Comintern – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Dec 2025 21:00:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ uno sporco lavoro /4: Il primo vertice antiterrorismo internazionale – Roma 1898 https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/e-uno-sporco-lavoro-4-il-primo-vertice-antiterrorismo-della-storia-e-la-continuita-repressiva-dello-stato-italiano-e-dei-suoi-molteplici-governi/ Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91213 di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora per poco considerato lo sviluppo quasi autonomo dei social e dell’AI.

A confermarcelo, con dovizia di documenti e dettagli, è il corposo volume edito da Malamente e curato da Giulio Saletti, giornalista, cronista, ghostwriter e portavoce di cariche istituzionali. Un testo in cui, per la prima volta in Italia, vengono riportati integralmente i documenti prodotti a seguito della «Conferenza internazionale per la difesa sociale contro gli anarchici», tenutasi a Roma dal 24 novembre al 21 dicembre 1898 a seguito dell’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, avvenuto il 10 settembre di quello stesso anno a Ginevra.

Probabilmente, però, a preoccupare il governo italiano, promotore della conferenza, più che l’attentato alla principessa di Baviera “Sissi”, in seguito santificata e glorificata in una serie infinita di biografie romanzate, film e serie televisive, erano stati i moti e le insorgenze che da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarebbe stato inviato il generale Pelloux che dopo la caduta del governo Rudinì nel giugno del 1898 fu incaricato dal re Umberto I di formare un gabinetto in cui assunse anche il dicastero dell’interno facendosi promotore della conferenza anti-anarchica, alla Sicilia e a Napoli, in occasione del 1° maggio 1898 avevano visto passare la popolazione meridionale dalla sollevazione alla rivolta. E poiché dappertutto le classi dominanti mostrarono di voler curare la fame con le fucilate, a partire dal 2 maggio la rivolta si era estesa alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord1.

Proprio a Milano, dal 6 al 9 maggio, si ebbe la sollevazione più sanguinosa, durante la quale la classe operaia milanese fu presa a cannonate dal generale Bava Beccaris, dando vita ad un periodo di repressione che permise al governo di mettere fuori legge il Partito Socialista, costituitosi a Genova nel 1892, ma che allo stesso tempo diede inizio ad un nuovo periodo di attentati di cui la vittima più illustre sarebbe stato proprio il re d’Italia Umberto I, caduto sotto i colpi di pistola di Gaetano Bresci a Monza, il 20 luglio del 1900.

E’ in questo contesto, quindi, che va collocata una conferenza che avrebbe costituito il primo esempio di vertice antiterrorismo a livello europeo e che, anche se destinata a dare scarsi risultati immediati, avrebbe contribuito, come afferma il curatore, alla «conversione marcatamente politica dell’ordine pubblico in ordine “governativo o di maggioranza”, che è passaggio non trascurabile nel processo generale di State building e di organizzazione degli spazi di rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica»2.

Un evento spesso trascurato dalla storiografia italiana, anche da quella che si è occupata del movimento operaio e delle sue lotte, ma che obbliga a riflettere su una serie di nodi ancora tutti da sciogliere nell’ambito della storiografia dei movimenti di classe e delle contromisure messe in atto nei loro confronti dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali e militari.

Uno dei motivi di tale trascuratezza, se non addirittura di disinteresse, nei confronti di un evento destinato a rifondare l’immaginario politico del ‘900, non solo italiano, va rintracciato, secondo Saletti, in una certa abitudine ad una «velata resistenza culturale a riconoscere ruolo e specificità dell’anarchismo nella genesi e nello sviluppo dei movimenti di massa e dell’antagonismo di classe tardo-ottocentesco»3, che ha fatto sì che gli studi sull’anarchismo scontino ancora una certa marginalità all’interno dello studio dei movimenti socialisti ed operai europei, nonostante la ripresa dell’interesse nei suoi confronti sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni.

Una rimozione e sottovalutazione che se giustificata dal punto di vista “borghese” e istituzionale, non può esserlo altrettanto quando ad occuparsi della storia delle esperienze di lotta, insorgenza e organizzazione proletaria siano studiosi di formazione socialista o marxista. Eppure, eppure… proprio quest’ultima osservazione ci permette di sviluppare alcune considerazioni che, pur travalicando i limiti specifici dello studio di Saletti e dei documenti annessi, possono essere d’aiuto per una nuova storiografia dei movimenti di classe in tutte le loro manifestazioni.

Manifestazioni spesso disordinate, disorganizzate, violente, improvvisate ma sempre originate da un radicale rifiuto delle condizioni di esistenza proposte dal modo di produzione capitalistico, dalle sue leggi di mercato e dai suoi istituti proprietari e finanziari, contro cui le moltitudini dei diseredati sembrano battersi fin dall’avvento della società mercantile a cavallo tra XIII e XIV secolo, se non già da prima per il tramite delle prime eresie medievali.

Il termine eresia deve, però, essere inteso al di là dello specifico contesto religioso per trascendere, come suggeriva lo scomparso Emilio Quadrelli, l’intero pensiero politico, anche nelle sue manifestazioni classiste e antagoniste4. Considerato che, affinché possa esistere un’eresia, deve per forza sussistere anche un’ortodossia che possa essere trascesa e criticata.

In questo caso la netta separazione tra storia dell’anarchismo e del movimento operaio socialista risponde ad una necessità tutta di ordine ideologico, messa in campo sia da una che dall’altra parte fin dai tempi di Marx e Bakunin, che vede però, proprio nella componente marxista e socialista, una consistente resistenza ad accettare il movimento anarchico come parte integrante del movimento storico per il ribaltamento dell’ordine sociale dettato dagli interessi d’impresa e del capitale.

Per questo motivo si rende sempre più necessario, almeno dal punto di vista storiografico, il superamento di un’impasse che da troppo tempo limita e divide in comparti stagni la comprensione di movimenti che hanno comportamenti e radici materiali comuni. E che nella spontaneità delle insorgenze e nella loro rapida caducità hanno un comune denominatore.

Spontaneità o spontaneismo di cui l’interpretazione anarchica delle contraddizioni sociali e della loro risoluzione radicale sembra fare il vettore principale di, quasi, ogni iniziativa politica e organizzativa. Caducità che spinge, dal lato del marxismo o del socialismo ortodosso, alla ricerca di formule organizzative (partito, cellule, centralizzazione direttiva) capaci di impedire lo sfaldamento delle esperienze, sia dopo la loro riuscita che a seguito di una sconfitta.

Due interpretazioni dello scontro e delle sue forme che spesso non possono fare altro che ostacolarsi l’una con l’altra. Soprattutto da parte di quelle interpretazioni marxiste più rigide che pur di salvaguardare organizzazione e prospettive politiche definite in linea teorica “una volta per tutte”, rinunciano a partecipare allo scontro e alle sue manifestazioni concrete, adducendo problemi di “arretratezza” sociale oppure di inadeguatezza politica, giungendo troppo spesso a tacciarle di avventurismo se non addirittura accusarle di esser null’altro che il prodotto di agenti provocatori.

Una storia rintracciabile, almeno qui in Italia, nell’atteggiamento di Turati nei confronti della Settimana rossa del 1914, quando sull’alba del primo conflitto imperialista le manifestazioni antimilitariste furono violentemente represse a partire da Ancona oppure nelle riserve che lo stesso Partito socialista ebbe nei confronti ancora dell’insurrezione torinese del 1917 o nell’abbandono a se stessi dei manifestanti proprio in occasione delle giornate del maggio 1898 a Milano5.

Anche il Partito comunista italiano, il PCI, prima adeguandosi al volere del Comintern e del Cominform e in seguito memore dall’atteggiamento staliniano nei confronti di ogni opposizione alle direttive di partito, non esitò mai, fino alla fine dei suoi giorni, nel condannare qualsiasi iniziativa spontanea della classe nei confronti del comando capitalista. Fascisti, provocatori e traditori, a seconda dei periodi, furono sempre definiti i giovani, gli operai, le donne che dal secondo dopoguerra in poi, passando per piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962 fino alle lotte autonome degli anni Settanta insorsero spontaneamente e, spesso, violentemente contro la dittatura del lavoro salariato.

Questo, però, non poteva far altro che avvantaggiare il nemico di classe nella sua azione sia divisa che repressiva nei confronti della classe operaia o degli strati sociali marginali della società, nei confronti dei quali la definizione spesso utilizzata di lumpenproletariato, più che attenersi a quella marxiana di proletariato marginale oppure momentaneamente escluso dal lavoro, si trasformò in autentico stigma, tradotto come sottoproletariato ovvero la classe più degradata, non solo dal punto di vista economico ma anche, e forse soprattutto, morale, priva di alcuna forma di coscienza di classe, o almeno di ciò che il partito ritiene tale, e non organizzata nei sindacati ufficiali.

Una classe, secondo questa diminutiva e offensiva interpretazione del termine, i cui componenti oltre ad essere accusati di trarre il loro reddito da occupazioni vicine all’illegalità (furto, prostituzione, imbrogli di vario genere), proprio per la loro miseria culturale e politica potrebbero facilmente essere preda delle idee più retrograde e reazionarie.

Però, pur essendo vero che porzioni immiserite della società e della classe lavoratrice esclusa dal lavoro possono esser facilmente preda delle rivendicazioni reazionarie e fasciste, è altresì vero che anche porzioni significative di classe operaia, quella un tempo definibile come aristocrazia operaia e oggi inquadrata nel cosiddetto ceto medio produttivo, hanno spesso aderito e ancora aderiscono a tali rivendicazioni di stampo razzista, nazionalista e sessista. Come l’elettorato di Trump può ben dimostrare oggi.

Tutti fattori che nella criminalizzazione di ogni dissenso, non allineato con il discorso ordinativo di carattere socialista e socialdemocratico un tempo e liberal-democratico oggi, trovano lo strumento ideologico più adatto sia per il controllo sociale da parte dello Stato che di quello politico e sindacale da parte di tutti quei partiti, istituzionali e non, che della conservazione o della riforma dell’esistente in nome del progresso hanno fatto il loro, anche se spesso non dichiarato, fine ultimo.

Ma per tornare ai tempi di cui tratta la ricerca di Saletti, occorre ricordare come, almeno per l’Italia, fu lo stesso Engels, in qualità di segretario per l’Italia dell’Alleanza internazionale dei lavoratori, a tracciare una linea distintiva tra socialisti e rivoluzionari autentici, ovvero coloro che aderivano alle idee e ai programmi del socialismo cosiddetto poi autoritario e coloro che, aderendo ancora all’Internazionale bakuninista o antiautoritaria, tradivano la causa del proletariato e della sua emancipazione. Un giudizio spesso greve che allontanò dal socialismo marxiano Carlo Cafiero, che pur era stato il primo a divulgare in Italia un compendio del Capitale di Karl Marx da lui stesso tradotto, per trasformarlo sostanzialmente in uno dei primi e più importanti esponenti dall’anarchismo italiano.

Un giudizio negativo espresso da Engels, soprattutto sul socialismo meridionale6 che sembrava dimenticare che non solo a Napoli, il 31 gennaio 1869, era stata fondata da una società operaia partenopea, la Società operaia di Napoli come fu in seguito designata, la prima sezione italiana dell’Internazionale «che aderì pienamente agli statuti dell’Associazione e si costituì in Comitato centrale per tutta l’Italia»7, ma anche che proprio nella parte meridionale del Regno d’Italia per dieci anni si era svolta quella che in tempi recenti lo storico Gianni Oliva ha definito la Prima guerra civile italiana, ovvero quella che per decenni, se non per più di secolo, è stata troppo spesso, superficialmente oppure opportunisticamente, accomunata al brigantaggio8.

E qui, per ricollegare il tutto al tema del testo edito da Malamente, va ricordato che la resistenza contadina e sociale del Sud, pur con tutte le sue inevitabili contraddizioni, aveva anche rappresentato la prima guerra civile “europea” dopo la fine della Restaurazione, prima ancora della Comune di Parigi che si sarebbe rivoltata contro lo stato francese e Napoleone III soltanto nel 1871. Una guerra civile, quella nel Sud dell’Italia, che aveva anche richiesto da parte dello stato unitario l’emanazione di una prima legge speciale, la legge Pica del 1863, che di fatto per la prima volta definiva una legislazione eccezionale destinata a contenere, reprimere e punire pesantemente i disordino sociali e i loro protagonisti.

Una legge, che nell’iniziale fase di stesura, nell’ambito dei provvedimenti eccezionali da prendere prevedeva la deportazione dei condannati per i fatti di resistenza che avevano iniziato manifestarsi fin dal 1861, e di cui la rivolta di Bronte dell’agosto 1860 in Sicilia, aveva già rappresentato un significativo esempio.

Sin dall’inizio della campagna di Vittorio Emanuele II nel Sud, il governo di Torino ha trasferito i soldati borbonici prigionieri di guerra nelle isole del Tirreno o in zone remote dell’Italia settentrionale, e a mano a mano ha affiancato loro gli «sbandati» e i «camorristi». Nel 1861 il governo Ricasoli ha cominciato a pensare ad un progetto organico di deportazione di «briganti e manutengoli» in luoghi lontani dall’Italia, sull’esempio di quanto ha sempre fatto la Francia nella Guyana e in Madagascar; il successivo governo Rattazzi ha proseguito su quella strada, facendo sondaggi con i diplomatici portoghesi sulla possibilità di impiantare stabilimenti penali in Mozambico o nelle colonie portoghesi del Pacifico (Timor, Macao, Goa) e ha cercato di definire forme di compartecipazione italiana alla sovranità su territori non ancora completamente assoggettati da Lisbona; appena insediato, il governo Minghetti ha apprestato una fregata della Regia marina destinata a partire per i mari dell’Australia e studiare la praticabilità degli stabilimenti di deportazione, ma ha dovuto fermarsi per l’intervento di Napoleone III e dell’Inghilterra, preoccupati che l’istituzione di colonie penali fosse la copertura di un’ambizione espansionistica dell’Italia 9.

Cosa di cui questi ultimi due governi si intendevano assai, considerate sia la deportazione in Algeria dei rivoltosi del 1848 francese, proprio da parte di Napoleone III, che quella dei sottoproletari, ribelli irlandesi e donne di “malaffare” portate avanti dal Regno Unito verso l’Australia a partire dal progetto di colonizzazione inglese di quel continente iniziato nel 178710. Elemento che obbliga ancora una volta a riflettere come nei progetti legislativi e repressivi dei governi statali moderni repressione del dissenso, rimozione degli indesiderati e colonialismo siano portati costantemente avanti in parallelo. Fino agli attuali centri di detenzione per immigrati in Albania previsti dall’attuale governo Meloni che oltre ad allontanare gli stranieri indesiderati dal territorio nazionale rilancia virtualmente anche il progetto, in auge fin dalla Prima guerra mondiale e mai abbandonato del tutto, di controllare l’altra sponda del mare Adriatico proprio là dove questo si restringe maggiormente. Senza dimenticare come la legislazione anti-mafia sia sempre stata utilizzata anche al di fuori dei suoi presunti confini per colpire la dissidenza politica, con l’uso dell’articolo 41bis oppure, come si è tentato recentemente a Torino, di dichiarare comportamento mafioso il saluto portato da un corteo di militanti Pro-Pal ad una compagna detenuta agli arresti domiciliari (qui).

Queste le radici su cui poggiava i piedi la convocazione del primo congresso internazionale contro il terrorismo “anarchico” in uno Stato che della repressione popolare e della dissidenza armata aveva già fatto lunga esperienza, sia politico-legale che penale e militare, e a cui la ricca e dettagliata documentazione compresa nel saggio di Giuio Saletti porta un più che significativo contributo per la comprensione non soltanto della repressione della dissidenza anarchica e classista in tutte le sue forme politiche e organizzative, ma anche dei successivi passi intrapresi in direzione della repressione delle lotte sociali durante tutta la storia dello stato italiano fin dalla sua fondazione, passando per le leggi speciali del Fascismo e quelle antiterrorismo della prima repubblica insieme all’uso del 41bis, fino all’attualità politico-governativa odierna. Che con la Legge 9/6/2025 n.80, meglio nota come Decreto sicurezza, non ha fatto altro che continuare una tradizione repressiva che ha preceduto ed è continuata ben oltre il Fascismo storico.

Una continuità della percezione del pericolo, per l’ordine borghese, rappresentato dall’anarchismo e dalla lotta di classe che farà sì che intorno allo stesso o a ciò che si intende per esso, fin dal congresso del dicembre 1898, si vada:

concentrando, ritagliando e raffinando una ‘giurisdizione penale del nemico’ attraverso l’invenzione del delitto sociale (in realtà coincidente con il “delitto anarchico”) quale stabile e organico stato di eccezione che ingloba e va oltre il ‘duplice livello di legalità’– norme del fatto e della colpevolezza/norme del sospetto e della pericolosità – alla base degli ordinamenti penali sul finire del diciannovesimo secolo.
In questo quadro la conferenza di palazzo Corsini, generando una koinè giuridica continentale attraverso la certificazione dell’impoliticità del delitto anarchico, è appunto il tentativo, in una prospettiva nitida (seppure ancora ideale) di ‘universalismo penale’, di imporre su scala europea strumenti normativi e repressivi omogenei e comuni e istituzionalizzare una prima forma di cooperazione tra le polizie contro una minaccia percepita e pervicacemente agitata dalla borghesia d’ordine come il tangibile “danger international permanent” di quegli anni.
[Cosicché] Nel corso della seconda seduta plenaria all’unanimità passa la proposizione di principio, suggerita dall’ambasciatore russo, che «l’anarchisme n’a rien de commun avec la politique» e che pertanto non sarebbe stato trattato, in sede di conferenza, come una dottrina politica. Una decisione in qualche modo scontata, e tuttavia giuridicamente incisiva perché imprime esiti obbligati alla discussione decretando da subito che quello anarchico è delitto impolitico, assimilabile al reato comune e in quanto tale sottratto al favor rei (specie per ciò che riguarda il divieto di estradizione) riconosciuto dagli ordinamenti liberali ai reati politici. E dunque, quando a metà dicembre in seno alla sottocommissione si affronterà l’argomento, sarà agevole stabilire che l’atto anarchico sarebbe stato passibile d’estradizione se giudicato reato nel paese richiedente e in quello richiesto; che estradabili sarebbero stati anche i reati ‘satellite’ (quali la preparazione dell’atto anarchico e la fabbricazione di esplosivi, l’associazione organizzata, l’istigazione e l’apologia dell’atto anarchico); e che l’atto anarchico, per l’appunto, non sarebbe stato considerato delitto politico ai fini dell’estradizione11.

La conferenza di Roma sembra così porre le basi, almeno dal punto di vista teorico, di tutta la giurisdizione penale d’eccezione a livello internazionale fino ai nostri giorni e se precedentemente si è parlato della netta separazione avvenuta tra socialismo e anarchismo occorre qui ricordare che era di pochi anni prima la pubblicazione da parte del socialista positivista Cesare Lombroso del testo Gli anarchici (1894), in cui dall’iniziale collegamento tra dati antropometrici e pulsione alla violenza dei criminali comuni lo studioso aveva tratto indicazioni per studiare gli stessi effetti sui comportamenti dei militanti anarchici12. Contribuendo, anche solo indirettamente, a far sì che:

Il terreno sul quale la conferenza raggiunge intese significative è comunque quello delle misure amministrative e dell’attività di polizia, sul piano ad esempio del metodo antropometrico di identificazione dei criminali, al punto che si ritiene – non senza fondamento – che l’International Criminal Police Organization (ossia l’Interpol) «in several ways can be considered a descendant or at least a step-child of the Rome Conference». Su iniziativa tedesca, i delegati approveranno all’unanimità la proposta di istituire in ogni paese una ‘agenzia centrale’ alla quale affidare il compito di controllare in segreto gli anarchici agevolando lo scambio diretto di segnalazioni e informazioni13.

E anche se il testo finale della conferenza fu approvato ad referendum escludendo così impegni vincolanti per gli stati che vi avevano preso parte lasciando alla valutazione discrezionale di ciascun governo se e a quali proposte dare attuazione, la cosa non avrebbe impedito all’ammiraglio Canevaro di affermare, nel congedare i delegati: «Che anche se tutti gli scopi che alcuni di noi si erano prefissi non sono stati pienamente raggiunti, possiamo tuttavia ritenere che i nostri coscienziosi sforzi per il raggiungimento di un più adeguato ordinamento giuridico sono lontani dall’esser rimasti sterili»14,


  1. Per il clima politico generale in cui si svolse la conferenza si veda: U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 1977.  

  2. G. Saletti, Gli anarchici, la conferenza di Roma e il delitto sociale, introduzione a I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, p. 17.  

  3. Ivi, p. 17.  

  4. Si veda in proposito: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  5. Come possiamo ricostruire a partire da una testimonianza inaspettata, quella di Camillo Olivetti, futuro fondatore dell’omonima industria eporediese, in una lettera alla moglie Luisa Revel di qualche anno successiva ai fatti: «Nel maggio ’98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto, molto meglio che gli uomini che eran sul sito, che qualche cosa doveva succedere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri, che per così dire eran a capo del partito, avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. […] A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero né frenare né comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella! Visto che a Milano non vi era nulla da fare, me ne andai a Torino, ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione […] Dopo questa disillusione a poco a poco mi ritirai dalla vita politica» (C. Olivetti, Lettere Americane, Fondazione Adriano Olivetti, 1999).  

  6. Si veda in proposito: P. C. Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche , umaniste e libertarie della democrazia italiana, Editoriale Nuova, Milano 1978.  

  7. G. de Martino, V. Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori editore, Napoli 2004, p.131.  

  8. G. Oliva, La prima guerra civile. Rivolte e repressioni nel Mezzogiorno dopo l’Unità, Mondadori Libri S.p.a., Milano 20255.  

  9. G. Oliva, La prima guerra civile, Mondadori, Milano 2025, pp. 33-34.  

  10. Si veda in proposito: R. Hughes, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi Edizioni, Milano 1990.  

  11. G. Saletti, op.cit., pp.18-24.  

  12. Si veda in proposito: M. Bucciantini, Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.  

  13. G. Saletti, op. cit., p.25.  

  14. Cit. in G. Saletti, op. cit., p. 27 – traduzione a cura del recensore.  

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Vite brevi ed esemplari delle spie / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/08/07/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-1/ Mon, 07 Aug 2023 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78003 di Diego Gabutti

Nella casa degli specchi che era il mondo delle spie, inesistente non significava irreale. (Mick Herron, Slow Horses)

Richard («Ika», «Ramsay») Sorge

Agente segreto sovietico, Richard Sorge crea un’importante rete d’agenti in Cina e Giappone, dove lavora come corrispondente di gazzette tedesche. Per un po’ lui e la sua prima moglie lavorano per l’Institut für Sozialforschung, l’Istituto di Scienze sociali guidato da Marx Horkheimer e Th.W. Adorno, universalmente noto come Scuola di Francoforte. Sorge è nipote di Friedrich Sorge, membro della Lega dei comunisti dal 1848, amico personale di Marx ed Engels e ultimo segretario della Prima [...]]]> di Diego Gabutti

Nella casa degli specchi che era il mondo delle spie, inesistente non significava irreale. (Mick Herron, Slow Horses)

Richard («Ika», «Ramsay») Sorge

Agente segreto sovietico, Richard Sorge crea un’importante rete d’agenti in Cina e Giappone, dove lavora come corrispondente di gazzette tedesche. Per un po’ lui e la sua prima moglie lavorano per l’Institut für Sozialforschung, l’Istituto di Scienze sociali guidato da Marx Horkheimer e Th.W. Adorno, universalmente noto come Scuola di Francoforte. Sorge è nipote di Friedrich Sorge, membro della Lega dei comunisti dal 1848, amico personale di Marx ed Engels e ultimo segretario della Prima internazionale, quando la sua sede centrale viene trasferita da Londra a New York.

Nei primi anni venti Richard Sorge è uno dei più noti giornalisti di sinistra tedeschi, nonché un membro eminente del partito comunista. Nondimeno, da un giorno all’altro, riesce a convincere i nazisti d’essersi convertito all’hitlerismo. Non è l’unico comunista a saltare il fosso: passano alla svastica intere sezioni di partito. Ma Sorge non è un comunista qualunque. È vissuto per anni a Mosca, è un marxista convinto, ha scritto libri leninisti, è uno dei primi esemplari di radicalismo chic novecentesco. Eppure i nazisti lo accolgono nelle proprie fila. È lui a intortare loro? O sono loro a intortare lui e il Ghepeù? Non si saprà mai.

Corrispondente a Yokohama di due importanti testate tedesche, il Borsen Zeitung e il Tagliche Rundschau, è grazie a un suo agente nell’ambasciata tedesca a Tokyo che nell’aprile del 1941 il Cremlino è informato dell’imminente attacco tedesco. Stalin, che dopo il patto Molotov-Ribbentrop considera Hitler un amicone, stabilisce che l’informazione è falsa: la solita dezinformatzija, decreta, dell’intelligence inglese. Meno d’una settimana più tardi Leningrado è assediata dai tanks tedeschi, Mosca è minacciata e i bolscevichi di riguardo, Iosif Vissarionovič in testa, corrono a gambe levate lontano dalla capitale lasciando nelle peste i moscoviti di sangue plebeo.

Nell’ottobre dello stesso anno Sorge è tratto in arresto come agente sovietico dai servizi segreti giapponesi. Finisce sulla forca tre anni più tardi, nel 1944. Passano un paio di decenni e «nei primi anni sessanta» – come scrive Anya von Bremzen, L’arte della cucina sovietica, Einaudi 2014 – «i francesi producono un documentario sulla storia di Sorge e tentano di venderlo alla Russia. Chruščëv assiste alla proiezione. “Cosí dovrebbe essere l’arte!” esclama entusiasta quando le luci si riaccendono. “È una storia inventata, ma non ho staccato gli occhi dallo schermo”. “Vede, Nikita Sergeevič”, gli spiegano, “Sorge non è un personaggio di fantasia… è esistito veramente”. Chruščëv chiama il Kgb. Gli confermano sia l’effettiva esistenza di Sorge sia la sua carriera nell’Intelligence. Senza indugio, Chruščëv gli conferisce l’onorificenza postuma di Eroe dell’Unione Sovietica e ordina che sia celebrato come campione massimo delle spie sovietiche». Come più tardi Kim Philby, anche lui finisce sui francobolli.

Klaus Fuchs

Nemmeno rivelando all’NKVD di Lavrentij Pavlovič Berija «i segreti atomici» il fisico tedesco Klaus Fuchs, marxista-leninista e grande traditore, si guadagna l’Ordine di Lenin, o quello di Marx: la scienza sovietica, secondo la vulgata, ha spaccato l’atomo da sola, senza l’aiuto delle spie. Nato a Rüsselsheim, in Assia, nel 1911 da un pastore luterano dal carattere anche troppo forte e da una donna che si suicida quando lui è ancora molto giovane, Fuchs s’iscrive al partito comunista da ragazzo, quando frequenta la facoltà di scienze. Sono gli anni dell’ascesa di Hitler e Fuchs è in prima fila nelle battaglie di strada contro le SA di Ernst Röhm. Anche le sue due sorelle e suo fratello sono membri delle organizzazioni di partito e lasciano come lui la Germania quando Hitler diventa cancelliere. Continua gli studi in Francia, poi in Inghilterra, dove in virtù del suo QI e della qualità delle sue intuizioni teoriche sale subito ai piani alti della ricerca scientifica angloamericana: il circolo segreto degli scienziati atomici. È uno scienziato, e pertanto studia volentieri i problemi tecnici, teorici e persino un po’ metafisici della folle corsa che, dal 1942 al 1946, porta dal Progetto Manhattan a Hiroshima e Nagasaki e infine al mondo bipolare, sorvegliato a vista da migliaia di testate nucleari pronte all’uso: l’esercito di guerrieri di terracotta della guerra fredda.

È uno scienziato, ma anche un comunista militante e non appena capisce a cosa sta lavorando pensa bene di stabilire un contatto con lo spionaggio sovietico. Attraverso gli amici del KPD, il partito comunista tedesco, che come lui sono riparati in Inghilterra, comincia a passare segreti atomici all’NKVD: centinaia di cartelle fitte di calcoli, resoconti d’esperimenti riusciti e falliti, ipotesi, formule, equazioni. Collabora con Berja e i suoi ragazzi dai laboratori inglesi, poi da Los Alamos e, finita la guerra, di nuovo dall’Inghilterra. È instancabile: uno degli agenti segreti più produttivi d’ogni tempo, e forse il solo agente segreto che con le sue informazioni abbia «cambiato la storia del mondo» (così Mike Rossiter, autore della Spia che cambiò il mondo, Newton Compton 2014).

Klaus prolunga di decenni l’esistenza del Gulag e del «campo socialista». Dapprincipio, prima di capire su quale miniera d’oro hanno messo le mani, i servizi sovietici prendono le rivelazioni di Fuchs sottogamba. «Scienza borghese degenerata», strapensano (come si straparla) i cekisti: la meccanica quantistica, «che costituisce il fondamento della fisica moderna, è ritenuta in contrasto col materialismo dialettico, dogma ideologico del comunismo sovietico». È solo quando a Stalin entra finalmente nella zucca il potenziale distruttivo della bomba atomica che i quanti vengono adottati dal Cremlino. Grazie a Fuchs, che la nutre di pappa fatta, la scienza sovietica raggiunge in poco tempo e con costi irrisori i risultati che a Los Alamos sono stati raggiunti soltanto con enormi spese e dopo molti anni. Quanto a Londra e Washington, dove la scienza esoterica dei fisici moderni è presa molto sul serio, si prendono sottogamba le idee politiche di Klaus Fuchs. Da giovane, okay, è stato comunista, e tuttora professa opinioni radicali. Ma è solo un professore, via, e non c’è scienziato atomico che non sia per definizione un po’ pazzo e radicale (guardate Einstein, con quella zazzera).

Alla fine, quando il team di crittografi e decodificatori del Progetto Venona (i cui risultati furono desecretati solo decenni più tardi) decifra tra gli altri un messaggio che inchioda anche Fuchs insieme ai coniugi Rosenberg, è per tutti una sorpresa, Intelligence inglese in testa. Prima di cedere e confessare i suoi rapporti con lo spionaggio sovietico, Fuchs vende cara la pelle. Ma la volpe è una, i cani tanti, e finisce come deve finire: con una confessione e una condanna a 14 anni di prigione. Ne sconta nove. Esce di galera nel 1959 e ripara a Berlino Est. C’è, a margine, anche una storia d’amore: appena tornato in Germania, passate poche settimane, anzi pochi giorni, Fuchs sposa la sua più vecchia fiamma, Grete Kleison, già segretaria del segretario del Comintern Georgi Mihajlov Dimitrov e membro del CC del KPD, che lui ha conosciuto molti anni prima a Parigi, dove lei era una sperimentata combattente clandestina. Forse è stata lei a reclutarlo nei servizi segreti sovietici. Sono stati lontani per 26 anni. Ma eccoli tubare come due piccioncini. Puro Festival di Sanremo, roba più borghese e decadente della meccanica quantistica. Fuchs passa a miglior vita nel 1988. Appena in tempo. In questo modo gli è risparmiata l’umiliazione di vedere la Caduta del Muro di Berlino. Un’umiliazione, diciamolo, che si sarebbe meritato.

Agnes Smedley

Agente del Comintern dell’NKVD, nata in Missouri nel 1892, ex compagna di Richard Sorge, nonché «amica del popolo cinese» e grande giornalista, toccherebbe a lei intervistare Mao Zedong e gli altri capi comunisti nelle grotte di Yenan, dove l’armata contadina ha trovato rifugio dopo la Lunga marcia (12.000 chilometri, 80.000 morti, un anno di cammino). Ma al suo posto parte Edgar Snow, anche lui americano, però di gran lunga meno radicale e, al suo confronto, un novellino anche come giornalista. Ciò la fa andare su tutte le furie. È il 1936, e le sembra d’aver mancato lo scoop della vita.

A tradire Agnes Smedley è Sun Chingling, sua vecchia amica, nonché vedova di Sun Yat Sen (fondatore e primo presidente nel 1911 della repubblica cinese, poi amico dei comunisti) e cognata di Chiang Kai-shek (signore della guerra e capo del Kuomintang antibolscevico). Sun Chingling e la leadership comunista apprezzano Smedley, che si è stabilita in Cina alla fine degli anni venti, e che si è fatta notare come attiva militante antimperialista fin dal primo dopoguerra. Sun Chingling e i capi maoisti non mancano di servirsi di lei. Chu The, il generale rosso che zigzagando tra mille insidie conduce a Yenan i 20.000 superstiti dell’esercito popolare, è un suo grande amico (è lei a scriverne l’autobiografia: Chu Teh, La lunga marcia, Editori riuniti 1974, uno dei grandi libri sulla Cina della guerra civile).

Smedley conosce bene anche il Presidente Mao, che da lei impara a ballare il fox trot, ma che per mantenere la pace in famiglia deve rifiutarle la tessera del partito quando lei, mettendo il dito tra moglie e marito, interviene in difesa della sua giovane interprete, che la seconda moglie di Mao ha beccato in compagnia del marito. Più che il dito, in realtà, Agnes mette l’intera mano: stende la signora Mao, che le ha allungato una sberla chiamandola «sgualdrina», con un diretto al mento, in puro stile rissa da saloon. Smedley piace un po’ a tutti i capi maoisti (meno alle loro signore, che si sentono minacciate, adesso che la poligamia è finita, dalle sue prediche pro libero amore). Però i generalissimi comunisti non se ne fidano davvero.

Spia russa, secondo quanto dichiara il suo ex compagno Richard Sorge dopo l’arresto, non le piacciono i russi (che nel 1940 liquidano il rivoluzionario indiano Viren Chatto, un altro suo ex compagno). Figlia del popolo, anzi Daughter Of The Earth, figlia della terra, come dice il titolo della sua autobiografia, che nel 1929 le ha dato la celebrità, Smedley non sta dalla parte dei poveri e degli oppressi per sentirsi «parte dell’apparato» e nemmeno per avvertire, come si diceva negli ambienti radicali newyorchesi, «un meraviglioso senso di appartenenza a un grande ordine segreto».

Costretta a lavorare fin da bambina, orfana di madre, con un’istruzione sommaria e un padre alcolizzato e violento, Smedley è una rivoluzionaria per istinto. Prima che il maccartismo, con l’inizio della guerra fredda, cancelli anche il ricordo del suo contributo al giornalismo americano, dove il suo nome si legge ancora ma ormai a malapena, semicancellato dal grande censore, il tempo che passa, Smedley fu una scrittrice e una giornalista famosa, ma soprattutto una donna tosta. Non le piacciono gli stalinisti, ma non le piacciono nemmeno i trotskisti, con i quali rompe ogni rapporto negli anni della grande purga. Toglie il saluto anche a un’amica della prima ora, l’anarchica Emma Goldman, che ha conosciuto a Manhattan nel primo dopoguerra e di cui ha preso le difese quand’era stata arrestata a Mosca dalla Ceka (l’autobiografia della Goldman, Vivendo la mia vita, La Salamandra 1980-1985, 3 voll., è un classico della memorialistica radicale americana).

Christopher Isherwood e W.H. Auden, che la incontrano a Hankow, nell’Hubei, nel corso del loro Viaggio in una guerra, Adelphi 2007, scrivono che è «impossibile non amarla e rispettarla, così decisa, aspra e appassionata; così spietatamente critica nei confronti di chiunque, compresa se stessa, mentre se ne sta seduta davanti al fuoco, rannicchiata, come se tutte le sofferenze e tutte le ingiustizie del mondo torturassero le sue ossa al pari dei reumatismi».

Muore a Londra, nel 1950, entrando in coma dopo un’operazione allo stomaco. J. Edgar Hoover e il Comitato che indaga sulle attività antiamericane avrebbero voluto farla tornare in America per interrogarla come sospetta spia. Ma è tardi per le risposte, e tardi anche per le domande. Nel 1951 le sue ceneri sono traslate a Pechino e interrate sotto una lapide di marmo nel cimitero dei martiri della rivoluzione. Richard Sorge, super spia e suo ex compagno, pensa che «le donne non sono adatte per il lavoro di spionaggio. Ma Agnes», dice, «è diversa. Come moglie non vale granché, ma ha una mente brillante e fa bene il suo lavoro di giornalista: è come un uomo».

(Fine prima partecontinua)

N. B.
Le biografie delle spie pubblicate qui e nelle prossime due puntate sono tratte da un’Appendice prevista, ma successivamente esclusa dall’ultima opera di Diego Gabutti (Segretissimo, Magog 2023) recensita su Carmilla qui.

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Come la Rivoluzione giunse in Oriente tra cavalieri, banditi, spie e baroni sanguinari https://www.carmillaonline.com/2021/03/31/come-la-rivoluzione-giunse-in-oriente-tra-cavalieri-banditi-spie-e-baroni-sanguinari/ Wed, 31 Mar 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65560 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 320, 20,00 euro

“La nostra missione è incendiare l’Oriente” (Iscrizione nel quartier generale della Prima Armata Bolscevica ad Ashgabat)

Basterebbero poche righe di questo libro per sfatare il mito della Rivoluzione come grigio e burocratico affare di partito. Infatti, anche se Peter Hopkirk non è certo definibile come un rivoluzionario o, almeno, simpatizzante della causa della trasformazione radicale del mondo, il testo appena pubblicato da Mimesis mette davanti agli occhi [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 320, 20,00 euro

“La nostra missione è incendiare l’Oriente”
(Iscrizione nel quartier generale della Prima Armata Bolscevica ad Ashgabat)

Basterebbero poche righe di questo libro per sfatare il mito della Rivoluzione come grigio e burocratico affare di partito. Infatti, anche se Peter Hopkirk non è certo definibile come un rivoluzionario o, almeno, simpatizzante della causa della trasformazione radicale del mondo, il testo appena pubblicato da Mimesis mette davanti agli occhi del lettore un susseguirsi di vicende degne dei migliori romanzi d’avventura, oltretutto ambientate in territori in cui a dominare erano, e spesso ancora rimangono, paesaggi sconfinati, deserti spietati, aspre montagne e una natura che definire selvaggia è ancora soltanto un blando eufemismo.

Scorrendone le pagine è inevitabile riandare con la memoria alle magnifiche tavole di Hugo Pratt, in particolare a quelle della sua storia, anche se sarebbe meglio definirla romanzo, migliore: Corte sconta detta arcana. Appartenente al ciclo di Corto Maltese, il testimone scomodo più che eroe di tante vicende narrate dal disegnatore italo-argentino di origini veneziane, la storia si dipanava proprio negli immensi spazi compresi tra Asia centrale, Russia e Cina negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre e dava vita a personaggi ripresi dalla o appartenenti alla realtà di quel periodo. Non ultima la figura del barone Ungerer, di cui avremo ancora modo di parlare più avanti.

Il fatto che l’avanzare della rivoluzione bolscevica in Asia si accompagni, nel titolo, alla possibile realizzazione di un impero sovietico in quelle regioni, è dovuto al fatto che il testo chiude una serie di ricerche condotte dallo stesso Hopkirk sul tema del “Grande Gioco” svoltosi, tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento, in quegli stessi territori che andavano dal Caucaso alla Mongolia e dai confini della Cina imperiale all’Oceano Indiano e ai confini dell’impero coloniale inglese in India, che vide come protagonisti soprattutto gli agenti e i generali agli ordini di Sua Maestà Britannica da un lato e quelli al servizio dello Czar dall’altro.

Tali opere formano una quadrilogia di cui il testo sull’azione bolscevica in Asia costituisce l’ultimo volume. I precedenti sono, infatti, Il Grande Gioco (Adelphi, Milano 2004), Diavoli stranieri sulla Via della Seta (Adelphi, 2006) e Alla conquista di Lhasa (Adelphi, 2008). Ai quali, come corollario, andrebbe ancora aggiunto Sulle tracce di Kim (Settecolori 2021) dedicato al romanzo di Rudyard Kipling incentrato proprio sulle vicende della grande partita asiatica tra Impero Britannico e Impero Zarista.
Peter Hopkirk (1930 – 2014) è stato un giornalista britannico che ha lavorato come reporter e corrispondente per l’Indipendent Television News, il «Times» e il «Daily Express» e per molti anni ha viaggiato e vissuto nei paesi in cui si ambientano i suoi libri: Russia, Asia centrale, Turchia, Caucaso, Cina, India, Pakistan e Iran. Sulle tracce di vicende e personaggi che sono entrati tutti nelle sue ricostruzioni e ai quali, per qualche verso, ha finito col rassomigliare idealmente.

I militanti del bolscevismo giurarono di incendiare l’Oriente usando come innesco la nuova, inebriante dottrina del marxismo. Il loro intento era liberare l’Asia intera, partendo però dall’India britannica, il più ricco di tutti i possedimenti imperiali. Lenin, infatti, considerava l’Inghilterra, la maggiore potenza imperiale di allora, il principale ostacolo al suo sogno di una rivoluzione mondiale. “L’Inghilterra” dichiarò nel 1920 “è il nostro peggior nemico. È in India che la dobbiamo colpire con forza”.
Se l’insurrezione avesse strappato l’India dalla morsa della Gran Bretagna, quest’ultima non avrebbe più potuto tenere a bada i suoi cittadini – inconsapevoli azionisti dell’imperialismo – con la manodopera sottopagata e le materie grezze a buon mercato dall’Est. Ne sarebbe seguito il collasso economico e la rivoluzione in patria. Se si fosse riusciti a fomentare sommosse simili in tutto il mondo coloniale, l’agognata rivoluzione avrebbe segnato il suo percorso attraverso l’Europa. “L’Oriente” proclamava Lenin “ci aiuterà a conquistare l’Occidente”1.

Questo il prologo teorico e politico della vicenda narrata che, come in ogni libro di avventure ben congegnato, porterà ad esiti imprevisti dagli stessi protagonisti. Con svolte improvvise e rivolgimenti, per tutte le parti in lotta, dipendenti sia dalle personalità ed intenzioni che dalle contraddizioni sviluppatesi nel frattempo e dal comportamento, anche questo, non sempre prevedibile delle “masse” messe in movimento. Oltre che dal tradimento degli intenti iniziali messo in atto da Stalin e dai suoi accoliti già ben prima della morte di Lenin nel 19242.

In realtà la propaganda bolscevica in Oriente aveva preso forma in un’assemblea che si era riunita a Baku durante il settembre del 1920. Zinoviev e Radek, Presidente e Segretario del Comintern, e Bela Kun giunsero espressamente da Mosca a questo «Congresso dei Popoli dell’Oriente». Ma fu quella una strana adunata, un museo di costumi orientali, una Babele linguistica, una confusione di idee e di fini: Indù, Turchi, Uzbechi, Ingusci, Persiani, Ceceni, Turcomanni, Armeni, Baschkiri, Calmucchi, Ucraini, Russi, Tagiki, Georgiani, in tutto 1891 delegati, appartenenti a trentasette nazionalità erano presenti, mentre una schiera di interpreti urlava dal palco.

Lenin aveva preso in mano una matita e calcolato che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia ed il Giappone, con una popolazione di circa un quarto di miliardo, dominavano paesi e colonie con una popolazione di due miliardi e mezzo: questo fu il messaggio che gli inviati del paese dei Soviet portarono al Congresso di Baku.
La politica del Comintern venne esposta da Zinoviev la sera del 1° settembre: «L’Internazionale Comunista», egli annunciò, «si rivolge oggi ai popoli d’Oriente e dice loro: Fratelli, vi invitiamo ad una Guerra Santa innanzi tutto contro l’imperialismo britannico». «Jihad, Jihad » tuonarono, secondo un osservatore dell’epoca, i delegati. Ognuno saltò in piedi; pugnali tempestati di pietre preziose vennero branditi, spade damascate vennero sfoderate dalle loro guaine, pistole uscirono dalle loro custodie e vennero levate in alto, mentre i loro possessori urlavano: « Lo giuriamo, lo giuriamo ».

Quella riunione passò alla storia sotto il nome di «Primo Congresso dei Popoli d’Oriente ». Esso istituì un’organizzazione permanente nell’idea che sarebbero seguite adunate annuali o periodiche. Malgrado, però, il giuramento sulle armi, la Guerra Santa venne concepita come un’offensiva non militare diretta dal Consiglio di Propaganda ed Azione creato dal Congresso sul tipo del Consiglio d’Azione dei Sindacati Britannici. «La fanteria d’Oriente rinforzerà la cavalleria d’Occidente», come si affermò allora.

Le nazioni orientali, che interessavano il Congresso, erano soprattutto la Turchia, la Persia, 1’Afghanistan e l’India; in esse la parte che aveva l’Inghilterra era la più importante; l’Inghilterra era la più disprezzata; l’imperialismo britannico si offriva quindi in primo piano all’attenzione dell’assemblea. In ciò si manifestava la continuità con la politica zarista che dell’Impero britannico, almeno fino all’alleanza anti-tedesca nel corso del primo macello imperialista, aveva fatto la sua bestia nera in Asia, poiché ne bloccava ‘espansione sia verso l’Oceano Indiano che verso il Pacifico, oltre che averne bloccato l’espansione verso il Mediterraneo già all’epoca della guerra di Crimea (1853-1856)3. Anche se, per paradosso della Storia, a bloccare definitivamente la corsa imperiale zarista verso il Pacifico era stato, nel 1905, il piccolo ma agguerrito e tecnologicamente già più avanzato Giappone imperiale.

Ma i britannici, seppur sfiancati dalla guerra[…] Avevano ancora i più temibili servizi segreti del mondo, i cui tentacoli si estendevano ovunque. Ne seguì una lotta clandestina per il controllo dell’India e dell’Oriente, la cui storia è narrata in questo libro. Ambientato perlopiù in Asia centrale, nel punto di incontro di tre grandi imperi, britannico, russo e cinese, esso è un intreccio di macchinazione e tradimento, barbarie e terrore e, a volte, di vera e propria farsa.
Laddove possibile, lo racconterò attraverso le avventure e disavventure di coloro che, da tutti i fronti, presero parte a questa guerra mai dichiarata. Dalle più remote postazioni d’ascolto, ben oltre il confine dell’India, gli ufficiali dei servizi segreti anglo-indiani sorvegliavano ogni mossa dei bolscevichi contro l’India per riferirla ai superiori, a Delhi e Londra. I loro nomi sono ormai dimenticati da tempo, sepolti negli abissi degli archivi segreti dell’epoca, ma è proprio dai loro rapporti e dalle loro memorie che ho ricostruito gran parte di questa narrazione4.

I protagonisti, spesso dimenticati tra le pagine polverose del libro della Storia, sono un pugno di ufficiali inglesi5, l’indiano M.N. Roy (rivoluzionario di professione e teorico del marxismo, ai primi posti tra i ricercati dai servizi di intelligence britannica) e il russo Michail Borodin, che condivideva con Roy l’idea che la liberazione dei lavoratori oppressi d’Oriente potesse avvenire soltanto per mezzo di un’insurrezione violenta.

Accanto a questi ve ne sono almeno altri tre che val la pena di segnalare, il cui obiettivo era però ricollegabile ad una sete di potere e, almeno in un caso, ad una crudeltà che solo la lunga guerra combattuta senza regole su quei fronti avrebbe potuto soddisfare.

Quello di gran lunga più famoso fu un generale psicopatico dell’Armata Bianca, Ungern-Sternberg, “il barone pazzo”, le cui spaventose atrocità, in Mongolia, vengono ancora oggi ricordate con orrore6,
L’altro che tentò la fortuna fu Enver Pasha, esuberante generale turco, sconfitto in tempo di guerra e poi esiliato in Asia centrale. Dopo aver fatto il doppio gioco con il suo ospite Lenin, cercò di fomentare una guerra santa contro i bolscevichi senza Dio, facendo appello alle masse musulmane dell’Asia sovietica. Inferiore per numero e per armamenti rispetto all’Armata Rossa, l’affascinante turco andò incontro alla fine, con spregiudicato coraggio, ai piedi del Pamir. Si dice che ancora oggi alcuni suoi connazionali si rechino in pellegrinaggio segreto alla tomba solitaria del loro eroe.
L’ultimo ad ambire a un impero fu un giovane ma carismatico signore della guerra di nome Ma Zhongying, noto anche come “grande cavallo”. Un idealista musulmano cinese poco più che adolescente, che lasciò una scia di sangue attraverso il deserto del Gobi prima di fuggire a ovest lungo la Via della Seta su un autocarro rubato, inseguito dai bombardieri sovietici7.

Gli altri protagonisti anonimi di queste vicende furono i cavalleggeri dell’Armata rossa, i pastori guerrieri e guerriglieri delle montagne e dei deserti compresi tra il Caucaso, l’India e la Cina, oltre che mercanti, banditi, signorotti locali e signori della guerra, tutti travolti in un flusso di eventi che portarono, molto spesso, ad altri risultati rispetto a quelli previsti dalle parti in lotta.

Infatti il primo congresso dei popoli d’Oriente rimase anche il solo. Lo stabilimento di relazioni diplomatiche normali fra i Governi dei paesi orientali e quello russo incominciò ad aver la precedenza sulle relazioni fra i movimenti rivoluzionari dei paesi orientali ed il movimento rivoluzionario russo e le possibilità rivoluzionarie vennero sacrificate sempre di più al desiderio dei Sovietici di aver contatti, sulla base di trattati, con gli stati non rivoluzionari.

Là dove, invece, i bolscevichi riuscirono a prendere in mano la situazione, come ad esempio nel Caucaso e nei territori limitrofi, si ridiede vita ad un atteggiamento di governo “Grande Russo” che richiamava alla memoria la politica di dominio zarista. Alimentata dal georgiano Stalin e dai suoi fedelissimi, come ad esempio l’altro georgiano Grigorij Konstantinovič Ordzonikidze, fu al centro di una delle ultime, disperata battaglie di Lenin per impedire la degenerazione della Rivoluzione che aveva contribuito a realizzare.

Anche il progetto di mobilitare il proletariato occidentale a seguito della rivoluzione in Oriente era destinato a fallire anche se oggi si può affermare che l’unico vero risultato permanente della rivoluzione russa e dei suoi tentativi di esportarla fu conseguito con il risveglio dell’Asia, già immaginato da Lenin, e la conseguente liberazione della Cina dal dominio occidentale e il suo successivo sviluppo come grande potenza economica e commerciale (oltre che tecnologica e, probabilmente, militare).

Nel documentatissimo libro di Hopkirk non è soltanto contenuto in nuce tutto ciò, ma anche le radici politiche, sociali, religiose ed economiche delle altre e più recenti vicende cecene e afgane. Una lunga scia di sangue, di speranze infrante, di odi etnico-religiosi e tribali e, soprattutto, di giochi imperiali che ancora oggi non si è interrotta.


  1. Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme, Mimesis 2021, pp. 15-16  

  2. Si veda in proposito Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari 1969  

  3. Sul problema storico della mancata espansione russa verso i mari e gli oceani si veda: Toti Celona, La Russia sul mare, Longanesi & C., Milano 1968  

  4. P. Hopkirk, op. cit., p. 16  

  5. Il colonnello Bailey, il colonnello Percy Etherton e Sir Wilfrid Malleson, personaggio tutt’altro che piacevole, precursore nella specialità del gioco sporco, che gestiva una vasta rete di spie e agenti segreti nel nord-est della Persia, la cui maggiore soddisfazione fu quella di far scannare fra loro bolscevichi e afghani, lasciando sapientemente trapelare presso l’uno il doppio gioco dell’altro (inventandolo, là dove era necessario).  

  6. Sulla sua fosca figura si veda: Vladimir Pozner, Il barone sanguinario, Adelphi, Milano 2012 e Renato Monteleone, Il Quarantesimo Orso. La saga di un “barone pazzo” tra le rovine dell’Impero Zarista, Gribaudo 1995  

  7. P. Hopkirk, op. cit., p. 20  

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Il pensiero di Gramsci: un’eredità controversa https://www.carmillaonline.com/2014/07/15/pensiero-gramsci-uneredita-controversa/ Mon, 14 Jul 2014 22:10:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16082 di Sandro Moiso gramsci

Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00

A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.

Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata [...]]]> di Sandro Moiso gramsci

Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00

A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.

Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata alla trentina di Quaderni compilati durante la sua lunga detenzione carceraria dipende da molti fattori. Non ultimo l’artificiosità delle scelta che fecero pubblicare le sue lettere e i suoi quaderni in forme diverse e in tempi molto lunghi a partire dal secondo dopoguerra1 .

Certo è che Gramsci è stato sicuramente uno dei punti di riferimento del pensiero politico degli ultimi sessant’anni e, anche, uno degli uomini di cultura, “di sinistra”, più studiati in Italia e all’estero. Ciò è sicuramente indice della fecondità del suo pensiero, ma, anche, senza dubbio della sua contraddittorietà e complessità. Anche se in tutto questo, va qui subito chiarito, ha pesato non poco, fin dagli anni successivi alla caduta del fascismo, l’opera di recupero e canonizzazione messa in atto nei suoi confronti dallo stesso Palmiro Togliatti.

Alberto Burgio, docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Bologna, si occupa di Gramsci ormai da molti anni. Gli ha dedicato opere e articoli che da soli basterebbero già a riempire una biblioteca sull’argomento e, forse proprio per questo, con quest’ultima opera ha voluto realizzare una corposa ed importante sintesi del pensiero politico di quell’uomo dagli occhi chiari “da sognatore” che sempre avevano colpito quello che è stato considerato, spesso a torto, uno dei suoi grandi avversari all’interno del Partito Comunista delle origini: Amadeo Bordiga.

Diviso in diciotto capitoli, di cui circa la metà costituiti da rielaborazioni di articoli precedenti, il libro affronta tutte le maggiori questioni politiche e filosofiche poste dal pensiero gramsciano, sia durante il periodo di militanza “libera”, prima nel Partito Socialista e poi nel Partito Comunista di cui fu uno dei fondatori, sia nel periodo della detenzione, attraverso i Quaderni dal carcere e, in misura minore, le lettere.

La teoria o le teorie di Gramsci sono qui ordinatamente suddivise in due tempi, prima e durante il carcere, e per temi.
Così, nella prima parte i temi principali finiscono con l’essere quelli della coscienza di classe e del suo manifestarsi nel soggetto, della sua rappresentanza politica attraverso la democrazia e/o la rivoluzione e, in fine, quello della anticipazione e previsione dei tempi . Temi che è impossibile vedere separati da quella che fu la riflessione sulla crisi e sui compiti del Partito Socialista, portata avanti sulle pagine, soprattutto, de L’Ordine Nuovo (fondato nel 1919) e attraverso l’esperienza delle lotte operaie che accompagnarono la prima Guerra Mondiale e poi, successivamente alla stessa, l’occupazione delle fabbriche e il Biennio Rosso.

Temi che, però, accompagneranno ancora la sua riflessione all’interno del Partito Comunista e durante la sua brevissima permanenza effettiva ai vertici dello stesso dopo il congresso di Lione, tra il gennaio del 1926 e il novembre dello stesso anno quando fu arrestato e condannato a vent’anni di galera dai tribunali del regime.
Argomenti, comunque presenti, in maniera nemmeno troppo sotterranea, anche in tutta la sua elaborazione successiva, che costituisce non solo la “seconda parte” del libro, ma quella decisamente più cospicua (12 capitoli su 18) del testo.

Qui entrano in gioco le categorie “gramsciane” più note: la società civile, la “quistione dell’egemonia”, le rivoluzioni passive, il cesarismo, la transizione, l’americanismo e il fordismo oltre che l’analisi del fascismo come “razionalizzazione regressiva”, quella del Risorgimento e del pensiero di Machiavelli applicato alla storia d’Italia e della sua lotta tra le classi. Dove si rivela, come afferma fin dalla prima riga Burgio, tutta l‘inattualità di Gramsci.

Inattuale perché lontano dai discorsi politici, mediatici e filosofici odierni. Tutti così superficiali e privi di rigore. Improntati al facile consumo parolaio, a differenza del discorso gramsciano spesso intricato nella ricerca di un rigore oggi non più di moda. Discorso spesso sviluppato in solitudine quasi assoluta. Lontano dal Partito e, spesso, dalle sue scelte, sempre più indirizzate dal formalismo e dall’autoritarismo dell’Internazionale stalinizzata. Un discorso che spesso, soprattutto nella prima parte, è lontano da Marx e più vicino alla tradizione idealistica del Croce.

Ma inattuale, forse, anche per la canonizzazione imposta, come si è già detto prima, a partire da Togliatti che volle, in qualche maniera, potersi presentare al suo ritorno in Italia, a capo del Partito Comunista (diventato) Italiano, come legittimo erede del suo pensiero e che ha fatto sì che si sviluppasse, a partire dal 1950, uno dei più importanti istituti di ricerca politica legati alla sinistra istituzionale: la Fondazione Antonio Gramsci, divenuta poi Istituto Gramsci nel 1954. Istituto che dal 1994 conserva l’intero Archivio storico del Partito Comunista Italiano, dall’anno della sua costituzione (1921) all’anno del suo scioglimento (1991).

Insomma una autentica rifondazione delle stesse origini del Partito Comunista Italiano che, rimuovendo le scomode figure di Amadeo Bordiga e Brunio Fortichiari ( solo per citare due nomi desaparecidos per un lungo periodo dalla storiografia piccista), faceva del comunista sardo il “vero” fondatore del partito stesso, trasformandolo in una sorta di santo protettore della sua linea e delle sue scelte . Ciò, naturalmente, poco toglie alla figura di Gramsci, ma molto è servita ad alimentare una lettura del suo pensiero che è andata dalla convenienza politica più sfacciata, per giustificare ad esempio la “svolta” del compromesso storico fino a recenti, e ancor più forzate letture, in chiave liberale. Complicando quindi, e di molto, la questione dell’effettiva valenza del suo pensiero.

Eppure come si fa a non cogliere, oggi, tutta l’attualità di una riflessione su una borghesia pavida: “Prodotta secoli addietro «dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale»” (pag. 374) oppure sul fatto che “Sul piano politico-storico, l’alto prezzo pagato dal paese all’attitudine antipopolare di gran parte della sua borghesia ( i Quaderni parlano di un «egoismo gretto, angusto, antinazionale») è nientemeno che la mancata formazione di quella volontà collettiva senza la quale è impossibile, secondo Gramsci, dare vita ad uno Stato moderno forte e dotato di adeguate potenzialità di sviluppo” (pag. 375).

Per Gramsci “ogni rivoluzione passiva risulta da un rapporto di forze che permette al dominante di dirigere (volgendole a proprio vantaggio) trasformazioni divenute inevitabili” così che “la rivoluzione passiva è il «documento storico reale» della debolezza dei subalterni. Dell’insufficiente forza d’urto delle classi sociali subordinate e, in primo luogo, dell’inadeguatezza delle loro élites politico-intellettuali, incapaci di ordinare, potenziare e finalizzare quella forza, dando alle domande di mutamento uno sbocco pienamente rivoluzionario” (pp. 370 – 371). E anche se l’analisi riguarda soprattutto le élites risorgimentali è chiaro che la riflessione di Gramsci , qui sintetizzata da Burgio, non poteva non riferirsi ai compiti posti all’organizzazione di classe nell’ora del dominio fascista.

I Quaderni inquadrano il fascismo nel contesto analitico relativo alla rivoluzione passiva. Al pari del «nuovo industrialismo» americano – ma con un sovrappiù di brutalità e violenza militare tipico del bonapartismo – il fascismo rappresenta un paradigma della forma novecentesca di rivoluzione passiva, cioè un intervento restaurativo privo di valore progressivo. Concepito e realizzato al solo scopo di arginare gli effetti distruttivi della crisi e di prolungare le sopravvivenza della forma sociale capitalistica (la sua «durata»)” (pag. 393).

Il fascismo, come il fordismo e l’americanismo, doveva rispondere ad impellenti esigenze di programmazione e pianificazione della produzione, ma esattamente come le altre due forme ancora doveva svolgere la sua funzione di mantenimento dell’ordine economico-sociale borghese e dello sfruttamento di una classe su un’altra. In questo contesto, all’interno della produzione industriale moderna, taylorizzata, Gramsci individuava però le condizioni di quella che potrebbe essere la moderna autonomia operaia ovvero la capacità dei lavoratori di esercitare la loro egemonia sulla società attraverso forme di controllo della produzione e di autogoverno dei produttori.

Una posizione parzialmente proto-consigliarista, che già in passato si era scontrata, questa sì davvero, con le posizioni bordighiane. Nel febbraio del 1920, “commentando le manifestazioni di massa («movimenti spontanei e incoercibili») e le lotte del lavoro in corso nel paese, Gramsci scrive che esse «hanno, per i comunisti, valore reale in quanto rivelano che il processo di sviluppo della grande produzione industriale ha creato le condizioni in cui la classe operaia acquista coscienza della propria autonomia storica, acquista coscienza della possibilità di costruire, con l’ordinato e disciplinato lavoro, un nuovo sistema di rapporti economici e giuridici che sia basato sulla specifica funzione che la classe operaia svolge nella vita del mondo». Non si tratta di concessioni alla retorica rivoluzionaria, ma di un ragionamento da prendersi alla lettera. Nel senso che l’idea di un sovvertimento generale della gerarchia dei poteri a partire dalle trasformazioni dei processi industriali è sottesa all’intera analisi di quello che i Quaderni chiameranno «nuovo industrialismo»” (pp. 332 – 333).

Il testo di Burgio solleva quindi tante questioni quante effettivamente ne deve sollevare una attenta lettura dell’opera di Gramsci, di cui rappresenta un ottimo compendio, ma per non tediare oltre il lettore occorre fermarsi a questo primo, superficiale approccio propositivo.
Uno degli appunti che si possono fare al lavoro sul “sistema gramsciano” è forse quello di una accettazione un po’ troppo passiva della vulgata togliattiana della distanza tra Gramsci e Bordiga (tra i quali rimase sempre una grande e reciproca stima ed amicizia a differenza di quanto avvenne tra il primo e Togliatti con cui i rapporti si erano chiusi molto presto) che servì, prima, durante e dopo il fascismo a giustificare le giravolta del Partito Comunista e del Comintern e del Cominform, pubblicando sia la corrispondenza che gli stessi Quaderni dal carcere in modo da far corrispondere una continuità di intenti tra il pensiero gramsciano e le scelte politiche del Migliore2.

Qualche nota di carattere storico in più e qualche ulteriore riferimento a qualche opera recente sui reali rapporti tra Gramsci e Togliatti3 non avrebbero guastato e avrebbero contribuito a liberare una volta di più Gramsci dalle catene interpretative che gli sono state imposte, non solo dal fascismo, a partire dal 19264 .
Catene che ne hanno spesso fatto una sorta di monolito, appianandone le contraddizioni (ad esempio il suo prolungato idealismo di stampo crociano così evidente, anche se negato, nella prima parte del libro di Burgio) e banalizzandone anche gli aspetti più contraddittori ma gravidi di spunti di riflessione.

Però negli ultimi due capitoli del testo in questione l’autore apre due significative parentesi sui legami tra il pensiero di Gramsci e quello di Antonio Labriola e di Benedetto Croce fornendoci ulteriori dati per comprendere una figura in eterno bilico tra determinismo e idealismo che, più che attraverso Marx, era giunto ad una più definita dialettica materialistica non solo attraverso gli spunti forniti da Lenin e dalla Rivoluzione d’Ottobre, ma anche attraverso il confronto, talvolta anche duro ma mai scorretto, con un rivoluzionario più vicino al determinismo marxista come Bordiga. Citato, purtroppo, nel testo solo e sempre in chiave negativa così come la tradizione del PCI togliattiano ci voluto tramandare fin dagli anni del Comintern.

Il testo di Alberto Burgio ha sicuramente il pregio di riordinare sistematicamente un pensiero magmatico, a tratti onnivoro e difficile da seguire attraverso la ragnatela di rimandi filosofici, economici, storici e culturali che derivavano spesso, soprattutto nei Quaderni, dalla solitaria lettura impostagli dalla condizione di carcerato; ma, talvolta, lo fa con una eccessiva determinazione nel volerne garantire l’intima coerenza, perdendo così l’occasione, ed è questo l’altro appunto che gli si può fare, di renderlo più vitale e attuale sottolineandone le contraddizioni e tutte le differenti influenze a cui fu sottoposto nella sua evoluzione storica reale, liberandolo dalle incrostazioni dovute ad una lettura, troppo spesso, a senso unico e di carattere quasi agiografico.


  1. Basti pensare che solo a partire dal 1975 furono pubblicati, a cura di Valentino Gerratana, i Quaderni nel loro effettivo ordine cronologico. Mentre per un’edizione quasi integrale delle Lettere dal carcere è occorso ancora più tempo. Infatti la prima edizione del 1947 ne conteneva 218, mentre altre 77 inedite furono pubblicate nel 1964 e ancora 119 l’anno successivo. L’ultima edizione, uscita nel 1995 ne comprende 494 in tutto.  

  2. Ad esempio, nella prima edizione delle Lettere dal carcere qualsiasi riferimento a Bordiga era stato espunto sistematicamente  

  3. si veda ad esempio: Chiara Daniele, a cura di, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Einaudi1999  

  4. In quell’anno Bordiga, il 22 febbraio, aveva presenziato al VI Plenum allargato dell’Internazionale Comunista e aveva chiesto conto della situazione venutasi a creare all’interno del partito russo ai danni dell’opposizione e della società nel suo insieme. Il 14 ottobre di quello stesso anno l’Ufficio Politico del PC d’I, capeggiato da Gramsci, aveva scritto al Comitato centrale del partito comunista russo più o meno sugli stessi temi. Ventiquattro giorni dopo Gramsci veniva arrestato in Italia e nel 1929 Bordiga veniva definitivamente espulso come deviazionista trotzkista dal partito di cui era stato uno dei fondatori e il primo segretario. Il nome di Togliatti non compare né tra quelli che si riunirono nel 1920 come frazione astensionista e comunista, né tanto meno tra i fondatori del partito Comunista a Livorno nel 1921  

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Which Side Are You On? Pete Seeger e la presenza della lotta di classe nella canzone folk americana https://www.carmillaonline.com/2014/01/29/which-side-are-you-on-pete-seeger-la-presenza-della-lotta-classe-nel-folk-americano/ Tue, 28 Jan 2014 23:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12447 di Sandro Moiso

PeteSeeger Probabilmente molti lettori di Carmilla avranno conosciuto Pete Seeger per l’album dedicatogli da Bruce Springsteen nel 20061 o per la canzone We Shall Overcome resa celebre da Joan Baez e altri cantanti folk negli anni sessanta e settanta più che per aver ascoltato la sua voce e le sue canzoni.

In realtà Seeger, nato a New York il 3 maggio 1919 e morto a nella stessa città il 27 gennaio scorso, è stato un autentico gigante non solo del folk revival degli [...]]]> di Sandro Moiso

PeteSeeger
Probabilmente molti lettori di Carmilla avranno conosciuto Pete Seeger per l’album dedicatogli da Bruce Springsteen nel 20061 o per la canzone We Shall Overcome resa celebre da Joan Baez e altri cantanti folk negli anni sessanta e settanta più che per aver ascoltato la sua voce e le sue canzoni.

In realtà Seeger, nato a New York il 3 maggio 1919 e morto a nella stessa città il 27 gennaio scorso, è stato un autentico gigante non solo del folk revival degli anni cinquanta e sessanta, ma della canzone politica americana e un autentico testimone dello sviluppo della lotta di classe e della sua organizzazione politica negli Stati Uniti d’America. Con tutte le contraddizioni culturali, politiche ed umane che ne sono conseguite.

Spesso, infatti, nell’attuale società dei consumi, musicali e non, il verbo classista è completamente rimosso a discapito di una realistica e credibile ricostruzione del passato e dei suoi aspetti più conflittuali. Così l’attuale attenzione per la musica tradizionale americana e suoi aspetti risalenti al blues e al folklore delle origini tende a sottolineare prevalentemente l’aspetto razziale e religioso della stessa, dimenticando troppo spesso la forte valenza classista che tale musica ha portato con sé dalla seconda metà dell’ottocento fino agli anni sessanta.

Si dimentica così di sottolineare come gran parte dell’ambiente che finì col costituire negli anni cinquanta e sessanta del ‘900 il brodo di coltura da cui sarebbero usciti Bob Dylan, Phil Ochs, Joan Baez, Tom Paxton su su fino a Springsteen e Tom Morello affondava le sue radici non solo nel conflitto di classe, ma nella stessa storia del comunismo americano e nelle sue contraddittorie manifestazioni politiche e culturali.

Woody Guthrie, di cui nel 2012 si è celebrato senza alcun clamore il centenario della nascita, è stato sicuramente il testimone canoro più importante dello sviluppo e delle conseguenze politiche e culturali di tale tradizione. E, sicuramente, anche il più conosciuto.
Così che la sua leggenda, ingrandita dall’omaggio che Dylan gli fece per tutta la prima parte della sua carriera, e le sue canzoni originali hanno finito spesso col mettere in ombra la figura di Seeger che, al contrario di ciò che in genere si potrebbe pensare, è stata altrettanto importante se non di più nel riscoprire e tramandare alle successive generazioni la tradizione “blue collar” e proletaria delle ballate e delle folk songs statunitensi.

Un po’ il destino che Engels ha avuto nei confronti dell’amico e sodale Marx, se questo non suona blasfemo ai puristi, della musica folk e della politica. Anzi, per rinforzare l’ipotesi, vale la pena di sottolineare come, a differenza delle letture più semplicistiche del folk americano, il recupero della tradizione popolare americana operato da Pete Seeger sia stato, nella miglior tradizione marxista, frutto di teoria e prassi dialetticamente, ed artisticamente, riunite.

Pete Seeger nacque e ricevette la prima educazione in un ambiente già fortemente politicizzato: il padre, Charles Seeger, fu un pioniere della musicologia ovvero dello studio della musica inserita nel suo contesto sociale e storico e fu anche uno compositore che cercò di sviluppare tra gli anni dieci e venti del XX secolo un’autonoma musica sperimentale americana, liberata dall’europeismo di Arnold Schoenberg e, allo stesso tempo, dalla scarsa carica emotiva di quella di Charles Ives.

Ma fu anche un militante degli Industrial Workers of the World e un fiero oppositore alla partecipazione americana al primo conflitto mondiale; motivo per cui fu ostacolato nella sua carriera di docente presso il Dipartimento di Musica dell’Università di Berkley e osteggiato dai colleghi. Nel 1918 finì così col lasciare quell’Università e tornare all’est. Dove, appunto, nacque Pete e Charles poté introdurre gli studi di etnomusicologia presso l’Istituto di Arte Musicale di New York.

Charles Seeger divorziò dalla prima moglie, e madre di Pete, nel 1927 e due anni dopo si unì con la compositrice americana Ruth Crawford che aveva studiato con Alban Berg, Bela Bartok e Arthur Honegger. Qualche anno dopo i due entrarono a far parte del Composers’ Collective, vicino al partito Comunista Americano. L’ideale compositivo di Charles Seeger era quello, come scrisse David Nicholls in “American Experimental Music”, che “la musica dovesse provenire sia dalla testa che dal cuore per poter essere compresa”, senza, per questo rifiutare le dissonanze e le complessità degli studi armonici contemporanei.

Gran parte dell’innovativa opera compositiva del padre andò distrutta in un incendio nel 1923, ma quell’idea di musica che doveva tener conto della testa e del cuore fu sicuramente trasmessa al figlio e fu, anche, alla base delle ricerche etnomusicologiche di John e Alan Lomax, padre e figlio, che avrebbero raccolto la più grande collezione di musica popolare americana e mondiale tra gli anni trenta e sessanta del ‘900. Per poi essere costretti a lasciare gli Stati Uniti nel periodo della caccia alle streghe del senatore Mc Carthy.

Charles si era associato a John Lomax nel 1933 e aveva finito coll’influenzarne il figlio Alan con le sue idee di sinistra e, allo stesso tempo, all’epoca dei Fronti Popolari, aveva abbandonato le sue composizioni più avanguardistiche a favore di una musica più semplice e popolare. In seguito sarebbe divenuto, sotto l’amministrazione Roosvelt, direttore del Programma Federale per la Musica, mentre Ruth Crawford , oltre che continuare a comporre, si occupò della trascrizione delle registrazioni sul campo fatte per l’Archivio Americano della Canzone Popolare per la Libreria del Congresso e in seguito avrebbe curato proprio il secondo volume della raccolta di musica folk fatta dai due Lomax. Perseguitato dal Federal Bureau of Investigation per i suoi trascorsi, Charles Seeger, che aveva anche composto delle opere musicali in onore di Sacco e Vanzetti e dei lavoratori cinesi sfruttati nelle lavanderie americane, dovette, nella prima metà degli anni cinquanta, rassegnare le sue dimissioni dagli incarichi governativi, ma avrebbe continuato a condurre i suoi studi di etnomusicografia presso l’Università di Los Angeles fino alla morte, avvenuta nel 1979.

Perché dilungarsi tanto sulla vita del padre di Seeger? Proprio perché nel suo percorso biografico ed intellettuale sono già compresi tutti gli elementi che avrebbero poi caratterizzato le concezioni musicali di Pete e del folk revival in generale. Nel bene e nel male, poiché tale recupero della tradizione popolare e proletaria della canzone e della musica americana era fortemente infarcita dalle scelte operate dai partiti comunisti dell’età del Comintern e del Cominform e, per questo motivo soggetto a cambi di contenuto e di interpretazione che avrebbero continuato a manifestarsi (anche attraverso un certo conservatorismo musicale) fino ai primi anni sessanta.

Dopo aver incontrato Woody Guthrie, Pete abbandonò gli studi di sociologia ad Harvard e si dedicò a tempo pieno all’impegno politico musicale, prima con gli Almanac Singers2 e poi con i Weavers, sempre decisamente schierato sul lato sinistro della barricata. Cosa che gli costò un severo ostruzionismo artistico e politico negli anni di Mc Carthy, ma che sarebbe poi stata premiata sul finire degli anni cinquanta con i successi ottenuti dai Weavers e, in particolare, con la trascrizione e reinterpretazione della canzone sud africana “Wimoweh”, che sarebbe diventata più nota nella sua interpretazione solista come “The Lyon Sleeps Tonight”.

Rimasto comunista e marxista anche dopo aver abbandonato il Partito Comunista Americano, a seguito della denuncia dei crimini di Stalin e dello stalinismo avvenuta durante il XX congresso del Partito Comunista dell’URSS, Pete Seeger non ebbe un rapporto facile e lineare con i movimenti radicali degli anni sessanta. Prova ne sia proprio il suo controverso rapporto con Bob Dylan che, dopo essere stato un suo beniamino in quanto nuova promessa della musica folk tradizionale, sarebbe poi stato fieramente osteggiato da Pete che si sentì tradito dalla svolta elettrica del menestrello di Duluth. Come ben dimostrano le immagini del Festival di Newport del 1965, in cui si può vedere un Seeger stravolto, fermato a stento da altri partecipanti al festival, mentre tenta di andare a tagliare con un’ascia i cavi della strumentazione elettrica di Dylan e della sua band.

Fiero oppositore della guerra in Vietnam, contro la quale si battè con veemenza e più che esplicite dichiarazioni, spesso sabotate dai media, vide poi le proprie composizioni raggiungere i successo proprio attraverso la rilettura che ne diedero gruppi elettrici come i Byrds (“Turn! Turn! Turn!” e “The Bells of Rhymney”), mentre la sua “Where Have All the Flowers Gone?” sarebbe diventata un vero inno, reinterpretato da infiniti cantanti e gruppi, del movimento contro la guerra in Indocina.

Spostatosi negli anni successivi sul versante della lotta ecologista, Pete Seeger ha continuato a comporre, cantare e partecipare come suonatore di banjo a numerosi album, anche di altri musicisti, come il bellissimo “My Name Is Buddy” di Ry Cooder ha ancora dimostrato nel 2007. Certo la sua opera principale rimane, però, l’interpretazione, spesso per voce sola e banjo, del grande patrimonio musicale americano, raccolta nei numerosi album dedicati alle American Favorite Ballads e alle American Industrial Ballads incisi per la Folkways sul finire degli anni cinquanta e ancora oggi facilmente reperibili su cd.

C’è infine da ricordare che anche il fratello Mike (1933 – 2009) e la sorella Margaret “Peggy” (1935) hanno avuto un importante ruolo nella storia e nello sviluppo del folk revival. Il primo, esperto suonatore di autoharp, banjo, violino, dulcimer, armonica a bocca, chitarra, mandolino, dobro, scacciapensieri, e flauto di Pan ha contribuito, con i suoi New Lost City Ramblers tra il 1958 e il 1973, ad un recupero estremamente filologico del suono tradizionale americano a cavallo tra la fine dell‘ottocento e i primi trent’anni del ‘900; mentre la sorella, dopo aver avuto il passaporto ritirato negli anni cinquanta per una visita non autorizzata nella Cina comunista, è vissuta quasi sempre in Europa dove è stata sposata per oltre trent’anni con il musicista Ewan McColl e dove ha contribuito alla formazione del Critics Group che raccoglieva giovani esecutori di musica tradizionale delle isole britanniche o di composizioni nuove ma ispirate alle strutture musicali tradizionali.

Autore di un importante manuale destinato ai suonatori del banjo a cinque corde, Pete Seeger ha influenzato e contribuito all’affermazione e al successo di gruppi come il Kingston Trio, Peter, Paul and Mary, i Mamas and Papas e di riviste politico-musicali come Broadside (uscita indefessamente tra il 1962 e il 1988) fino alle voci più recenti del movimento neo-folk. Con lui se n’è andato l’ultimo, grande testimone di una stagione, forse si potrebbe dire di un secolo, che con tutte le sue contraddizioni non ha mai dimenticato quanto fosse importante da che parte della barricata ci si schierava. Grazie Pete di essere stato con noi e di averci accompagnato, per tanti anni, nelle lotte con le tue canzoni.


  1. Bruce Springsteen, We Shall Overcome. The Seeger Sessions, Columbia – Sony 2006 

  2. Creati nel 1941 furono di fatto il gruppo musicale che, fondendo lo stile musicale delle string band degli stati del Sud con aspetti del cabaret newyorkese, contribuì a definire lo stile di quello che sarebbe poi stato il folk revival. Pete Seeger nel gruppo iniziò a suonare quello che sarebbe stato per sempre il “suo” strumento: il banjo a 5 corde  

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