commedia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 31 Aug 2025 20:00:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La narrazione audiovisiva all’americana. Dall’avvento della tv all’età della convergenza digitale https://www.carmillaonline.com/2017/08/18/36436/ Thu, 17 Aug 2017 22:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36436 di Gioacchino Toni

Nicholas_Ray-Martin_Scorsese_Nello scritto precedente [su Carmilla] ci siamo soffermati sulla narrazione audiovisiva all’americana compresa tra il muto e la fase classica del cinema hollywoodiano esposta da Federico di Chio nella prima parte del suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016), in questo secondo intervento, integrandola con altri scritti, passeremo in rassegna quanto propone la seconda parte del saggio relativamente al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

Nell’affrontare la postclassicità degli audiovisivi statunitensi, Federico di Chio segnala come essa sia caratterizzata, tra le [...]]]> di Gioacchino Toni

Nicholas_Ray-Martin_Scorsese_Nello scritto precedente [su Carmilla] ci siamo soffermati sulla narrazione audiovisiva all’americana compresa tra il muto e la fase classica del cinema hollywoodiano esposta da Federico di Chio nella prima parte del suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016), in questo secondo intervento, integrandola con altri scritti, passeremo in rassegna quanto propone la seconda parte del saggio relativamente al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

Nell’affrontare la postclassicità degli audiovisivi statunitensi, Federico di Chio segnala come essa sia caratterizzata, tra le altre cose, dalla progressiva diffusione della televisione, che a metà anni Cinquanta è presente già nella metà delle case americane, e da una regolamentazione che, rompendo il modello industriale dei decenni precedenti – basato sul monopolio degli Studios nella produzione, distribuzione e proprietà delle sale -, penalizza la distribuzione delle opere minori. Il nuovo assetto hollywoodiano comporta una maggiore attenzione verso il mercato internazionale ed un decentramento produttivo finalizzato all’abbattimento dei costi, oltre che all’aggiramento dei vincoli protezionistici introdotti da diversi paesi stranieri.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta il western e la produzione di grandi opere per il cinema affiancano la realizzazione di numerosi telefilm per la televisione. In generale i nuovi eroi tendono ad essere non più giovanissimi, spesso si mostrano acciaccati, indeboliti e costretti a destreggiarsi senza l’aiuto della collettività. «Per questi eroi la frontiera non è più il limite da oltrepassare, l’orizzonte della possibilità, ma la fine del percorso, il luogo in cui finalmente fare i conti con se stessi e con quei valori (autodeterminazione, fiducia in se stessi, senso dell’onore) celebrati, sì, dalla tradizione e che però, se assolutizzati, si rivelano fattori di isolamento, di autodistruzione e persino di disumanità» (p. 88). L’ambientazione stessa si rivela ostile e tale ripiegamento tende a trasformarsi in un’insistita teatralità dei dialoghi in cui sono più le relazioni ad interessare che non le azioni.

Numerose sono le pellicole belliche realizzate nel periodo compreso tra la guerra di Corea e quella del Vietnam ed anche in questo caso, diversamente rispetto al passato, si assiste ad una maggiore introspezione: la guerra viene mostrata più per la sua durezza che non per la sua spettacolarità.

In American storytelling si sottolinea come siano diversi i generi che risentono del clima della guerra fredda e della paranoia anticomunista. La figura del detective borderline tende a lasciare il posto a quella dell’uomo delle istituzioni integerrimo ed un certo spazio viene dedicato all’americano qualunque che si trova improvvisamente coinvolto, suo malgrado, in situazioni pericolose. Non mancano pellicole che mostrano il crimine dal punto di vista dei malviventi. Ad inizio degli anni Sessanta il crime si sviluppa lungo due direzioni; se al cinema si mettono in scena situazioni cupe e violente, nelle produzioni televisive si seguono maggiormente i canoni consolidati. Nei telefilm polizieschi, ad esempio, trionfano uomini delle istituzioni senza macchia e senza peccato.

Tale periodo è caratterizzato dal trionfo del macro genere del drama che ricorre spesso ad autori teatrali e letterari. «Le commedie degli anni Cinquanta sono forse lo specchio più evidente del clima culturale americano dell’epoca: risultano, in generale, prive di mordente, opache, prevedibili, per quanto visivamente sofisticate» (p. 92).
La fantascienza degli anni Cinquanta è invece fortemente permeata dalle avventure spaziali, dalla paranoia atomica e dal clima della guerra fredda che vede minacce comuniste ovunque. A tal proposito si rimanda al saggio di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) su cui ci siamo lungamente soffermati in passato [su Carmilla].

Nel corso degli anni Sessanta se la commedia al cinema , dopo un avvio sofisticato, intraprende una direzione decisamente movimentata, in linea con le turbolenze del periodo, la produzione televisione pare decisamente più convenzionale. In un clima fortemente condizionato dal perbenismo e dal pericolo dell’infiltrazione comunista, in generale «il malessere psicologico e relazionale dei personaggi […] viene circoscritto alla sfera privata e, dunque, isolato dal contesto sociale, economico e politico. Individualizzando e patologizzando il disagio, gli autori si [mettono] al riparo dall’accusa di ritrarre una società malata. Una prudenza di ordine politico che peraltro si [aggiunge] a quella convinzione tipica della mentalità americana […] per cui le ragioni della debolezza o della devianza di un uomo sono da ricondurre alla sua indole e non a contesto sociale in cui vive» (p. 94).

Di Chio si sottolinea come la famiglia resti uno dei temi più trattati durante questo periodo, soprattutto attraverso la sua celebrazione, ma non mancano opere capaci di mostrarne la crisi. Anche la donna viene trattata come soggetto problematico e se al cinema viene mostrata alla faticosa ricerca di un equilibrio tra realizzazione professionale ed impegni domestici, le produzioni televisive tendono invece ad accontentarsi di modelli molto più rassicuranti per il pubblico maschile. «Le donne pericolose degli anni Quaranta lo erano perché irretivano l’uomo: lo manipolavano (per sbarazzarsi del marito, arricchirsi ecc.), ma ne avevano bisogno; quelle degli anni Cinquanta, invece, sono pericolose perché sanno farne a meno!» (p. 96).

Rebel Without a Cause (1955, Nicholas Ray)

Rebel Without a Cause (1955, Nicholas Ray)

Una delle maggiori novità del periodo riguarda la figura del “giovane sensibile e tormentato” che si presenta sullo schermo assai distante dagli stereotipi della middle class masculinity. In alcune pellicole ad essere messo in scena è un giovane riflessivo, sensibile, insicuro e magari ribelle ma quasi sempre lontano dai risvolti politici e sociali; si tratta di un ragazzo che non vuole scappare dal mondo o cambiarlo ma solo farne parte a pieno titolo.

Secondo lo studioso nodi centrali della produzione postclassica sono il difficile rapporto tra individuo e comunità e la degradazione dell’eroe. Nel primo caso i film esplicitano le difficoltà del rapporto ricorrendo spesso al topoi narrativo dell’arrivo del forestiero o del ritorno a casa di un membro della comunità dopo una prolungata assenza; questa figura altra contribuisce a rompere gli equilibri di facciata ed a far emergere il rimosso. Nel caso della degradazione dell’eroe nel saggio si insiste sulla sua ambiguità e sul suo isolamento dalla comunità, tanto che questa figura finisce col perdere quella gradevolezza necessaria all’immedesimazione da parte dello spettatore.
Nell’era postclassica più che al cinema le figure forti ed affascinanti di official hero in cui identificarsi le si ritrovano nelle produzioni televisive. Anche la figura dell’outlaw degrada la sua posizione e mentre al cinema diventa sempre più simile al villain, in televisione conserva tutto sommato il suo vecchio statuto.

Nella seconda metà degli anni Sessanta gli Stati Uniti sono scossi da una serie di spinte sociali, politiche e culturali che mettono in discussione nelle fondamenta il modello americano palesando contraddizioni sino a questo momento celate e taciute. Anche l’industria cinematografica è costretta a fare i conti con il nuovo clima che attraversa la società e lo fa avviando una ristrutturazione degli Studios da qualche tempo in preda ad una crisi economica e d’identità. Nel frattempo anche il Codice Hays, riformulato una prima volta nel 1956 ed una seconda nel 1966, finalmente, nel 1968, viene accantonato e sostituito da un sistema di mera “indicazione di visione” (es. “G” General, per tutti, “X” vietato ai minori ecc.). Tale sistema, gestito dalla CARA – Code And Rating Administration, permette sostanzialmente al cinema di rappresentare esplicitamente (quasi) qualsiasi tematica e situazione. A cambiare, però, a partire dalla fine degli anni Sessanta, è soprattutto il pubblico: nelle sale cinematografiche il calo della presenza   di famiglie e componente femminile, tendenzialmente assorbite dalla televisione, lascia il campo ad un segmento maschile, giovane e scolarizzato di middle class.

Se da un lato, sul finire degli anni Sessanta, Hollywood dedica numerose produzioni low budget al pubblico giovanile (i figli del baby boom) concentrandosi su tematiche controverse legate al sesso ed alla violenza, dall’altro continua a produrre opere ad alto budget decisamente più convenzionali. A tal proposito nel saggio si ricorda come negli Oscar del 1969 vengano premiati contemporaneamente due cowboy molto diversi: la statuetta al miglior film viene assegnata a Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede, 1969 di John Schlesinger), mentre il riconoscimento al miglior attore tocca a John Wayne per il film True Grit (Il “Grinta”, 1969 di Henry Hathaway).

I film maggiormente impostati su posizioni anticonformiste sono centrati «più sui personaggi che sul plot, con un andamento narrativo lasco e rapsodico ben oltre i canoni della forma debole del racconto […] dominati da antieroi irregolari, gravati dal senso del limite, che manifestano un’attitudine critica, spesso anche apertamente ostile, verso le agenzie istituzionali (la famiglia, la politica, l’esercito, la polizia, la religione) e verso l’autorità in genere» (p. 109). In alternativa, sull’altro versante, si trovano spesso personaggi attivi e risoluti, come militari fanatici e poliziotti ossessionati dalla persecuzione del crimine, che popolano narrazioni dallo sviluppo lineare.

Di Chio sottolinea anche come non manchino nemmeno pellicole di incerta classificazione in cui si trovano giustizieri che non agiscono secondo la tradizionale visione «reazionaria e machista, bensì per disperazione e paranoia […] e per necessità, tradendo un’angoscia e una sensibilità che ne fanno eroi di segno decisamente diverso. In tutti i casi, la produzione della New Hollywood è caratterizzata da un’amarezza e da una cupezza decisamente evidenti. «La cupezza di questi film si deve al dilagare di scene di violenza, lunghe e disturbanti. Molto spesso si tratta di una concessione facile ai gusti del pubblico più giovanile e maschile, resa possibile dall’abbandono dell’eufemismo tematico e visivo imposto dal Codice. Ma in taluni casi […] la rappresentazione rivela un consapevole approccio “controculturale”: quell’elemento così controverso e tuttavia costitutivo della storia de del carattere degli americani, che la narrazione mitica aveva sublimato e a volte addirittura rimosso, viene ora esibito in modo talmente insistito e iperbolico da rivelare al sua vera natura e la sua autentica funzione storica. Il processo si riscrittura operato dal mito viene in questo modo smascherato» (pp. 110-111).

Di Chio si sofferma anche su come il genere horror moderno offra una rappresentazione del tutto nuova del male e di come la minaccia si sviluppi in seno all’umanità stessa. Da parte nostra abbiamo approfondito in un precedente scritto [su Carmilla] il tema dell’essere umano nemico di se stesso in ambito fantascientifico. Una profonda revisione tocca un po’ tutti i generi: dal noir al musical, dal crime al western che si avvia, tra fine anni Sessanta e primi anni Settanta, ai suoi ultimi colpi di coda alternando opere convenzionali ad opere manierizzate presentando anche interessanti riletture del mito della frontiera.

Trasversale a diversi generi, la figure dell’eroe, sia outlaw che official, tende a dissolversi. Secondo lo studioso nel caso dell’outlaw si perdono alcune sue caratteristiche fondamentali come l’asocialità e la performatività; si tratta ora di un personaggio fragile e sbandato che non riesce più a cavarsela da solo e ciò lo rende sempre più simile alla figura del villain. Nel caso dell’official, ad esempio nel poliziotto, si perdono la disciplina istituzionale ed il legame sociale tanto che diviene sempre più solitario. Nel saggio viene fatto notare come outlaw ed official non si incontrino quasi più nelle storie: o abbiamo uno o l’altro. Al posto di queste due tipologie tradizionali di eroe sembra sempre più prendere piede la figura dell’antieroe privo di una visione del mondo e di riferimenti valoriali forti. Tutto ciò, però, sottolinea lo studioso, non avviene in televisione; in questo caso ci si tiene decisamente alla larga dagli antieroi tragici e distruttivi.

Taxi Driver (1976, Martin Scorsese)_

Taxi Driver (1976, Martin Scorsese)

In American storytelling si pone l’accento su come il cinema della New Hollywood risulti contraddistinto dal pressoché totale predominio di personaggi maschili ed in parte ciò è dovuto alla crisi in cui versa la figura maschile ormai incapace di raccapezzarsi nella nuova società. Qualche persistenza di eroe forte la si ritrova ancora, ad esempio, nei film poliziesco-giustizialisti, negli spy-thriller e, soprattutto, nei disaster movie ove, non di rado, si ritrova un personaggio maschile maturo che, a costo di fuoriuscire dalle norme comportamentali istituzionali, funge da leader di un piccolo gruppo che si trova a dover fronteggiare una situazione estrema. «Come nel dopoguerra, ma in modo ancora più evidente, la messa in scena della debolezza del maschio (l’antieroe), così come la riaffermazione fin troppo esibita della sua forza (i nuovi eroi d’azione, tutti d’un pezzo e politically incorrect) hanno a che fare con la crisi della maschilità e del modello patriarcale della società che in questi anni, a valle della rivoluzione femminista, emerge in modo davvero esplosivo» (p. 117).

Tra le novità introdotte dalla produzione della New Hollywood nel saggio vengono indicati il ricambio generazionale degli attori, l’uso di una fotografia decisamente contrastata e desaturata con effetti realistici, il ricorso a focali in grado di cogliere dettagli tanto ravvicinati che in lontananza o di allargare a dismisura i confini del visibile.

Alla New Hollywood succede quella che è stata definita l’età della restaurazione o del ritorno all’ordine anche se, a dire il vero, le cose risultano decisamente più complesse e variegate. È comunque sicuramente vero che sul finire degli anni Settanta l’immaginario americano cominci a distanziarsi da quel clima caratteristico della New Hollywood in cui si intersecano critica, sfiducia e pessimismo. Sul finire del decennio nei diversi generi riemerge la volontà di riproporre la forza dei miti non di rado viene messo in scena il riscatto di protagonisti del ceto medio-basso che ritrovano un sogno per cui vale la pena fare sacrifici. Sembra dunque far capolino nuovamente l’American dream smarrito.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta del secolo scorso viene abbandonata la strategia classica di distribuzione che tendeva a centellinare il numero di pellicole distribuite per allungare il più possibile il tempo di permanenza dei film nelle sale. Ora la strategia diventa quella della saturazione: vengono distribuite contemporaneamente molte copie, supportate da un lancio pubblicitario ragguardevole, cercando di incassare tutto l’incassabile nel minor tempo possibile. Ciò contribuisce alla sempre più marcata tendenza hollywoodiana di concentrare enormi investimenti su di un numero ridotto di pellicole, tendenza che poi, nel corso degli anni Ottanta, si relaziona con la possibilità di sfruttare i grandi titoli anche nei circuiti delle pay tv. Il pubblico di questi blockbuster votati alla spettacolarità è quello delle famiglie anche se una fetta importante di produzioni mira ad un pubblico maschile per il quale vengono realizzati prodotti privilegianti scene violente.

Esauritosi il western, secondo l’autore, è per certi versi la fantascienza a raccogliere il testimone del mito della frontiera tanto caro al pubblico americano. Una parte importante della produzione a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta spetta alle commedie demenziali giovanili, anche se spesso costrette ad ambientazioni retrodatate per potervi collocare condotte sguaiate ed anticonformiste altrimenti difficilmente ambientabili nell’edonismo dell’epoca del rappel à l’ordre. Inoltre, dalla metà degli anni Ottanta la paura dell’AIDS non consente ai film di trattare la sessualità giovanile in maniera scanzonata. «Se il melodramma giovanile degli anni Cinquanta-Sessanta e l’horror degli anni Sessanta-Settanta […] avevano radici nella repressione causata dalla struttura rigida, patriarcale o matriarcale, della famiglia, i teen drama e i teen horror di questi anni ci raccontano che i ragazzi, una volta liberati dalle autorità oppressive, iniziano ad aver paura di loro stessi, delle proprie emozioni e persino dei propri sogni!» (p. 123).

Nel clima che attraversa i decenni Ottanta e Novanta è evidente il disimpegno politico ed il ripiegamento nel privato, tanto che della critica espressa dai due decenni precedenti resta ora soltanto il disincanto che facilmente si trasforma in cinico opportunismo ed è per certi versi da quest’ultimo che riemerge, con non poche contraddizioni, l’American dream.

Nel cinema più commerciale, di pari passo all’accantonamento dell’impegno e della critica sociale e politica, tende a far capolino un certo ottimismo in cui spiccano eroi d’azione inclini a sfidare i pericoli più incredibili uscendone indenni. Da un certo punto di vista rientrano in questo profilo anche diversi supereroi e personaggi delle serie poliziesche televisive. Grazie a tali eroi viene «nuovamente celebrata la maschilità performante attraverso l’esibizione di “hard bodies” […], forti e violenti: un’evidente riscossa nei confronti dell’antieroismo e del femminismo critico del periodo precedente» (p. 125).

Insieme al ritorno dell’eroe maschile sotto tali sembianze, sottolinea Federico di Chio, ricompare con forza l’affermazione dell’ordine patriarcale, mentre la donna autonoma ed indipendente, comunque già poco presente nelle produzioni della New Hollywood, ora diviene una moglie egoista, una madre scostante ed un pericolo per l’uomo. Soltanto nei primi anni Novanta, secondo lo studioso, si ha un’attenuazione del riflusso patriarcale con il conseguente ritorno sugli schermi di figure femminili meno stereotipate. Nel saggio viene riportata anche l’interessante tesi dello studioso Fred Pfeil (“From Pillar to Postmodernism” in Jon Lewis , ed., The New American Cinema, 1998) che tende a ricollegare «la restaurazione patriarcale, il rilancio dell’individualismo capitalistico e il ritorno della narrazione “forte” degli anni Ottanta» (p. 126).

Da parte nostra abbiamo affrontato il clima di nostalgia e di bisogno di normalità trasmesso dal cinema americano degli anni Novanta nello scritto “A Family Affair” (2004) [su Carmilla] mostrando come in molte opere si palesi la crisi della vecchia istituzione famigliare ed una visione nostalgica per un’epoca idilliaca che sembra essersi eclissata. In diverse pellicole dell’epoca il riscatto della nazione, gravemente ammalata, sembra potersi dare solo attraverso la riconquista, da parte maschile, di quello smarrito senso di responsabilità nei confronti della sua cellula base: la famiglia. In sostanza il ristabilimento del sistema patriarcale viene presentato come condizione necessaria al riscatto dell’intera nazione.

Falling Down (1993, Joel Schumacher)

Falling Down (1993, Joel Schumacher)

In “A Family Affair” abbiamo evidenziato come in diverse opere l’incapacità, non solo da parte maschile, di far fronte ai problemi che investono la famiglia, conduca i protagonisti a veri e propri deragliamenti mentali e comportamentali. Ad accomunare molti film è il desiderio provato dai protagonisti di riottenere quella normalità americana andata perduta certo anche a causa loro, ma, più spesso, per colpa di una società che, inspiegabilmente, sembrerebbe aver perso la bussola. È un’America malata quella messa in scena, con personaggi che manifestano i sintomi della malattia: l’incapacità di costruirsi una normalità, di praticare quei valori tramandati da generazioni a cui si credeva e si vuol continuare a credere. I protagonisti percepiscono non solo la propria incapacità nel raggiungere tali obbiettivi ma anche di trovarsi di fronte una società ostile, pronta a rinfacciare loro i fallimenti.
Sempre in “A Family Affair” abbiamo visto come non manchino film in cui la perdita di identità di un membro della famiglia sembra derivare dal successo professionale quando al suo conseguimento corrisponde la perdita dei vecchi valori sui quali si fondava il rapporto di coppia.

Di Chio sottolinea giustamente come la serializzazione di alcuni film d’azione o d’avventura finisca con il minare la narrazione forte: al fine di giustificare nuovi capitoli, al protagonista è negata la risoluzione definitiva della minaccia che affligge il mondo. In tali film l’eroe risolve la minaccia immediata ma «non riesce a operare una piena trasformazione di sé e della realtà in cui vive. Ed è questa la grande differenza con il regime classico» (p. 126). A tale incapacità risolutiva che tocca tanto il cinema, quanto le produzioni televisive, facilmente seriali, si supplisce spesso con eccessi autoreferenziali poco utili all’evoluzione narrativa e/o con un’accentuazione dell’aspetto ludico.

Naturalmente, a fianco di una produzione hollywoodiana orientata all’ottimismo superficiale, esiste anche una proposta più amara e riflessiva. Non mancano infatti opere votate a smascherare le ipocrisie e i miti riproposti. Nel saggio sono elencati diversi film che denunciano la politica istituzionale ed il mito yuppie, che sottolineano la fine dell’innocenza americana e palesano le difficoltà di convivenza tra le diverse etnie e tra i diversi orientamenti sessuali. Occorre sottolineare che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta finalmente anche la televisione propone situazioni problematiche, tanto da giungere a mettere in scena rappresentazioni della famiglia meno stereotipate e più critiche.

Nel corso degli anni Ottanta diverse opere cinematografiche danno immagine ad una problematica che inizia a diffondersi nell’immaginario collettivo occidentale: la mutazione. Come abbiamo sostenuto nello scritto “Immagini e trasformazioni postindustriali americane” (2004) [prima parte e seconda parte, su Carmilla] tale tematica non può essere ricondotta al solo New Horror del decennio; la sensazione di perdere la propria identità è una problematica diffusa che ha a che fare con la paura o, in misura minore, con la speranza della mutazione. L’idea stessa di mutazione sembra svilupparsi in reazione alla perdita dell’identità e se il più delle volte l’individuo tenta di resistere alla mutazione, in altri casi ne palesa la necessità.

Sempre in “Immagini e trasformazioni postindustriali americane” abbiamo visto come il cinema degli anni Ottanta e Novanta metta in scena diverse forme di crisi di identità e diverse forme di mutazione: crisi della middle class, classe cinematografica per eccellenza, in preda all’amaro risveglio post-reaganiano (crollo del tenore di vita e del sogno americano), crisi dell’identità di genere tradizionale (amplificata dall’incapacità maschile di comprendere il mutato ruolo sociale), dunque crisi della famiglia e con essa dell’idea di nazione ma anche crisi dell’individuo nei confronti delle nuove tecnologie di comunicazione e dei relativi modelli di percezione delle realtà.

Nei film di questo ventennio il senso di crisi che ha investito la società americana è rappresentato a volte come crisi temporanea di un modello fondamentalmente sano, altre come crisi definitiva che ha finito per colpire anche l’unico sistema sopravvissuto alla guerra fredda. A tal proposito nella nostra analisi abbiamo indicato due filoni di opere, dai confini non sempre marcati: uno votato alla nostalgia per un passato felice andato perduto, ed uno decisamente più apocalittico.

Spesso nelle produzioni hollywoodiane tanto le visioni progressiste quanto quelle reazionarie tendono ad individuare le cause della deriva non nelle fondamenta stesse del modello americano, ma nelle deviazioni dalla retta via che esso ha subito. Se la visione più reazionaria tende a leggere la disgregazione come conseguenza di ciò che ha prodotto l’epoca della contestazione (a cui vengono sostanzialmente imputate la sconfitta militare in Vietnam, la distruzione della famiglia come nucleo-base della società, il dilagare dei problemi razziali, il disordine sessuale ecc.), la visione più progressista proposta dal cinema sembra voler ricercare le colpe in quella politica economica ultraliberista che, al potere, ha prodotto il cinismo individualista di uomini d’affari senza scrupoli che ha distrutto quanto generazioni e generazioni di veri americani hanno pazientemente costruito. In entrambe le letture il male non sembra tanto essere endemico al modello quanto piuttosto derivato dal suo tradimento.

L’idea di vecchia-America socialmente unita e solidale, che sugli schermi sembra propria tanto della visione conservatrice quanto progressista, tende a vedere nei mali dell’America contemporanea il crollo di tutti i suoi valori a causa di chi ha operato smarrendo l’American way. La soluzione, in entrambi gli approcci, parrebbe essere nel ristabilimento dell’ordine e della morale di un tempo, dunque in molte pellicole si procede secondo una narrazione volta alla redenzione.

Molti film mettono in scena personaggi cresciuti con sani valori che, improvvisamente, ed inspiegabilmente, si trovano magari a maneggiare tastiere di computer pericolose come i comandi delle testate nucleari, in grado di distruggere l’intero sistema costruito da generazioni di americani che ora si sentono traditi da quegli stessi figli che hanno messo al mondo. Può il mito americano aver allevato un mostro? É possibile porvi rimedio e redimerlo dall’interno? O siamo di fronte ad un mostro che soltanto oggi inizia a mostrare anche alla middle class quanto milioni e milioni di individui di ceto sociale più basso, all’interno ed all’esterno del paese, conoscono già da diverso tempo? Sulla sostanziale coincidenza tra tante visioni progressiste e quelle più apertamente reazionarie ha impietosamente insistito Sandro Moiso in diversi suoi scritti utili a comprendere l’attualità statunitense. Si veda, ad esempio, “Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo)” (2017) [su Carmilla].

Se c’è una cosa che i colletti bianchi, nel corso degli anni Ottanta, hanno finito per comprendere, al di là della retorica mediatica a cui hanno voluto prestar fede fino a quando non ne sono stati coinvolti direttamente, è il vero significato del termine ristrutturazione: peggioramento delle condizioni e dei rapporti di lavoro, se non il licenziamento vero e proprio. E quell’America cresciuta con il mito del consumo illimitato senza pensare che si sarebbe potuto perdere il lavoro e con esso tutto il resto, quell’America che ha contribuito a costruire e difendere il Paese, improvvisamente si sente abbandona a se stessa.

Anche in American storytrelling viene concesso spazio al problema dell’ibridazione corpo/macchina segnalando come diverse pellicole affrontino «la dissoluzione, lo slittamento, l’incertezza dell’identità personale e la labilità della soglia tra umano e non umano, nelle due opposte forme dell’umanizzazione del non umano, con il proliferare di cloni, droidi, robot; e della disumanizzazione dell’umano, insistendo sulla virtualizzazione delle esperienze» (p. 128). Da parte nostra abbiamo affrontato l’immaginario attorno al quale ruotano tali tipi di opere nello scritto “Il postumano tra soggettivazione emancipatoria e nuove forme di dominio” (2016) [su Carmilla].

L’insistenza sul corpo umano di molti film si lega inevitabilmente alla riflessione sull’identità americana che «si è costruita storicamente sull’esistenza di un nemico esterno, dai pellerossa ai comunisti, dai nazisti ai viet-cong» (p. 129). Dal momento che viene a mancare una minaccia esterna sentita come realmente tale, l’individuo americano tende a rivolgersi verso di sé: «al corpo che non ci risponde più, alla mente che ci tradisce o che si sdoppia, alla fantasia che ci minaccia. Nell’era dell’individualismo senza antagonisti, insomma, il nemico sono io. Non a caso, altro grande tema ricorrente è l’indistinzione di realtà e immaginazione» (p. 129).

Se dal punto di vista contenutistico la produzione hollywoodiana degli anni Ottanta è certamente contraddistinta da un evidente rappel à l’ordre, pur essendo più variegata di quel che appare ad un primo sguardo, dal punto di vista produttivo il nuovo decennio porta invece una vera e propria rivoluzione tecnologica, con le sue inevitabili ripercussioni produttive e distributive: si apre l’era digitale e con essa l’età della convergenza. In altri termini l’innovazione digitale e la rimozione di vecchi vincoli normativi permettono forme convergenti tra Studios, Broadcaster televisivi, DVD, tv multi-channel ed internet che non mancano di avere importanti ricadute anche sull’immaginario collettivo. Qua si apre davvero una nuova fase tutta da approfondire.

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La narrazione audiovisiva all’americana. Dal muto al classicisimo hollywoodiano https://www.carmillaonline.com/2017/08/11/36343/ Thu, 10 Aug 2017 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36343 di Gioacchino Toni

John_Ford_Nicholas_Ray_Le tematiche, i valori, i miti e gli eroi della narrazione all’americana dall’epoca del muto alla contemporaneità nei film e nelle serie televisive sono sinteticamente ricostruiti da Federico di Chio nel suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016). In questo scritto prendiamo in esame il periodo compreso tra il muto ed il classicismo hollywoodiano riservando ad un successivo intervento il compito di esaminare la parte del saggio – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione [...]]]> di Gioacchino Toni

John_Ford_Nicholas_Ray_Le tematiche, i valori, i miti e gli eroi della narrazione all’americana dall’epoca del muto alla contemporaneità nei film e nelle serie televisive sono sinteticamente ricostruiti da Federico di Chio nel suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016). In questo scritto prendiamo in esame il periodo compreso tra il muto ed il classicismo hollywoodiano riservando ad un successivo intervento il compito di esaminare la parte del saggio – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

L’analisi proposta dal saggio prende il via da quando, nella prima metà degli anni Dieci del Novecento, ai cortometraggi, che sin dagli anni precedenti vengono proiettati a ciclo continuo da mattina a sera nei nickel-odeon popolari, si affiancano i lungometraggi ed alla working class che frequenta le sale si aggiunge un pubblico di ceto sociale più agiato. Molto velocemente il cortometraggio è soppiantato dal nuovo formato capace di raccontare storie più elaborate ed avvincenti secondo un’articolazione in tre macro-generi caratterizzati da una netta e stereotipata contrapposizione tra bene e male: l’avventuroso, il comico-dinamico ed il drammatico.

Iron Horse (1924, John Ford)

Iron Horse (1924, John Ford)

Nel corso degli anni Venti, in un clima di crescita dei consumi negli Stati Uniti, l’etica del sacrificio e della parsimonia borghese-puritana si allenta ed il cinema sembra riflettere un nuovo modo di guardare ai valori della famiglia tradizionale, alla figura femminile ed alla sessualità. Il western è probabilmente il genere che meglio riesce a dare immagine allo spirito di ottimismo individualista ricorrendo al mito della conquista ed al principio del destino manifesto. I lungometraggi tendono dunque a celebrare e promuovere i valori della libertà individuale e della proprietà in storie che narrano del conflitto tra operosi coloni ed insidiosi villain che hanno le sembianze dei banditi, degli indiani e degli speculatori.

I generi si fanno via via più complessi ed ai successi della commedia romantica brillante si affiancano quelli dei light drama «che narrano la parabola di affermazione di esponenti del ceto medio-popolare […] o, di contro, la parabola di discesa e conversione di altezzosi aristocratici o di ricchi industriali messi alla prova dal destino» (pp. 24-25). Amore, benessere materiale ed affermazione dell’individuo divengono gli elementi trainanti del cinema muto.

Il saggio analizza anche lo sviluppo della figura della flapper, una giovane donna ammaliata dal sogno della ricchezza e dalla libertà dei costumi che, solitamente, sul finire della narrazione, si rende conto dei rischi della deriva intrapresa e sceglie di recuperare i valori tradizionali fondamentali.

In generale la narrazione nel cinema muto americano è decisamente più dinamica rispetto alle produzioni europee dello stesso periodo, tanto che l’incalzante ritmo narrativo ne diviene un tratto distintivo. Secondo lo studioso la produzione hollywoodiana del periodo sembra adottare due forme base: «La prima centrata sull’azione efficace e spettacolare del protagonista che sconfigge i malvagi villain o supera gli ostacoli della sorte, restituendo a sé stesso e alla comunità l’equilibrio perduto. La seconda forma base è invece centrata sulla reazione del personaggio, costretto in una condizione di passività» (p. 28). La struttura narrativa è orientata al risultato che, il più delle volte, significa il ristabilimento dell’equilibrio iniziale.

Sul finire degli anni Venti del Novecento nel cinema americano arriva il sonoro e ciò impone una costosa trasformazione del sistema-cinema. Mentre nuove star sostituiscono quelle del muto ed il linguaggio del cinema cambia, il paese si trova a fare i conti col crack economico-finanziario del ’29 che assesta un colpo pesante all’immaginario del mito americano e molti Studios, in preda alla crisi, finiscono nelle mani di grandi banche. La ristrutturazione dell’industria cinematografica comporta una maggiore standardizzazione produttiva e narrativa ed il cinema per riconquistare pubblico gioca soprattutto la carta del sensazionalismo.

Anche se è entrato in vigore nel 1930, il codice di censura Production code inizia ad essere realmente applicato soltanto attorno alla metà del 1934. Il periodo compreso tra l’avvento del sonoro (fine anni Venti) e la reale applicazione del Codice viene identificato come Pre-Code Era ed è caratterizzato da una certa licenza espressiva e contenutistica, tanto che numerose pellicole insistono su storie di lussuria, adulteri e rapine. Nonostante i personaggi positivi restino in primo piano, un certo rilievo viene concesso a protagonisti negativi come gangster, personaggi violenti, bad girl, gold digger (ciniche cacciatrici di un buon partito), fallen women, shyster (farabutti dell’alta società) ecc.

american-storytellingDal punto di vista narrativo, sottolinea l’autore, i primi anni Trenta palesano notevoli differenze rispetto alle produzioni del muto. «Da un parte, le storie hanno un andamento lineare, scandito dal ritmo serrato e incalzante degli eventi e della varietà delle soluzioni; dall’altra, però, si tratta di una linearità episodica, più che vettoriale: le relazioni causa-effetto, motivazione-azione, sono un po’ lasche e i processi trasformativi non sono affatto pronunciati […] la parabola del protagonista procede per tappe […] Ellissi, passaggi bruschi da un filone dell’intreccio a un altro, equivoci inspiegabili, decisioni immotivate, coincidenze sorprendenti, interrogativi che restano senza risposta sono all’ordine del giorno in un modo di raccontare che non ha ancora trovato non solo fluidità espositiva, ma anche la “necessità” logica di fondo» (p. 37).

A puntellare tali narrazioni si inseriscono parecchi momenti di attrazionalità. A livello narrativo, si sostiene nel volume, alla trasformazione si sostituisce sovente una semplice risoluzione ed i protagonisti si mostrano incapaci di gestire totalmente le situazioni in cui si imbattono per poterle condurre a buon fine. In un’epoca di crisi sociale che mina le fondamenta del sogno americano è difficile dare spazio ad eroi risolutivi.

Il western, che già negli anni Venti è il genere trainante della produzione hollywoodiana, agli inizi del nuovo decennio è in sofferenza tanto per le difficoltà derivate dal sonoro (che per qualche tempo limita le riprese in esterno) che per il mutato immaginario; l’ottimismo nel progresso, il mito della frontiera e le capacità performative del personaggio che contraddistinguono il decennio precedente, inevitabilmente stentano di fronte alla Depressione. «Enfatizzare il ruolo del destino o del caso nelle vite degli uomini e denunciare la loro incapacità di incidere sulle cose significa però anche ridimensionare le responsabilità. In questo, dunque, la drammaturgia hollywoodiana del periodo [sfida] la diffusa convinzione secondo cui le ragioni della debolezza o della devianza di un uomo sono da ricondurre alla sua indole e non alle difficoltà del contesto sociale in cui vive» (pp. 40-41).

Di pari passo al New Deal si assiste al recupero dell’american dream e con esso al bisogno di eroi; non è un caso, sottolinea Federico di Chio, che sul finire degli anni Trenta nascano eroi di carta come Superman e Batman.
Con l’applicazione del Codice il cinema abbandona i soggetti più scabrosi e si allontana dalla vita quotidiana. Tutti i generi subiscono una forte trasformazione ed a partire dalla fine degli anni Trenta il western torna a conquistare il suo spazio lungo due direttrici: da una parte attraverso racconti di taglio epico-storico, volti a far coincidere il progresso collettivo con il sogno individuale, dall’altra attraverso storie di pistoleri che, seppur frequentemente poco inclini a sottostare alla legge, risultano dotati di un forte senso di giustizia che li porta a difendere i più deboli dal grande capitale.

Giunti a metà degli anni Trenta si entra nell’età di quel “cinema classico” che appare ormai capace di gestire il sonoro ed è in tale periodo che, secondo lo studioso, si giunge alla forma forte della narrazione cinematografica che ha le sue radici nel racconto popolare mitico, epico e d’avventura, tanto da mutuarne «il pattern vettoriale (stimolo)-motivazione-azione-obiettivo-(risultato)» (p. 50). È l’azione che determina il corso degli eventi e rivela i caratteri dei personaggi ed in tale tipo di narrazione forte la progressione lineare segue «una struttura di implicazione aperta, tipica delle sequenze domanda-risposta: ogni scena suscita questioni, interrogativi, possibilità che aspettano una risoluzione nelle scene successive» (p. 50).

Se l’eroe del cinema muto nel conseguire l’obiettivo non trasforma il mondo né se stesso, l’eroe del cinema classico con la sua azione cambia il mondo e se stesso e tale azione si mostra del tutto proporzionata dal punto di vista qualitativo e quantitativo alle finalità. Nella forma debole del racconto, invece, i personaggi sono in condizione di passività rispetto alla sorte ed alle azioni altrui e non riescono ad incidere sugli eventi.

Dall’introduzione del Codice, inoltre, segnala Federico di Chio, la distinzione tra personaggio positivo e negativo torna ade essere netta ma si delinea un’articolazione interna ai due poli. Quando il protagonista non appare del tutto positivo compare un secondo personaggio come incarnazione del bene assoluto e lo stesso accade per i ruoli negativi.

Interessante anche la distinzione proposta da Robert B. Ray (A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, 1985) tra official hero ed outlaw hero. Nel primo caso si ha a che fare con un rappresentate delle istituzioni, integrato nella comunità, rispettoso delle leggi e votato al conseguimento dell’interesse comune, nel secondo caso, invece, abbiamo un personaggio individualista ed anticonformista che fatica a sottostare alle leggi ed all’autorità, che agisce in linea non tanto con ciò che impone la legge ma con ciò che ritiene essere giusto.

Angels with Dirty Faces (1938, di Michael Curtiz)

Angels with Dirty Faces (1938, di Michael Curtiz)

Secondo lo studioso «lo schema narrativo classico, nella sua dimensione valoriale, traccia anzitutto un confine tra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, e definisce poi i ruoli dei personaggi in relazione a questa assiologia» (p. 63). Lo schema prevede che il protagonista agisca all’interno del negoziabile mentre l’antagonista deve restane fuori. La drammaturgia classica impone il confronto tra il soggetto e l’altro-da-sé (l’antagonista) e tra il soggetto e un altro-possibile-sé (il deuteragonista che rappresenta ciò che il protagonista potrebbe essere). «In questo schema, a differenza di quanto succedeva nel regime preclassico, l’attenzione si concentra pertanto sul terreno del negoziabile e sulle sue dinamiche interne, lasciando sullo sfondo il grande conflitto tra bene e male assoluti» (p. 64).

Come accade per il cinema Pre-Code, l’autodeterminazione resta una componente importante per i protagonisti ma ora essa appare temperata dal confronto con altri valori. Nel cinema classico l’esito resta sostanzialmente positivo grazie all’intesa spesso raggiunta tra le diverse istanze ma tale sintesi comporta spesso sacrifici e rinunce. Anche se la dialettica valoriale va a buon fine non è detto che si giunga ad un unico punto di sintesi.

Nello sforzo di conciliazione valoriale cercato dal cinema classico, volto alla tenuta ed all’evoluzione simbolico-culturale della società nordamericana, si combinano due spinte: «La prima, più profonda, di lungo periodo e di natura culturale, è legata alle forme della mentalità americana che […] si caratterizza […] proprio per la volontà di non eliminare […] alcuna opzione dal proprio orizzonte di possibilità: ogni scelta di campo compiuta è virtualmente connessa a quella opposta, che rimane un’opzione sempre possibile e la cui insistenza dà continuamente senso alla decisione presa. In questo senso il reconciliatory pattern andrebbe inteso […] come una sorta di “forma simbolica”, uno schema a priori della coscienza americana. La seconda spinta, più contingente […] deriva dall’adozione del Production Code» (pp. 70-71). L’autoregolamentazione, secondo lo studioso, stabilisce un framework negoziale complesso tra valori contrastanti, e se è vero che per diverso tempo parecchi temi, valori e visioni del mondo restano escluse, occorre ammettere che quando anche questi sono presenti nel cinema Pre-Code lo sono soprattutto per finalità spettacolari gratuitamente scandalistiche.

Nel saggio  si insiste anche su come sia limitativo mettere in luce il solo aspetto censorio del Codice; esso si pone anche l’obiettivo di promuovere una determinata visione del mondo. Sarebbe però altrettanto sbagliato non cogliere come, nonostante il Codice, si siano prodotte opere in cui si trovano suggestioni non del tutto normalizzate.

Alla produzione degli anni Quaranta viene fatta risalire la “seconda classicità” del cinema americano. La Seconda guerra mondiale incide profondamente sull’immaginario statunitense ed Hollywood, nel corso di questo decennio, sembra prendere due direttrici principali: da una parte lo smarrimento che attraversa la società americana viene rispecchiato ed interpretato dai film (il noir, il social drama, il male drama ed il woman’s film…), dall’altra il cinema tende a compattare e motivare il paese durante il conflitto e la ripartenza successiva.

Durante il periodo bellico ad avere la meglio sono certamente i film che, in un modo o nell’altro, insistono sul mito collettivo della nazione senza però annullare i miti individuali. Il war movie è sicuramente il genere che meglio di ogni altro riesce a miscelare le due mitologie: spirito di gruppo e leader capaci, cooperazione ed individualismo, bene collettivo e volontà del singolo.

Se nella prima parte degli anni Quaranta il war movie si sostituisce al western, a partire dalla metà del decennio il western viene rilanciato tanto da vivere la sua stagione d’oro e tutto ciò avviene grazie alla rinascita del mito della frontiera e dell’espansionismo americano.

Nel saggio viene evidenziato anche come l’immediato dopoguerra acuisca conflitti culturali e valoriali interni: il mondo agreste-pastorale Vs. il mondo tecnologico industriale, la vita di provincia Vs. la massificazione delle grandi metropoli ecc.

Nel western di questo periodo lo schema narrativo insiste nel giustificare il ricorso alla violenza, anche estrema, attraverso un processo emotivo in cui essa viene motivata e legittimata moralmente. Anche i moventi passionali o la degenerazione dei legami all’interno della comunità famigliare o comunque ristretta hanno il loro spazio.

Knock on Any Door (1949, di Nicholas Ray)

Knock on Any Door (1949, di Nicholas Ray)

Il disincanto e l’amarezza emergono soprattutto in generi come il noir ed il drama in tutte le sue sfaccettature. «Il sogno americano, qui, non è più “destino manifesto”, e neanche un’opportunità dura ma possibile, ma un miraggio lontano. Colpa della scarsa rilevanza del singolo in una società sempre più massificata, segnata da irrimediabili diseguaglianze [e] colpa della fragilità psicologica e della misera levatura morale dell’individuo che non è più all’altezza delle sue aspirazioni» (p. 76).

Relativamente agli anni Quaranta risultano di particolare interesse i generi noir e quelli che concedono spazio alla figura femminile. Nel primo caso si «lavora essenzialmente sulla parabola esperienziale della “discesa agli inferi”, declinandola in varie direttrici narrative: a) l’investigazione su un mistero apparentemente insolubile […] b) l’esperienza tragica di persone accusate ingiustamente […] c) la caduta morale e psicologica di individui che compiono un crimine per debolezza o per necessità […] d) il confronto tra criminali psicopatici, capaci di manipolare/ingannare gli altri, e le loro vittime» (pp. 76-77).
Per quanto riguarda le figure femminili occorre far riferimento soprattutto ai cosiddetti woman’s film che, rispetto al passato, concedono particolare attenzione al protagonismo della donna nella società e nel mondo del lavoro. Noir e woman’s film sembrano indirizzarsi verso la ricerca della verità celata dietro le apparenze. Ad essere indagata è la “soggettività” che si manifesta attraverso le azioni e le espressioni.

Dal punto di vista narrativo a partire dal 1940 la visione veicolata dai film è quella del protagonista che non di rado in voice over introduce gli eventi mostrati in soggettiva o con soluzioni tecniche che rimandano a pensieri e ricordi personali. «La narrazione […] da oggettiva, impersonale, procedente da un’istanza superiore, collocata a una giusta distanza dalle cose, si fa “situata”, incardinata nel soggetto inscena e nella sua interiorità, e dunque parziale. Corrispondentemente, lo spettatore perde il dominio sugli accadimenti. Gli intrecci si fanno complicati, assumendo un andamento non lineare, sia logicamente che cronologicamente, e si sciolgono a fatica» (p. 78).

Il cinema americano del dopoguerra rivela anche la crisi simbolica del maschio che si ritrova in una società che comprime l’individualismo e l’autodeterminazione e deve confrontarsi con figure femminili che non intendono rinunciare all’indipendenza ed all’autonomia a cui si sono abituate durante il conflitto. Da questo punto di vista è il macro genere del drama a palesare le difficoltà che uomini e donne hanno nel negoziare un equilibrio nella nuova realtà.

Nel prossimo intervento esamineremo la parte di American storytelling – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

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La maniera liquida del cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2016/12/02/la-maniera-liquida-del-cinema-italiano/ Fri, 02 Dec 2016 22:30:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34621 di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua [...]]]> di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua introduzione all’opera, Roberto De Gaetano sostiene che essendo i sentimenti a definire l’orientamento nel mondo di un individuo e di una comunità, se questi non danno forma a comportamenti finiscono col riversarsi nelle forme di rappresentazione. Secondo lo studioso l’elaborazione dei sentimenti popolari operata dal cinema italiano, soprattutto attraverso la commedia ed il melodramma, ha provveduto a dare espressione a sentimenti e stati d’animo altrimenti privi di espressione. «Nella nostra tradizione si viene dunque a determinare una frattura decisiva tra le forme del sentire e quelle dell’azione. Le prime, non trovando risposta efficace nelle seconde, trapassano nelle forme di espressione, a partire dal cinema, che diventano i veri operatori di una individuazione senza identità (nazionale), della creazione di uno stile di vita, di un modo di immaginare e abitare il mondo» (Vol. I, p. 9).

Secondo De Gaetano quello italiano «è un cinema che, contrariamente alla letteratura, non si è di fatto mai posto un problema di identità nazionale, ma è stato sempre vicino alla vita sentita e pensata oltre le forme della società civile, dello Stato, della nazione e della storia» (Vol. I, p. 11).

Se l’America può dirsi coincidere con il suo cinema in quanto questo risulta direttamente iscritto nel dispositivo produttivo capitalista, non si può invece dire che l’Italia sia il suo cinema nonostante questo possa definirsi profondamente italiano avendo raccontato, nel corso della sua storia, quella “nascita mai avvenuta di una nazione” attraverso il suo essere radicato nella realtà.

lessico_del_cine_546e10358a219«Da Roma città aperta a Salò, dalle torture dei nazisti a quelle dei fascisti, è un arco di tempo che dal 1945 al 1975 non solo segna un trentennio in cui il cinema italiano, proprio essendo specificamente italiano, ha avuto capacità e forza di conquistare (per credito e fama) il mondo intero, ma segna il momento in cui il dispositivo cinematografico, interno alla macchina capitalista, rivela il suo rovescio. Se il capitalismo è un sistema produttivo e culturale che agisce sulla sfera di una potenza sempre continuamente attualizzata, che tende a non lasciare varchi né faglie ma a suturare infinitamente tutto (e di cui il denaro è il segno distintivo), e se Hollywood ha rappresentato la forma stessa di questa saturazione progressiva, nei modi di un’adozione infinita, attiva e passiva, di immaginari e stili di vita, il cinema italiano ha rappresentato l’altro lato di questa potenza pura, non quella di cui si è appropriato il capitale, svuotandola in una perenne alimentazione di sé, ma quella che, smascherando il dispositivo di appropriazione e rivelandone le falle interne, ha avuto la capacità di affermare, anche in forme esagerate, la potenza eccedente ogni attualizzazione (di cui è immagine icastica e cliché insuperato l’otium italiano). E se il neorealismo lo ha fatto […] affermando lo splendore, sia pur nel dramma, della contingenza, e una certa commedia lo ha fatto riconsegnando alla maschera la capacità di scartare da se stessa (è il caso di Sordi), questa affermazione, dopo il passaggio attraverso il “libero indiretto” degli anni sessanta, giunge a Pasolini, dove la potenza svincolata dall’atto viene a coincidere con la morte. Il cerchio si è chiuso: le torture di Salò svuotano il corpo di ogni potenza, lo abbandonano come cosa inerte, lo separano da sé riconsegnandocelo come “nuda vita”, invertendo il percorso avviato da Roma città aperta, dove il corpo torturato era comunque redento dal suo sacrificarsi per la rinascita e la libertà di una comunità, e diventava dunque il corpo di un martire, come quello della Magnani caduto a terra inseguendo l’uomo amato prelevato dai tedeschi, o come quello dei resistenti torturati e uccisi, come don Pietro, sotto gli occhi dei bambini-testimoni» (Vol. I, pp. 30-31)

Nel cinema italiano, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’60, si è sviluppata una tendenza inaugurata dai generi popolari come il “western all’italiana”, che mette in scena un sentimento scettico e cinico della vita lontano dal moralismo della commedia e, a tal proposito, sostiene De Gaetano che nel cinema dei generi popolari, e soprattutto nel western all’italiana, «L’uniforme diventa un’esplicita, ironica e grottesca veste che non si modella più sulla vita sociale ma sulle derive di un immaginario cinematografico scaturito dalla grande tradizione americana. Dal mito dell’America, avviato dall’antologia del 1941 di Vittorini, poi ripreso nel secondo dopoguerra dal neorealismo, dal boogie, dal piano Marshall, da Nando Mericoni, dalla Hollywood sul Tevere, si giunge con il western all’italiana a ribaltare dall’interno quel mito, smascherando il motore del capitalismo americano: l’adozione, non più di stili di vita […] ma di un immaginario svuotato, restituito in forma esagerata e ironica. […] nel western all’italiana viene svelato ed esautorato il motore stesso del capitalismo americano, la sua pratica adottiva, ridotta all’esposizione ironica e grottesca di un immaginario non più simbolizzabile. Il “nudo immaginario” di Leone (e del western all’italiana), grado estremo di un’adozione vuota, fa da pendant alla “nuda vita” di Pasolini, e getterà un ponte verso il futuro, con un potere d’anticipazione straordinario. È qui che il nostro cinema popolare di genere comprende cosa resta di un immaginario triturato da forme di vita perennemente alimentate e bruciate dal consumo e dalla spettacolarizzazione di tutto, dove il cinismo dell’eroe del western all’italiana diviene immagine di un disincanto profondo nei confronti del mondo, e la forma si trasforma in un campo d’azione meramente ludico» (Vol. I, pp. 34-35).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volDunque, il “nudo immaginario” che attraversa il cinema italiano dai film di Leone fino al citazionismo di Sorrentino, sostiene De Gaetano, si pone come alternativa al filone avviato dal neorealismo. Questo cinema nazionale che ha preso il via con il western all’italiana appare «caratterizzato da uno “strizzare l’occhio” allo spettatore, che diviene l’indice più rilevante di una scrittura ironica, che liquida il debito nei confronti di qualsivoglia tradizione (italiana in primis), si estromette dalla Storia, fagocita e denuda immaginari privi di mondo, come privi di mondo, e perfino di nome, sono i suoi protagonisti» (Vol. I, p. 37).

Tale direttrice di cinema ha finito col dare forma ad un immaginario sempre più disincantato. «Un cinema fatto da un popolo senza uniforme, che se in politica ha significato attitudine ad indossarne molte, e dunque al trasformismo, in arte e nelle forme di vita quotidiana ha riguardato vicinanza alla potenza e ambivalenza della vita, che è stata anche la ragione per cui, pur essendo singolarmente e specificatamente italiano, il nostro cinema è stato universale. È stato il rovescio del cinema americano, ha espresso le profonde contraddizioni di una società e di un sistema culturale incapace di assimilare potere economico e potenza della vita (come nel pieno capitalismo). Tutte le contraddizioni di un sistema di vita e culturale che il cinema americano ha saputo raccontare in forma impareggiabile, ma rimanendo sempre all’interno di quella “assimilazione”, per cui la vita e la sua potenza tendono ad essere suturati dal potere e dall’azione (anche immaginaria) del capitale, si sono trasformate nel cinema italiano in opportunità impareggiabili per far emergere nel e attraverso il cinema qualcosa che eccede e scarta quest’assimilazione, rivelando attraverso stasi ed esagerazioni lo stallo non solo dell’azione (Antonioni), ma anche di una società divenuta spettacolo (Fellini) e perfino della civiltà stessa (nelle visioni apocalittiche di un Pasolini e di un Ferreri)» (Vol. I, p. 38).

Da tali considerazioni del curatore prende il via Lessico del cinema italiano ove, attraverso ventuno voci affrontate dai diversi autori, il cinema italiano viene indagato con nuove modalità. Ognuna di queste voci viene affrontata passando in rassegna venticinque film a partire da un’opera recente.

Secondo Francesco Casetti, che con la sua Postfazione chiude il Terzo volume e l’intera opera, «ciò che caratterizza il cinema nazionale non è uno stile, né una storia ricorrente, né un canone [quanto piuttosto] una sorta di abbandono al flusso dell’esistenza, un’allergia a delle regole condivise, un’unità che si costruisce come difficile ricomposizione di singolarità, una diffidenza nei confronti delle istituzioni, una capacità di risposta che nasce dalla situazione concreta […] il cinema italiano preferisce il rischio di stare attaccato alle cose piuttosto che il piacere di una formula espressiva condivisa e stabile; in esso il flusso della vita vale più delle forme che dovrebbero catturarlo. Ciò gli consente una straordinaria apertura “all’esteriorità del mondo e all’incompiutezza che lo definisce”» (Vol. III, p. 474).

Nel corso della sua storia il cinema italiano ha saputo sfruttare diversi modelli senza che questi giungessero mai a stabilizzarsi secondo un canone definito. Secondo lo studioso si può parlare di formule ricorrenti che scompaiono e ricompaiono in altri modi. «Le formule non mancano, ma la loro tenuta fa problema; sono pronte a riapparire, ma anche a squagliarsi. Il sentimento della vita è ciò che entra nel cinema attraverso queste faglie, queste rotture. È ciò che emerge quando una formula, anziché consolidarsi e diventare un canone, comincia a sbriciolarsi o a ristrutturarsi in altre condizioni» (Vol. III, p. 475).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-vol-3Le formule della cinematografia nazionale sembrano presentarsi come “nonformule”, come un insieme di variazioni su un tema. Il cinema italiano «si è costantemente trovato a mal partito con i generi che riposano su un forte processo di astrazione, o che si appoggiano a degli schemi ideali. In particolare, il cinema italiano sembra incapace di praticare da un lato la tragedia, dall’altra il melodramma (nel senso anglosassone del termine). La coesistenza di due opzioni entrambe necessarie ma incompatibili, e che dunque non lasciano via d’uscita (tragedia), o il conflitto tra due modelli di condotta tra cui un soggetto è obbligato a scegliere, perdendo comunque una parte di sé (melodramma), non fanno parte dei plot ricorrenti […] La versione italiana della tragedia è Il sorpasso, in cui la corsa verso la morte è guidata non dal destino, ma dal caso; così come la versione italiana del melodramma non è tanto il filone di Catene e Tormento, quanto C’eravamo tanto amati, in cui sono i fatti della vita a modellare gli ideali cui ispirarsi, e non viceversa» (Vol. III, pp. 477-478).

Se da una parte la blanda formalizzazione nel cinema italiano ha permesso al sentimento della vita di emergere, ciò non vuol dire, puntualizza Casetti, che non sia possibile individuare “maniere” italiane, ma storicamente queste sono state individuate soprattutto da “occhi stranieri”. La “maniera” italiana «non fornisce una collezione di formule fatte e finite; semplicemente testimonia il desiderio di formalizzare un’espressione che altrimenti sarebbe informe. È una “maniera” che appunto abita i piani bassi del cinema e che subito emigra altrove, una maniera “dislocata”. È spesso anche una maniera che funziona da “abbozzo”, da riprendere e da rilavorare, con nuovi accenti e nuove prospettive. È una maniera che si presta a improvvise rifondazioni e a successive ricodificazioni, una maniera “liquida”» (Vol. III, p. 481).

Di seguito la successione con cui in milleseicento pagine Lessico del cinema italiano procede nell’indagare Forme di rappresentazione e forme di vita. Volume I (2014): Introduzione del curatore. Amore (Roberto De Gaetano), Bambino (Emiliano Morreale), Colore (Luca Venzi), Denaro (Marcello Walter Bruno), Emigrazione (Massimiliano Coviello), Fatica (Federica Villa), Geografia (Francesco Zucconi). Volume II (2015): Habitus (Giacomo Manzoli), Identità (Roberto De Gaetano), Lingua (Fabio Rossi), Maschera (Bruno Roberti), Nemico (Daniele Dottorini), Opera (Francesco Ceraolo), Potere (Gianni Canova). Volume III (2016): Quotidiano (Carmelo Marabello), Religione (Alessio Scarlato), Storia (Christian Uva), Tradizione (Luca Malavasi), Ultimi (Alessia Cervini), Vacanza (Ruggero Eugeni), Zapping (Alessandro Canadè). Postfazione di Francesco Casetti.

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Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex De la Iglesia https://www.carmillaonline.com/2016/01/19/streghe-pagliacci-mutanti-il-cinema-di-alex-de-la-iglesia/ Tue, 19 Jan 2016 22:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27502 di Gioacchino Toni

cover_IglesiaSara Martin, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 146 pagine, € 14,00

Quella scritta da Sara Martin è la prima monografia italiana dedicata al regista basco Álex de la Iglesia, la cui produzione attraversa, frequentemente anche all’interno dello stesso film, generi che vanno dal fantastico al western, dal road movie alla commedia grottesca, dal dramma al documentario biografico. L’obiettivo del volume, dichiara l’autrice, è quello di affrontare la produzione del regista attraverso quelli che considera due elementi propri della sua poetica: [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_IglesiaSara Martin, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 146 pagine, € 14,00

Quella scritta da Sara Martin è la prima monografia italiana dedicata al regista basco Álex de la Iglesia, la cui produzione attraversa, frequentemente anche all’interno dello stesso film, generi che vanno dal fantastico al western, dal road movie alla commedia grottesca, dal dramma al documentario biografico. L’obiettivo del volume, dichiara l’autrice, è quello di affrontare la produzione del regista attraverso quelli che considera due elementi propri della sua poetica: il tempo e lo spazio.
Il saggio è suddiviso in tre capitoli. Nel primo capitolo (Tempo) la studiosa si avvale di testimonianze dirette del cineasta e di un’analisi approfondita degli scritti a lui dedicati al fine di testimoniare la relazione esistente tra l’esperienza spettatoriale del regista, la sua formazione culturale e le sue opere. Nel secondo capitolo (Spazio) vengono da una parte indagate le maschere ed i corpi messi in scena nelle opere del regista e dall’altra i luoghi in cui vengono ad agire i personaggi. Nel terzo capitolo (Opere), attraverso una serie di schede critiche, viene offerta una panoramica dell’intera produzione del cineasta.

La prima parte del saggio è strutturata in modo da offrire una rassegna critica della produzione del regista a partire da Mirindas asesinas (1991), cortometraggio d’esordio di Álex de la Iglesia. Si tratta di un 16 mm in bianco e nero che da una situazione comica iniziale si trasforma via via in una commedia nera surreale per poi diventare un thriller psicologico. Sin da questa opera compaiono alcuni personaggi che risulteranno poi essere una costante delle opere visionarie del regista.
azione_mutanteIl primo lungometraggio di de la Iglesia, Acción mutante (Azione mutante, 1993), prodotta da Pedro Almodóvar, inizia alludendo al film A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) di Stanley Kubrick,  trasformandosi poi in un prodotto audiovisivo dall’estetica tipica dell’informazione televisiva, dunque in una commedia sempre più nera fino a giungere alla fantascienza, all’horror ed al western. «De la Iglesia realizza un lungometraggio che offre un paesaggio completamente inusuale nel cinema spagnolo e dove i riferimenti costanti alla televisione, al suo linguaggio, ai suoi segni e al suo stile, annunciano già il peso che avrà questo medium nella gran parte dei suoi lavori. Per lui parlare della televisione è come parlare del mondo. La televisione è un’imago mundi attraverso cui vedere l’intero universo. La sua generazione ha conosciuto tutto attraverso il filtro della televisione» (p. 27).
Il nuovo lungometraggio, El dia de la Bestia (1995), si sviluppa attorno all’idea di pensare il maligno nell’uomo dalla porta accanto. «L’anticristo nasce nelle torri KIO [La Porta d’Europa di Madrid, NdR], simbolo tanto del potere finanziario come della dittatura franchista e nel film diventano poi, piegate dagli sceneggiatori, anche simbolo di antiche premonizioni» (p. 29). Di nuovo, sottolinea l’autrice, si intrecciano generi diversi, «Commedia, humour nero, tradizioni ispaniche, immaginario satanico, estetica heavy metal, cinema del terrore» (p. 29). Il film intende denunciare «l’intolleranza, il razzismo, la violenza politica, la televisione spazzatura, le sette sataniche, i programmi esoterici» (p. 31), senza timore di fare nomi e cognomi dei personaggi che il regista detesta nella società contemporanea.
L’opera successiva è Perdita Durango (1997), realizzazione internazionale d’ambientazione americana con un cast importante che incontra non pochi problemi di censura: violenza, sesso esplicito e contenuti ritenuti blasfemi bloccano il film in molti paesi o lo vedono ampiamente mutilato. Il film è realizzato ibridando, nuovamente, generi diversi; di fondo è un thriller ma risulta decisamente contaminato dal cinema politico, gotico e surreale. «De la Iglesia passa dalla demonologia di El dia de la bestia alla santeria di Perdita Durango; anche se il soggetto del film non è scritto da lui, il tema del male come potenza e come fascinazione permane» (p. 33).

Muertos de Risa (1998) è invece una commedia nera, non distribuita in Italia, che narra l’acuirsi, fino alle estreme conseguenze, dell’odio reciproco di una coppia di comici televisivi. «In Muertos de risa de la Iglesia contrappone immagini della Spagna franchista con quelle dell’inaugurazione dei Giochi olimpici (la Spagna europea), ma si tratta dello stesso paese, così come i protagonisti del lungometraggio rappresentano il dritto e il rovescio di un’unica medaglia, rispondendo a una sorta di cliché comune a tutte le culture nelle coppie di comici» (p. 36). Oltre al discorso politico, nel film vi è anche una riflessione sul rapporto tra umorismo e violenza e sull’influenza sociale della televisione. Se nelle prime opere il regista gioca con i generi cinematografici, con Muertos de risa si inaugura una piccola serie di opere basate sulla rappresentazione della quotidianità intesa come ambito che si rivela denso di misteri e colpi di scena.
La comunidad (2000) è una commedia grottesca che svolta sempre più verso l’horror ma, segnala Sara Martin, è anche «un tour de force metacinematografico»; sono evidenti infatti i rimandi a diversi film di Alfred Hitchcock, Roman Polanski ed alla serie The Twilight Zone (Ai confini della realtà, di Rod Serlig, 1959-1964). Secondo la studiosa mentre El dia de la bestia esibisce i demoni esteriori di Madrid, La comunidad invece mostra quelli interiori, quelli di una città dura e spietata che dietro all’immagine di progresso e modernità cela corruzione e marciume.
Con 800 balas (2002), opera non distribuita in Italia, il regista si cimenta anche con il genere western, seppure con un taglio surreale. Come in molte opere, sostiene Martin, anche in 800 balas, i personaggi secondari permettono al regista di mettere in scena una serie di perdenti che si trovano meglio a vivere una vita di finzione piuttosto che la realtà quotidiana. Sebbene il film, nella sua struttura portante, celebri il cinema, non manca di criticare la società spagnola contemporanea affetta da corruzione e speculazione edilizia. I perdenti tornano anche nell’opera successiva, Crimen ferpecto (2004), commedia nera che non manca di omaggiare, nuovamente, Alfred Hitchcock e Luis Buñuel, ambientata in un universo in cui dilaga l’ipocrisia. Anche in questo caso tornano personaggi eccentrici e perdenti che finiscono col suscitare una certa simpatia nello spettatore ma, a differenza di quanto accade nei film precedenti, sostiene Sara Martin, qui la scena è totalmente occupata dai personaggi principali e le presenze femminili risultano violente, spietate, avide e, soprattutto, trionfanti sugli uomini.
Pluton_BRB_Nero_Serie_TV_22Dopo aver realizzato La habitación del niño (La stanza del bambino) (2006), un horror per la tv con diversi riferimenti ai mondi paralleli derivati da Philip K. Dick, de la Iglesia lavora ad un poliziesco di produzione internazionale girato in inglese, The Oxford Murders (Oxford Murders – Teorema di un delitto) (2008) ed a Pluton B.R.B. Nero (2008-2009), una serie televisiva, mai trasmessa in Italia, di 26 episodi suddivisi in due stagioni, in cui compaiono ossessioni e personaggi cari al regista. «Più che una serie fantascientifica», sostiene Sara Martin, «Pluton B.R.B. Nero è una commedia in costume intrisa di humour nero e provocazione» (p. 48),
Il successo internazionale per de la Iglesia arriva con Balada triste de trompeta (2010). Il film ottiene il Premio della giuria e quello per la Miglior sceneggiatura alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2010. Per certi versi si tratta del seguito di Muertos de risa, con due pagliacci al posto dei comici televisivi. «Attraverso il racconto di due losers (e una donna), de la Iglesia percorre ancora una volta la storia del suo Paese con toni scuri, neri. I riferimenti cromatici del film sono da individuarsi soprattutto nella pittura di Goya e di Grünewald. Le atmosfere sono quanto di più lontano dal cinema felliniano a cui sovente l’autore spagnolo è stato paragonato. Per Fellini il circo è magia e meraviglia, per de la Iglesia il circo è sangue e morte e in Balada non a caso si colloca fra le rovine in un luogo decadente, squallido, brutto. I titoli di testa e quelli di coda raccontano la Spagna e raccontano il film. Si alternano immagini documentali della guerra civile e del post-guerra franchista. Nei titoli di testa si scorgono numerose immagini iconiche del franchismo (…) alternate a riferimenti alla cultura del paese (…) e miti cinematografici personali del regista» (p. 55).
Di nuovo, si sottolinea nel saggio, è il mondo della televisione a fornire immagini a tale patchwork visivo in cui, insieme ai rimandi colti, viene criticata quella sottocultura che ha fatto da sfondo all’immaginario collettivo negli ultimi tempi che «nel cinema di de la Iglesia ha una doppia funzione: da una parte desacralizzare la Cultura “alta”, dall’altra accumulare immagini, oggetti, personaggi che vanno a costruire un cinema che si pone coscientemente all’opposto della sobrietà, della pulizia, della misura per dare libero sfogo all’eccesso, alla stravaganza, alla ricchezza delle immagini stratificate nello spazio e nel tempo» (p. 56).

Dopo la realizzazione di La chispa de la vida (2011), tragedia in cui non si salva nessuno, influenzata dalla situazione politica e sociale spagnola segnata da crisi economica, disoccupazione e precarietà, il regista basco gira Las brujas de Zugarramurdi (Le streghe son tornate) (2013), una commedia horror ambientata nella cava di Zugarramurdi, tra Francia e Navarra, luogo in cui l’inquisizione Spagnola, ad inizio XVII secolo, ha dato vita ad una spietata caccia alla streghe. Il film, che non manca di criticare gli stereotipi di genere che attraversano la società contemporanea, è disseminato di riferimenti ai film amati dal regista, in particolare al cinema fantastico hollywoodiano degli anni ’80. Poco dopo il cineasta realizza Messi (2014), una biografia del celebre calciatore argentino e, nello stesso periodo, il cortometraggio The Confession, con cui Álex de la Iglesia prende parte al film collettivo Words with Gods (2014) ideato da Guillermo Arriaga in cui diversi registi raccontano, credenti o meno, la personale visione del mondo e dell’uomo in rapporto alla religione.

balada tristeLa seconda parte del saggio si sofferma sulle maschere, sui corpi e i luoghi messi in scena dal regista basco. Il pagliaccio è sicuramente una delle figure ricorrenti nei film di Álex de la Iglesia; «La figura del pagliaccio è una maschera che non simula un personaggio ma lo estetizza, nel senso che la finzione è dichiarata, la messa in scena evidente. Niente come il trucco del pagliaccio rende presente l’emozione che si trova dipinta sul viso. Il sentimento è tutto fuori, così come lo è il contesto in cui il pagliaccio si muove (il circo, la festa, il carnevale)» (p. 71). In Balada triste de trompeta si narra la storia di Javier, un pagliaccio triste disadattato che vive gli ultimi anni del franchismo vittima della superficialità e della violenza dei suoi simili, incapace di integrarsi fino a quando, improvvisamente decide di ribellarsi ma, anziché liberarsi del costume e della maschera da pagliaccio triste, «Javier fonde la maschera al proprio corpo cancellando così ogni traccia della sua storia personale: si sbianca il viso con dell’idrossido di sodio e si stampa delle cicatrici rosse con un ferro da stiro per creare un trucco da pagliaccio permanente (…) Finalmente il suo abito corrisponde al suo essere, un angelo sterminatore in grado di riportare il giusto equilibrio nella sua vita e nel mondo, padrone del proprio corpo e delle proprie azioni» (p. 70).
Elemento ricorrente nelle opere di de la Iglesia è la presenza della «immagine del “vendicatore folle” che fa esplodere lo spazio reale della fisica per impossessarsi del nuovo mondo comunitario, dove ciò che è brutto, vecchio, sporco e dimenticato, si riannoda alle dinamiche di un nuovo cosmo fatto di corpi che sono immagini, in un’euforia post-apocalittica dove i vecchi idoli del capitale e della borghesia, vengono spazzati via, fatti letteralmente saltare in aria. Le storie di de la Iglesia (…) si strutturano sempre intorno ad una visione apocalittica dello spazio scenico, in un processo di disgregazione progressiva dell’ordine costituito per mano di personaggi borderline». (pp. 72-73)

AccionmutanteI corpi rappresentano un altro elemento su si sofferma il saggio, ad esempio, in Accion mutante «una comunità di invalidi postapocalittica organizza il rapimento della figlia di un magnate dell’industria e della televisione. Questa volta il corpo-proprio è trasfigurato dalle protesi macchina che nascondono o cancellano una deformità (…) Il corpo dello storpio non simula, è autenticamente acrobatico, ovvero intrinsecamente spinto a ribaltare gli ostacoli in vantaggi, in un movimento di super-compensazione che può portarlo a gettare via le stampelle, si chiamino Stato, Democrazia, Borghesia, ecc.. Da qui deriva la sua aura rivoluzionaria sfruttata dal regista» (pp. 74-75). Il personaggio dell’alieno Roswell in Plutón B.R.B. Nero «odia l’umanità come l’umanità ha odiato lui, è disgustoso fisicamente e ributtante dal punto di vista etico-morale: trae godimento soltanto dal dolore fisico personale e dall’osservazione del dolore altrui. L’alieno deforme ribalta la sua disabilità e ne fa un’arma a danno degli esseri umani» (p. 75). Per certi versi anche nell’opera documentaria Messi, il protagonista è un freak; un individuo sproporzionato, dalle gambe corte, afflitto da problemi di crescita ma che riesce a diventare un campione del calcio alla faccia di tutti i “normodotati”. Dal cinema di de la Iglesia si evince, secondo Martin, che «i freak rimangono freak, e gli outsider rimangono outsider, ma aver mostrato la fine possibile, aver scritto un’apocalisse nera e impietosa, significa aver creato lo spazio della sua apparizione, significa reintegrare lo scudo narcisistico di tutti coloro che non accettano la disillusione in cui ci ha catapultato l’epoca moderna di matrice illuminista» (p. 83).

Anche i luoghi in cui il cineasta basco colloca i suoi personaggi hanno una funzione importante nell’ambito della costruzione narrativa. Il film La comunidad è ambientato all’interno di un condominio madrileno abitato da individui che sembrano impossibilitati ad abbandonare lo stabile. «Impressiona la spazzatura e la sporcizia che in più riprese invade lo schermo; pare che l’organismo del condominio non possa purificarsi espellendo i propri escrementi. Tutto rimane dentro. (…) La comunità che si è costituita nel condominio è ormai un agglomerato di mostri» (p. 76). Secondo Sara Martin l’idea di fondo è quella di mettere in scena quel processo di disgregazione sociale che ha investito da qualche decennio la società contemporanea ed «il progressivo ritorno a uno stile epocale estetico barocco, che si intravvede nel mondo contemporaneo bombardato da milioni di immagini, in sostituzione di uno stile economico che ancora sopravvive, si traduce in Álex de la Iglesia come ritorno al mondo dei corpi e delle immagini, luoghi assoluti della compresenza, un mondo fatto di carne e sangue. Per raggiungere questa nuova dimensione neo-comunitaria, il mondo conosciuto, classico, spazialmente coerente e matematicamente organizzato, deve essere distrutto» (p. 78).
In La habitación del niño lo spazio interno diviene il personaggio centrale della narrazione e giocando sul concetto di mondo parallelo il regista basco mette a confronto nello spazio interno dell’abitazione due dimensioni estetiche contrapposte, una fatiscente ed una perfetta. All’interno di una stanza segreta si trova una miniatura della casa ed il protagonista, dopo essere entrato a contatto con questa, una volta uscito dalla stanza si ritrova proiettato in un mondo parallelo perfetto e ben arredato. Il «mondo bello, ricco e colorato nascosto dentro la casa, come ne La comunidad, è il luogo originario in cui si muove l’individuo dionisiaco del futuro, destinato a sovvertire l’ordine costituito e chiuso del mondo borghese. È dall’interiorità pura, priva di relazioni con il resto del mondo che ha inizio la rivolta, la distruzione dell’universo. Un virus autoprodotto che si genera dal burnout di una vita organizzata sul mito della certezza e del progresso, ormai fuori controllo in una società stanca e decadente (…) L’apocalisse come rinascita. La distruzione come rigenerazione. Questo è il fil rouge della produzione scenica di Álex de la Iglesia» (pp. 81-82).

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Tears of Rage https://www.carmillaonline.com/2014/02/28/tears-of-rage/ Thu, 27 Feb 2014 23:20:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12718 di Sandro Moiso

osage county Tears of rage, tears of grief Why am I the one who must be the thief? Come to me now, you know We’re so alone And life is brief1

Rabbia. Il minimo comune denominatore di gran parte del migliore cinema americano dalla fine degli anni sessanta in poi. E nel [...]]]> di Sandro Moiso

osage county
Tears of rage, tears of grief
Why am I the one
who must be the thief?
Come to me now, you know
We’re so alone
And life is brief
1

Rabbia. Il minimo comune denominatore di gran parte del migliore cinema americano dalla fine degli anni sessanta in poi. E nel film di John Wells, I segreti di Osage County, sceneggiato da Tracy Letts che è anche l’autrice dell’opera teatrale da cui è tratto2 , di rabbia ce n’è tanta. Una vera esplosione di rabbia e frustrazione. Tutta al femminile e quasi sempre incompresa nelle sue ragioni profonde.

Rabbia. Intorno e dentro ad una riunione di famiglia in occasione della scomparsa del patriarca (interpretato da Sam Shepard). Morte cercata? Annunciata? Ignorata da chi per troppo tempo aveva condiviso i problemi del matrimonio e della maternità senza, mai, condividerne la gioia? Ma esiste la gioia nel matrimonio e nella famiglia per una donna? Per tutte le donne? La commedia nasconde spesso la tragedia e un’autrice donna può far letteralmente esplodere la poetica aristotelica. Da cui, sicuramente, elimina l’epica.

L’epica resta per gli uomini: l’eroismo, il sacrificio volontario, il conflitto con il padre. Tutto ciò che sa di sublime è destinato agli uomini. Edipo, da Sofocle a Freud, è dramma e problema maschile. Come nella lettera al padre di Kafka o in decine di altre opere. La donna, la moglie, la figlia si sacrificano per dovere. Tale è la condizione femminile. Sembrerebbe per natura oggettiva. E quindi non può esserci eroismo, non può esserci pathos.

Il conflitto madre-figlia, spesso il più drammatico poiché si svolge all’ombra dell’apparentemente imperturbabile autorità maschile, resta troppo spesso fuori dal campo visivo. Nascosto, escluso, proibito. E’ il non detto dell’anoressia, è la ribellione silente di coloro che, non potendo scalzare il dominio patriarcale, sono costrette a rivolgere gli artigli verso le proprie simili. Così il dolore diventa furia, scherno, odio. Di solito rimosso o trattato come follia.

Rabbia e follia. Il destino delle donne forti. Più forti dei loro uomini anche se la società, anche quella di oggi, non vuole davvero sentirlo dire. E loro non lo possono dire. Devono chiudersi in difesa e rasentare la follia. Oppure volare via con la testa con la dipendenza dai farmaci. O dall’alcol. Perché la famiglia è, comunque, sacra. Per l’uomo, altrimenti a cosa varrebbe ancora la sua autorità? Uomo cui si può e si deve perdonare qualsiasi debolezza e qualsiasi viltà, mentre per la donna non è perdonabile nemmeno l’invecchiamento fisico.

Invecchiamento fisico, che fa scontare alle donne troppo forti il loro peccato principale: la forza di carattere appunto. Quella che non può essere perdonata o ammessa. Che se si manifesta nell’adolescenza deve essere derisa, mentre nella maturità deve essere trattata come una malattia. Anche nel cristianissimo ed evoluto occidente. Anche nell’estremo occidente della provincia americana. On the Great Plains of Oklahoma. Dove la moglie di uno scrittore e docente universitario, poeta colto ed intelligente, resta comunque e sempre, prima di tutto, una moglie.

Rimane il problema della colpa originaria che, proprio nel cristianesimo, viene attribuita alla donna. Tentatrice e irresponsabile se non lavora, ma, allo stesso tempo, colpevole e deprecabile se per il lavoro trascura affetti e doveri famigliari. Colpevole sempre e guai a lei se si ribella contro un’attribuzione di colpa troppo spesso profondamente interiorizzata dalle stesse interessate. Colpa che produce frustrazione, paura ed è causa di conflitti. Anche tra sorelle.

Sorelle in lotta per lo stesso uomo. Sorelle che si amano e si odiano. Sorelle vittime della stessa colpa e, magari, dello stesso uomo. Non occorrono i serial killer per far soffrire le donne. Possono soffrire in ambito domestico anche senza violenze. Anche se quelle sono state sofferte in gioventù, in una società arcaica, e non durante l’età adulta. Vittime del fascino maschile. In nome del perbenismo e della norma occorre digerire tutto. Ma fin dove e fino a quando?

E poi ci sono tutte le altre donne: le figlie deboli, impaurite, incerte, smarrite. Non c’è pietà nemmeno per loro. Se vogliono possono accompagnarsi ad un imbecille o a un cretino pieno di soldi. Naturalmente mettendo da parte orgoglio, speranze e rassegnandosi. Così è, così è stato e così sempre sarà. Solo rabbia e follia sembrano poter sfuggire a tale destino. Anche se colei che le manifesta è condannata, inevitabilmente, alla solitudine.

Tutto ciò, e molto altro ancora, è evidenziato in quella che per ora si è rivelata la miglior pellicola dell’attuale stagione cinematografica. Bravi tutti gli interpreti, anzi le interpreti, da Juliette Lewis a Julianne Nicholson. Bella la fotografia con un che di anni settanta nel taglio delle inquadrature e nella scelta della luce. Standing ovation, infine, per Meryl Streep e Julia Roberts. Magnifiche interpreti di una madre e di una figlia “vittime” dello stesso carattere forte ed accomunate da un identico destino di solitudine.


  1. Lacrime di rabbia, lacrime di angoscia / Perché devo essere l’unico colpevole / Vieni da me adesso, tu lo sai / Siamo così soli / e la vita è così breve (Bob Dylan, Richard Manuel, Tears of Rage, The Basement Tapes, 1967-1975)  

  2. Tracy Letts, Agosto, foto di famiglia, Rizzoli 2014, pp. 208, euro 10,00  

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