mondo ed è proprio la relazione e l’empatia con questa composizione di classe a fare da sfondo ai modelli di trasformazione urbana. Per prima cosa, infatti, la sta rendendo una città sempre più simile e omologata a tutte le città del mondo le quali, come da tempo è stato ben osservato dalla sociologia urbana, stanno assumendo sempre più aspetti omogenei. Ciò è estremamente rassicurante poiché, in ogni contesto, il turista può utilizzare la medesima mappa cognitiva.

Il turista non è alla ricerca del proprio “romanzo di formazione”, dove centrali diventano le diversità alle quali si va incontro, ma di un continuo non–luogo con il quale è abituato ormai da tempo a convivere e con il quale si immedesima. In seconda battuta il turista ha fame di “esotico”. I selfie che faranno da testimoni alla vacanza se da un lato dovranno fissare l’immagine delle cattedrali dei non–luoghi, dall’altro dovranno anche “raccontare” i “misteri del viaggio”. Nascono così i luoghi “caratteristici della città”, frutto di una nuova “invenzione della tradizione”, dove il turista può usufruire di una narrazione dove la storia della città, o meglio di una sua particolare zona (il quartiere del Le Panier tanto per fare un esempio particolarmente significativo), è totalmente reinventata e manipolata.

Tutto ciò, è evidente, per poter funzionare ha bisogno di due cose, la totale messa in sicurezza dei territori, per cui tutti coloro che disturbano, o potrebbero farlo, devono essere espulsi; una forza lavoro invisibile e priva di legittimazione sociale prona a assecondare le richieste del mercato. Una forza lavoro flessibile, precaria e continuamente sotto ricatto la cui condizione, per forza di cose, oscilla tra precarietà, disoccupazione e illegalità. Una forza lavoro che, nel momento in cui è inoccupata, deve essere confinata nei “Quartieri Nord” o nelle altre zone di Marsiglia off limits per i turisti. Questo, in sintesi, ciò che il comando, e a uno stadio piuttosto avanzato, sta realizzando.

Tutto ciò, come abbiamo provato a descrivere negli articoli pregressi, ha comportato il delinearsi di una “nuova composizione di classe” che non ha più nulla a che spartire con ciò che abbiamo definito “relazioni industriali novecentesche”. Se questo è il “piano del capitale” occorre pur sempre che, per essere realizzati, si facciano “i conti con l’oste”. Quanto l’oste sia accondiscendente è ancora tutto da dimostrare. Settori di “aristocrazia operaia”, operai industriali del privato, precari, disoccupati e illegali se, per un verso, non hanno ancora elaborato una loro compiuta sintassi mostrano, se non altro, di avere dalla loro una robusta grammatica. Se per il comando le masse subalterne devono essere relegate a forza nel mondo della voce non pochi indicatori sembrerebbero dire che queste masse si stanno appropriando del linguaggio, il loro linguaggio. Esattamente di ciò proveremo a parlare nel prossimo articolo.

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Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico. Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto [...]]]> di Emilio Quadrelli

Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico.
Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto diventare un punto di incontro dei subalterni e non un ambito puramente autoreferenziale come succede alle “strutture sportive di movimento”.

Una differenza assai nota in Italia e che ha prodotto una radicale rottura tra il mondo delle “palestre popolari”, che hanno decisamente optato per un approccio “classico” all’attività sportiva, e quello radical e alternativo proprio dei “centri sociali”. Nel primo caso, come per esempio a Genova, Livorno, Roma e Palermo, si sono consolidate realtà di massa con non secondarie entrature nel tessuto operaio e proletario le quali si sono conquistate una certa fama portando alcuni atleti, nella boxe, nella muay thai e nel powerlifting a competere per titoli nazionali e internazionali mentre, nel secondo, la frequentazione non è andata oltre il ristretto numero di frequentatori abituali del “centro sociale” senza alcuna capacità di attrazione nei confronti dei mondi operai e proletari. Non è secondario rilevare come le “palestre popolari” conoscano una notevole frequentazione del proletariato immigrato il quale, all’interno di questi ambiti, ha l’opportunità di affiancare all’attività sportiva dei momenti di socialità che lo emancipano dai ghetti sociali ed esistenziali in cui è confinato un aspetto del tutto estraneo alle realtà radical e alternativa le quali, in linea di massima, sono frequentati da bianchi di classe media.

Il senso di ciò è spiegato e ben argomentato da V. L., uno degli istruttori della sala.

Intanto cominciamo con il dire che questo Collettivo nasce grazie all’iniziativa di un paio di ex pugili con una certa carriera agonistica alle spalle. Pugili che, però, oltre che atleti erano e sono comunisti. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo constatato che, per gli abitanti dei quartieri popolari, le possibilità e le occasioni di fare sport erano ridotte all’osso. Questo per tre motivi. Troppo onerosi i costi delle strutture private; percepite, e non a torto, come forma di controllo e disciplinamento coatto le poche e rare strutture pubbliche; culturalmente non proponibili le attività sportive alternative presenti nel variegato mondo della sinistra. Attività che sono svolte al di fuori delle federazioni sportive, senza sbocchi agonistici e prive di una qualunque serietà professionale e coeva disciplina atletica. Nessun proletario metterebbe piede in un posto simile perché ciò che ricerca è la possibilità di fare una attività sportiva vera nella prospettiva di poter diventare, come nel nostro caso, un pugile di valore. Con ciò abbiamo spiegato il terzo punto. Il primo è semplice poiché i costi delle nostre attività sono un quarto di quelli normalmente in uso nelle strutture commerciali. Il secondo punto è quello più importante e interessante. Possiamo dire che noi siamo un collettivo, per usare un’espressione ben nota a voi italiani, di boxe e di lotta, nel senso che non ci limitiamo ad allenare le persone e portarle ai campionati o dare la possibilità di svolgere una preparazione atletica anche a chi, per età, non andrà mai oltre a qualche round in allenamento, ma dentro la nostra sala svolgiamo anche attività politica e sindacale tanto che, proprio da qua, hanno preso forma, almeno in parte, le realtà organizzate dei precari e dei disoccupati che stanno conoscendo una certa espansione in città.

A questo punto dovresti dire qualcosa di più articolato sulla composizione di classe del collettivo e, in che misura, detta composizione riflette la realtà sociale di Marsiglia.
Marsiglia è una città dove l’indice di disoccupazione e precarietà è tra i più alti di Francia. Per molti questo dato oggettivo farebbe di Marsiglia l’elemento tanto anomalo quanto di retroguardia della società francese. Secondo noi, invece, Marsiglia racconta esattamente una storia del futuro. Disoccupazione e precarietà non sono una condizione anomala bensì la condizione in cui gran parte delle masse operaie e proletarie saranno confinate. Per questo i disoccupati non sono un’appendice della classe operaia ma sono classe operaia a tutti gli effetti. Disoccupazione e precarietà si intersecano perché il passaggio da una condizione all’altra è costante. Nel Collectif abbiamo raccolto per lo più, anche se vi sono presenti condizioni di maggiore stabilità, le tipiche espressioni di questa condizione e ciò ci ha permesso, insieme a militanti operai che provenivano da altre esperienze, di sviluppare un’attività politica e sindacale proprio a partire da queste condizioni.

Avete un qualche modello politico e organizzativo a cui fare riferimento?
Noi ci definiamo come collettivi autonomi, il che già dice molto. Come tutte le esperienze che vivono la realtà dell’oggi non possiamo certo pensare di riprodurre i modelli del passato anche se, in qualche modo, di queste esperienze teniamo conto. Non esiste una ortodossia dell’autonomia di classe, esiste l’autonomia della classe qui e ora. Se proprio vogliamo cercare un modello, noi siamo molto interessati a ciò che fa il Sicobas in Italia, soprattutto la sua sezione napoletana attraverso il “Movimento dei disoccupati 7 Novembre”. Ci ispiriamo anche al movimento americano per i 15 dollari, con il quale abbiamo dei contatti, e siamo attenti a ciò che si sta muovendo in Inghilterra sulla questione delle bollette. Infine, abbiamo un legame abbastanza stretto con esperienze similari alla nostra in Irlanda. Qua, in Francia, abbiamo legami stretti con realtà simili alla nostra a Parigi, Lione, Montpellier e Tolone. Stiamo ipotizzando di organizzare per la primavera prossima un’assemblea di tutte queste realtà, alla quale vorremo invitare anche compagni di altri Paesi, sicuramente il movimento dei disoccupati napoletani, in modo da costruire un coordinamento autonomo di realtà operaia e proletarie. Un’altra cosa che cercheremo di fare è di costruire un coordinamento nazionale delle esperienze sportive affini alla nostra. Alcuni nostri compagni, infine, lavorano anche dentro le strutture sindacali più tradizionali. In Francia i sindacati hanno perso gran parte dei loro quadri e dirigenti per cui, specialmente nelle strutture periferiche, vi sono parecchi vuoti che, in alcuni casi, siamo riusciti a riempire potendo così utilizzare una parte della logistica rimasta intatta.

Voi siete palesemente distanti dai vari movimenti della sinistra alternativa e antagonista. Che cosa rimproverate? Che cos’è che vi differenzia principalmente?
Direi, per semplificare, che a differenza di quella che comunemente viene definita sinistra radicale o antagonista, noi ci caratterizziamo per la nostra “centralità operaia”. Quando parliamo di “centralità operaia” non lo facciamo nel modo in cui lo fanno le varie sette comuniste ortodosse, per le quali la classe operaia è ridotta a icona fuori dal tempo e dallo spazio. “Centralità operaia”, per noi, significa partire dalla attuale composizione di classe, la quale, chiaramente, è il frutto delle trasformazioni economiche e sociali intervenute dentro il modo di produzione capitalista. “Centralità operaia”, pertanto, significa organizzare le lotte, dentro un programma comunista, di tutti quei settori operai e proletari che oggi vivono le contraddizioni maggiori della società capitalista. In una città come Marsiglia sono i precari e i disoccupati i settori sociali sui quali poggia l’attuale ciclo di accumulazione capitalista, sono questi i settori dove più alto è il tasso di estorsione di plusvalore. Questi settori, che la sociologia borghese definisce marginali e un marxismo da operetta sottoproletari, sono ormai una componente maggioritaria della classe, sono la storia del presente e non i residui del passato. Non sono i frutti indiretti della putrefazione imperialista ma i punti più avanzati della nuova organizzazione del lavoro. Questi settori sono socialmente esclusi e marginalizzati perché è esattamente questa la condizione normale nella quale la classe operaia è stata ascritta. Le lotte di questa classe sono ciò che ci interessa organizzare in una prospettiva comunista. Con ciò la differenza con quanto è definibile come sinistra radicale e antagonista appare sin troppo evidente. Quella sinistra e quei movimenti hanno come settori sociali di riferimento tutti quei corpi intermedi della società che possono vantare una sostanziale inclusione sociale, che sono estranei alla produzione di plusvalore e che, nei confronti della società presente, hanno a muovere una critica di natura prevalentemente culturale. Estremamente significativo il fatto che tutti questi movimenti eludono la questione della violenza e della forza dimenticando che, fuor di metafora, la relazione tra capitale e lavoro salariato è sempre una relazione di guerra. Una buona esemplificazione della linea di condotta di questi movimenti può essere il quartiere La Plaine: una sorta di gestione socialdemocratica dello spazio pubblico, costruita sulla precarizzazione del lavoro, fruibile a una certa tipologia di pubblico e che, nei confronti delle masse operaie e proletarie, mantiene meccanismi di esclusione e marginalizzazione del tutto in sintonia con quelli della società ufficiale.

Questo, in maniera molto sintetica, il frame entro cui si dipana l’attività del Collectif boxe. A un primo sguardo potrebbe sembrare che il Collectif sia qualcosa di “tardo operaista” oltre che l’eterna madeleine di qualcuno sempre alla ricerca del tempo perduto, ma le interviste che seguono smentiscono questa impressione. Ciò che emerge non ha nulla a che vedere con il “mondo di ieri” ma incarna il qui e ora delle determinazioni della classe, i suoi nervi tanto vivi quanto scoperti.
Il Collectif è frequentato da numerose donne, molte delle quali di origine araba, soprattutto algerine. Ciò ha fornito una buona occasione per affrontare la “questione di genere” nella sua più piena “materialità” e “concretezza”. Da tempo siamo sommersi da iniziative in “favore delle donne” o contro la violenza di genere, tanto che le dichiarazioni istituzionali in “favore e per le donne” conoscono una inflazione pari a quella seguita alla crisi del 1929, mentre le università un po’ in tutta Europa straboccano di corsi tenuti da “femministe radicali”. Tutto ciò farebbe presupporre che la “questione di genere” sia uno tra gli snodi essenziali delle agende politiche dei vari governi e, sotto tale aspetto, il governo francese sembrerebbe addirittura primeggiare. Questo, sicuramente, contiene più che un grano di verità anche se a uno sguardo minimamente attento non sfugge il prosaico fatto che queste retoriche hanno un qualche senso tra i mondi socialmente inclusi, ma risultano sostanzialmente ignote tra le donne appartenenti alle masse subalterne e marginalizzate. Un discorso che, per molti versi, vale anche per la “questione razziale” per cui essere donna e di pelle scura obbliga a fare i conti con una realtà dura, difficile e poco propensa a fare sconti. Mi è sembrato pertanto sensato provare ad affrontare, vista la disponibilità dimostratami, questi argomenti con alcune donne del Collectif.

La prima a parlare è Y. N., una ragazza algerina con alle spalle già più di venti match, con ambizioni di titolo regionale e possibile accesso ai campionati nazionali.

La prima cosa che vorrei chiederti è se e come tutto ciò che ha a che fare con il sessismo, la “questione di genere” ma anche, più in generale, con la sessualità e le sue forme, ha avuto un qualche ruolo nella storia e nelle pratiche del Collectif.
Forse, per prima cosa, occorre fare una premessa. In una attività sportiva e in questo caso il pugilato, soprattutto se praticata in forma agonistica, essere sportiva diventa la cosa fondamentale alla quale si aggiunge lo spirito di squadra per cui, ciò che conta, è essere il Collectif boxe: questa diventa la principale identità. Questo rende il contesto non immediatamente assimilabile al mondo che lo circonda. Inoltre, altro aspetto che non va trascurato, è che, nel Collectif boxe, il numero di donne pugili agoniste è molto numeroso per cui la legittimità del nostro ruolo non ha neanche troppo bisogno di essere posto in discussione. A me sembra che dentro il Collectif si sia raggiunta una sostanziale autonomia femminile la quale, questo probabilmente è l’aspetto che maggiormente ti interessa, non si limita al ring ma ha ricadute a più ampio raggio. Tutte noi viviamo dentro realtà sociali profondamente segnate dal sessismo, dal patriarcato il che, in non pochi casi, si traduce in violenza, sia fisica che psicologica. Dalla famiglia al lavoro passando per le relazioni amicali, sentimentali o semplicemente sessuali con queste cose hai continuamente a che fare. Molte di noi sono passate dentro questo tipo di esperienze. Alcune, forse le più, lo hanno vissuto in ambito lavorativo, molte in famiglia e non poche anche con il fidanzato o momentaneo compagno. La violenza fisica prevale nelle relazioni personali mentre in quelle pubbliche, come il lavoro, i gradi della violenza sono più sfumati. A tutto ciò, cosa non frequente ma neppure eccezionale, si aggiunge la violenza che puoi subire casualmente per strada o dentro un locale. Prima di ritrovarci dentro il Collectif boxe, e poter affrontare il problema collettivamente, ci pensavamo come vittime individuali mentre, attraverso la discussione, siamo giunte a una consapevolezza diversa e alla necessità di dover affrontare, rifiutando il ruolo di vittime, la questione in prima persona, senza delegare a nessuno questo compito. Solo la lotta autonoma delle donne può contrastare e ribaltare questa situazione.

Mi sembra che, su questo, vi differenziate di molto da gran parte dei movimenti femministi i quali, invece, tendono a vedere nello stato e nelle istituzioni dei validi interlocutori in termini di diritti e garanzie per le donne e, più in generale, contro ogni forma di discriminazione.
Sì, noi non abbiamo e neppure vogliamo avere nulla a che vedere con questo tipo di femminismo. L’oppressione di genere così come quella razziale e in gran parte quella di natura sessuale è frutto dello stato e del patriarcato che lo modella, non vi può essere lotta femminista se non vi è lotta contro lo stato. Il femminismo che si relaziona allo stato è il femminismo borghese ovvero quel femminismo che lascia intatte le coordinate del comando e del dominio perché vuole essere, a tutti gli effetti, parte attiva di questo dispositivo. Mi sai dire, secondo te, quanto cazzo le può fregare a una donna dei “quartieri Nord” di poter far carriera come dirigente in una multinazionale quando, nella migliore delle ipotesi, il suo orizzonte è quello di fare la barista saltuaria in un qualche locale e doversi continuamente difendere dalle manate sul culo del proprietario e dei clienti? Non credo che ci sia bisogno di dare una risposta. Per questo solo l’autorganizzazione autonoma, a tutti i livelli, può farci ottenere dei risultati. Solo un adeguato esercizio della forza può darci una serie di garanzie. La cosa è molto pratica. C’era una nostra compagna continuamente umiliata e maltrattata dal suo fidanzato. Lei aveva provato a mollarlo ma questo non lo aveva accettato. Per lui, lei era una cosa sua. Bene, un gruppo di noi è intervenuto, è questo è sparito dalla circolazione. Oppure, tanto per farti un altro esempio, in una impresa di pulizie il capo aveva provato a violentare una ragazza. Grazie alla sua reazione non vi era riuscito e così l’ha fatta licenziare. Anche in questo caso un intervento adeguato ha rimesso a posto le cose. Al potere dello stato e dei padroni, occorre contrapporre un’altra forma di potere.

Ti riferisci, a quanto capisco, a ciò che possiamo definire “autodifesa”?
Sicuramente sì, però su questo occorre essere molto chiari, e noi lo siamo. L’autodifesa non può essere uno slogan, una cosa detta tanto per dire, bensì una pratica organizzata. Questa presuppone, per prima cosa, il raggiungimento di una piena autoconsapevolezza e sicurezza di sé. Questo vuol dire essere in grado di gestire una situazione senza andare in panico. Un processo che potrebbe sembrare puramente individuale ma, al contrario, è quanto di più collettivo possa esserci. La sicurezza di sé la si raggiunge sapendo di non essere sole e quando dico non essere sole lo affermo a conti fatti. Io so che a qualunque cosa io vada incontro, questa cosa sarà assunta collettivamente e io non sarò sola. Quindi, l’autodifesa, non è un generico solidarismo ma una pratica che un determinato gruppo porta avanti. Questo è il cuore della questione. Tutto il resto segue a ruota. Pratica di autodifesa significa, per prima cosa, non percepirsi come vittima. In questo modo diventa possibile, per quanto difficile possa essere, ribaltare la situazione. In seconda battuta vi è, chiaramente, l’essere in grado, quindi avere la capacità fisica e tecnica, di affrontare una situazione. Sappiamo benissimo, però, che in molti casi tutto questo non basta. Queste sono condizioni sicuramente necessarie ma non sempre sufficienti. É a questo punto che interviene la dimensione collettiva in quanto esercizio effettivo di contro potere. E qua, per forza di cose, dobbiamo spostare il discorso sulla violenza e la sua organizzazione. Di ciò è meglio che ne parli con lei (indica la ragazza che stava seguendo l’intervista) che è la nostra comandante militare, se così la vogliamo definire.

L’intervista si sposta così su M. S., un’altra pugile del Collectif. L’intervista si mostra non solo interessante ma particolarmente densa poiché, oltre alla “questione di genere”, focalizza l’attenzione su razzismo e omofobia. A partire da ciò l’intervista apre su un insieme di questioni e scenari propri di tutto il movimento dei subalterni.

Hai ascoltato ciò che ci siamo detti. Potresti, a questo punto, spiegare meglio quanto, a grandi linee, ha detto Y. N. ?
Faccio una premessa. Oggi noi abbiamo una rete organizzata di auto difesa alla quale siamo giunte col tempo, dopo aver messo a confronto le nostre storie per scoprire così che quanto accaduto o stava accadendo a molte di noi non era una questione individuale ma, con sfaccettature diverse, le violenze subite erano il frutto di un sistema e di un modello politico e sociale dove l’oppressione di genere e il razzismo, i due aspetti vanno di pari passo, non sono una anomalia ma le basi stesse del sistema. É sulle donne, e per capirci meglio, le donne proletarie che si esercita la maggiore violenza. Se poi una donna non è bianca la violenza si moltiplica in maniera esponenziale. A ciò va aggiunta la violenza esercitata contro coloro che non rientrano nei canoni della eterosessualità. Dentro il Collectif abbiamo affrontato le varie facce di queste questioni e lo abbiamo fatto sia elaborando degli strumenti di analisi, sia organizzandoci per difenderci da tutto ciò. Sul piano dell’analisi siamo andate a riscoprire il marxismo e quindi la centralità che il modo di produzione riveste. Questo, sin da subito, ci ha differenziato molto dalle varie realtà femministe, ma anche anti razziste o legate al mondo LGTB. Ci ha fatto, cioè, ricondurre il tutto alla questione della classe e al ruolo che genere e razza hanno oggi nel definire la classe. Ciò ci ha portato a leggere il colonialismo nella contemporaneità e a vedere come questo oggi sia il modello dominante anche dentro le metropoli imperialiste. Questo significa che le forme proprie del colonialismo sono il modello oppressivo esercitato nei confronti delle masse proletarie e proletarizzate. Sessismo, patriarcato, omofobia, razzismo sono il mosaico che compongono lo stato e governano i suoi apparati. Da qui nasce l’esigenza di organizzare e praticare l’autodifesa.

Questo, concretamente, cosa significa?
Significa che per noi assumere la questione della forza è un tema centrale che non può essere eluso. Qua, soprattutto perché tu sei italiano e potresti travisare le cose, occorre essere chiari. Quando noi parliamo di forza e autodifesa, non stiamo proponendo una versione 3.0 della lotta armata. Non siamo interessate a una organizzazione che fa la guerra ma a delle pratiche organizzate che stanno dentro la guerra che ogni giorno, del tutto indifese, siamo comunque costrette a combattere anche se sarebbe meglio dire a subire. Ciò che dobbiamo diffondere è la capacità di lotta dentro tutte le situazioni che hanno a che fare con la vita concreta delle masse. Mao diceva che bisogna occuparsi dei problemi del riso e del sale, ed è esattamente questo che intendiamo come pratica di autodifesa. Dobbiamo costruire pratiche assolutamente riproducibili e che qualunque subalterno possa fare sua. In quanto gruppo di donne, di cui un certo numero lesbiche, abbiamo concentrato la nostra attenzione su persone e obiettivi che avevano avuto pratiche violente di natura sessista e omofoba nei confronti di qualche sorella ma anche in difesa di altre esterne al gruppo che avevamo saputo essere oggetto di una qualche forma di violenza. I posti di lavoro sono quelli dove la violenza, di varia natura, si manifesta costantemente. Sui posti di lavoro la violenza ha un carattere sia sessista che razzista e quindi non si focalizza unicamente sul genere. Questi sono luoghi dove più alto è il livello di discriminazione e sfruttamento oltre che essere posti dove il lavoro in nero è quanto mai diffuso. Sanzionare strutture e personale di queste situazioni rientra nelle nostre pratiche. Infine, e certamente non per ultimo, rimane il discorso legato ai comportamenti dei flics. Del razzismo e del sessismo tra questi mi sembra anche superfluo parlare. Ma i commissariati non vivono sempre notti tranquille…

Vorrei chiudere chiedendoti se, questa pratica, è pensata solo ed esclusivamente come pratica di donne oppure no.
Diciamo che, almeno all’inizio, siamo state molto rigide per cui eravamo solo ed esclusivamente donne. Questo era inevitabile perché, per prima cosa, dovevamo acquisire una consapevolezza che solo agendo in maniera separata potevamo conquistare. Non eravamo separatiste per principio ma dovevamo fare in modo che la nostra autonomia fosse tale a tutti gli effetti altrimenti avrebbe finito con il diventarne un surrogato. In seguito abbiamo allargato la nostra pratica anche ai maschi, anche perché alcuni terreni, come polizia e razzismo, non sono esplicitamente femminili. Diciamo che con i maschi abbiamo attuato un buon livello di cooperazione mantenendo tuttavia la nostra autonomia.

Secondo te questa chiamiamola “linea di condotta” può trasformarsi in pratica di massa o, almeno per tutta una fase, è destinata a essere una pratica di nicchia?
Io non credo che sia questo il modo giusto di porre la domanda. Questa domanda riflette, in qualche modo, una visione tardo comunista ossia che l’azione di avanguardia detta la linea alle masse. Come se, il discorso intorno alla violenza, fosse qualcosa che sta al di fuori delle masse. In realtà le masse vivono quotidianamente dentro relazioni violente, la violenza nei “quartieri Nord” fa parte delle normali relazioni sociali. Il problema, allora, diventa come indirizzare questa violenza. Ogni giorno, in città, vi sono centinaia di episodi che rimandano a ciò ma sono episodi che, per loro natura, rimangono fini a se stessi. Si tratta di trasformare tutto ciò in programma e organizzazione non certo di spiegare alle masse che cosa sia la violenza. La stessa cosa vale per l’illegalità. Questa è una città che vive di illegalità, questo è un dato di fatto, anche in questo caso, allora, non si tratta di spiegare alle masse che cosa sia l’illegalità ma di come sottrarre questa alle logiche del profitto a cui è legata e darle uno sbocco politico. Il che non può voler dire fare semplicemente delle attestazioni di principio ma risolvere, nella prassi, i problemi posti dalle masse. Con ciò, come vedi, torniamo a Mao e ai problemi del riso e del sale. I problemi del riso e del sale dentro una metropoli imperialista del XXI secolo.

(2continua)

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Tra soggetto e oggetto, la classe operaia di Panzieri https://www.carmillaonline.com/2021/02/10/tra-soggetto-e-oggetto-la-classe-operaia-di-panzieri/ Tue, 09 Feb 2021 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64791 di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa [...]]]> di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa della prematura scomparsa di Panzieri, avvenuta all’età di 43 anni. A cento anni dalla sua nascita vale la pena recuperare il contributo originale del pensatore romano, troppo spesso relegato al ruolo di semplice precursore. A tal fine torna utile il libro scritto da Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni Rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano, pubblicato da DeriveApprodi.
Dirigente del Partito Socialista, direttore della rivista Mondo operaio, traduttore del secondo libro de Il capitale di Marx, Panzieri si caratterizza da subito per un marxismo non ortodosso, sostenendo l’idea della democrazia diretta e la concezione del partito-strumento. La pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio, scritte nel 1958 con Lucio Libertini, segna il punto di svolta nella biografia intellettuale di Panzieri e avvia il suo allontanamento dal Partito Socialista. Si trasferisce l’anno successivo a Torino dove lavora fino al 1963 per la casa Editrice Einaudi e dà vita alla rivista cui il suo nome è indissolubilmente associato. La vecchia capitale sabauda rappresenta un osservatorio privilegiato per studiare il cuore del “neocapitalismo” italiano: la grande fabbrica fordista-taylorista e la nuova composizione di classe formata da quello che sarà successivamente definito operaio massa.

Il libro di Cerotto, dopo aver delineato la biografia politico-intellettuale del pensatore romano e la storia redazionale dei “Quaderni rossi”, dedica un lungo capitolo alla ricostruzione del dibattito teorico-politico nell’ambito del marxismo italiano del dopoguerra fino alla fine degli anni Cinquanta. Il panorama è dominato dallo storicismo marxista del Partito Comunista di Togliatti che, utilizzando il pensiero di Gramsci, vuole ricongiungersi all’eredità del neoidealismo italiano per mostrare la politica della classe operaia come continuatrice e innovatrice della cultura nazionale, operazione funzionale alla predisposizione di una politica di alleanze. L’analisi del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi segna il passo a favore della ricerca di una egemonia politica tarata sulle particolarità economico-sociali e culturali italiane. Tra le conseguenze, sul piano teorico, ci sono la sottovalutazione del grado tecnico-scientifico raggiunto dal processo di produzione e l’indifferenza verso i possibili contributi della sociologia e delle nuove scienze sociali. Lo forze produttive, nel loro sviluppo, sono considerate senz’altro il polo positivo, razionale, oggettivo, mentre i rapporti di proprietà costituiscono il polo negativo che, attraverso l’anarchia del mercato, limita e perverte le potenzialità dei progressi tecnico-produttivi. A questo si può porre rimedio con le riforme di struttura ovviando all’incapacità del capitalismo nazionale di realizzare autonomamente uno sviluppo economico accessibile a larghi strati della popolazione. Si delinea così la via italiana al socialismo.
Come si pone Panzieri nei confronti di questo articolato panorama teorico-politico?  Possiamo partire da una sua citazione, tratta da Plusvalore e pianificazione, opportunamente riportata da Cerotto.

Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come involucro che a un certo grado dell’espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere perché semplicemente divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state ‘plasmate’ dal capitale. E ciò consente allo sviluppo capitalistico di perpetuarsi anche dopo che l’espansione delle forze produttive ha raggiunto il suo massimo livello. 

Insomma, il dispotismo capitalistico è inestricabilmente intrecciato con esigenze razionali di tipo tecnico-produttivo. Questo rapporto si materializza concretamente nelle macchine. Esse non si sviluppano esclusivamente con il fine di aumentare la produttività del lavoro, ma con quello di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Esse sono portatrici certamente di una razionalità nell’ambito dei processi produttivi, ma di una razionalità specificamente capitalistica. In breve ogni stadio dello sviluppo tecnologico costituisce un rafforzamento del potere del capitale, del suo dispotismo sulla forza-lavoro vivente.

Questo rafforzamento significa anche, secondo Panzieri, la progressiva estensione del principio di pianificazione non solo all’interno della fabbrica, che si ingigantisce grazie ai fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale, ma anche all’esterno del processo produttivo vero e proprio. La pianificazione capitalistica, sostiene Panzieri, diventa un elemento basilare per il mantenimento della struttura di potere capitalistico, superando le contraddizioni derivanti dall’anarchia del mercato, tipica della fase concorrenziale del capitalismo. Anche a discapito della ricerca immediata del massimo profitto, ciò implica la necessità di aumentare notevolmente investimenti e produttività. Questo a sua volta richiede la più completa disponibilità della forza lavoro che può essere garantita da un accordo con i sindacati e con le altre organizzazioni della classe operaia.
Secondo le elaborazioni dei “Quaderni Rossi”, la politica di piano che si sviluppa nei primi anni Sessanta del Novecento non mira a subordinare le scelte economiche al potere politico, ma assegna allo stato la responsabilità di stimolare certi investimenti privati tramite un apposito sistema di incentivi. Le punte più avanzate del capitalismo italiano, pubblico e privato, convergono a grandi linee sugli obiettivi della pianificazione e non a caso sostengono la costituzione del centro-sinistra (nel 1962 il PSI entra nell’area di governo e a fine 1963 per la prima volta partecipa direttamente all’esecutivo). I settori più arretrati si oppongono ad entrambi. La conflittualità interna al fronte capitalistico contribuisce a mascherare il riformismo subalterno delle organizzazioni operaie da politica rivoluzionaria. Anche la conflittualità operaia, se mantenuta entro un certo livello, può giovare allo sviluppo capitalistico perché impedisce ai suoi settori più arretrati di fare affidamento esclusivamente sul basso costo della forza-lavoro costringendoli a investire e innovare.
La strategia delle riforme di struttura, secondo Panzieri, non prevedendo un intervento diretto nella sfera produttiva esclude la rottura rivoluzionaria del sistema favorendo soltanto catene più dorate per tutta la classe operaia. Già nelle Sette tesi Panzieri, ponendo in evidenza i caratteri innovativi del recente sviluppo del capitalismo italiano, sostiene la necessità di spostare l’asse dell’intervento politico nei luoghi della produzione dove hanno origine le principali contraddizioni della dicotomia classista e dove risiede la reale fonte del potere. In altri termini, solo prendendo di petto il luogo dove si svelano le reali contraddizioni del sistema capitalistico, la lotta in fabbrica innalza i lavoratori a reali protagonisti della politica.

Questo spostamento comporta un doppio movimento. Da una parte, infatti, si deve indagare la sfera della produzione capitalistica che non è al suo interno indifferenziata. Essa presenta un’articolazione gerarchica. Esistono dei punti di maggior sviluppo che sono trainanti rispetto a tutto il resto. E tale articolazione del processo produttivo complessivo non è indifferente rispetto alle sorti politiche della lotta di classe. D’altra parte, con altrettanta forza, si deve affermare che il comportamento operaio non è una mera riflessione passiva della struttura del capitale. Quest’ultima condiziona lo sviluppo dell’antagonismo operaio, pone le condizioni e i limiti del suo possibile esplicarsi, ma non lo determina meccanicamente. Per questo è necessaria, utilizzando le parole di Panzieri riportate da Cerotto, “un’osservazione scientifica assolutamente a parte” sulla classe operaia. Assume cioè importanza l’inchiesta operaia, non solo come strumento di conoscenza, ma anche come strumento di intervento politico. La realtà osservata attraverso l’inchiesta non è un oggetto passivo, ma un’unità vivente che va colta nei suoi momenti di svolta, di repentino mutamento, soprattutto attraverso l’inchiesta “a caldo”, cioè quella effettuata durante i momenti più aspri del conflitto.
Proprio sulla necessità di tenere insieme questi due livelli dell’analisi e dell’intervento politico si consuma la frattura, nell’ambito della redazione dei Quaderni Rossi, tra i “sociologi di Torino”, raggruppati attorno a Panzieri, e i “filosofi di Roma”, guidati da Mario Tronti. Una rottura, argomento dell’ultimo capitolo del libro di Cerotto, che ha come oggetto immediato la valutazione degli eventi del luglio 1962 e le prospettive che si aprivano dopo la manifestazione esplicita di un elevato grado di insubordinazione della nuova classe operaia al piano del neocapitalismo.1 Per Panzieri le rivendicazioni operaie espresse nel fuoco acceso dello scontro, così come rilevate dall’inchiesta “a caldo”, contengono il massimo spirito anticapitalistico che, però, non può essere immediatamente generalizzato all’insieme della classe. Come si legge in una citazione riportata in epigrafe all’ultimo capitolo del libro di Cerotto, Panzieri accusa Tronti di sostenere una filosofia della storia hegeliana, una filosofia della classe operaia quando utilizza questi momenti alti dell’antagonismo per supportare la sua rivoluzione copernicana. Rivoluzione che consiste nella tesi, opposta a quella del marxismo classico, che è l’antagonismo della classe operaia a determinare lo sviluppo del capitale. Una tesi che giustificava la necessità di dare immediatamente espressione politica a questo nuovo soggetto operaio. Panzieri, invece, resiste all’idea di trasformare la rivista in un gruppo militante, in un nuovo partito, volendo limitare il suo contributo politico alla costruzione di un’“avanguardia interna” alla classe, dal momento che solo il susseguirsi delle lotte operaie avrebbe potuto determinare la loro progressiva organizzazione.

Personalmente sono convinto che ancora oggi sia necessario tenere insieme i due livelli di cui si è parlato a proposito di Panzieri: da una parte l’analisi della struttura del capitale quale fondamento materiale della soggettività proletaria; dall’altra la continua attenzione allo sviluppo del lato soggettivo che mantiene rispetto a questo fondamento un livello di indeterminatezza. La specifica riflessione sulle dinamiche di soggettivazione dei subalterni, aggiungo, può risultare tanto più feconda quanto più il punto di osservazione è interno ai conflitti e ai movimenti. In assenza del primo livello possiamo ottenere soltanto una una fenomenologia del conflitto che, per quanto preziosa possa risultare sul piano descrittivo, difficilmente può aiutarci a prefigurare un processo generale di ricomposizione delle disperse soggettività in campo. In assenza del secondo, invece, risorge immancabilmente lo spettro dell’autonomia del politico in cui non si dà ricomposizione, ma solo subordinazione, reale o immaginaria, delle concrete soggettività antagonistiche a una guida esterna.
Certo, se essere comunisti vuol dire essere la parte più risoluta dei partiti operai come indicava Marx nel 1848, questo significa porsi sulla frontiera più avanzata dell’antagonismo di classe, laddove si può dare la confluenza fra dimensione oggettiva e soggettiva; una frontiera a partire dalla quale, in altri termini, un soggetto collettivo è potenzialmente in grado di farsi mondo, di produrre una nuova oggettività. Da questo punto di vista è comprensibile il senso del gesto teorico di Tronti che, con la sua rivoluzione copernicana, mette al centro la classe operaia, come “motore mobile del capitale”. Gesto ripetuto in forme diverse dal successivo operaismo e post-operaismo. Ma se dimentichiamo che la tendenziale confluenza tra soggetto e oggetto si dà soltanto nei momenti più alti dell’antagonismo e pretendiamo di ritrovarla sempre e comunque nel nostro mondo dominato dal capitale, i costrutti teorico-politici che ne derivano rischiano di assomigliare sempre più a visioni lisergiche, come la moltitudine dell’ultimo Toni Negri.
Se vogliamo mantenere una presa sulla realtà e al tempo stesso non rassegnarci alla triste virtù del realismo con annessa autonomia del politico, come ben presto fece Tronti, non ci rimane che l’ostinata ricerca, pratica e teorica, delle vie sotterranee di una possibile ricomposizione delle molteplici forme di conflittualità sociali. Forme conflittuali che nella realtà continuano a darsi perché il capitalismo è un sistema basato necessariamente sull’incessante e crescente ricerca dello sfruttamento e perciò intrinsecamente antagonistico. E in questa ricerca la lezione di Panzieri ci può tornare ancora utile, 
anche ritornando a riflettere su cosa rimane oggi di una delle sue tesi fondamentali e cioè che una lotta generale contro il capitalismo non può prescindere dai conflitti che si verificano nella sfera della produzione e in particolare nei punti più avanzati dello sviluppo capitalistico.


  1. Il 7 luglio 1962, nel corso di uno sciopero dei metalmeccanici a Torino, si diffonde la voce che UIL e SIDA hanno firmato un accordo separato con la FIAT. Alcune migliaia di operai si dirigono a Piazza Statuto dove ha sede la UIL dando inizio a tre giorni di violenti scontri con la polizia. 

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L’autonomia operaia romana https://www.carmillaonline.com/2017/06/27/lautonomia-operaia-romana/ Mon, 26 Jun 2017 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39092 di Giovanni Iozzoli

G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomiVolume IV. L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017, 224 p., € 18.00

Derive Approdi ha dato alle stampe il quarto volume della serie Gli autonomi. L’intento è quello di approfondire il racconto di una stagione politica, stringendo il focus in modo più serrato sui territori – a partire da quello romano. I curatori del volume sono Giorgio Ferrari e G.Marco D’Ubaldo, storici referenti di due realtà cruciali della piazza romana: i Comitati Autonomi Operai e il Comitato dell’Alberone.

La scelta di indagare [...]]]> di Giovanni Iozzoli

G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomiVolume IV. L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017, 224 p., € 18.00

Derive Approdi ha dato alle stampe il quarto volume della serie Gli autonomi. L’intento è quello di approfondire il racconto di una stagione politica, stringendo il focus in modo più serrato sui territori – a partire da quello romano. I curatori del volume sono Giorgio Ferrari e G.Marco D’Ubaldo, storici referenti di due realtà cruciali della piazza romana: i Comitati Autonomi Operai e il Comitato dell’Alberone.

La scelta di indagare la “territorialità” delle esperienze dell’autonomia, è senza dubbio adeguata. Non c’è ricostruzione o ragionamento politico sulle “autonomie”, che possa prescindere da questa dimensione – e questo, oltre che per l’oggettività delle vicende storiche, anche per una teorizzazione largamente condivisa in quegli anni: territorio voleva dire lettura della composizione di classe, costruzione degli elementi di programma, adeguamenti dei livelli di organizzazione e di nuovo ricaduta sui territori. “Territorio” voleva dire terreno di verifica costante delle ipotesi di partenza. E non si trattava dell’ideologica suggestione del “riprendiamoci la città”: era piuttosto faticosa e dirompente costruzione quotidiana di vertenze (territoriali, appunto) che dessero al discorso sull’autonomia, gambe sociali e radicamento.

Il tono del libro si sottrae a ogni amarcord compiaciuto: si sta leggendo la storia a partire dal presente e gli autori, al di là delle vicende biografiche personali, si sentono attivamente parte in causa di una vicenda politica non chiusa, quanto piuttosto traslata e rovesciata sui giorni nostri.

Roma capitale, Roma epicentro politico, nel bene e nel male. Giusto partire dalla sua area autonoma: perché nell’arena romana i ragionamenti sulla metropoli come declinazione della nuova composizione di classe, hanno trovato il loro terreno di pratica più avanzato. Per capirlo, basterebbe avere fra la mani qualcuno dei documenti di rinvio a giudizio relativi ai molti processi contro l’autonomia operaia romana: nelle carte giudiziarie – preziosi strumenti di memoria politica, a saperli leggere – erano puntigliosamente elencati dai magistrati decine e decine di organismi autonomi con le loro sigle, i loro insediamenti sociali, i loro presunti organigrammi, e già solo quelle mappe giudiziarie renderebbero conto di quanta e quale ricchezza rivoluzionaria si stesse parlando.

I curatori del volume ricostruiscono efficacemente il quadro storico dell’Italia – e della sua capitale – agli inizi del decennio 70. In quel contesto maturano alcune condizioni precise, che costituiranno l’humus di crescita dell’autonomia a Roma:
– sul piano soggettivo la decantazione della breve stagione dei gruppi, che libera energie di migliaia di militanti;
– la lotta per la casa, da sempre cruciale in un territorio che dal dopoguerra subisce una costante pressione demografica e un impetuoso sviluppo del ciclo dell’edilizia;
– la lotta nella sanità pubblica e nel comparto elettrico, con la preziosa saldatura tra mobilitazione operaia e diritti delle utenze;
– la presenza delle istanze centrali del PCI e della CGIL, al massimo della loro egemonia, eppure già avviate verso il logoramento della stagione dei sacrifici e della repressione dei movimenti;
– l’antifascismo, in una città in cui la memoria e la presenza fascista, trent’anni dopo la fine della guerra è ancora vivissima (basta rileggere l’autobiografia di Giulio Salierno, per cogliere il senso di quella persistenza tumorale nella capitale).

È attraversando questi terreni – dentro passaggi concreti, tutti giocati nella dimensione di massa –, che si sviluppa la formazione degli organismi autonomi romani: esperienze che fin dalla fondazione portano dentro di sé lo sforzo testardo di ricomposizione dell’agire politico e di quello sindacale, la cui separatezza, nella progressiva elaborazione soprattutto dei Volsci, è giudicata come ostacolo allo sviluppo di una moderna prospettiva rivoluzionaria.

Nel giro di pochissimi anni collettivi e comitati di quartiere – vedi l’emblematica vicenda dell’Alberone – compongono una rete cittadina vivissima e magmatica che attraversa tutte le dimensioni del conflitto metropolitano: l’organizzazione delle lotte incoraggia la spontaneità dell’invenzione proletaria, che a sua volta si organizza e rilancia il processo.

Di notte non era poi così difficile imbattersi in un piccolo gruppo di persone che trainava masserizie verso qualche palazzo disabitato, a volte neanche ultimato, cercando di non farsi beccare dalla polizia. Il fenomeno era talmente vasto e inusitato per una grande città, che finì addirittura in un servizio del settimanale Time (p.85)

E questo significava che, al di là delle campagne e delle grandi lotte organizzate dalla sinistra extraparlamentare, vigeva nei quartieri e nel corpo sociale proletario un’illegalità di massa diffusa, la cui domanda di organizzazione era propriamente la ragion d’essere dell’autonomia.

L’autonomia operaia romana nasce e cammina sulle due gambe della pratica sociale: lavoro e territorio. L’organizzazione politica dei Volsci, in particolare, è espressione diretta di realtà provenienti dal mondo del lavoro salariato:

Fatta eccezione per alcuni studenti di medicina che operavano all’interno del Collettivo Policlinico (e che ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo delle lotte) quegli organismi erano composti esclusivamente da lavoratori: impiegati, tecnici amministrativi, operai. Proprio così: operai, che avessero il camice da infermieri, la divisa da portantino o la tuta dell’Enel erano forza lavoro sfruttata come gli altri che stavano in fabbrica, anche se non avevano le “stimmate” delle mani callose. Fu un tratto distintivo dei Volsci quello di imporre all’attenzione del movimento quelle figure snobbate dagli esegeti della classe operaia, quasi che fossero improduttive o parassite, comunque ritenute marginali rispetto all’interpretazione del conflitto capitale lavoro (p.59)

Quindi: naturale acquisizione del carattere socialmente dispiegato dello sfruttamento capitalistico, naturale considerazione del carattere “operaio” di questo lavoro sociale.

Lavoro e territorio, dicevamo: nel corso degli anni 70 romani, alcuni quartieri, vedi Centocelle o San Basilio, liberano il massimo del loro potenziale, in una specie di continuità carsica del conflitto, che persiste dal dopoguerra – occupazioni, autoriduzioni, rivendicazione di trasporti, servizi, socialità alternativa.

Mettere in rete questa proliferazione, non è semplice: si inventano strumenti nuovi – come l’Assemblea cittadina dei comitati operai e di quartiere -, tutti esperimenti faticosi, che vivono di unità, rotture, ricomposizioni, tessuti quotidianamente col filo delle lotte e delle vertenze.
Il metodo dell’autonomia romana, davanti a questa ricchezza sociale, è sempre il medesimo: dalla masse alle masse, perché autonomia vuole dire anzitutto rottura della cattiva dialettica tra presunte “avanguardie esterne” e classe.

Accadeva infatti in quegli anni che un avanguardia colta ed edonista andava sovrapponendo la sua Weltanschauung alla storia reale di un paese mancato… Le concezioni negatrici in origine di un processo di emancipazione proletario indipendente e della capacità della masse di darsi una propria organizzazione autonoma, erano largamente diffuse tra le avanguardie di allora (p.47)

L’Autonomia nasceva come rovesciamento di queste concezioni, che erano eredità non solo dal revisionismo, ma anche del ceto politico del 68.

Giorgio Ferrari descrive i Volsci come un laboratorio dell’ortoprassi sociale, in cui però regnava il gusto dell’eterodossia teorica:

Nell’epoca del post-comunismo mi sento ancora marxista e autonomo: per questo, quando nei primi anni 70 incontrai i compagni del Policlinico e dell’Enel che erano usciti dal Manifesto, per me fu un sollievo. Finalmente potevo esprimere i miei dubbi sull’esperienza comunista senza essere guardato con sospetto; finalmente facevo assieme ad altri quelle riflessioni politiche a cui i rivoluzionari non dovrebbero mai sottrarsi (p.20)

La crisi del paradigma comunista, nella maturità dello sviluppo e della crisi capitalistica degli anni 70, è già palese, per chi voglia vederla, nonostante le piazze piene e i pugni chiusi: l’autonomia operaia era anche il terreno su cui tale dibattito poteva liberarsi con più franchezza.
L’esatto opposto di quelle componenti gruppettare in cui regnava l’ortodossia più conformista, le quali, negli anni della sconfitta, passarono dalla sera alla mattina dall’altra parte della barricata, lasciando dietro di sé le loro sicurezze dogmatiche come una vecchia pelle di serpente – e continuando magari a predicare con la medesima sicumera, le magnifiche e progressive sorti del riformismo anni 80…

La prima metà degli anni 70, vedono l’autonomia romana in prima fila nel tentativo di stabilizzare ipotesi di lavoro politico nazionale. Non è facile, proprio perché alcune esperienze sono a forte caratterizzazione politico-ideologica, mentre altre vivono una dimensione essenzialmente sociale – e non è scontata la condivisione di linguaggi e campagne.

Il rapporto che i Comitati Autonomi Operai provano a consolidare è sull’asse milanese con Rosso, che per un periodo diventa anche rivista nazionale (con via dei Volsci redazione romana). Ma la stagione dell’autonomia milanese è una fiammata che nasce più tardi e si consuma prima, rispetto alla solidità dell’esperienza romana. Differenze radicali di lavoro politico, diventano ostacoli alla costruzione di un punto di vista nazionale: Rosso, sotto la guida di Negri, spinge molto sulla retorica dell’operaio sociale e su una progressiva centralizzazione di struttura, funzioni e direzione politica. Per i Volsci, l’acquisizione del carattere sociale dello sfruttamento capitalistico è una consapevolezza quotidiana che non ha bisogno di conferme o forzature – né teoriche né in termini di costruzione del partito. A Roma, anche nei momenti più alti del conflitto, si preferisce organizzare la vertenzialità diffusa del lavoro sociale sul territorio, non ritenendo matura alcuna credibile “dualistica dei poteri”. Nella rievocazione dei curatori riecheggia ancora la polemica di parte romana verso una torsione intellettualistica, ideologica e soggettivista, che segnerà pesantemente il laboratorio milanese e il suo tracollo.
Il dibattito tra le diverse anime nazionali diventerà rottura. Ma ormai siamo già alle soglie dei tre passaggi chiave che determineranno il senso di quella stagione e il suo declino: la fiammata del 77, il rapimento Moro e la grande ondata repressiva che comincia il 7 Aprile 79 e proseguirà ben oltre la metà degli anni 80.

Dentro questa potente storia di emancipazione e rivolta, scorrono le vicende umane di una generazione di militanti: gli arresti ripetuti di Pifano, Miliucci e decine di altri quadri dirigenti, la chiusura di Onda Rossa e dei Volsci ad opera di Cossiga, le lotte dei disoccupati organizzati della legge 285, migliaia di appartamenti occupati, l’intervento nell’Irpinia terremotata, i cicli di autoriduzione, le lotte per i servizi e una pressione costante sulla spesa pubblica, colta efficacemente nella sua dimensione di salario sociale.

La stagione della gestione dei processi politici e della dissociazione, dividerà ulteriormente i destini delle diverse componenti organizzate: davanti allo tsunami repressivo i Comitati Autonomi Operai esprimeranno una capacità di tenuta, che altri non riuscirono a marcare. Rosso e tutte le esperienze dell’autonomia milanese scompariranno sul finire degli anni 70 stritolati dalla repressione e dalla deriva clandestina. Il ceto politico-intellettuale autonomo si frammenterà in scelte e opzioni non sempre dignitose, tra dissociazioni, conversioni istituzionali e pelosi innocentismi (curiosamente il libro non ricorda la contestazione furiosa della piazza romana al comizio “radicale” di Toni Negri: un episodio minore, che dà però la misura di quanto fossero cambiati i termini del dibattito politico, dentro la sinistra rivoluzionaria, nel breve volgere di pochi anni…).

Di fatto, all’inizio degli anni 80, le uniche soggettività autonome sopravvissute alla bufera del 7 aprile e alla sconfitta di classe, sono l’area romana e il polo veneto: due realtà che conviveranno per un decennio nel Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista, in una testarda dialettica (di unità e competizione…), che segnerà positivamente anche le grandi campagne di quegli anni contro le carceri speciali e la tortura, il contrasto al Piano Energetico Nazionale, le battaglie internazionaliste, dall’America Latina alla Palestina.

I Comitati Autonomi Operai, per tutto il decennio 80, saranno il punto di riferimento nella faticosa opera di ricostruzione di un tessuto nazionale, soprattutto per i giovani gruppi del centro sud.

non avremmo potuto reggere l’impatto della repressione di quegli anni bui senza la convinzione di migliaia di militanti e la solidarietà dei quartieri proletari… e questa non scaturiva da un cenacolo di teste pensanti, ma da un radicamento sul territorio che non aveva precedenti e dove le lotte costituirono la migliore scuola quadri che avremmo potuto immaginare (p.125)

Troppe cose, però, stavano rapidamente cambiando: riprodurre se stessi e le proprie forme non è nel DNA autonomo; l’autonomia non sa e non può darsi come cristallizzazione, come preservazione della memoria – è un processo in movimento che impone di stare un passo avanti, inventare nuovi paradigmi, bruciare sempre i ponti alle proprie spalle. Anche su Via dei Volsci e la piazza romana, incombono gli anni 90: la Seconda repubblica incalza, il sistema dei partiti crolla, i blocchi sociali tradizionali vanno sfaldandosi, il capitalismo italiano diventa terreno di scorribanda multinazionale, sempre più marginalizzato nella divisione internazionale del lavoro e dei capitali. Ma questa è già storia di oggi.

Nella mutata situazione politica e sociale, i comitati autonomi operai vanno senza drammi e clamori verso l’autoscioglimento: nel 1992, nel corso di una discussione pubblica e collettiva, la maggior parte degli autonomi romani sceglie di considerare esaurita la funzione dell’organizzazione dei Comitati autonomi («vent’anni erano davvero troppi», dice Ferrari).
L’orizzonte è una nuova immersione nelle due ipotesi di lavoro che si erano sedimentate nel corso degli anni 80: la costruzione dei Cobas e le occupazioni autogestite, come elemento di ri-radicamento nel mondo del lavoro e nel territorio.

Storia aperta, quella dell’autonomia.
Storia sospesa, forse – per quello che non si riuscì a fare e per quello che non si è ancora riusciti a dire.

che fare delle nostre vite non ci sembra affatto scontato. Non pensiamo che a risolvere il problema basti la stesura di un programma comune – che già a redigerlo significherebbe aver messo a confronto analisi e prospettive – se non si rende almeno manifesta l’intolleranza a questo presente, senza nasconderci le difficoltà e senza remore nel dirci come la pensiamo. Ed è questo il tratto distintivo che tanti anni fa, ci ha fatto riconoscere l’uno nell’altro prima ancora di incontrarci. L’intolleranza al presente ci ha fatto incontrare, la volontà di cambiarlo ci ha fatto riconoscere compagni nella vita e nella lotta. Senza questo legami umano e politico, senza questa complicità nel vivere insieme un’avventura estrema fino a mettere la propria vita nella mani dell’altro, saremmo stati un’altra cosa (p. 194)

Che fare delle nostre vite, non ci sembra affatto scontato. Un’affermazione che suona tutt’altro che esistenziale e individualista, una domanda di senso che rimbalza di generazione in generazione, si rovescia sul presente, interroga il futuro. Una propensione molto “autonoma” nel cercare le vie nuove della prospettiva rivoluzionaria.

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Neurocapitalismo. Dalla sussunzione reale alla sussunzione vitale https://www.carmillaonline.com/2016/04/14/neurocapitalismo-dalla-sussunzione-reale-alla-sussunzione-vitale/ Wed, 13 Apr 2016 22:01:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29643 di Giovanni Iozzoli

neurocapitalismo_coverGiorgio Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 260 pagine, € 20,00

Negli ultimi trent’anni la categoria marxiana della “sussunzione reale” è stata spesso utilizzata come cartina di tornasole per leggere materialisticamente molti passaggi epocali che l’avvio della rivoluzione tecnologica e la globalizzazione ci ponevano davanti. Nel suo ricchissimo Neurocapitalismo Giorgio Griziotti argomenta, con grande efficacia, l’avvenuto inveramento/superamento di quella stessa categoria: la transizione dalla sussunzione reale alla “sussunzione vitale”. L’epoca in cui la valorizzazione capitalistica riesce a mettere in valore non [...]]]> di Giovanni Iozzoli

neurocapitalismo_coverGiorgio Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 260 pagine, € 20,00

Negli ultimi trent’anni la categoria marxiana della “sussunzione reale” è stata spesso utilizzata come cartina di tornasole per leggere materialisticamente molti passaggi epocali che l’avvio della rivoluzione tecnologica e la globalizzazione ci ponevano davanti. Nel suo ricchissimo Neurocapitalismo Giorgio Griziotti argomenta, con grande efficacia, l’avvenuto inveramento/superamento di quella stessa categoria: la transizione dalla sussunzione reale alla “sussunzione vitale”. L’epoca in cui la valorizzazione capitalistica riesce a mettere in valore non solo le forme del lavoro e della cooperazione sociale, ma la vita stessa, nella sua intelligenza, nelle sue potenzialità relazionali, nel suo portato di desideri e aspettative, finanche nella sua nuda essenza.

Il Neurocapitalismo è la fase bio-cognitiva della valorizzazione: la connessione mente, corpo, dispositivi e reti appare inestricabile e definisce la onnipervadenza della mediazione tecnologica. Il soggetto, i suoi desideri, le sue potenzialità, sono integralmente “messi in valore” dentro la dimensione di iperconnessione globale in cui tutta l’umanità, dalle savane alla metropoli, con gradi differenti, è ormai pienamente immersa.
Per scrivere un testo così necessitavano due condizioni: una grande competenza scientifica sulle rivoluzioni tecnologiche in atto da 30 anni e una mai spenta propensione verso la prospettiva della liberazione anticapitalistica; la biografia dell’autore, militante autonomo nel 77 milanese e poi ingegnere per grandi multinazionali delle comunicazioni, risponde a entrambe queste condizioni (ce ne fossero di più di “rossi ed esperti”, in un’epoca in cui scarseggiano gli uni e gli altri…).

Griziotti parte dalle categorie marxiane classiche – la “sussunzione reale”, il general intellect, la scienza come forza produttiva centrale e la legge del valore/lavoro come orizzonte in perenne forzatura, quindi il Marx dei Gundrisse e del “Frammento sulle macchine” (che come tutti i testi profetici si è prestato in 100 anni a ogni genere di interpretazione) – per connettere queste macro categorie ai mutamenti concreti, tecnologici, che hanno scandito l’egemonia della meta macchina informatica. E (passaggio non scontato) come tutte queste soglie tecnologiche abbiano segnato i grandi eventi politico-economici a cavallo dei due secoli: la fine del sistema di Bretton Woods, l’avvio della rivoluzione liberista, l’egemonia del capitale finanziario, la sconfitta operaia in occidente e la gigantesca ridislocazione della divisione internazionale del lavoro che – proprio grazie alla rivoluzione tecnologica – consente la convivenza della vecchia produzione di massa nelle periferie del mondo (mai così tanti operai nella storia) con le nuove forme dello sfruttamento “cognitivo”, quello in cui, appunto, non le braccia ma l’intelligenza, le attitudini cooperative, il sapere sociale consolidato dentro l’esperienza singolare dell’umano, costituiscono la base moderna di estrazione del plusvalore.

Ben narrata, anche per i profani, è la lunga sequenza storica che porta il capitalismo cognitivo ad appropriarsi del movimento del freesoftware e dell’innovazione che l’intelligenza socialmente diffusa è in grado di produrre solo se libera: una dinamica appropriativa che parte dall’epopea di Unix, il primo grande sistema operativo (sviluppato dal basso) e arriva fino alla persistente e raffinata capacità di captazione dei grandi gruppi, a partire da quello di Steve Jobs, che continuano a “recintare” e mettere in valore ciò che nasce come sapere comune.

La storia del capitalismo, ricorda Griziotti, è da sempre il tentativo di “sussumere” saperi e qualità del lavoro vivo dentro la Macchina, fin dal tempo dei telai a vapore; con l’elettronica, negli anni 60/70 il passaggio segna un salto di qualità (simboleggiato dalla macchina a Controllo Numerico e dalle prime linee automatizzate), con l’uomo che cede alla macchina parte dei suoi saperi e si sposta “al fianco” del processo produttivo, con una funzione di sorveglianza e controllo. Da lì, anche sulla spinta del conflitto operaio, si innesterà la formidabile rivoluzione delle comunicazioni nell’ultimo trentennio: un salto quantico nella messa in valore dei saperi, del linguaggio, dei sensi e finanche della sfera emozionale.

La tesi dell’autore è che le nuove tecnologie – nella loro devastante capacità di impatto sull’umano – vadano oltre la dialettica storica macchina/lavoro vivo e definiscano una rivoluzione antropologica in cui viene demolita e rifondata l’essenza stessa della soggettività e ridefinito il bios, la nuda vita. In quest’epoca non solo viene a mancare la tradizionale distinzione tra lavoro e non lavoro, sfera produttiva e non produttiva, non solo la giornata lavorativa si diluisce in un continuum in cui sei perfettamente produttivo anche mentre gironzoli sui social, alimentando i colossali big data che lavorano sui nostri desideri e su come trasformarli in input compulsivi, ma è il confine tra umano e macchina che tende a sfumare: dove finisce e dove comincia la nostra mente/coscienza, dentro l’immersione nel flusso della bioiperconnessione continua? C’è “qualcuno” dentro e distinto da questo flusso? E che cos’è propriamente l’umano, dentro questo scenario, appunto post-umano?
Domande terribili. L’autore cerca di sottrarsi al consueto schieramento tra apocalittici e integrati: tra gli ottimisti che da 20 anni vedono un potenziale di liberazione nella rivoluzione tecnologica (le macchine lavoreranno al posto nostro e noi svilupperemo le facoltà umane liberi dall’assillo del lavoro) e quelli che temono un’irreversibile dittatura digitale totalizzante ormai in atto. Per l’autore il terreno dello scontro è il capitalismo cognitivo, così come è storicamente dato, e anche nel cybertempo e nel cyberspazio continuamente rimodificati dal potere, non possiamo sottrarci a questo terreno, nella necessità di costruire sempre nuove “vie di fuga” in cui un sapere cooperante e costituente, riesca a sottrarsi al comando e alla valorizzazione. Non se ne vedono grandi segnali, al momento, solo qualche potenzialità. Il vecchio militante degli anni 70 ricorda il devastante impatto dell’eroina sui movimenti e lo paragona all’effetto alienante della connessione continua che dà un’illusione di apertura globale e invece isola l’individuo dalla realtà e dalla prossimità umana, nella più brutale delle alienazioni.

L’ultima sezione del libro, la più problematica, è quindi dedicata all’organizzarsi: esistono percorsi e processi reali e attuali, attraverso cui il comune, la cooperazione diffusa, possono riappropriarsi della loro autonomia? Lo scenario è desolato. Nomadismi esistenziali, perenni attraversamenti verso il nulla, che rifiutano le appartenenze (o si rifugiano in quelle più effimere), disegnano un individuo senza approdi nella sfera bio-ipermediatica, dai sensi perennemente saturi, dentro uno spazio tempo continuamente ridefinito da algoritmi e automatismi di sistema studiati per classificare e valorizzare miliardi di singolarità e le loro pratiche.

L’autore sa bene che senza conflitto, le potenzialità del comune (soprattutto sui temi centrali dell’energia e della comunicazione) non si libereranno mai, alla faccia dei profeti alla Rifkin che narrano di transizioni dolci e dell’avvento inevitabile del mondo nuovo dell’abbondanza, della sharing economy e della conoscenza comune.
Ma cosa c’è nell’agenda del presente, come si organizza il lavoro salariato oggi, mentre permangono le sue vecchie modalità di prestazione lavorativa? L’operaio fordista assumeva nella sua figura un intero ciclo di emancipazione ed egemonizzava un largo spettro di figure: programma e composizione di classe marciavano insieme, ma oggi, quale settore di “proletariato cognitivo” è in grado di ripercorrere la moderna filiera del valore – dal facchino al programmatore? E’ il problema dei problemi dell’oggi: la definizione di una nuova cartografia dei soggetti reali in cui “infilare le mani”, al di là delle macro-narrazioni sistemiche.

Decenni di conricerca, l’antica grana operaista, la passione del militante e il sapere accumulato “sul campo”, rendono il lavoro di Griziotti ricco, denso e utile. Neurocapitalismo è un libro poderoso, che apre squarci nuovi e allo stesso tempo produce giusta sintesi su quella che ormai è una massa sterminata di letteratura sulle derive del capitalismo cognitivo.

Mentre mezza Europa si interroga terrorizzata sulla possibile “sottomissione” alla Houellebecq (moloch sapientemente agitato per terrorizzare i popoli europei), così poco ci preoccupiamo della “sottomissione reale” (sinonimo della sussunzione) della nostra esistenza alla merce e al profitto, ormai totalmente dispiegata in ogni ambito della nostra esperienza quotidiana e del nostro spazio-tempo. Nessuna sharia potrebbe condizionarci più brutalmente. Più che un futuro a centralità teocratica, si intravede un orizzonte di nichilismo tecnologico efficacissimo, iperproduttivo e disperato.

 

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