classe – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 01 Dec 2025 23:04:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ uno sporco lavoro /4: Il primo vertice antiterrorismo internazionale – Roma 1898 https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/e-uno-sporco-lavoro-4-il-primo-vertice-antiterrorismo-della-storia-e-la-continuita-repressiva-dello-stato-italiano-e-dei-suoi-molteplici-governi/ Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91213 di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora per poco considerato lo sviluppo quasi autonomo dei social e dell’AI.

A confermarcelo, con dovizia di documenti e dettagli, è il corposo volume edito da Malamente e curato da Giulio Saletti, giornalista, cronista, ghostwriter e portavoce di cariche istituzionali. Un testo in cui, per la prima volta in Italia, vengono riportati integralmente i documenti prodotti a seguito della «Conferenza internazionale per la difesa sociale contro gli anarchici», tenutasi a Roma dal 24 novembre al 21 dicembre 1898 a seguito dell’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, avvenuto il 10 settembre di quello stesso anno a Ginevra.

Probabilmente, però, a preoccupare il governo italiano, promotore della conferenza, più che l’attentato alla principessa di Baviera “Sissi”, in seguito santificata e glorificata in una serie infinita di biografie romanzate, film e serie televisive, erano stati i moti e le insorgenze che da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarebbe stato inviato il generale Pelloux che dopo la caduta del governo Rudinì nel giugno del 1898 fu incaricato dal re Umberto I di formare un gabinetto in cui assunse anche il dicastero dell’interno facendosi promotore della conferenza anti-anarchica, alla Sicilia e a Napoli, in occasione del 1° maggio 1898 avevano visto passare la popolazione meridionale dalla sollevazione alla rivolta. E poiché dappertutto le classi dominanti mostrarono di voler curare la fame con le fucilate, a partire dal 2 maggio la rivolta si era estesa alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord1.

Proprio a Milano, dal 6 al 9 maggio, si ebbe la sollevazione più sanguinosa, durante la quale la classe operaia milanese fu presa a cannonate dal generale Bava Beccaris, dando vita ad un periodo di repressione che permise al governo di mettere fuori legge il Partito Socialista, costituitosi a Genova nel 1892, ma che allo stesso tempo diede inizio ad un nuovo periodo di attentati di cui la vittima più illustre sarebbe stato proprio il re d’Italia Umberto I, caduto sotto i colpi di pistola di Gaetano Bresci a Monza, il 20 luglio del 1900.

E’ in questo contesto, quindi, che va collocata una conferenza che avrebbe costituito il primo esempio di vertice antiterrorismo a livello europeo e che, anche se destinata a dare scarsi risultati immediati, avrebbe contribuito, come afferma il curatore, alla «conversione marcatamente politica dell’ordine pubblico in ordine “governativo o di maggioranza”, che è passaggio non trascurabile nel processo generale di State building e di organizzazione degli spazi di rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica»2.

Un evento spesso trascurato dalla storiografia italiana, anche da quella che si è occupata del movimento operaio e delle sue lotte, ma che obbliga a riflettere su una serie di nodi ancora tutti da sciogliere nell’ambito della storiografia dei movimenti di classe e delle contromisure messe in atto nei loro confronti dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali e militari.

Uno dei motivi di tale trascuratezza, se non addirittura di disinteresse, nei confronti di un evento destinato a rifondare l’immaginario politico del ‘900, non solo italiano, va rintracciato, secondo Saletti, in una certa abitudine ad una «velata resistenza culturale a riconoscere ruolo e specificità dell’anarchismo nella genesi e nello sviluppo dei movimenti di massa e dell’antagonismo di classe tardo-ottocentesco»3, che ha fatto sì che gli studi sull’anarchismo scontino ancora una certa marginalità all’interno dello studio dei movimenti socialisti ed operai europei, nonostante la ripresa dell’interesse nei suoi confronti sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni.

Una rimozione e sottovalutazione che se giustificata dal punto di vista “borghese” e istituzionale, non può esserlo altrettanto quando ad occuparsi della storia delle esperienze di lotta, insorgenza e organizzazione proletaria siano studiosi di formazione socialista o marxista. Eppure, eppure… proprio quest’ultima osservazione ci permette di sviluppare alcune considerazioni che, pur travalicando i limiti specifici dello studio di Saletti e dei documenti annessi, possono essere d’aiuto per una nuova storiografia dei movimenti di classe in tutte le loro manifestazioni.

Manifestazioni spesso disordinate, disorganizzate, violente, improvvisate ma sempre originate da un radicale rifiuto delle condizioni di esistenza proposte dal modo di produzione capitalistico, dalle sue leggi di mercato e dai suoi istituti proprietari e finanziari, contro cui le moltitudini dei diseredati sembrano battersi fin dall’avvento della società mercantile a cavallo tra XIII e XIV secolo, se non già da prima per il tramite delle prime eresie medievali.

Il termine eresia deve, però, essere inteso al di là dello specifico contesto religioso per trascendere, come suggeriva lo scomparso Emilio Quadrelli, l’intero pensiero politico, anche nelle sue manifestazioni classiste e antagoniste4. Considerato che, affinché possa esistere un’eresia, deve per forza sussistere anche un’ortodossia che possa essere trascesa e criticata.

In questo caso la netta separazione tra storia dell’anarchismo e del movimento operaio socialista risponde ad una necessità tutta di ordine ideologico, messa in campo sia da una che dall’altra parte fin dai tempi di Marx e Bakunin, che vede però, proprio nella componente marxista e socialista, una consistente resistenza ad accettare il movimento anarchico come parte integrante del movimento storico per il ribaltamento dell’ordine sociale dettato dagli interessi d’impresa e del capitale.

Per questo motivo si rende sempre più necessario, almeno dal punto di vista storiografico, il superamento di un’impasse che da troppo tempo limita e divide in comparti stagni la comprensione di movimenti che hanno comportamenti e radici materiali comuni. E che nella spontaneità delle insorgenze e nella loro rapida caducità hanno un comune denominatore.

Spontaneità o spontaneismo di cui l’interpretazione anarchica delle contraddizioni sociali e della loro risoluzione radicale sembra fare il vettore principale di, quasi, ogni iniziativa politica e organizzativa. Caducità che spinge, dal lato del marxismo o del socialismo ortodosso, alla ricerca di formule organizzative (partito, cellule, centralizzazione direttiva) capaci di impedire lo sfaldamento delle esperienze, sia dopo la loro riuscita che a seguito di una sconfitta.

Due interpretazioni dello scontro e delle sue forme che spesso non possono fare altro che ostacolarsi l’una con l’altra. Soprattutto da parte di quelle interpretazioni marxiste più rigide che pur di salvaguardare organizzazione e prospettive politiche definite in linea teorica “una volta per tutte”, rinunciano a partecipare allo scontro e alle sue manifestazioni concrete, adducendo problemi di “arretratezza” sociale oppure di inadeguatezza politica, giungendo troppo spesso a tacciarle di avventurismo se non addirittura accusarle di esser null’altro che il prodotto di agenti provocatori.

Una storia rintracciabile, almeno qui in Italia, nell’atteggiamento di Turati nei confronti della Settimana rossa del 1914, quando sull’alba del primo conflitto imperialista le manifestazioni antimilitariste furono violentemente represse a partire da Ancona oppure nelle riserve che lo stesso Partito socialista ebbe nei confronti ancora dell’insurrezione torinese del 1917 o nell’abbandono a se stessi dei manifestanti proprio in occasione delle giornate del maggio 1898 a Milano5.

Anche il Partito comunista italiano, il PCI, prima adeguandosi al volere del Comintern e del Cominform e in seguito memore dall’atteggiamento staliniano nei confronti di ogni opposizione alle direttive di partito, non esitò mai, fino alla fine dei suoi giorni, nel condannare qualsiasi iniziativa spontanea della classe nei confronti del comando capitalista. Fascisti, provocatori e traditori, a seconda dei periodi, furono sempre definiti i giovani, gli operai, le donne che dal secondo dopoguerra in poi, passando per piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962 fino alle lotte autonome degli anni Settanta insorsero spontaneamente e, spesso, violentemente contro la dittatura del lavoro salariato.

Questo, però, non poteva far altro che avvantaggiare il nemico di classe nella sua azione sia divisa che repressiva nei confronti della classe operaia o degli strati sociali marginali della società, nei confronti dei quali la definizione spesso utilizzata di lumpenproletariato, più che attenersi a quella marxiana di proletariato marginale oppure momentaneamente escluso dal lavoro, si trasformò in autentico stigma, tradotto come sottoproletariato ovvero la classe più degradata, non solo dal punto di vista economico ma anche, e forse soprattutto, morale, priva di alcuna forma di coscienza di classe, o almeno di ciò che il partito ritiene tale, e non organizzata nei sindacati ufficiali.

Una classe, secondo questa diminutiva e offensiva interpretazione del termine, i cui componenti oltre ad essere accusati di trarre il loro reddito da occupazioni vicine all’illegalità (furto, prostituzione, imbrogli di vario genere), proprio per la loro miseria culturale e politica potrebbero facilmente essere preda delle idee più retrograde e reazionarie.

Però, pur essendo vero che porzioni immiserite della società e della classe lavoratrice esclusa dal lavoro possono esser facilmente preda delle rivendicazioni reazionarie e fasciste, è altresì vero che anche porzioni significative di classe operaia, quella un tempo definibile come aristocrazia operaia e oggi inquadrata nel cosiddetto ceto medio produttivo, hanno spesso aderito e ancora aderiscono a tali rivendicazioni di stampo razzista, nazionalista e sessista. Come l’elettorato di Trump può ben dimostrare oggi.

Tutti fattori che nella criminalizzazione di ogni dissenso, non allineato con il discorso ordinativo di carattere socialista e socialdemocratico un tempo e liberal-democratico oggi, trovano lo strumento ideologico più adatto sia per il controllo sociale da parte dello Stato che di quello politico e sindacale da parte di tutti quei partiti, istituzionali e non, che della conservazione o della riforma dell’esistente in nome del progresso hanno fatto il loro, anche se spesso non dichiarato, fine ultimo.

Ma per tornare ai tempi di cui tratta la ricerca di Saletti, occorre ricordare come, almeno per l’Italia, fu lo stesso Engels, in qualità di segretario per l’Italia dell’Alleanza internazionale dei lavoratori, a tracciare una linea distintiva tra socialisti e rivoluzionari autentici, ovvero coloro che aderivano alle idee e ai programmi del socialismo cosiddetto poi autoritario e coloro che, aderendo ancora all’Internazionale bakuninista o antiautoritaria, tradivano la causa del proletariato e della sua emancipazione. Un giudizio spesso greve che allontanò dal socialismo marxiano Carlo Cafiero, che pur era stato il primo a divulgare in Italia un compendio del Capitale di Karl Marx da lui stesso tradotto, per trasformarlo sostanzialmente in uno dei primi e più importanti esponenti dall’anarchismo italiano.

Un giudizio negativo espresso da Engels, soprattutto sul socialismo meridionale6 che sembrava dimenticare che non solo a Napoli, il 31 gennaio 1869, era stata fondata da una società operaia partenopea, la Società operaia di Napoli come fu in seguito designata, la prima sezione italiana dell’Internazionale «che aderì pienamente agli statuti dell’Associazione e si costituì in Comitato centrale per tutta l’Italia»7, ma anche che proprio nella parte meridionale del Regno d’Italia per dieci anni si era svolta quella che in tempi recenti lo storico Gianni Oliva ha definito la Prima guerra civile italiana, ovvero quella che per decenni, se non per più di secolo, è stata troppo spesso, superficialmente oppure opportunisticamente, accomunata al brigantaggio8.

E qui, per ricollegare il tutto al tema del testo edito da Malamente, va ricordato che la resistenza contadina e sociale del Sud, pur con tutte le sue inevitabili contraddizioni, aveva anche rappresentato la prima guerra civile “europea” dopo la fine della Restaurazione, prima ancora della Comune di Parigi che si sarebbe rivoltata contro lo stato francese e Napoleone III soltanto nel 1871. Una guerra civile, quella nel Sud dell’Italia, che aveva anche richiesto da parte dello stato unitario l’emanazione di una prima legge speciale, la legge Pica del 1863, che di fatto per la prima volta definiva una legislazione eccezionale destinata a contenere, reprimere e punire pesantemente i disordino sociali e i loro protagonisti.

Una legge, che nell’iniziale fase di stesura, nell’ambito dei provvedimenti eccezionali da prendere prevedeva la deportazione dei condannati per i fatti di resistenza che avevano iniziato manifestarsi fin dal 1861, e di cui la rivolta di Bronte dell’agosto 1860 in Sicilia, aveva già rappresentato un significativo esempio.

Sin dall’inizio della campagna di Vittorio Emanuele II nel Sud, il governo di Torino ha trasferito i soldati borbonici prigionieri di guerra nelle isole del Tirreno o in zone remote dell’Italia settentrionale, e a mano a mano ha affiancato loro gli «sbandati» e i «camorristi». Nel 1861 il governo Ricasoli ha cominciato a pensare ad un progetto organico di deportazione di «briganti e manutengoli» in luoghi lontani dall’Italia, sull’esempio di quanto ha sempre fatto la Francia nella Guyana e in Madagascar; il successivo governo Rattazzi ha proseguito su quella strada, facendo sondaggi con i diplomatici portoghesi sulla possibilità di impiantare stabilimenti penali in Mozambico o nelle colonie portoghesi del Pacifico (Timor, Macao, Goa) e ha cercato di definire forme di compartecipazione italiana alla sovranità su territori non ancora completamente assoggettati da Lisbona; appena insediato, il governo Minghetti ha apprestato una fregata della Regia marina destinata a partire per i mari dell’Australia e studiare la praticabilità degli stabilimenti di deportazione, ma ha dovuto fermarsi per l’intervento di Napoleone III e dell’Inghilterra, preoccupati che l’istituzione di colonie penali fosse la copertura di un’ambizione espansionistica dell’Italia 9.

Cosa di cui questi ultimi due governi si intendevano assai, considerate sia la deportazione in Algeria dei rivoltosi del 1848 francese, proprio da parte di Napoleone III, che quella dei sottoproletari, ribelli irlandesi e donne di “malaffare” portate avanti dal Regno Unito verso l’Australia a partire dal progetto di colonizzazione inglese di quel continente iniziato nel 178710. Elemento che obbliga ancora una volta a riflettere come nei progetti legislativi e repressivi dei governi statali moderni repressione del dissenso, rimozione degli indesiderati e colonialismo siano portati costantemente avanti in parallelo. Fino agli attuali centri di detenzione per immigrati in Albania previsti dall’attuale governo Meloni che oltre ad allontanare gli stranieri indesiderati dal territorio nazionale rilancia virtualmente anche il progetto, in auge fin dalla Prima guerra mondiale e mai abbandonato del tutto, di controllare l’altra sponda del mare Adriatico proprio là dove questo si restringe maggiormente. Senza dimenticare come la legislazione anti-mafia sia sempre stata utilizzata anche al di fuori dei suoi presunti confini per colpire la dissidenza politica, con l’uso dell’articolo 41bis oppure, come si è tentato recentemente a Torino, di dichiarare comportamento mafioso il saluto portato da un corteo di militanti Pro-Pal ad una compagna detenuta agli arresti domiciliari (qui).

Queste le radici su cui poggiava i piedi la convocazione del primo congresso internazionale contro il terrorismo “anarchico” in uno Stato che della repressione popolare e della dissidenza armata aveva già fatto lunga esperienza, sia politico-legale che penale e militare, e a cui la ricca e dettagliata documentazione compresa nel saggio di Giuio Saletti porta un più che significativo contributo per la comprensione non soltanto della repressione della dissidenza anarchica e classista in tutte le sue forme politiche e organizzative, ma anche dei successivi passi intrapresi in direzione della repressione delle lotte sociali durante tutta la storia dello stato italiano fin dalla sua fondazione, passando per le leggi speciali del Fascismo e quelle antiterrorismo della prima repubblica insieme all’uso del 41bis, fino all’attualità politico-governativa odierna. Che con la Legge 9/6/2025 n.80, meglio nota come Decreto sicurezza, non ha fatto altro che continuare una tradizione repressiva che ha preceduto ed è continuata ben oltre il Fascismo storico.

Una continuità della percezione del pericolo, per l’ordine borghese, rappresentato dall’anarchismo e dalla lotta di classe che farà sì che intorno allo stesso o a ciò che si intende per esso, fin dal congresso del dicembre 1898, si vada:

concentrando, ritagliando e raffinando una ‘giurisdizione penale del nemico’ attraverso l’invenzione del delitto sociale (in realtà coincidente con il “delitto anarchico”) quale stabile e organico stato di eccezione che ingloba e va oltre il ‘duplice livello di legalità’– norme del fatto e della colpevolezza/norme del sospetto e della pericolosità – alla base degli ordinamenti penali sul finire del diciannovesimo secolo.
In questo quadro la conferenza di palazzo Corsini, generando una koinè giuridica continentale attraverso la certificazione dell’impoliticità del delitto anarchico, è appunto il tentativo, in una prospettiva nitida (seppure ancora ideale) di ‘universalismo penale’, di imporre su scala europea strumenti normativi e repressivi omogenei e comuni e istituzionalizzare una prima forma di cooperazione tra le polizie contro una minaccia percepita e pervicacemente agitata dalla borghesia d’ordine come il tangibile “danger international permanent” di quegli anni.
[Cosicché] Nel corso della seconda seduta plenaria all’unanimità passa la proposizione di principio, suggerita dall’ambasciatore russo, che «l’anarchisme n’a rien de commun avec la politique» e che pertanto non sarebbe stato trattato, in sede di conferenza, come una dottrina politica. Una decisione in qualche modo scontata, e tuttavia giuridicamente incisiva perché imprime esiti obbligati alla discussione decretando da subito che quello anarchico è delitto impolitico, assimilabile al reato comune e in quanto tale sottratto al favor rei (specie per ciò che riguarda il divieto di estradizione) riconosciuto dagli ordinamenti liberali ai reati politici. E dunque, quando a metà dicembre in seno alla sottocommissione si affronterà l’argomento, sarà agevole stabilire che l’atto anarchico sarebbe stato passibile d’estradizione se giudicato reato nel paese richiedente e in quello richiesto; che estradabili sarebbero stati anche i reati ‘satellite’ (quali la preparazione dell’atto anarchico e la fabbricazione di esplosivi, l’associazione organizzata, l’istigazione e l’apologia dell’atto anarchico); e che l’atto anarchico, per l’appunto, non sarebbe stato considerato delitto politico ai fini dell’estradizione11.

La conferenza di Roma sembra così porre le basi, almeno dal punto di vista teorico, di tutta la giurisdizione penale d’eccezione a livello internazionale fino ai nostri giorni e se precedentemente si è parlato della netta separazione avvenuta tra socialismo e anarchismo occorre qui ricordare che era di pochi anni prima la pubblicazione da parte del socialista positivista Cesare Lombroso del testo Gli anarchici (1894), in cui dall’iniziale collegamento tra dati antropometrici e pulsione alla violenza dei criminali comuni lo studioso aveva tratto indicazioni per studiare gli stessi effetti sui comportamenti dei militanti anarchici12. Contribuendo, anche solo indirettamente, a far sì che:

Il terreno sul quale la conferenza raggiunge intese significative è comunque quello delle misure amministrative e dell’attività di polizia, sul piano ad esempio del metodo antropometrico di identificazione dei criminali, al punto che si ritiene – non senza fondamento – che l’International Criminal Police Organization (ossia l’Interpol) «in several ways can be considered a descendant or at least a step-child of the Rome Conference». Su iniziativa tedesca, i delegati approveranno all’unanimità la proposta di istituire in ogni paese una ‘agenzia centrale’ alla quale affidare il compito di controllare in segreto gli anarchici agevolando lo scambio diretto di segnalazioni e informazioni13.

E anche se il testo finale della conferenza fu approvato ad referendum escludendo così impegni vincolanti per gli stati che vi avevano preso parte lasciando alla valutazione discrezionale di ciascun governo se e a quali proposte dare attuazione, la cosa non avrebbe impedito all’ammiraglio Canevaro di affermare, nel congedare i delegati: «Che anche se tutti gli scopi che alcuni di noi si erano prefissi non sono stati pienamente raggiunti, possiamo tuttavia ritenere che i nostri coscienziosi sforzi per il raggiungimento di un più adeguato ordinamento giuridico sono lontani dall’esser rimasti sterili»14,


  1. Per il clima politico generale in cui si svolse la conferenza si veda: U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 1977.  

  2. G. Saletti, Gli anarchici, la conferenza di Roma e il delitto sociale, introduzione a I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, p. 17.  

  3. Ivi, p. 17.  

  4. Si veda in proposito: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  5. Come possiamo ricostruire a partire da una testimonianza inaspettata, quella di Camillo Olivetti, futuro fondatore dell’omonima industria eporediese, in una lettera alla moglie Luisa Revel di qualche anno successiva ai fatti: «Nel maggio ’98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto, molto meglio che gli uomini che eran sul sito, che qualche cosa doveva succedere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri, che per così dire eran a capo del partito, avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. […] A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero né frenare né comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella! Visto che a Milano non vi era nulla da fare, me ne andai a Torino, ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione […] Dopo questa disillusione a poco a poco mi ritirai dalla vita politica» (C. Olivetti, Lettere Americane, Fondazione Adriano Olivetti, 1999).  

  6. Si veda in proposito: P. C. Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche , umaniste e libertarie della democrazia italiana, Editoriale Nuova, Milano 1978.  

  7. G. de Martino, V. Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori editore, Napoli 2004, p.131.  

  8. G. Oliva, La prima guerra civile. Rivolte e repressioni nel Mezzogiorno dopo l’Unità, Mondadori Libri S.p.a., Milano 20255.  

  9. G. Oliva, La prima guerra civile, Mondadori, Milano 2025, pp. 33-34.  

  10. Si veda in proposito: R. Hughes, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi Edizioni, Milano 1990.  

  11. G. Saletti, op.cit., pp.18-24.  

  12. Si veda in proposito: M. Bucciantini, Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.  

  13. G. Saletti, op. cit., p.25.  

  14. Cit. in G. Saletti, op. cit., p. 27 – traduzione a cura del recensore.  

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Contro il militarismo e la logica del nemico, la nostra parte non è già data https://www.carmillaonline.com/2025/10/08/contro-il-militarismo-e-la-logica-del-nemico-la-nostra-parte-non-e-gia-data/ Tue, 07 Oct 2025 22:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90044 di Fabio Ciabatti

∫connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 116, € 15,00

Di fronte “a ogni guerra la prima richiesta è sempre e comunque che le armi tacciano”. Ciò nonostante, “il nostro problema non è solo condannare la guerra ma anche opporre alla sua dura realtà parole e pratiche che essa non sia in grado di governare”.  Se questo non avviene possiamo ottenere al massimo una tregua che non consente di cancellare le cause dei conflitti bellici. Queste considerazioni, che troviamo nel libro “Nella Terza guerra mondiale. Un lessico [...]]]> di Fabio Ciabatti

connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 116, € 15,00

Di fronte “a ogni guerra la prima richiesta è sempre e comunque che le armi tacciano”. Ciò nonostante, “il nostro problema non è solo condannare la guerra ma anche opporre alla sua dura realtà parole e pratiche che essa non sia in grado di governare”.  Se questo non avviene possiamo ottenere al massimo una tregua che non consente di cancellare le cause dei conflitti bellici. Queste considerazioni, che troviamo nel libro “Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente”, assumono particolare rilievo in considerazione della tragica scelta che deve affrontare Hamas, insieme alle altre formazioni armate palestinesi, di fronte al cosiddetto piano di pace di Trump: continuare la lotta armata facendo proseguire l’immane carneficina o arrendersi per interrompere il supplizio che comunque proseguirà, anche se, presumibilmente, con tempi più lunghi e modalità meno feroci. La resistenza palestinese sembra davvero trovarsi di fronte a una drammatica impasse. E allora, per non lasciarsi bloccare in questo vicolo cieco può essere utile adottare uno sguardo diverso nei confronti della coraggiosa lotta della popolazione di Gaza (e della Cisgiordania) con l’obiettivo di prefigurare possibili via di fuga dal tragico stallo a cui sembra destinata. Anche perché bisognerà in qualche modo approfittare delle condizioni tutt’altro che ideali in cui si trova oggi lo stato sionista, lacerato da profonde contraddizioni interne e investito da una diffusa condanna internazionale.
Certo, di fronte a un genocidio, ci si può legittimamente chiedere se sia possibile mantenere uno sguardo lucido sugli aspetti critici della resistenza palestinese senza divenire complici dei carnefici israeliani. O senza scadere in un eurocentrismo che solidarizza con i popoli oppressi solo finché non si ribellano perché, con i mezzi a loro disposizione, raramente lo possono fare rispettando il preteso bon ton occidentale. Sicuramente, non teme di andare controcorrente rispetto all’opinione diffusa nella sinistra, compresa quella radicale, l’autore collettivo che ha dato alle stampe il testo qui recensito. Si tratta di ∫connessioni precarie, un’area politica che assume come obiettivo centrale della sua analisi e della sua attività pratica la condizione globale e differenziata del lavoro contemporaneo che è sottoposto all’intreccio tra patriarcato, sfruttamento e razzismo. Benché Nella Terza guerra mondiale non sia un testo dedicato alla questione palestinese, come si può facilmente capire dal titolo, crediamo valga la pena partire da ciò che sta accadendo in Medio Oriente perché, dato il suo carattere estremo, può rappresentare un’utile cartina di tornasole per valutare le tesi di questo agile ma densa pubblicazione. Ebbene, la risposta dell’autore collettivo è che si possono criticare i movimenti di resistenza, compreso quello palestinese, anche se questo non significa minimamente praticare una facile equidistanza tra oppresso e oppressore. Significa, invece, non farsi risucchiare nella logica che costruisce nemici esistenziali al di fuori di ogni considerazione dei rapporti sociali, sessuali e storici all’interno dei quali maturano i conflitti.

Spesso si sente dire che gli occidentali, in qualità di alleati della lotta palestinese, possono solo ascoltare e sostenere “l’unica parola autentica, e quindi giusta e incontrovertibile”:1 la parola pronunciata dai palestinesi. Ovviamente per l’autore non si tratta di mettere in dubbio il dato di fatto che ciascun popolo oppresso sceglie autonomamente le sue forme di lotta e le sue opzioni politiche. In fin dei conti la resistenza e la necessità di stringere i ranghi per combattere l’oppressore sono prima di tutto determinate dalle condizioni materiali. Ma c’è un altro dato di fatto di cui bisogna tener conto: ogni movimento di liberazione è sempre attraversato da differenti opzioni ideologiche perché qualsiasi popolo oppresso, compresi i palestinesi, non costituisce un corpo omogeneo che vive al di fuori della storia e dei rapporti sociali.
Questa complessità, secondo l’autore, è sostanzialmente ignorata dal pensiero decoloniale che, per certi versi, rappresenta l’opposto speculare rispetto alla pretesa del capitale e degli Stati di stabilire fronti interni omogenei e compatti neutralizzando i rapporti sociali a sostegno del loro posizionamento nell’ambito della Terza guerra mondiale in corso (sulla natura di questa guerra, ovviamente, ci torneremo). Ma è proprio il lessico della decolonialità che ha finito per saturare l’intero discorso sull’attuale conflitto bellico globale per ridurlo a un episodio della secolare guerra dell’Occidente coloniale contro l’Altro resistente e rivoluzionario. Questo approccio si concretizza in una “re-esistenza” finalizzata alla ricostituzione di forme di esistenza precoloniali presuntamente sopravvissute al dominio coloniale. In questo modo la miseria del presente viene rifiutata in nome di un passato mitico, depotenziando la capacità  delle lotte nel sud globale di rappresentare un evento sovversivo e imprevisto della storia, potenzialmente foriero di un’alterità che può essere coniugata solo al futuro.
Il discorso decoloniale, in altri termini, mette capo a conflitti articolati soprattutto sul livello della resistenza che, avendo un carattere sostanzialmente reattivo, si concretizzano in un’azione di contrasto in un campo di forze stabilito dalla controparte, incarnata di volta in volta da un governo, uno Stato, un regime, una piattaforma capitalistica. Di conseguenza la resistenza non è di per sé garanzia di una politica partigiana volta all’emancipazione dallo sfruttamento e dall’oppressione. La flessibilità del discorso decoloniale, infatti, gli consente di prestarsi perfino a curvature etno-nazionaliste che, ancor più della resistenza genericamente intesa, si rafforzano nella logica della guerra, a sua volta rafforzata dalla riproposizione di un intrascendibile dualismo. 

Se l’appello alla resistenza ha contribuito alla riproduzione di una logica di guerra, questo non significa, secondo l’autore, che bisogna abbandonare del tutto il suo linguaggio, a patto di riuscire a riattivare la connessione tra resistenza e trasformazione sociale. Allo stesso modo non bisogna fare a meno delle rotture e delle crepe aperte dalla decolonialità che, come sottolinea il testo, figurano al principio dell’attuale movimento transnazionale del lavoro vivo grazie alla insubordinazioni dei popoli indigeni ecuadoregni, boliviani e chiapanechi, vere e proprie irruzioni del margine nel centro dove regnavano solo libero commercio, proprietà privata, diritti umani e Fukuyama. Ciò significa che, come accaduto più volte in passato, la resistenza può innestarsi dentro momenti organizzativi e progettuali contro lo sfruttamento e l’oppressione riuscendo a trasformare lo stesso campo di lotta e a politicizzare soggetti che non sono già determinati a priori.

Ora, tutto il discorso che abbiamo sommariamente sintetizzato sarebbe difficilmente comprensibile se staccato dalle considerazioni sulla terza guerra mondiale. Essa coincide con la manifestazione più violenta di quello che l’autore definisce il transnazionale, cioè l’attuale configurazione del sistema mondiale caratterizzato dall’impossibilità di imporre un ordine globale stabile e continuativo. In altri termini, siamo di fronte a un disordine non ricomponibile perché la valorizzazione del capitale oggi può avvenire solo a livello globale che, però, allo stato attuale, non è governabile secondo logiche politico-statuali. E ciò vale tanto per la retorica dei dazi trumpiana, indebolita dall’impossibilità del totale disaccoppiamento tra Cina e USA, quanto per l’idea di una moneta comune dei Brics che è impedita dal fatto che l’80% delle transazioni mondiali avviene attraverso il dollaro, sottolinea il testo. Questa tensione si scarica sui singoli stati che sono al tempo stesso necessari e non sufficienti a garantire la disponibilità di risorse umane e materiali per la valorizzazione dei capitali di riferimento. In questo contesto, la guerra rappresenta un salto di qualità decisivo nel disallineamento tra dimensione politica, istituzionale e territoriale dello Stato e dimensione spazio-temporale della valorizzazione nonostante ogni tentativo di rinazionalizzazione o regionalizzazione della produzione.
Assistiamo quindi all’ultimo capitolo in ordine di tempo della crisi della sovranità che però, per quanto monca, rimane lo strumento migliore per affermare regole decise da una governance allargata e mobile costituita da governi, frazioni di capitale, società di investimento multinazionali, thanks thank, centri di ricerca e produzione della conoscenza.
Allo stesso tempo, crisi della sovranità significa incapacità dello Stato di produrre unità nella società attraverso la creazione e la trasmissione di valori comuni. Viene meno la capacità di integrazione sociale e politica sperimentata attraverso i processi di mediazione democratica e, in particolare, per mezzo della mediazione politica e istituzionale tra capitale e lavoro sedimentata nel Novecento. Anche nei paesi capitalisticamente sviluppati elementi autoritari si innestano all’interno di un framework istituzionale che rimane formalmente democratico.

Il tutto si concretizza in un militarismo che si impone anche al di fuori dei teatri propriamente bellici. Un militarismo che bisogna distinguere dalla militarizzazione in senso stretto, cioè dalla mobilitazione totale propria di un’economia di guerra. Si tratta, di fatto, della riproposizione in armi del mantra neoliberale “non c’è alternativa” con un’intensificazione dei suoi contenuti autoritari, patriarcali e razzisti, funzionali alla ridefinizione complessiva delle condizioni dell’accumulazione e dello sfruttamento. Il militarismo, dunque, rilegittima lo Stato non in quanto garante della riproduzione sociale dei suoi cittadini, ma nella sua qualità di attore in grado di esercitare il disciplinamento sociale e la sottomissione della forza lavoro.
Con la cittadinanza svuotata di ogni contenuto sociale e di ogni valenza universalistica, però, resta ben poco dell’imperativo patriottico novecentesco. La logica militarista, in sostanza, è in grado di ricompattare solo retoricamente la nazione attraverso la guerra contro un nemico esterno e interno che può essere di volta in volta diverso. Ciò che rimane è essenzialmente la normalizzazione della violenza come risposta a ogni forma di insubordinazione. Una violenza preparata da decenni di militarizzazione dei confini contro la presunta invasione dei migranti. Non a caso la mobilità di questi ultimi (insieme a quella del capitale) continua a sfidare gli Stati impegnati a impedire che la scelta di migrare si trasformi nella permanenza nelle società di arrivo dove gli stessi cittadini devono fare i conti con il venir meno di garanzie, diritti sociali e tutele.
In ogni caso, il potere sempre più arbitrario nei confronti dei migranti non mira a sigillare le frontiere e fare a meno di loro, ma a regolare e irreggimentare la mobilità della manodopera che deve essere valorizzata come strumento di precarizzazione, frammentazione e coazione, con un effetto disciplinante va ben oltre il lavoro degli stranieri. Insomma gli Stati devono governare una dinamica contraddittoria di attrazione e repulsione che può essere precariamente gestita attraverso il razzismo soltanto fino a quando non emerge una soggettività dei migranti. La violenza degli Stati opera, infatti, per limitare la visibilità delle loro  lotte per depotenziare quelle pratiche organizzative e di conflitto, in primo luogo lo sciopero, con le quali negli anni il lavoro migrante è riuscito a rappresentarsi come forza collettiva.

L’incapacità degli Stati di affrontare i problemi più urgenti del nostro tempo si manifesta anche di fronte alla crisi climatica che, pure, in un primo momento era stata utilizzata come occasione per rilanciare l’accumulazione. La cancellazione dell’ecologia come problema indifferibile in nome dell’emergenza bellica mostra l’impossibilità di Stati e capitale di affrontare questa crisi tramite un’accumulazione capitalistica pianificata. Sta di fatto che il mancato riconoscimento della crisi climatica come questione di classe, a cominciare dal fatto che i suoi effetti colpiscono principalmente i lavoratori e le lavoratrici povere, e la conseguente incapacità di connettere in modo strutturale le lotte ecologiche con quello del mondo del lavoro ha facilitato l’ascesa al potere della destra scettica o negazionista in grado di fare leva sul fondato timore di proletari e proletarie di dover pagare i costi della transizione green.
Dovrebbe essere oramai chiaro che non è più possibile pensare i conflitti climatici al di fuori di un orizzonte di opposizione di classe alla guerra. Questo tipo di opposizione, in realtà, emerge in tutto il libro come l’unica possibile risposta alla crisi del nostro mondo che si concretizza nella terza guerra mondiale. La domanda che ci si pone è dunque la seguente: come è possibile porre fine a questa guerra sottraendola al monopolio geopolitico che fa degli Stati e dei regimi parastatali gli unici attori rilevanti? 

Questa domanda sembrerebbe aprire a scenari irrealisticamente ambiziosi se non si tenesse conto del fatto che è “oltremodo improbabile, e in fondo nemmeno auspicabile, che questa guerra finisca con uno stato vincitore in grado di assurgere a guardiano di un nuovo equilibrio mondiale”2. Il suo esito è ancora aperto.

La guerra mondiale può essere letta tanto come una risposta all’esigenza di un comando sul lavoro vivo a livello mondiale, quanto come evento all’interno del quale si creano inaspettate condizioni affinché si affermi una potenza collettiva del lavoro vivo che è l’unica concreta forza di pace che possiamo aspirare a sostenere.3 

Questa seconda lettura è possibile solo tenendo in considerazione il fatto che nel transnazionale il lavoro vivo è ancora in cerca di organizzazione perché ha una conformazione diversa dal passato:

la classe non è più un’identità operaia data dalla produzione, né può essere superata dalle molteplici identità di razza, sesso e cultura nella riproduzione, ma indica la possibilità della costituzione di un soggetto in azione tra produzione e riproduzione che metta in movimento differenze e contraddizioni caratterizzanti il lavoro vivo di operai, precari, donne e migranti nel mercato mondiale.4

Si possono superare gli attuali rapporti di forza favorevoli al capitale a patto di non immaginare la lotta di classe come scontro tra fronti compatti, come se il paradigma delle nostre lotte dovesse essere ricalcato sulla logica bellica. Oggi, infatti, bisogna fare i conti

con soggetti frammentati, con movimenti transnazionali diversi e molteplici che hanno fatto letteralmente esplodere i presupposti organizzativi e la concezione omogenea della classe dell’internazionalismo storico. Il problema è come approntare processi organizzativi che riescano a dare spazio, voce e continuità al movimento del lavoro vivo attraversando le differenze che lo compongono.5

Un problema che è possibile affrontare solo se siamo in grado  di combattere il capitale sul terreno su cui si costituisce il suo dominio. 

La dimensione transnazionale è l’unica in cui fare delle differenze che ci dividono, contro lo scacco del campismo, il punto di forza di un lavoro organizzativo che si pone come esplicito obiettivo quello di costruire la nostra parte dentro e contro la guerra: fare, in altre parole, della nostra politica di pace la guida pratica per preparare le condizioni di uno sciopero sociale transnazionale contro la guerra e il suo mondo.6 

In sede di commento, possiamo sottolineare che il testo si può sottrarre alle tentazioni del campismo, cioè all’attitudine di schiacciare le lotte sociali sul sostegno a uno specifico campo geopolitico, mettendo in evidenza il concetto di transnazionale, vale a dire l’idea di un ordine mondiale oramai compromesso e non ricomponibile in forza delle attuali logiche della valorizzazione capitalistica. Un’idea tutto sommato condivisibile anche se forse portata all’estremo. In particolare, non è da escludere del tutto la possibilità di una ricostruzione, sulle macerie fumanti una parte cospicua del globo, di nuove gerarchie globali, ben più oppressive di quelle precedenti, qualora nella terza guerra mondiale prevalesse il polo statunitense. In questo senso potrebbe non essere indifferente rispetto allo scontro di classe quale sia l’esito del conflitto geopolitico. Questo non perché si debba ricercare qualche nuovo stato guida, ma solo e soltanto perché la mancata sconfitta del polo cinese e di quello dei Brics lascerebbe lo scenario maggiormente aperto, impedendo il consolidarsi di una nuova gerarchia a livello globale, anche in considerazione dell’estrema improbabilità che si affermi un nuovo e stabile ordine multipolare, dati gli attuali rapporti di forza nell’ambito della presente conformazione del capitalismo transnazionale.  

Ma l’aspetto su cui vorrei maggiormente soffermarmi è quello della costruzione di una soggettività antagonista transnazionale, alla luce di quello che sta accadendo in Palestina. A tal proposito vale la pena citare quanto sosteneva Mahmoud Darwish dopo il massacro di Sabra e Shatila del 1982. A seguito di quelle tragiche vicende, il poeta palestinese affermava che ogni suo compatriota 

è ingombrato dall’incedere incessante della morte e impegnato nella difesa di ciò che rimane della sua carne e del suo sogno… le sue spalle sono contro il muro, ma i suoi occhi rimangono fissi sul suo paese. Non riesce più a urlare, non riesce più a comprendere la ragione del silenzio arabo e dell’apatia occidentale. Può solo fare una cosa, diventare ancora più palestinese… perché non ha altra scelta.7 

Questa scelta sembrerebbe ancora più obbligata oggi, di fronte all’attuale violenza genocida che rappresenta un salto qualitativo anche rispetto alle già efferate vicende del 1982. D’altra parte, questo salto non è il frutto di un singolo stato criminale perché vede l’attiva complicità dei governi e dei capitali nord occidentali (e la sostanziale passività di quelli arabi) a testimonianza di un disordine internazionale di fronte al quale soggetti fino a poco tempo fa capaci di esprimere egemonia provano a rimettere insieme i pezzi a forza, attraverso una violenza fuori scala rispetto ad ogni recente  parametro. La perdita di qualsivoglia limite alla ferocia bellica, come indica l’estrema crudeltà ostentata via social, sembra condannare la resistenza palestinese, sostanzialmente osteggiata dagli attori geopolitici che più contano in Medio Oriente. Rimane da chiedersi se, nelle tragiche condizioni attuali, sia possibile un salto di scala, nel senso auspicato dal testo, che vada al di là della pur legittima rivendicazione di una patria, facendo leva sull’ampia solidarietà ricevuta dai movimenti sociali a livello globale e sulle contraddizioni interne della società israeliana. Queste ultime si sono certamente manifestate con forza, cosa certamente positiva per la sorte dei palestinesi, ma fino ad oggi la solidarietà o la semplice empatia nei confronti della popolazione di Gaza è stata decisamente estranea alla grande maggioranza degli israeliani che si sono mobilitati.

Tutto ciò per dire che l’opzione per un’opposizione transnazionale appare comprensibile anche se non proprio all’ordine del giorno. Il che non significa che non si darà qualcosa di simile. Ma in questo processo di organizzazione di un soggetto strutturalmente molteplice e frammentato potrebbe esserci anche lo spazio per un’identità palestinese (o ecuadoregna, boliviana, chiapaneca, per riprendere gli esempi del libro), intesa non come rivendicazione etno-nazionalista, ma come riappropriazione di una specifica tradizione di lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento da mettere in connessione con altre tradizioni con obiettivi convergenti. Perché, riprendendo ancora Darwish, per rispondere alla domanda cosa significa patria non è sufficiente mostrare una cartina geografica o rievocare la tomba del proprio nonno. “La lotta è la risposta. Se combatti appartieni a qualcosa. La patria è lotta”.8

In ogni caso, quello che sembra difficilmente contestabile è il ragionamento di fondo che si trova nel testo di ∫connessioni precarie: “Rifiutare il militarismo e la logica del nemico significa che la nostra parte non è già data, ma che può costruirsi proprio attraverso l’opposizione alla guerra”.9 


  1. connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 82. 

  2. Ivi p. 20. 

  3. Ivi, p. 101. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, p. 102. 

  6. Ivi, p. 103. 

  7. cit. in Ruba Salih, Gaza e Israele. Ripensare l’umano tra guerra, violenza e trauma coloniale, https://www.globalproject.info/it/mondi/gaza-e-israele-ripensare-lumano-tra-guerra-violenza-e-trauma-coloniale/24664

  8. Mahmoud Darwish, Diario di ordinaria tristezza, in Id, Una trilogia palestinese,  Feltrinelli, Milano 2017, p. 48, edizione Kindle. 

  9. connessioni precarieNella Terza guerra mondiale, cit., p. 54. 

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György Lukács, Emilio Quadrelli e Lenin: tre eretici dell’ortodossia marxista https://www.carmillaonline.com/2025/05/07/il-nuovo-disordine-mondiale-29-limperialismo-lenin-e-la-globalizzazione/ Wed, 07 May 2025 20:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88241 di Sandro Moiso

György Lukács, Lenin, con un saggio introduttivo di Emilio Quadrelli e una lezione di Mario Tronti, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 190, 18 euro

La recente ripubblicazione da parte di DeriveApprodi del testo su Lenin di György Lukács (1885-1971), accompagnato da una corposa introduzione di Emilio Quadrelli (1956-2024) oltre che da un’appendice contenente una lezione di Mario Tronti, permette, tra le tante altre cose, di riflettere approfonditamente sui temi dell’eresia e dell’ortodossia nell’ambito della teoria marxista.

In questo contesto, secondo chi qui scrive, si possono rivelare di grande acume le riflessioni di Lukács e Quadrelli sul significato [...]]]> di Sandro Moiso

György Lukács, Lenin, con un saggio introduttivo di Emilio Quadrelli e una lezione di Mario Tronti, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 190, 18 euro

La recente ripubblicazione da parte di DeriveApprodi del testo su Lenin di György Lukács (1885-1971), accompagnato da una corposa introduzione di Emilio Quadrelli (1956-2024) oltre che da un’appendice contenente una lezione di Mario Tronti, permette, tra le tante altre cose, di riflettere approfonditamente sui temi dell’eresia e dell’ortodossia nell’ambito della teoria marxista.

In questo contesto, secondo chi qui scrive, si possono rivelare di grande acume le riflessioni di Lukács e Quadrelli sul significato rivestito dall’imperialismo all’interno del pensiero di Lenin, all’epoca fenomeno, appena definito nelle sue linee essenziali dal testo del liberale inglese John A. Hobson del 1902 (Imperialism), che aveva contribuito a dare vita ad una “prima globalizzazione” del mercato e dell’economia mondiale grazie anche a comunicazioni più rapide ed efficienti e all’integrazione dei paesi non industrializzati nell’orbita dei processi industriali, come fornitori di materie prime. Motivo per cui continenti interi e vaste regioni del globo furono stravolte per adattare l’ambiente e la popolazione all’estrazione di metalli o altre materie prime oppure per avviare monoculture estese (cotone, caffè, tè, caucciù, cacao) destinate a rifornire le industrie di trasformazione e i mercati europei, ma servendo anche come mercati in cui riversare il surplus di merci e manufatti prodotti dalle fabbriche europee.

Anche se l’espansione imperiale inglese risaliva a ben prima, preceduta da quella coloniale portoghese, spagnola e olandese, sarebbe stato il Congresso di Berlino, svoltosi tra il 15 novembre del 1884 ed il 26 febbraio del 1885, a rendere visibili gli appetiti espansionistici dei governi ed degli imperi europei con la spartizione (con carte geografiche, righelli, squadre e squadrette “nautiche” alla mano) del continente africano. Una sorta di grande nulla o di carta geografica bianca e “muta” cui solo la volontà degli imperialismi europei avrebbe “potuto” dare un volto e un senso compiuto, secondo le logiche di quello che all’epoca veniva indicato come white man burden ovvero il compito dell’uomo bianco di civilizzare il resto del mondo.

Detto questo però, e facendo ancora un passo indietro, occorre ricordare come questo fenomeno e questa tendenza irrefrenabile del capitalismo ad ampliare il mercato mondiale, sfondando i confini e i limiti delle nazioni e delle tradizioni locali, fosse già stato ampiamente annunciato da Karl Marx e Friedrich Engels nel loro Manifesto del Partito Comunista pubblicato nel 1848.

La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.
[…] il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i milionari dell’industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.
La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo1.

Gli stessi autori, negli anni seguenti, avrebbero poi ancora concentrato un parte dei loro studi sugli effetti del colonialismo europeo sia sull’India che sulla Cina, in particolare sulla distruzione della manifattura artigianale indiana dei tessuti a causa della diffusione sul mercato asiatico di quelli fabbricati in Inghilterra con il cotone proveniente dalle colonie (India compresa)2.

Ed è a partire da questo punto che si può aprire il confronto con le considerazioni di Lukács e Quadrelli contenute in una parte del testo qui recensito. Così, come afferma Quadrelli fin dalla prima pagina della sua introduzione:

Nel febbraio del 1924, a poche settimane dalla morte di Lenin, Gyorgy Lukács dà alle stampe il pamphlet Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario. Un centinaio di pagine scritte di getto che, come proveremo ad argomentare, si mostrano uno dei testi piu ricchi e densi della teoria politica marxiana dell’intero novecento. La sua complessità e ricchezza è tale da rivestire ancora nel presente molto di più di una semplice curiosità e ancor meno l’ennesimo omaggio malinconico al mondo di ieri. Se c’è una cosa che nel testo di Lukacs sorprende e assieme stupisce e la sua attualità. […] Composizione di classe, forma-partito, la questione dello Stato, la cornice politica propria dell’imperialismo e via dicendo lo rendono un testo che ha ben poco di datato. Consegnare e rinchiudere questo saggio nell’ipotetico scaffale dei pensatori del passato come tributo al mondo di ieri significa non avere compreso nulla di Lukacs e ancor meno del suo Lenin (e in fondo di Lenin stesso), ed e forse qui che la questione lascia i panni della schermaglia teorica per farsi battaglia politica a tutto tondo del e sul presente. Qui si pone la rigida contrapposizione tra l’attualità della rivoluzione e i suoi becchini. Qui si pone la drastica cesura tra la soggettività dei rivoluzionari e l’oggettivismo e il determinismo dei socialdemocratici di ieri e di oggi. Qui si pone la differenza tra l’essere e lo stare sul filo del tempo della rivoluzione e l’assunzione del tempo reificato del capitale come unica dimensione possibile.(( E. Quadrelli, György Lukács, Un’eresia ortodossa. L’attualità dell’inattuale in G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 5 e p. 14. )).

L’attualità di György Lukács di cui parla Quadrelli è costituita non soltanto dal rilevare come ogni procedimento teorico e pratico rivoluzionario debba porsi come eretico rispetto all’ortodossia spesso predicata da chi si ritiene custode di un ordine immutabile, anche della prassi rivoluzionaria, ma anche nelle pagine dedicate proprio all’Imperialismo di Lenin3, in cui quanto detto appena prima si esplica in maniera sorprendente. Afferma infatti il filosofo ungherese:

La concezione leniniana dell’imperialismo ha il carattere apparentemente paradossale di essere un’importante operazione teorica, senza per altro contenere molto di realmente nuovo se considerata come teoria puramente economica. Per più aspetti si fonda su Hilferding, e da un punto di vista meramente economico non regge affatto, per profondità e grandiosità, al paragone con la straordinaria prosecuzione a opera di Rosa Luxemburg della teoria marxiana della riproduzione. La superiorita di Lenin sta nel fatto di essere riuscito – e questa è un’impresa teorica senza paragone – a collegare concretamente e organicamente la teoria economica dell’imperialismo con tutte le questioni politiche contemporanee; a fare della struttura economica della nuova fase un filo conduttore per l’insieme delle azioni pratiche in un orizzonte cosi decisivo. Per questo egli respinge durante il conflitto talune concezioni ultrasinistre di comunisti polacchi come «economismo imperialistico». Perciò la sua critica e il suo rifiuto della concezione kautskiana dell’«ultraimperialismo», una teoria che confidava in un pacifico trust mondiale del capitale, verso il quale la guerra mondiale rappresenta un passaggio «casuale» e neppure «appropriato», culmina nella critica a Kautsky per aver separato l’economia dell’imperialismo dalla sua politica4.

Una discussione sorta all’interno della socialdemocrazia russa già in occasione degli eventi della rivoluzione del 1905, in cui si manifestarono sempre più apertamente le differenti visioni e prospettive dell’ala menscevica e di quella bolscevica.

La separazione tra destra e sinistra nel movimento operaio comincia sempre, anche al di fuori della Russia, con l’assumere la forma di una discussione sul carattere generale dell’epoca. Una discussione cioè volta a stabilire se determinati fenomeni economici, che si presentano in modo sempre piu chiaro (concentrazione capitalistica, importanza crescente dei grandi istituti finanziari, colonizzazione ecc.) rappresentino soltanto accrescimenti quantitativi del normale sviluppo del capitalismo, o se vada scorta in essi l’imminenza di una nuova epoca del capitalismo; se le guerre sempre piu frequenti (guerra dei boeri, guerra ispano-americana, russo-giapponese ecc.) che seguono a un periodo di relativa pace siano da considerare come fatti «casuali» ed «episodici», o se non si debba scorgere i primi segni di un periodo di guerre sempre piu violente. E infine: se lo sviluppo del capitalismo è giunto per questa via in una nuova fase, sono sufficienti i vecchi metodi di lotta a valorizzare i suoi interessi di classe in queste nuove condizioni? E quindi, quelle nuove forme di lotta di classe che sono sorte prima e durante la rivoluzione russa (scioperi in massa, insurrezione armata) sono eventi di significato solo locale e speciale, o magari «errori» e smarrimenti o vi si debbono scorgere i primi spontanei tentativi delle masse, suggeriti da un giusto istinto di classe, di adeguare il comportamento alla situazione mondiale?
E’ nota la risposta pratica di Lenin a questo intreccio complesso di questioni. Essa si espresse nel modo piu chiaro con la lotta da lui intrapresa al Congresso di Stoccarda […] perché la II Internazionale prendesse una posizione chiara e irriducibile contro la minaccia di una guerra imperialistica. Egli cercò di orientare questa presa di posizione secondo la questione di cosa si dovesse fare contro questa guerra5.

Se la posizione di Lenin e della Luxemburg tendeva a sottolineare la novità e il pericolo certo di guerra contenuta nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico, è altrettanto vero che il titolo dell’opera leniniana, che definiva l’imperialismo come fase suprema del capitalismo, metteva altrettanto in guardia dal fatto che coloro che si dichiaravano marxisti, ma che riponevano le proprie speranze o i timori nella capacità del capitale di controllare tutte le proprie contraddizioni, dall’ultraimperialismo di Kautsky allo Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM) teorizzato alla fine degli anni Settanta del ‘900 dalle BR, da quel momento avrebbero dovuto invece confrontarsi con una fase di guerra e competizione commerciale in cui tutti gli attori, vecchi e nuovi, avrebbero cercato di accaparrarsi con ogni mezzo le risorse e i mercati, oltre che la manodopera a basso costo, del mondo intero.

Fatto che presumeva che l’unico freno a questa competizione mondiale per il trionfo dei capitali nazionali o sovranazionali sarebbe stata costituita dalla rivoluzione proletaria internazionale. Nelle forme di cui i rivoluzionari avrebbero dovuto individuare le linee di tendenza da cui trarre la necessaria linea di condotta del partito dell’insurrezione. Per comprendere questo aspetto, ci soccorre quanto scrive, ancora, Emilio Quadrelli nell’introduzione.

Il paragrafo dedicato al modo in cui Lenin legge la fase imperialista si mostra di gran lunga come la parte più politica dell’intero pamphlet […] Tanto Hilferding, dal quale Lenin riprende molto, quanto Luxemburg, che ha sicuramente affrontato la questione con ben altro respiro, sono sotto questo aspetto, ricorda Lukacs, di gran lunga superiori al lavoro di Lenin. Ciò che però lo differenzia da questi e si può dire da tutti coloro che si sono trovati ad affrontare la questione imperialismo è la capacità di andare al cuore del politico, di individuare cioè la caratteristica essenziale della nuova cornice storica e tutte le ricadute che questa si porta appresso. L’isolamento politico cui Lenin andò incontro non solo nel 1914 ma ancora dopo, testimoniano – proprio nel modo politico in cui affronta la questione imperialismo – esattamente la rottura che apportò dentro tutto ciò che, in qualche modo, si richiamava al marxismo. Si tratta in fondo di qualcosa di comprensibile poiché Lenin incarna esattamente una frattura storica dentro la teoria marxiana: l’unico che ha mostrato di stare sempre sul filo del tempo e con questo portare il marxismo dentro la fase imperialista.
Con queste lenti, sottolinea Lukacs, va letto il suo lavoro sull’imperialismo ma non solo. Proprio in questo testo teoricamente minore Lenin mostra tutta la ricchezza politica che sta alla base della sua complessiva elaborazione teorica. La lucidità politica dell’Imperialismo leniniano è esattamente il punto d’approdo di un metodo elaborato nel corso della sua militanza politica abissalmente distante dall’intero mondo socialdemocratico. Questa differenza che sino allo scoppio della guerra aveva potuto rimanere compresa come tendenza dentro la grande famiglia socialdemocratica, adesso non può più essere racchiusa in un contenitore dove le diverse tendenze hanno cessato di essere tranquille esposizioni di punti di vista semplicemente diversi, per farsi, invece, fronti di combattimenti. Dentro la guerra imperialista le tendenze diventano le armi teoriche, politiche e organizzative di schieramenti di classe immediatamente nemici. L’isolamento politico cui va incontro Lenin rappresenta esattamente l’isolamento del proletariato internazionalista dei paesi imperialisti e delle masse subalterne delle colonie nei confronti di tutte le classi sociali cointeressate al macello imperialista. Tuttavia il settarismo leniniano, mai così evidente come in questa fase secondo le pletore dei suoi critici, di lì a poco si mostrerà come il settarismo della rivoluzione del proletariato internazionalem e dei popoli colonizzati e la sua teoria la sola in grado di armare i subalterni dentro l’obiettivo scenario della guerra civile rivoluzionaria internazionale6.

Con questo sguardo Lenin, già nel 1916, metteva in riga sia tutti coloro che credevano in una sorta di superimperialismo capace di governare il mondo al di là delle proprie contraddizioni o, udite udite, in una odierna idea di globalizzazione occidentale e americana ancora capace di dirimere i propri contrasti interni scaricandoli sui propri avversari, ma anche coloro che dalle teorie della stessa Luxemburg sui limiti del mercato mondiale e di quelle di radicale interpretazione delle conseguenze della caduta tendenziale del saggio di profitto facevano, o fanno ancora, derivare l’assunto di una inevitabile crollo della forma sociale e politica capitalista, senza bisogno dell’azione insurrezionale e cosciente dei suoi affossatori.

Infatti, se parlare di globalizzazione ha un senso ancora oggi non è tanto per la progressiva riduzione, da parte di molti paesi, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali considerato che la libertà di movimento dei capitali raggiunta verso la fine del 20° secolo è paragonabile a quella degli anni precedenti la Prima guerra mondiale, quando si era realizzato un alto grado di integrazione dei mercati finanziari (nel 1913 i rapporti tra i flussi totali di capitali e il commercio o la produzione mondiale erano superiori a quelli degli anni 1970). Piuttosto, se si vuole trovare la vera novità costituita dalla globalizzazione questa va individuata nella perdita di centralità dello stato-nazione, anche nei paesi che fino alla fine del XX secolo avevano utilizzato la propria forma e forza “nazionale” per opprimere gli altri con sistemi direttamente o indirettamente coloniali.

Da tempo siamo di fronte a qualcosa che ha trasformato il mondo in maniera non meno radicale di quanto lo sviluppo del capitalismo avesse comportato […] La globalizzazione e tutto ciò che si è portata dietro ha decisamente posto in archivio il mondo di ieri. Le conseguenze di ciò sono immense e non possono essere certo trattate in quattro battute, tuttavia e possibile evidenziarne alcuni aspetti che, almeno per i nostri mondi, si mostrano particolarmente laceranti. Parliamo dell’Europa occidentale e della sua storia piu recente. Ciò che appare per prima cosa evidente e l’eclissarsi di quella particolare forma statuale nota come Stato-nazione e di quel modello sociale che, per gran parte del Novecento, l’ha accompagnato, il welfare state. Tutte le classi sociali sono state investite da questo vortice il quale, in poche battute, ha detto che il mondo di ieri non esiste più. L’era globale non è un semplice passaggio interno a un modello, non è una pallida riforma, ma una rivoluzione, un salto epocale a tutti gli effetti. Nulla è più come prima. Lo stare dentro e contro torna a essere il cuore del dibattito politico contemporaneo7.

Qui si pone un altro problema politico di non poco conto, riguardante sia la composizione di classe che il ruolo che la classe deve svolgere, contro e fuori lo Stato-nazione e i richiami della sirene “populiste”.

Di fronte a quanto accade, pur con tutti i difetti del caso, sembra di risentire le medesime argomentazioni sorte in Russia di fronte all’irrompere del capitalismo. Da una parte i populisti che difendono strenuamente il mondo di ieri e che, in contemporanea, tendono a rendere eterni i soggetti sociali di quell’epoca; dall’altra i fautori del progresso che cantano le lodi di un capitalismo definitivamente liberatosi da ogni vincolo. Tutto, come allora, sembra compresso entro questa strettoia. A ben vedere anche le argomentazioni di ieri, pur con tutte le tare del caso, non sono tanto distanti da quelle del presente: la difesa del passato, per di più infarcito di narrazioni al limite del mitologico, contro il – non meno fantasioso – divenire radioso di una modernità emancipata da ogni vincolo. In pratica la contrapposizione tra la difesa dei proletariati nazionali europei e di quella particolare forma-Stato all’interno della quale erano ascritti, e l’imporsi dell’individuo completamente individualizzato e portatore di non secondari diritti civili e una forma statuale emancipatasi da ogni funzione sociale. Uno Stato snello il cui compito si limita a compiti militari e di polizia senza alcuna intromissione nella vita degli individui. Comunitaristi da una parte, liberalisti dall’altra, popolo contro individuo, Stato contro mercato e cosi via. I modi in cui questa apparente strettoia sembra porsi rimandano a un aut aut che non ammette vie di fuga. Lo stesso dibattito politico contemporaneo sintetizzabile in sovranisti ed europeisti sembrerebbe inchiodare la realtà entro le strettoie di queste forche caudine. Forse non è neppure un caso che il termine populismo sia tornato prepotentemente in auge8.

L’esaltazione del “popolo” in prossimità di una guerra risulta particolarmente importante dal punto di vista della politica antagonista e di classe poiché è tesa a sostituire, con un elemento mitico utile ai nazionalismi, la moralità e/o coscienza antibellicista delle classi che dovrebbero essere destinate a cancellare i miti e i caratteri principali del capitale con un colpo di spugna definitivo. Ed è per questo che, nel prosieguo della riflessione di Quadrelli sul testo di Lukács, occorre ancora ritornare a Lenin e, addirittura, alla guerra russo-giapponese.

Sin dai primi bagliori della conflittualità imperialista, la guerra russo-giapponese, Lenin coglie l’essenza del secolo da poco iniziato. Lo sviluppo del capitalismo sta iniziando a porre sulla scena storica nuove potenze politiche, economiche e militari che non potranno far altro che entrare in aperto conflitto con i vecchi potentati. La guerra vittoriosa del Giappone contro la Russia è la prima corposa avvisaglia di tutto ciò. Il mondo non può che andare incontro a una nuova definizione delle gerarchie di potenza. La guerra è all’ordine del giorno. Questa guerra, proprio per i mille fili che intrecciano il movimento dei capitali nella fase imperialista, non potrà che assumere una dimensione internazionale. Tutte le nazioni, quasi inconsapevolmente, non potranno far altro che finirci dentro. Ciò ha delle ricadute non secondarie e, in particolare, a farsi centrale per tutte le classi sociali è la dimensione della politica internazionale. La politica da cortile di casa ha cessato di esistere, nella fase imperialista abbandona i panni caserecci per divenire politica internazionale a tutto tondo. […] Certo, il mondo che ha di fronte Lenin è ancora limitato perché gran parte di questo è nella condizione della colonia e non può essere altro che oggetto delle mire imperialiste di un numero ristretto di paesi i quali, per lo più, sono concentrati nel vecchio continente. La divisione tra i paesi industrializzati e finanziariamente potenti e il resto del mondo è enorme tanto che, almeno inizialmente, l’Europa è il centro del conflitto. Sono le consorterie imperialiste europee a dare il la alla guerra ed è tra queste che il pianeta dovrà essere spartito. L’apparizione delle repubbliche sovietiche da un lato e dall’altro l’irrompere degli Usa, la nuova grande potenza imperialista in ascesa, saranno gli effetti non voluti, neppure minimamente pensati e immaginati, da quelle forze che nell’agosto del ’14 avevano dato fuoco alle polveri e che finiranno con il dare al sistema mondo un assetto del tutto diverso da quanto andato in scena nell’agosto del ’14 e quello che al termine del conflitto sarà ovvio ed evidente a tutti. Lenin, per molti versi, aveva anticipato tutto questo già nel 1905.
Ciò che egli coglie, sin dal conflitto russo-giapponese, sono le immediate ricadute internazionali che stanno alla base di questo passaggio. L’imperialismo ha posto in relazioni strettissime tutte le potenze imperialiste, non esistono piu interessi nazionali perché industria e finanza hanno ormai una composizione transnazionale. La Russia, ad esempio, contro il Giappone combatte grazie a dei capitali francesi e il risultato di quel conflitto, per forza di cose, non sarà contenibile entro i confini dell’impero zarista. Ma la vittoria del Giappone, a sua volta, non è un semplice fatto nazionale. La vittoria del Giappone formalizza l’ascesa di una nuova potenza imperialista dentro la contesa internazionale che avrà ricadute non secondarie sulla politica imperialista di tutte le potenze europee in Asia9.

Da questo punto di vista la globalizzazione non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze quanto già contenuto negli avvenimenti, e nelle guerre, del secolo precedente. Immaginare oggi una sorta di gerarchia assoluta delle potenze imperialiste, continuando a porre in cima gli Stati Uniti e la loro “volontà di potenza”, rischia di intrappolare ancora una volta il proletariato internazionale in una battaglia che non gli appartiene, sia che si tratti di difendere l’Occidente con i suoi valori che le potenze “ex-emergenti” che potrebbero essere soltanto quelle dominanti di domani.

La guerra, quindi, costituisce nella fase dell’imperialismo “globalizzato” un elemento dirompente e dirimente rispetto al quale non vi può essere altra risposta che l’insurrezione e la trasformazione della stessa in guerra di classe contro il Capitale e il suo Stato. Mai a difesa dello stesso, sia che questo si collochi in Occidente oppure in Oriente.


  1. K. Marx, F. Engels, Borghesi e proletari, sezione prima del Manifesto del Partito Comunista, 1848.  

  2. Si vedano in proposito: K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, a cura di Bruno Maffi, il Saggiatore, Milano (prima edizione 1960 – nuova edizione, con un’introduzione di M. Maffi, 2008) In particolare sullo spostamento della coltivazione di tè dalla Cina all’India e sulla successiva espansione della coltivazione dell’oppio, si veda il recentissimo A, Ghosh, Fumo e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio, Giulio Einaudi editore, Torino 2025.  

  3. V.I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, 1916.  

  4. G. Lukács, op. cit., p. 117.  

  5. Ibidem, pp.115-116.  

  6. E. Quadrelli, Imperialismo, guerra civile internazionale, insurrezione in G. Lukács, op. cit., pp. 39-40.  

  7. E. Quadrelli, Dal «popolo» al popolo. Il proletariato come classe dirigente in op. cit., p. 25.  

  8. Ivi, pp. 25-26.  

  9. E. Quadrelli, op. cit., pp. 41-42.  

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 5 – Sul filo del tempo https://www.carmillaonline.com/2025/04/30/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-5-sul-filo-del-tempo/ Wed, 30 Apr 2025 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86436 di Emilio Quadrelli

La lettura del conflitto di classe non avviene stilando una statistica al fine di individuare il punto medio della conflittualità ma osservando e facendo proprie le istanze strategiche che provengono dalle punte avanzate della classe. Su ciò si plasma la tattica cosciente del partito. Dalla prassi d’avanguardia della classe al partito dell’avanguardia di classe al fine di riversare e generalizzare in questa, quella tendenza. Il partito, quindi, non si accoda semplicemente alla lotta di classe, non si limita a portare solidarietà a questa, cosa che può fare chiunque, e neppure, come le letture burocratico-organizzative di Lenin offrono, [...]]]> di Emilio Quadrelli

La lettura del conflitto di classe non avviene stilando una statistica al fine di individuare il punto medio della conflittualità ma osservando e facendo proprie le istanze strategiche che provengono dalle punte avanzate della classe. Su ciò si plasma la tattica cosciente del partito. Dalla prassi d’avanguardia della classe al partito dell’avanguardia di classe al fine di riversare e generalizzare in questa, quella tendenza. Il partito, quindi, non si accoda semplicemente alla lotta di classe, non si limita a portare solidarietà a questa, cosa che può fare chiunque, e neppure, come le letture burocratico-organizzative di Lenin offrono, si limita a porsi alla testa delle lotte. Certo, il partito solidarizza con la lotta e cerca di prenderne la direzione ma perché? A qual fine? Qui sta il nocciolo della questione. Il partito deve, soprattutto, trasformare coscientemente quella lotta in qualcosa che sta nella lotta ma solo in potenza. Non ha senso prendere la direzione di qualcosa che rimane in potenza, ma lo ha se questo prendere la direzione vuol dire realizzare la potenza. Detta in altre parole la tattica del partito mette la classe nella condizione di compiere un salto nell’elaborazione della strategia. In altre parole il partito più che prendere la testa del movimento è la testa del movimento. Facciamo un esempio: nel 1905 le masse organizzano una dimostrazione la quale, come noto, sfocia nel sangue e in seguito a ciò, in piena spontaneità, iniziano a battersi. Il partito sicuramente solidarizza con la lotta e cerca di mettersi alla testa di questo movimento, ma fare questo significa operare per far fare un salto qualitativo a quanto sta andando in scena. Questo salto è l’indicazione pratica dell’insurrezione quindi, di fatto, essere la testa del movimento. Dalla classe al partito, dal partito alla classe. Il partito non si è inventato nulla, non fa nulla, esso agisce come elemento cosciente e d’avanguardia dentro il punto più alto della conflittualità di classe. Ecco che, in quel momento, tutto il suo lavoro preparatorio emerge in maniera cristallina. Ma, una volta fatto ciò non è che all’inizio del suo lavoro perché la stessa pratica dell’insurrezione non farà altro che dare vita e forme qualitativamente diverse alla strategia della classe e inevitabilmente ciò porterà a una nuova lettura della strategia di classe e a una successiva rielaborazione della tattica di partito.

Non vi è nulla di più sbagliato, infatti, che vedere il partito leniniano come corpo estraneo alla classe, esso, infatti, è tutto interno alla classe ma non in maniera aritmetica e lineare ma geometrica e dialettica, anzi è strumento della classe e lo è se applica, come vedremo a breve, anche nei propri confronti le leggi della dialettica marxiana. Certo i dubbi e i pericoli che Luxemburg e altri intravedono in una sua accentuazione non sono del tutto fuori luogo e la possibilità che esso diventi un corpo estraneo alla classe sussiste e lo stesso partito bolscevico non risultò immune da tale pericolo, infatti esiste sicuramente la possibilità che un siffatto organismo tenda a sentirsi esonerato dall’obbligo di applicare a sé stesso la dialettica marxiana per trasformarsi, nel tempo, in un grigio corpo di burocrati e funzionari. Ma è un rimprovero che non può essere mosso a Lenin il quale, proprio su questo, dice e fa cose che non lasciano alcuna sorta di dubbio. Prima di affrontare questo aspetto decisivo della teoria leniniana soffermiamoci, però, su un altro aspetto.

Ciò che riformisti e comunisti di sinistra non colgono è che, per Lenin, il partito non fa la rivoluzione ma la prepara, quindi l’idea un po’ blanquista del colpo di mano è quanto di più distante vi sia da lui. È questo preparare che sfugge per intero ai critici di destra e di sinistra. Fin dai tempi del “Che fare?” come si è visto in precedenza, Lenin parla del partito come partito dell’insurrezione. Questo senza ventilare, a breve, la presa delle armi, eppure tutti i suoi sforzi politici e organizzativi sono rivolti a ciò. Quando ipotizza un giornale per tutta la Russia, e subisce le accuse di intellettualismo da parte dei menscevichi, chiarisce immediatamente che il suo obiettivo non è costruire una consorteria di giornalisti socialdemocratici, ma dei corrispondenti insurrezionali. L’insurrezione, quindi, è l’orizzonte entro cui Lenin si muove. Ma concretamente cosa significa? Significa che il partito deve dedicare ogni sforzo in quella direzione ma non solo. Posto in questi termini potrebbe sembrare un atto di puro volontarismo, ma questo compito è il frutto del riconoscimento di essere entrati dentro un’era di rivoluzioni. Qui, allora, non si può che tornare a quanto sinteticamente esposto nel paragrafo introduttivo. Si tratta, cioè, di ricavare la tendenza storica entro la quale si è immessi. Si tratta di leggere i fatti avendo a mente l’insieme di questi, il loro legame, l’intreccio a cui tutto ciò rimanda. In altre parole si tratta di applicare la totalità nell’analisi di fase e da questa presa d’atto il partito può essere solo il partito dell’insurrezione. Dietro a ciò non vi è alcun volontarismo ma il riconoscimento che, in un simile contesto, solo la soggettività di classe e il partito dell’insurrezione possono piegare verso una direzione piuttosto che in un’altra.

Se il filo del ragionamento seguito ha un senso possiamo dire che, in merito alla questione del partito, la costante tensione che anima Lenin è la relazione tra partito storico e partito formale1. Si tratta, cioè, di rendere sempre il partito formale in grado di stare sul filo del tempo ossia confezionare la forma organizzativa intorno alla carne e al sangue della classe. Ciò significa che non esiste un vestito buono per tutte le stagioni. Per questo, in maniera apparentemente paradossale, Lenin non fa altro che destrutturare in permanenza il partito. Ogni volta che il partito rischia di irrigidirsi, di non cogliere la strategia della classe, di separarsi da questa e porre sé stesso e le sue certezze davanti alla classe, Lenin si fa interamente uomo anti–partito. Sotto questo aspetto l’esempio della guerra partigiana ne è la migliore esemplificazione. Di fronte all’apparire spontaneo di questa forma di lotta, che la maggioranza degli stessi bolscevichi inizialmente condanna e taccia di banditismo, Lenin ne coglie in pieno il portato storico: si tratta di un passaggio tutto interno alla strategia della classe e come tale deve essere colto e reso cosciente dal partito d’avanguardia, ma lui non si limita a ciò, non solidarizza semplicemente con questa forma di lotta sorta spontaneamente dalla classe ma la fa interamente sua. Il partito d’avanguardia, se vuole rimanere tale, deve diventare lui stesso il migliore organizzatore della guerra partigiana, deve ampliarla, darle continuità, organizzazione e metodo. Per farlo deve, però, comprenderla, studiarla, fare inchiesta entrando così in relazione dialettica con quei segmenti di classe che la stanno praticando. Il partito può dirigere solo se è capace di andare a scuola dalle masse perché è lì e solo lì che si forma la strategia e con ciò mostra quanto distanti da lui siano le derive organizzativiste, burocratiche e particolarmente prone a porre l’apparato e i suoi membri sopra e innanzi a tutto. La sola preoccupazione di Lenin è mantenere intatta la dialettica prassi/teoria, tattica/strategia, classe/partito. Se questa relazione viene a interrompersi il partito si trasforma in un inutile orpello burocratico. Gli occhi di Lenin, pertanto, sono continuamente puntati sulla classe, sulla sua composizione, sulla sua strategia. Come possiamo tradurre tutto ciò nel presente? Cosa significa oggi organizzazione politica? Cosa significa essere leniniani oggi? Per rispondere occorre inevitabilmente arrivare a definire la composizione di classe contemporanea e il contesto imperialista in cui questa ha preso forma.

Come sappiamo se c’è qualcosa che muta in continuazione pelle è proprio il capitalismo. Niente è più dinamico del modo di produzione capitalista e delle formazioni economiche e sociali che questo determina2. Per arrivare a parlare del presente, pertanto, è necessario ripercorrere, sia pur brevemente, alcuni passaggi relativi alla composizione di classe. Da tempo in ciò che comunemente era definito primo mondo si è assistito a una vera e propria trasformazione nell’ambito della produzione. L’era fordista, che aveva caratterizzato tutto un ciclo storico e il modello keynesiano a questa coeva, è stata posta in archivio dando il la a quel modello politico, economico e sociale che, nella vulgata comune, è stata denominata come era post fordista. Ciò ha comportato la fine delle grandi concentrazioni operaie, la delocalizzazione del ciclo della merce in quelli che erano i paesi del terzo mondo o negli ex stati del socialismo reale e, nei nostri mondi, alla frantumazione delle tradizionali figure operaie e proletarie. Precarietà e flessibilità sono diventati il modo in cui si sono definite le attuali relazioni industriali, relazioni che non poco attingono a quel modello di governo della forza lavoro proprio del sistema coloniale e che, in prima istanza, viene attivato su quella figura proletaria incarnata dalle corpose masse di migranti. Un proletariato, quindi, del tutto nuovo e in gran parte estraneo ai modelli politici e organizzativi dell’epoca fordista. Un proletariato non legato, a differenza del passato, a un luogo di lavoro, ma obiettivamente senza fissa dimora. Questo proletariato e le sue lotte non possono essere comprese entro una forma che è stata propria di una condizione operaia e proletaria del tutto diversa da quella attuale. Riprodurre i modelli del passato risulta pertanto un’operazione perdente in partenza. Per prima cosa occorre comprendere i tratti di questa nuova classe, occorre comprendere la concretezza cui questa rimanda. Lenin, del resto, non fa qualcosa di diverso nel momento in cui pone le basi del partito, l’inchiesta dentro la classe diventa lo strumento attraverso cui è possibile comprenderne la strategia. Dalla classe al partito, dal partito alla classe, esattamente qui si pone la dialettica tra partito storico e partito formale.

Il partito storico, ovvero la classe in quanto strategia, pone una serie di questioni, queste sì estremamente storicamente determinate, che devono trovare una forma per esprimersi politicamente ma questa forma può darsi solo se è saldamente ancorata e legata al partito storico. Se ciò non avviene, ovvero si rovescia la questione arrivando al paradosso che è il partito storico a doversi uniformare al partito formale, non si vedranno altro che sorgere una serie di sette alla ricerca di adepti. Non il partito dell’insurrezione ma, nella migliore tradizione educazionista, il partito della formazione3.

La classe non lotta e non lo ha mai fatto, assecondando i desideri delle sette, lotta a partire da sé stessa, punto e non è questa che deve entrare nella scarpa elaborata da qualche circolo sovversivo ma, al contrario, è questo che deve modellare la scarpa intorno alla lotta della classe e, a partire da ciò, renderne esplicita tutta la potenzialità rivoluzionaria. A quella forza posta in gioco dalla classe il circolo sovversivo deve dare progettualità politica e forma organizzativa. Facciamo un esempio: palesemente una delle lotte maggiormente poste in atto da parte delle figure proletarie attuali è la lotta contro i confini. Una lotta la cui obiettiva politicità è difficile da porre in discussione. Questa è un’indicazione non proprio irrisoria poiché, in un attimo, mette al centro del discorso politico qualcosa come sovranità, idea di nazione, militarizzazione del territorio e, sullo sfondo, ma come asse centrale, le pratiche di guerra coloniale che vengono condotte contro i proletari dell’ex terzo mondo. Da tutto ciò si ricava, o si dovrebbe, che il partito formale è colui il quale è in grado di preparare l’insurrezione verso e contro questa forma di dominazione. Come si vede non è che la classe non dia indicazioni, il problema è coglierle. La molteplicità degli esempi, al proposito, non manca di certo. Recentemente abbiamo assistito a un proliferare di lotte non secondarie in settori come la logistica e l’agricoltura. Quest’ultima, in seguito ad alcuni fatti drammatici, ha catturato un’attenzione di vastissime proporzioni. I braccianti si sono mossi rivendicando tutta una serie di cose ma, soprattutto, hanno reso evidente come quell’infame modello di sfruttamento non fosse il frutto di condizioni di lavoro arcaiche e pre-moderne ma, al contrario, incarnassero al meglio il punto più avanzato del sistema capitalistico. Dietro ai caporali e ai piccoli sfruttatori locali non ci sono arcaiche strutture agricole che cercano di sbarcare il lunario ma multinazionali moderne, quotate in borsa e ben insediate nei salotti dell’industria e della finanzia internazionale. Quelle lotte hanno detto chiaramente che il fronte del conflitto non è locale ma internazionale e che, in virtù di ciò, quello deve essere il piano dell’azione4. L’internazionalizzazione del capitale ha posto al centro del conflitto l’internazionalizzazione delle lotte e il proletariato internazionale come soggetto guida di queste. Un’indicazione, anche questa, non proprio di poco spessore e che comporta, o dovrebbe comportare, tutta una serie di ricadute sul piano dell’organizzazione formale. L’elenco potrebbe dilungarsi a dismisura ma già questi due esempi appaiono essere più che sufficienti. Solo ponendosi in grado di leggere la strategia della classe diventa possibile attualizzare nel presente quella forma organizzativa in grado di legarsi al partito storico.

N. B.

Con la pubblicazione di questa quinta parte del commento di Emilio Quadrelli al Lenin di György Lukács si conclude la pubblicazione su Carmillaonline del medesimo testo, poiché nel frattempo è comparso in tutta la sua interezza nel libro appena pubblicato da DeriveApprodi che riproduce il testo del marxista ungherese insieme al lungo saggio introduttivo di Quadrelli e a una lezione di Mario Tronti su Lenin, che sarà prossimamente recensito su queste pagine. Rimane fermo, però, l’impegno di Carmillaonline a pubblicare o ripubblicare i testi, inediti oppure già editi ma poco conosciuti, di un intellettuale-militante che non esitiamo a definire unico che, nonostante le difficoltà degli ultimi anni di vita, ha dato un fondamentale contributo alla riflessione politica e alla ricerca sociale sul campo.


  1. Il partito storico è la classe, mentre il partito formale è l’involucro che, volta per volta, è deputato a incarnare la strategia del partito storico. Questo a Lenin è estremamente chiaro e tutta la sua militanza politica è consacrata a ciò. Meno chiaro, invece, sembra esserlo stato per gran parte degli epigoni che hanno sostanzialmente ribaltato il tutto, ponendo il partito formale al di sopra del partito storico mettendo così gli apparati, in non pochi casi, non solo al di sopra della classe ma contro di questa. Sintomatico il fatto di come, per questi apparati, la lettura della composizione di classe sia qualcosa di sostanzialmente superfluo. Nel PCI, ad esempio, dopo Togliatti, che indipendentemente da tutto rimane il maggior dirigente politico di questo partito, non vi è più stato nessun interesse sociologico per la classe e la sua composizione, ma una sorta autismo tutto incentrato sui destini dell’apparato. In altre parole, e su questo Lenin conduce sempre una battaglia politica che non risparmia nessuno, l’apparato è legittimato a esistere solo se in grado di incarnare sempre il punto di vista storico della classe e non gli eventi contingenti che riguardano le sue sorti. C’è un passaggio in Lenin quanto mai esplicito al proposito: «Persone che intendono per politica piccoli imbrogli che spesso confinano con la truffa, devono trovare presso di noi il rifiuto più deciso. Le classi non possono essere ingannate», riportato in C. Schmitt, Le categorie del politico, pag. 148, Il Mulino, Bologna 1972, con ciò Lenin, avendo a mente gli intrallazzi ai quali, al fine di auto conservarsi, l’apparato può giungere, mostra come il partito dell’insurrezione non può e non deve avere nulla a che fare con tutto ciò.  

  2. Al proposito, Marx ed Engels ne Il manifesto, Editori Riuniti, Roma 1994, erano stati a dir poco eloquenti. A caratterizzare il modo di produzione capitalista è la sua estrema e permanente dinamicità, non certo l’immobilismo e il conservatorismo.  

  3. In fondo è esattamente questa l’impostazione, dalla quale i più sembrano impossibilitati a emanciparsi, propria del culturalismo gramsciano il quale, della cultura e della formazione culturale (che è altra cosa dalla formazione politico–militare propria del bolscevismo), finì per farne un totem. Su questo in fondo aveva ragione Bordiga quando, di fronte all’ossessione di Gramsci per la cultura, gli ricordò che i temi culturali appartengono più a una associazione di maestri piuttosto che ai militanti di un partito rivoluzionario. Cfr., Il programma comunista, Storia della sinistra comunista 1912 – 1919, Vol. I, Edizioni il programma comunista, Milano 1964.  

  4. Ciò, del resto, è implicito nel ciclo della merce nel mondo contemporaneo. Se, per molti versi, l’idea di un’economia nazionale risultava già bislacca con la nascita del capitalismo, cfr., G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1994; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, 3 Vol. Il Mulino, Bologna 1978–1995, con l’era globale è diventata un vero e proprio non senso. Da ciò ne consegue che, per forza di cose, le lotte non possono essere perimetrate entro i ristretti ambiti dei confini statuali.  

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 4 – Il partito e la dialettica marxiana https://www.carmillaonline.com/2025/02/02/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-4-il-partito-e-la-dialettica-marxiana/ Sun, 02 Feb 2025 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85799 di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non avevano forse detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era forse determinata dai conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della scienza marxiana? Ma questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il nocciolo della questione. Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica, quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in maniera spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.

Ciò che Lukács pone al centro di questo paragrafo è esattamente il legame dialettico tra partito e classe. Una relazione che, di fatto, negano tanto le concezioni riformiste e revisioniste alla Bernestein, quanto quelle rivoluzionarie alla Luxemburg, tutte incentrate sulla spontaneità. Ma cosa lega ciò che, in apparenza, appare non solo distante ma addirittura incommensurabile? Perché, andando al sodo, riformismo e spontaneismo non sono che due facce della stessa medaglia? Ciò che qui entra immediatamente in gioco, ancora prima della concezione del partito (questa alla fine ne sarà solo un semplice riflesso) è la visione del processo storico. Da un lato, quello che possiamo individuare come asse riformismo–spontaneità, vi è un’idea sostanzialmente evoluzionista del divenire storico per l’altra, quella riconducibile alla teoria leniniana, la storia è sempre frutto di conflitti di classe aperti e mai storicamente già determinati. Da un lato, quindi, il determinismo scientista, dall’altro la determinatezza della soggettività. Da una parte la scienza marxiana dall’altra lo scientismo positivista. Per Bernstein la funzione del partito, in piena coerenza con il suo evoluzionismo determinista e positivista, non può che limitarsi al ruolo dell’accompagnatore. In un percorso storicamente già tracciato, il compito del partito non può che essere quello del gestore di quanto già esplicito dentro la realtà. Il partito, quindi, non deve esercitare alcun surplus politico, farlo vorrebbe dire avere la pretesa di forzare il cammino storico e anteporre il treno della soggettività all’oggettività della storia. Da questo, e in fondo con piena coerenza, l’accusa a Lenin di blanquismo e giacobinismo1.

Accuse che, pur se apparentemente con segno diverso, ritroveremo nella critica luxemburghiana e, in maniera ancora più marcata, da parte di tutto quel filone comunemente noto come consiliare o comunista di sinistra2. Certo, tanto Luxemburg quanto i comunisti di sinistra non negano la necessità della rivoluzione e fanno interamente loro l’assioma marxiano: La violenza è l’ostetrica della storia, ma, proprio in virtù di ciò, considerano il partito di Lenin inutile e persino dannoso. Centrale in tutto ciò è la classe la quale, nella sua evoluzione/trasformazione spontanea, governa autonomamente il processo storico–rivoluzionario. Se per i riformisti l’evoluzione storica conduce oggettivamente, e potremmo aggiungere spontaneamente, al socialismo per Luxemburg e comunisti di sinistra la classe, attraverso una sua maturazione, arriva spontaneamente e unitariamente, il che non è poi così concettualmente distante dall’evoluzionismo riformista, alla rivoluzione e, a quel punto, la funzione del partito diventa inutile, almeno sotto il profilo della direzione politica poiché la classe si dirigerà da sola. Non solo. Questo processo sarà talmente diffuso e di massa, ovvero i livelli di coscienza di classe saranno così generalizzati e sostanzialmente uniformi, che l’esercizio della forza, ovvero la dittatura rivoluzionaria e il terrore rosso organizzati intorno al partito, saranno un fatto obiettivamente controrivoluzionario e qui non vi sono divergenze politiche ma presupposti filosofici diversi. Il problema e le differenze stanno a monte poiché diversi, distanti e incommensurabili sono i presupposti che stanno alla base della teoria leniniana e quelli che fanno da sfondo a tutti i suoi critici. In tutto ciò la diversa articolazione di una linea politica non è frutto di alcuna contingenza temporanea che, in qualunque momento, potrebbe portare a ritrovate unità, bensì la diversità incommensurabile propria di punti di vista non conciliabili. Il modo in cui, tanto da destra quanto da sinistra, i critici si posizioneranno nei confronti dell’ottobre e del coevo terrore rosso3. mostreranno come non la forza delle idee ma la materialità delle cose siano all’origine della suddivisione dei campi dell’amicizia e dell’inimicizia.

La linea di demarcazione è quanto mai rigida: da una parte il meccanicismo e l’oggettivismo di riformisti e comunisti di sinistra, dall’altro la dialettica storica marxiana. Da questa, in fondo, occorre sempre partire. La solitudine in cui Lenin il più delle volte si ritrova sarà, come vedremo a proposito della guerra imperialista, pressoché assoluta e racconta qualcosa di non secondario: la sua è la solitudine del punto di vista proletario dentro un mondo egemonizzato da tutti i punti di vista delle diverse sfaccettature del mondo borghese: è la solitudine della filosofia della prassi in lotta mortale con tutta la filosofia.

Se l’importanza di Lenin, come i suoi adulatori e critici hanno continuamente provato a evidenziare, si limitasse alla sfera politica, a distanza di anni non saremmo ancora qui a ragionare su di lui ma ciò che vale per Marx, vale per Lenin. Se Marx fosse stato un semplice economista, uno storico di valore o un politico particolarmente arguto ma non avesse segnato il mondo con una filosofia in grado di indicare per intero e per sempre il tempo storico, nessuno, se non per fini puramente dottrinali ed eruditi, prenderebbe in continuazione le sue opere tra le mani. Se ciò accade è perché questo pensiero, che non è mai un pensiero individuale ma sempre storico, ha offerto strumenti o meglio ancora, un metodo la cui attualità non decade. Paradossalmente, ma forse solo per chi lo approccia in maniera superficiale e non ne coglie così il portato complessivo, la battaglia di Lenin per il partito è quanto di meno organizzativo e pratico e quanto di più teorico e filosofico, vi sia.

La polemica di Lenin con tutto il movimento socialdemocratico e operaio dell’epoca non fa altro che reiterare le radicali divergenze di Marx ed Engels con i socialisti a loro coevi e la loro polemica verso questi fu, in apparenza, non solo puntigliosa ma persino ossessiva così come, e questo ancor più indicativo, la polemica con tutto quel mondo progressista fuoriuscito dal movimento hegeliano occupò non poco del loro tempo4. Ma quello che, a uno sguardo distratto, poteva apparire un gusto al limite del maniacale per la schermaglia intellettuale, celava una battaglia di ben altro tenore e spessore. In gioco vi era la messa a punto di uno strumento teorico–filosofico che doveva supportare tutto un moto storico il cui senso si cominciava appena a cogliere. In quel contesto dovevano essere messe a punto quelle armi della critica senza le quali la critica con le armi è destinata a soccombere. Se osservata sotto questa luce, allora, tutta la battaglia di Lenin per il partito assume una veste che si emancipa velocemente dagli orizzonti puramente organizzativi poiché, attraverso il partito, si tratta di mettere in relazione le armi della critica con la critica con le armi e pertanto porre l’accento sulle armi della critica diventa persino ovvio. Questa la distanza incommensurabile tra Lenin e tutti gli altri. La partita è tra la dialettica marxiana e la sua negazione, non su quanta importanza debba avere il Comitato Centrale. Chiuso questo prolungato ma doveroso inciso, torniamo a osservare il dibattito intorno al partito.

Per gli anti leniniani si potrebbe dire che il partito serve nella fase prerivoluzionaria come fattore illuminante, ma che decade nel momento in cui la classe approda alla rivoluzione. A caratterizzare entrambe queste due ipotesi è l’evoluzione oggettiva e spontanea in cui il passaggio storico viene a darsi. Insieme a ciò, e questo molto di più tra i cultori della spontaneità rivoluzionaria che tra gli esegeti del gradualismo riformista, vi è un’idea monolitica e sostanzialmente idealista della classe, questa, infatti, in seguito a una condizione storica determinata, approda a una coscienza di classe rivoluzionaria in blocco e, in virtù di ciò, sarebbe in grado di portare a termine il processo rivoluzionario autonomamente senza dover ricorrere a una qualche forma di direzione che non sia la direzione della classe stessa. In questo modo, palesemente, viene fatto rientrare dalla finestra quanto era stato cacciato dalla porta. A diventare essenziale, in pieno stile menscevico, diventa il livello medio della coscienza di classe poiché, accettando tale ottica, solo questa condizione mediana è in grado di unire la classe. A non essere compreso è quanto, all’interno delle dinamiche del conflitto di classe, a essere determinanti siano comunque e sempre i settori avanzati della classe e non la sua media statistica.

Da sempre, in ogni situazione di conflitto, è solo e unicamente una minoranza significativa a prendere l’iniziativa e a trascinare le masse medie. Le rivoluzioni sono sempre opera di una minoranza di massa ma una minoranza in grado di cogliere l’occasione che un determinato contesto offre5. Di più: l’azione di questa ha sempre i tratti di un cominciamento e non quelli di un millimetrico progetto studiato a tavolino. “Si comincia… poi si vede!” Appunto, ma ciò che in questa concezione viene soprattutto elusa è la funzione cosciente del partito la quale, è tale, proprio perché poggia sulla triade marxiana prassi/teoria/prassi. Questo, a conti fatti, sembra essere il vero nocciolo della questione e non si tratta certo di cosa da poco. Solo comprendendo ciò, e assumendolo completamente come mostra Lukács, diventa possibile andare al fondo della teoria leniniana del partito. Lenin sicuramente, come si è visto, non nega che la strategia sia sempre appannaggio della classe mentre ciò che spetta al partito è la dimensione propria della tattica. Volendo si potrebbe risolvere la triade prassi/teoria/prassi in strategia/tattica/strategia e, con ciò, forse le cose diventano più chiare. Dalla prassi che è ciò che le masse esprimono in potenza, attraverso alcune pratiche, ed è quindi riconducibile alla messa in atto di una prospettiva strategica, la teoria, ovvero il partito in quanto elemento cosciente, ricava una tattica la quale viene rimessa nella prassi quindi dentro la strategia della classe che a sua volta rimette in campo una prassi. Ciò che gli spontaneisti non colgono è come questo passaggio dalla prassi alla prassi non può darsi in maniera lineare ed evoluzionista ma necessita di un intermezzo in grado di rendere esplicito e organizzato ciò che la strategia ha posto, ma solo in potenza, all’ordine del giorno. Il partito è l’anello di congiunzione permanente che consente alla prassi di compiere un salto qualitativo.

Quando il partito rimette nella prassi ciò che ha appreso dalle masse lo fa avendo trasformato quella potenzialità politica in tattica insurrezionale ed è questo passaggio politico che restituisce alla classe. In questo modo, e solo in questo, il partito assolve la sua funzione direttiva; ma non solo: centrale, nel ruolo e nella funzione che il partito deve assolvere, è la capacità di leggere, dentro i fatti prodotti dalla classe, la tendenza. Esattamente qui si pone la netta e rigida contrapposizione tra la teoria leniniana del partito e il codismo6 che, pur se in maniera diversa, ne accomuna i critici. Proprio perché la classe non è un tutto omogeneo e i suoi comportamenti assolutamente non lineari e fautori di un unico livello di scontro, occorre saper comprendere, interpretare e visualizzare entro quale tendenza questi si pongono. Si tratta di applicare la dialettica marxiana dentro il conflitto di classe e farlo tenendo sempre a mente che, come ricorda Marx: “É dall’anatomia dell’uomo che si ricava l’anatomia della scimmia”. Ciò significa che, in relazione al conflitto di classe, la tendenza va colta a partire dal punto più alto della conflittualità. Quello e solo quello indica dove si colloca la strategia della classe.


  1. Queste accuse furono rivolte a Lenin da gran parte della socialdemocrazia del tempo. Lo stesso testo Che fare? non risultò immune da tali critiche.  

  2. Le migliori esposizioni teoriche di questa opposizione teorica all’impostazione leniniana rimangono, K. Korsch, Marxismo e filosofia, Edizioni Pgreco, Milano 2012, A. Pannekoek, Lenin filosofo, Edizioni Pgreco, Milano 2016. Per una buona e documentata ricostruzione storica di questa tendenza si veda, E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in occidente. Per una storia del Kapd, Edizioni Dedalo, Bari 1974.  

  3. Sull’esercizio del Terrore rosso come risposta ai suoi critici di destra e di sinistra rimane insuperabile, L. Trockij, Terrorismo e comunismo, Sugar, Milano 1964.  

  4. K., Marx, F. Engels, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  5. Al proposito il modo in cui prese forma la Rivoluzione francese è quanto mai esemplificativo. L’attacco alla Bastiglia, l’evento che diede il la a una delle più grandi rotture storiche, fu opera di circa un migliaio di persone. Cfr., A. Mathiez, G. Lefebrve, La rivoluzione francese, Vol. I, Einaudi, Torino 1997.  

  6. Sul codismo si vedano le argomentazioni di G. Lukács in, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, cit.  

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La rivoluzione come una bella avventura / 3: Ragazze selvagge https://www.carmillaonline.com/2024/12/18/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-3-ragazze-selvagge/ Wed, 18 Dec 2024 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85830 di Sandro Moiso

Saidiya Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 476, 20 euro.

Anche se la prima volitiva e combattiva eroina della letteratura occidentale moderna è da rintracciare nella figura di Clorinda, la guerriera saracena, che, racchiusa in una corazza che ne nasconde le sembianze, anima il feroce ed erotico duello con il cavaliere cristiano Tancredi, nel XII canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è vero che, ancora una volta, fu Emilio Salgari a riempire i suoi romanzi d’avventura con figure di donne dì eccezione, coraggiose, intrepide, affascinanti e, talvolta, crudeli.

Che si tratti [...]]]> di Sandro Moiso

Saidiya Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 476, 20 euro.

Anche se la prima volitiva e combattiva eroina della letteratura occidentale moderna è da rintracciare nella figura di Clorinda, la guerriera saracena, che, racchiusa in una corazza che ne nasconde le sembianze, anima il feroce ed erotico duello con il cavaliere cristiano Tancredi, nel XII canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è vero che, ancora una volta, fu Emilio Salgari a riempire i suoi romanzi d’avventura con figure di donne dì eccezione, coraggiose, intrepide, affascinanti e, talvolta, crudeli.

Che si tratti della Perla di Labuan, ovvero Lady Marianna Guillonk, dei romanzi del ciclo della Malesia, o di Donna Dolores, marchesa del Castillo, che si batte contro l’imperialismo yankee nei due romanzi dedicati alla guerra ispano-americana a Cuba e nelle Filippine del 1898; oppure di Yalla, moglie di Nuvola Rossa, e di sua figlia Minnehaha, la Scotennatrice, che si battono per il popolo Sioux contro l’invasione bianca del West americano o, ancora, di Maria Federowna che organizza la fuga del fratello dagli orrori della prigionia in Siberia cui era stato condannato come ribelle polacco; di Jolamda la figlia del Corsaro nero o di Honorata, la Regina dei Caraibi, nel ciclo dei corsari e dei pirati delle Antille, e, per finire, di Capitan Tempesta ovvero della bellissima Eleonora, duchessa d’Eboli, che, ispirata direttamente alla figura della Clorinda inventata dal Tasso, anima le pagine dei romanzi dedicati allo scontro tra mussulmani e imperi cristiani nel Mare Mediterraneo, sempre l’autore più celebre dei romanzi di avventura ci mette al cospetto di donne giovani, belle, dallo spirito ardente e fiero, incapaci di sottomettersi alla volontà di avversari più potenti o di uomini forti più per ricchezza che per coraggio proprio.

Molto prima delle eroine dei film di George Lucas o di Tarantino e di quelle che hanno in seguito animato mille pellicole avventurose, dagli ultimi film del ciclo di Mad Max a Rebel Moon e altri ancora, sono esistite donne, giovani, belle e coraggiose che, pur non essendo né nobili né ricche o di discendenza illustre, hanno davvero messo a soqquadro la società bianca e borghese americana a cavallo tra XIX e XX secolo. Certo, non allo stesso modo delle militanti della Comune di Parigi come Louise Michel oppure come Clara Zetkin e le altre donne terroriste russe del periodo precedente la Rivoluzione russa o, ancora, le giovani operaie di San Pietroburgo che l’avevano avviata nel febbraio del 1917, ma abbastanza decise e selvagge da mettere in allarme una società che dell’oppressione di genere, “razza” e classe aveva fatto, e fa tutt’ora, il suo tratto distintivo.
Ed è proprio di queste donne e delle loro vite ribelli e “bellissime” che ci parla la scrittrice e accademica newyorchese Saidiya Hartman, nel testo pubblicato da minimum fax: Vite ribelli, bellissimi esperimenti.

La studiosa, che è nata nel 1961 ed insegna alla Columbia University, si occupa di storia culturale, fotografia e filosofia etica e durante l’intera sua carriera si è concentrata sulla cultura afroamericana e sulle intersezioni tra diritto e letteratura. Oltre che di quest’opera, pubblicata in lingua originale nel 2019 con il titolo Wayward Lives, Beautiful Experiments. Intimate Histories of Social Upheaval, è stata autrice di Perdi la madre, pubblicata in Italia da Tamu nel 2021 (qui) e di Scenes of Subjection: Terror, Slavery, and Self-Making in Nineteenth-Century America. Tra i molti riconoscimenti, ha ricevuto una borsa di studio Fulbright, una Guggenheim Fellowship nel 2018, una MacArthur Fellowship nel 2019. Nel 2022 è entrata a far parte dell’American Academy of Arts and Sciences.

Puoi trovarla nel gruppetto di attraenti teppisti e ragazze troppo sveglie che si radunano all’angolo della strada e canticchiano l’ultimo ragtime, o mentre se ne sta di fronte a Wanamaker e fissa bramosa un bel paio di scarpe esposte in vetrina come fossero gioielli. Guardala nel vicolo mentre si passa un boccale di birra con le amiche, bella e sfacciata, col suo vestito preso in saldo e i nastrini di seta; ammirala mentre si sporge dalla finestra di un palazzo, gustandosi lo spettacolo del quartiere e sfidando la forza di gravità. Imbocca una qualsiasi delle strade che attraversano la città tentacolare e la incontrerai mentre se ne va girovagando. I forestieri chiamano «slum» le strade e i vicoli che formano il suo mondo. Per lei è semplicemente il posto in cui vive.1.

E’ questo l’incipit di un libro di storia sociale che si legge, davvero, come un romanzo. E’ questa figura senza nome e senza identità ufficiale, che riassume in sé tutte le figure di donne che verranno nelle successive 450 pagine. Più che un’introduzione, La terribile bellezza dello slum, il primo capitolo del testo della Hartman, che inaugura anche il primo libro, Lei, il suo cammino errante attraverso la città, pare un trailer cinematografico tanta è la forza visiva con cui l’autrice ci porta nel mondo che intende narrare e ricostruire.

Cosa significa, infatti, desiderare una vita bella quando la sopravvivenza stessa non può essere data per scontata? Come si fa a immaginare la libertà quando si è costrette a sottostare alle regole dell’esclusione? Due o tre generazioni dopo la fine della schiavitù, le giovani donne nere scoprivano la città e le sue promesse e rifiutavano i ruoli angusti che la società aveva loro assegnato. Prima degli scrittori, prima dei predicatori e degli studiosi di questioni razziali, le ragazze nere si interrogavano sul senso profondo della libertà e scoprivano che era possibile portare avanti una vera e propria rivoluzione agendo sull’unica dimensione di cui potevano avere almeno il parziale controllo, quella della loro vita individuale.

In fin dei conti non è forse questo il motore di ogni avventura e di ogni ribellione? Contro l’ingiustizia; contro la miseria, esistenziale ancor più che economica; contro la norma abitudinaria, creata dagli oppressori ma interiorizzata dagli oppressi. E non è forse, in tante avventure, la gioventù a rivoltarsi contro, non la vecchiaia, ma contro un mondo vecchio, nelle sue forme e nelle sue leggi?

Per descrivere il mondo attraverso gli occhi delle donne nere, giovani e ardimentose, Saidiya Hartman parte dagli archivi – fascicoli della polizia, articoli, album di famiglia, resoconti dei sociologi – da cui trae l’ossatura delle vicende che racconta. Soprattutto dalle fotografie d’epoca e d’archivio di cui, fin dalle prime righe, trasmette al lettore la grande forza documentaristica ed evocativa. Fotografie, come quella di Ada Overton Walker usata per la copertina che pare riassumere in sé, in un unico scatto del 1917, tutta la bellezza e l’orgoglio contenuti nelle storie narrate.

Vite ribelli, bellissimi esperimenti racconta storie di amore liberissimo, di madri «single» ma tutt’altro che sole, di lavori umilianti rifiutati e di affetti nati dentro le stanze di un carcere femminile. Riportare alla luce ciò che è stato cancellato o rimosso, dare la parola al silenzio: questo è il lavoro straordinario che Hartman svolge con rigore e partecipazione, incrociando le storie di queste donne disobbedienti a quelle di personaggi e vicende più noti, ma lasciando che sia sempre «il coro» ad occupare il centro della scena.

Differenziandosi da tanto accademismo afro-americano, ma non solo, che ha dato della condizione nera una formulazione che di fatto la assolutizza, privandola di qualsiasi possibilità e capacità di rottura con l’esistente:

Saidiya Hartman enfatizza la capacità di resistere della gente nera. In Vite ribelli, bellissimi esperimenti impiega il metodo della “affabulazione critica” per svelare le storie delle giovani donne nere e delle persone di genere non tradizionale negli Stati Uniti a cavallo del ventesimo secolo. In città come New York e Filadelfia, queste donne, a poche generazioni di distanza dalla schiavitù, erano sottoposte a nuove forme di razzializzazione e di asservimento e oppressione di genere. Hartman argomenta che queste donne nere erano impegnate in “piccole” rivoluzioni “per costruire vite autonome e bellissime, sottrarsi alle nuove forme di asservimento che le attendevano, e vivere come se fossero libere”. Hartman crea una contro-narrazione rispetto ai documenti ufficiali, nei quali troviamo silenzio o rimozione quando cerchiamo prove di queste vite ribelli. In una breve annotazione teorica, ci ricorda che il termine “ribelle” fa parte di una famiglia di parole che include “errante, fuggitivo, recalcitrante, anarchico, ostinato, spericolato, fastidioso, riottoso, tumultuoso, ribelle e selvaggio”2.

Per la Hartman, sempre secondo Okoth:

l’abolizione formale della schiavitù negli Stati Uniti non ha prodotto una reale discontinuità nella violenza razziale. Troviamo oggi i segni di tale violenza nelle “ridotte chance di vita, nel limitato accesso alla salute e all’educazione, nelle morti premature, nelle incarcerazioni e nell’impoverimento” della gente nera. L’abolizione formale e la Ricostruzione non hanno portato all’emancipazione. Questi eventi sono piuttosto serviti come tappe della “transizione fra modi di servitù e subordinazione razziale”. Mettendo in primo piano il violento processo di subordinazione razziale, Hartman vuole mostrare che la violenza della schiavitù non è limitata alla “costruzione dello schiavo come oggetto”; infatti l’umanità dei soggetti resi schiavi era fondamentale per il progetto di subordinazione razziale. I neri, perciò, non sono oggetti subumani, come affermano Wilderson, Sexton e Warren3, bensì soggetti razzializzati che sono assolutamente parte della sfera sociale e politica4.

Il documento fotografico, come si è già detto prima, è importantissimo all’interno di una ricerca in cui l’enfatizzazione e la comprensione dell’ambiente urbano di provenienza dei soggetti analizzati, ovvero delle giovani donne afro-americane povere del periodo compreso tra la grande migrazione a Nord e il Rinascimento di Harlem cui avrebbe posto fine la grande crisi economica a cavallo tra anni Venti e Trenta, svolge un ruolo chiave.

Non capiteresti mai nel suo isolato a meno che tu non ci abiti, o ti sia perso, o non te ne vada in giro in cerca dei piaceri forniti dall’altra metà del mondo. I voyeur nelle loro spedizioni nei bassifondi si nutrono della linfa del ghetto, la desiderano e al tempo stesso la disprezzano. I sociologi e i benefattori con le loro fotocamere e i loro studi non sono tanto meglio, intenti a osservare tutti quegli strani esemplari. Il suo distretto è un labirinto di vicoli sporchi e cortili malconci. È Africa Town, il quartiere nero, la zona dei nativi. Italiani ed ebrei, fagocitati per prossimità, scompaiono. Celato dietro la facciata della metropoli ordinata, c’è un intero mondo: gli edifici non ancora fatiscenti e le case dignitose che affacciano sulla strada nascondono i caseggiati del vicolo in cui vive. Imboccando il passaggio laterale che porta al vicolo, si varca la soglia di un mondo turbolento e rumoroso, un luogo definito dal tumulto, dal volgare collettivismo e dall’anarchia. È una fogna umana popolata dai peggiori elementi. È il regno dell’eccesso e dell’esagerazione. È un luogo di dannazione. È la piantagione estesa alla città. È un laboratorio sociale. Il ghetto è uno spazio di incontro. […] una comunità urbana in cui i poveri si riuniscono, improvvisano forme di vita, sperimentano la libertà e rifiutano quell’esistenza servile che gli è stata ascritta. È una zona di estrema privazione e di spreco scandaloso. Nei caseggiati popolari gli onesti convivono serenamente con i dissoluti e gli immorali. Il quartiere nero è un luogo privato di ogni bellezza e stravagante nel suo modo di sfoggiarla. […] Nello slum scarseggia tutto tranne le sensazioni. L’esperienza è troppa. La terribile bellezza è più di quanta si potrebbe mai sperare di assimilare, ordinare e spiegare. I riformatori sociali scattano foto agli edifici, alle kitchenette5, ai fili stendibiancheria e alle latrine. Lei passa inosservata mentre li scruta dalla finestra del terzo piano della casa nel vicolo in cui vive, ridendo della loro stupidità. […] Si chiede cosa li affascini tanto nei fili stendibiancheria e nelle latrine. Fotografano sempre la stessa roba. Le mutande dei ricchi sono tanto meglio di queste? Il cotone è così diverso dalla seta ed è esteticamente meno bello drappeggiato come uno striscione da una parte all’altra della strada? I forestieri e gli «uplifter»6 non capiscono, non colgono il punto. Vedono solo un tipico vicolo del quartiere nero, ciechi agli scambi di sguardi e ai morsi del desiderio che sconvolgerebbero le loro didascalie lasciando intravedere la possibilità di una vita che va oltre la povertà, un tumulto e uno sconvolgimento che non possono essere arrestati dalla fotocamera. Non riescono a discernere la bellezza e vedono soltanto il disordine, non si rendono conto che la gente nera crea la vita e trasforma i bisogni basilari in un’arena di elaborazione.[…] I giornalisti sbottano sulle pagine dell’Harper’s Weekly: «Oltre agli ebrei, nei caseggiati, tra scene di indescrivibile squallore e abiti pacchiani, ci vivono i neri, facendo una vita spensierata tra piaceri mondani, confusione, musica, rumore e lotte feroci che li rendono spaventosi sia per i vicini bianchi che per i proprietari di casa». Indignati alla vista di domestiche, inservienti e stivatori in abiti eleganti, di ragazzi dell’ascensore con copricapo stravaganti che si pavoneggiano all’angolo della strada, di neri esteti felici di buttar via soldi in lussi, ornamenti e luccichii, i sociologi li esortano a imparare il valore del denaro dai vicini italiani ed ebrei. I neri devono abbandonare il lassismo, l’indulgenza sessuale e gli eccessi sfrenati, usanze tipiche degli schiavi. Il passato-presente di servitù involontaria si manifesta per le strade, e la famiglia, completamente distrutta dalle navi schiaviste e dalla promiscuità delle piantagioni, viene ora distrutta di nuovo, sfasciata perché accoglie estranei. I sensi sono iperstimolati e sopraffatti. Guarda e lascia che gli occhi riescano a cogliere tutto: quegli splendidi teppisti nel cortile, in riga come sentinelle; la smodata esposizione di splendide fioriere sistemate sul davanzale di un caseggiato, le lenzuola, i fazzoletti con le iniziali ricamate, le calze di seta ricamate, l’intimo di una prostituta appeso al filo sul vicolo, quasi a sfoggiare rapporti clandestini, vite ribelli, faccende carnali. Donne con pacchetti legati con lo spago sfuggono come ombre. La luce violenta alle loro spalle le trasforma in silhouette; forme scure e astratte prendono il posto di chi sono davvero7.

Per scoprire il meraviglioso segreto e le vicende racchiuse nelle oltre quaranta biografie contenute nel testo non resta ora altro, per il lettore, che sprofondarsi nella sua lettura, per esserne affascinato e stimolato come avviene con tutti i migliori romanzi di avventura.


  1. S. Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, p. 19.  

  2. Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 43-44.  

  3. Autori e ricercatori accademici appartenenti alla corrente definita da Okoth come Afro-Pessimismo 2.0. Si veda la recensione del testo di Okoth su Carmilla qui  

  4. Kevin Ochieng Okoth, op. cit., pp. 42-4.  

  5. Minuscoli appartamenti diffusi, a partire dagli anni Venti, soprattutto nei quartieri abitati dalla comunità afroamericana di Chicago e New York, ottenuti suddividendo abitazioni più grandi per massimizzare il profitto.  

  6. Persone che si dedicavano alla cosiddetta «elevazione della razza», ossia al miglioramento sociale, culturale, intellettuale e morale delle persone nere.  

  7. S. Hartman, op. cit., pp. 19-23.  

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Fumo di Londra https://www.carmillaonline.com/2024/08/10/fumo-di-londra-2/ Sat, 10 Aug 2024 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83866 di Giovanni Iozzoli

Mentre scrivo queste brevi note, dall’Inghilterra giunge qualche confortante segnale di reazione al ciclo di violenze di matrice xenofoba, che ha incendiato diverse città del Regno Unito. Grandi manifestazioni “antirazziste” hanno superato nei numeri quelle di segno opposto, coinvolgendo le comunità straniere, pezzi di sindacato e di sinistra politica. Una buona cosa, perché l’incubo delle strade in mano ai teppisti islamofobi, non poteva essere tollerato più a lungo.

Questa ondata di violenza – non prevista da alcuno – ha reso l’idea di una pentola a pressione improvvisamente scoperchiata da un evento tragicamente occasionale. Da questo punto di vista, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Mentre scrivo queste brevi note, dall’Inghilterra giunge qualche confortante segnale di reazione al ciclo di violenze di matrice xenofoba, che ha incendiato diverse città del Regno Unito. Grandi manifestazioni “antirazziste” hanno superato nei numeri quelle di segno opposto, coinvolgendo le comunità straniere, pezzi di sindacato e di sinistra politica. Una buona cosa, perché l’incubo delle strade in mano ai teppisti islamofobi, non poteva essere tollerato più a lungo.

Questa ondata di violenza – non prevista da alcuno – ha reso l’idea di una pentola a pressione improvvisamente scoperchiata da un evento tragicamente occasionale. Da questo punto di vista, sapere che l’assassino di bambini di Southport non è un aspirante jihadista ma un cristiano figlio di ruandesi, ha cambiato poco il quadro: la scintilla non descrive l’incendio né offre previsioni sulla sua diffusione. A bruciare in Inghilterra in questo momento è proprio il mito della convivenza multietnica di cui il comunitarismo britannico è sempre sembrato laboratorio avanzato.

E’ inutile negarlo, siamo scioccati dalle immagini di nostri fratelli di classe – giovani segmenti di working class bianca – totalmente succubi di parole d’ordine e suggestioni di segno fascista. Non è la prima volta che ciò accade: tra la precarietà della coscienza operaia e il tribalismo sottoproletario, si cammina sempre su una lama sottile. Più di trent’anni sono passati dai fatti di Rostok – sempre agosto ma del 1992: l’ouverture di un processo storico in cui una maligna talpa nazistoide ha ben scavato per decenni, fino a portare l’AFD a diventare primo partito nei territori ex DDR.

Cosa abbiamo visto all’opera, in questi giorni, lungo le strade da Liverpool a Belfast? Odio per il diverso? Certo. Soprattutto se è considerato un competitor sul mercato del lavoro, della casa e del welfare.
Rifiuto della democrazia? Certo, soprattutto se letta come semplice ricambio al potere di élite tecnocratiche, espressione dei piani alti della piramide sociale. E se qualcuno martella per decenni i quartieri proletari e l’infosfera, con l’idea che quelle élite hanno “creato” scientemente il modello sociale multietnico per fottere l’Inghilterra, i suoi valori e gli interessi del “popolo”, ebbè: la miscela è pronta ad esplodere; e le menti obnubilate possono pensare che attaccare un centro per richiedenti asilo sia come attaccare una propaggine del potere finanziario globale.

Le manifestazioni antirazziste di massa di queste ore, però, palesano una criticità: corrono seriamente il rischio di finire arruolate ed inglobate dentro il perbenismo mainstream. Infatti i grandi giornali – in Italia in testa “Repubblica” – si spellano le mani ad applaudire gli “antifascisti” che ricacciano indietro la white trash, il sottoproletariato bianco degli stadi e dei pub. In questo modo, la lettura degli schieramenti, soprattutto da parte dei settori giovanili, diventa fatalmente torbida: e i movimenti antifascisti corrono il rischio di sembrare gli scherani del potere politico-mediatico, chiamati a difendere nelle piazze la società liberale, con tutte le sue “aperture e tolleranze”, contro la feccia bianca, ignorante e da respingere nelle zone d’ombra dei perdenti sociali.

A questo aggiungiamo che il multiculturalismo non è un pranzo di gala. Le differenze di fedi e stili di vita hanno un peso preponderante, nella vita sociale dei quartieri proletari (lo sa chi li frequenta, ovviamente…). A sinistra abbiamo cretinamente sottovalutato questo aspetto pensando paternalisticamente che la macchina della storia – progressiva, ça va sans dire! – avrebbe omologato le anime, le radici, le subculture, i sentimenti religiosi. Ed è paradossalmente la medesima hybris del liberismo: che assegna tale funzione livellatrice alla moderna divisione del lavoro, al mercato e al consumo. Né il progressismo di sinistra, né l’ottimismo capitalistico, hanno anestetizzato le radici culturali dei popoli. Anzi, talvolta quelle radici vengono strumentalmente recuperate e sbandierate, proprio per sottrarsi all’alienazione e alla spoliazione che l’individuo moderno subisce. Quindi: la società multietnica è ben lungi dal configurare un modello pacificato. E’ piuttosto un magma in perenne movimento, in cui le contraddizioni di classe si intersecano alle “linee del colore”, mentre larghi settori di popolazione non sono disposte a mandare in soffitta le loro storie, i loro legami arcaici. Un bel casino.

Se parli con le persone comuni che si sentono vittime della “globalizzazione” – e parlare è necessario, sempre, con tutti –, mettersi a predicare la bellezza della società multietnica non è una bella strategia. Daremmo l’idea di aver contribuito noi a crearlo, questo modello, mentre esso è solo l’espressione di una fase storica del capitalismo – e il fatto che a noi soggettivamente “piaccia” o meno, non cambia molto. Dobbiamo spiegare ai nostri interlocutori che questa società – nei suoi aspetti brutti e belli – è essenzialmente il risultato di grandi processi, anonimi e collettivi. Nessuno “modella” o riconfigura le società complesse. Nessuno ha “chiamato” gli immigrati: arrivano da soli, con ogni mezzo possibile, senza chiedere permesso a chicchessia, perché questa è la storia dell’umanità. Una storia in movimento. Non facciamo apologia delle brutture delle nostre periferie e di questo modello sociale: spieghiamo bene che noi non c’entriamo, che non siamo complici, che non la vogliamo così, la storia; che per noi convivenza significa tutta un’altra cosa….

Leggendo gli editoriali dei giornali, gli attori in campo sembrano al momento essenzialmente due: il potere politico-mediatico che invita all’integrazione, alla “convivenza” e al rispetto dell’ordine sociale capitalistico; e un arcipelago livoroso e informe di malessere “bianco”, costituito dai perdenti della globalizzazione. Manca un terzo “discorso pubblico”: il nostro, quello che si dovrebbe distinguere radicalmente dagli altri due; quello che dovrebbe evitare lo schiacciamento delle nostre energie vive e della nostra storia, dentro il fronte della “tolleranza liberale” – l’ideologia per cui si possono e si devono spremere e sfruttare i proletari di ogni colore senza alcun pregiudizio etnico…

Non stupiamoci se i fascisti fanno il loro mestiere e provano ad organizzare le persone (e del resto un riot suprematista chi dovrebbe guidarlo, i gesuiti?). Proviamo a chiederci piuttosto perché non riusciamo più a farlo noi. Abbandonare il campo del “malessere bianco” dandolo per perso è sbagliato. Si rischia di ripetere quanto visto durante l’emergenza covid: mentre l’incubo della governance bio-politica diventava prassi ordinaria – dopo decenni di chiacchiericcio sull’argomento nei seminari accademici –, una tacita ritirata della “sinistra alternativa” fiancheggiava oggettivamente lo stato di eccezione. Mai più, please.

Le manifestazioni di massa antirazziste che stanno rispondendo in queste ore sono dunque sacrosante. E la discesa in campo dei giovani delle seconde (e ormai terze) generazioni, può rappresentare un dinamismo sociale dirompente. Sarebbe però una beffa tragica, se gli antifascisti della strada e del quotidiano, passassero per difensori del potere liberale, lasciando intendere che siano apologeti di questa schifosa società: davanti a cui qualsiasi fascistello acquisirebbe il carisma del “rivoltoso in lotta contro il sistema”.

Le dame progressiste della buona società di “Repubblica”, del Lilligruberismo, del PD, del mondo associativo – tutti coloro che cercano di indorare la pillola di questi grandi processi storici, raccontando quanto siano belli, desiderabili e il migliore dei mondi possibili, rispetto ai terribili mostri orbaniani – non sono nostri amici o alleati. La loro compagnia ci scredita, almeno quanto ci screditerebbero gli orbaniani stessi. “Né Boldrini né Meloni”, è la giusta linea: gli immigrati non sono “risorse utili” né ovviamente nemici; sono persone che probabilmente (soprattutto quelli arrivati nell’ultimo decennio) avrebbero preferito restare a casa loro piuttosto che rischiare la pelle e soffrire viaggi che possono durare anni per approdare qui, a pulire i nostri cessi, tenere aperti i nostri cantieri, vivere in stamberghe o per strada, supplicare permessi provvisori che consentano loro di creare plusvalore nella legalità, perseguire ricongiungimenti familiari che ormai sono odissee burocratiche e donare la loro nuda vita e la loro giovinezza al capitalismo metropolitano. Il fatto che sono qui significa che il mondo fa schifo: non c’è bellezza, non c’è “incontro dei popoli”, non c’è United Colors, non c’è open society – non sono turisti, sono vittime del retaggio coloniale e del sistema imperialista.

E torniamo al punto di partenza: perché gli xenofobi hanno elaborato una loro contorta elaborazione e una loro (orrida) visione su questi fenomeni epocali, mentre noi brancoliamo nel buio e al massimo scendiamo in piazza “a posteriori”, a inseguire i processi cantando Bella Ciao? Qual è il nostro punto di vista, qual è la nostra narrazione: qual è il nostro immaginario, che dovrebbe disegnare i contorni di una società diversa fondata sul conflitto verticale? Quali sono le parole d’ordine che possono ri-accreditarci dentro le platee di massa a cui gli xenofobi attingono? Qual è la strada per sottrarci all’abbraccio mefitico dei difensori del presente, che nella stessa edizione dei loro giornaloni possono lodarci o esecrarci, a seconda di quanto possiamo risultare loro utili?

Dobbiamo costruire forme della politica che tengano dentro i bianchi e i “non bianchi”: poche chiacchiere, da qui non si scappa. Organizzare i profughi e le microminoranze, è cosa buona e giusta, ma serve fino a un certo punto. O li organizziamo dentro forme condivise – realtà politiche o sindacali a larga riconoscibilità autoctona – o diventiamo i rappresentanti di un ultra minoritarismo nobile e inutile. Da questo punto di vista, alcune lezioni de La France Insoumise, con tutti i suoi limiti (come siamo bravi a spiegare i limiti degli altri…), possono essere utili: una forza di massa che parla contemporaneamente ai ragazzi delle periferie, alla piccola borghesia che studia all’università e a pezzi sindacalizzati di mondo del lavoro tradizionale. Poco? Abbastanza per fermare il lepenismo, abbastanza per tenere la dialettica aperta tra “politica e classe”.

Nella crisi generale della società capitalistica globale – che è anche crisi ideologica, morale, di senso –, milioni di uomini e donne, persone semplici, spesso fragili o prive di strumenti, persi nel mare della iperconnessione globale, sono alla disperata ricerca di un ordine che dia loro sicurezza. Fino ad ora è stato loro proposto il carnevale dell’individualismo liberale, la fiera delle occasioni, lo spettacolo della decadenza, l’effimero della vetrinizzazione social. Hanno visto che dietro questo paese dei balocchi c’è la miseria materiale, l’arretramento del proprio segmento sociale, la contesa per dividersi le briciole con masse di indistinti “nuovi arrivati” che non possono far altro che svendersi e competere a prezzi migliori. Se facciamo capire che condividiamo i lineamenti di questo perverso meccanismo, qualsiasi fascistello di passaggio risulterà più attrattivo e credibile.

C’è bisogno di un ordine nuovo (cfr: Gramsci). Ripeto: un ordine nuovo, non chiacchiere sulle libertà, i diritti e la correttezza politica. Un ordine da cominciare a teorizzare, discutere e praticare. E noi dovremo essere identificati non come i difensori dei centri di accoglienza, ma come i propugnatori di questo nuovo ordine: in cui le persone non saranno più messe in competizione, ma valorizzate in funzione dei loro bisogni e del lavoro utile che potranno fornire alla società. Dobbiamo reimparare a sillabare queste verità elementari che un tempo ci distinguevano nettamente dall’avversario di classe e che abbiamo smarrito sotto i colpi dell’egemonia liberista, subita unilateralmente per trent’anni. Costruire, a partire dall’immaginario collettivo, la terza via tra l’apologia democratica del presente e il moto reazionario che gli si oppone: questo è il duro compito dell’oggi. Non abbiamo niente da difendere.

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Un diverso contributo alla storia dell’Autonomia (proletaria) https://www.carmillaonline.com/2023/11/21/un-utile-contributo-per-ridefinire-un-pezzo-di-storia-dellautonomia-proletaria/ Tue, 21 Nov 2023 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80027 di Sandro Moiso

Francesco Schirone (a cura di), L’Utopia concreta. Azione libertaria e Proletari autonomi. Milano 1969-1973, Volume I, Zero in Condotta, Milano 2023, pp. 382, 25 euro

[Per Autonomia operaia] Intendiamo la lotta (in tutte le sue espressioni, dal momento dell’esecuzione materiale e di tutti gli altri momenti riflessivi) di quegli strati che vivono nella condizione proletaria; una lotta che si ponga sempre in posizione antagonistica e mai unificante con gli interessi del sistema organizzato dello sfruttamento; una lotta condotta unicamente nel metodo della convenienza proletaria e non con quello della convenzione del legalitarismo democratico-borghese (vedi sindacalismo, parlamentarismo, ecc.); [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco Schirone (a cura di), L’Utopia concreta. Azione libertaria e Proletari autonomi. Milano 1969-1973, Volume I, Zero in Condotta, Milano 2023, pp. 382, 25 euro

[Per Autonomia operaia] Intendiamo la lotta (in tutte le sue espressioni, dal momento dell’esecuzione materiale e di tutti gli altri momenti riflessivi) di quegli strati che vivono nella condizione proletaria; una lotta che si ponga sempre in posizione antagonistica e mai unificante con gli interessi del sistema organizzato dello sfruttamento; una lotta condotta unicamente nel metodo della convenienza proletaria e non con quello della convenzione del legalitarismo democratico-borghese (vedi sindacalismo, parlamentarismo, ecc.); una lotta il cui potere di gestione sia tutto nelle mani delle masse proletarie sfruttate (autogestione) ripudiando ogni forma di delega di potere decisionale, usando solo il metodo dell’azione diretta. (Spunti per una discussione sul sociale e sull’autonomia proletaria – Proletari autonomi, marzo 1973)

Per uscire, una volta tanto, dalla narrazione “operaista” della nascita e dello sviluppo dell’Autonomia, si rende utile e necessaria la lettura di questo primo volume, edito da Zero in condotta, sull’esperienza dei gruppi anarco-consigliaristi, soprattutto milanesi, che tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta fornirono un impulso organizzativo e nuove ipotesi di riflessione allo sviluppo di un movimento, allora, vivace e allo stesso tempo caotico che avrebbe dato vita e motivi di rinnovamento politico ai movimenti antagonisti di quel periodo attraverso innumerevoli spoglie ideologiche.

Non si tratta, però, qui di stabilire primati, diritti di prelazione o di prima nascita di sigle, teorizzazioni e formule che avrebbero caratterizzato in seguito i movimenti e il dibattito politico al loro interno, ma, piuttosto, di cogliere, come sempre si dovrebbe fare in questi casi, che tutte le varie formule e gli espedienti organizzativi e politici che quegli stessi finirono col produrre e riprodurre affondavano le loro radici non nelle teste dei singoli, nelle idee o in formulazioni ideologiche predefinite in anticipo da partiti o intellettuali più “di mestiere” che rivoluzionari “di professione”, ma nella concreta realtà dello sviluppo delle ribellioni proletarie e operaie, giovanili e studentesche di quegli anni.

Lotte e moti spontanei di rivolta, nelle fabbriche e nei quartieri, nelle strade e nelle università e scuole, che derivavano da concrete condizioni materiali di sfruttamento e oppressione, molto prima e molto più radicalmente di quanto qualsiasi ideologia, dottrina “scientifica” e ipotesi politica o sindacale avesse potuto prevedere in anticipo o con precisione. Da questo punto di vista un certo spontaneismo, termine con cui troppo spesso un’ortodossia, sempre farlocca, vorrebbe bollare tutte le iniziative che sfuggono ai suoi parametri interpretativi, era frutto della spontaneità e della immediatezza delle lotte. Per lungo tempo imprevedibili, tanto per i “padroni” che per i “bonzi” sindacali o di partito.

Se è vero dunque che qualsiasi sistemazione o interpretazione politica o storica delle lotte e delle loro finalità non può avvenire altrimenti che ex post, è altrettanti vero che spesso l’immediatezza dell’idea di azione diretta di stampo anarchico costituisce il primo “sentire” di avvenimenti in corso di maturazione ed evoluzione. Primo “sentire” che spesso si lascia irretire, talvolta, da formulazioni e da utopie sociali un po’ troppo semplicistiche (ma non lo sono, forse, tutte le Utopie?), ma che ha l’indubbio pregio di cogliere l’immediatezza dei fatti, senza per forza costruirvi intorno subito, magari in seguito poi sì, formule teoriche e organizzative che troppo spesso finiscono, nella loro magniloquenza e pretesa affermazione di autorità e verosimiglianza, col dividere gli stessi movimenti da cui sono nate e cui devono le loro concrete origini materiali.

Ecco, allora, che il titolo scelto per la raccolta di saggi, articoli, testimonianze, pagine di giornali e volantini curata da Franco Schirone, L’Utopia concreta, è davvero perfetto. Nelle sue pagine si tratta, infatti, dell’”Utopia concreta” che scaturì dall’unione tra pensiero e azione anarchica e lotte operaie e proletarie non solo in quel di Milano, in cui alcuni dei gruppi che animarono quell’esperienza ebbero origine e sede, ma anche in altre parti d’Italia.

Non a caso, la citazione posta in esergo a questa recensione è tratta da un ciclostilato distribuito come supplemento al n° 1 e 2 di “Proletari Autonomi”, edizione per la Sardegna e ciclostilato a Cagliari nel marzo del 1973. L’ampia raccolta documentaristica inclusa nel volume riesce così a ricreare la memoria di fatti che dalla persecuzione deli anarchici dopo la strage di piazza Fontana alla manifestazione dell’anno successivo in cui nella stessa data della strage, 12 dicembre, morì lo studente Saverio Saltarelli, ammazzato dalle forze del disordine, come diceva la canzone, con una bomba al cuore.

Su su, oppure se preferite giù giù, fino alle cronache delle lotte operaie e alla nascita dei comitati operai e di quei consigli di fabbrica, prima irregolari poi sempre più inquadrati dai sindacati confederali negli anni successivi, oppure ancora alla rivolta di Reggio Calabria del 1970. Una storia dei movimenti e delle loro lotte che, attraverso testimonianze dei protagonisti di allora e dei fogli scritti e ciclostilati di quel tempo, ricostruisce anche lo sviluppo di un’idea di autonomia di classe che iniziatasi nel gruppo Kronstadt (nomen omen) di Milano e dall’esperienza di Azione libertaria (gruppo anarco-sidacalista-consigliare), nel 1969-1972, darà poi vita, dal 1972 al 1974, a Proletari Autonomi, gruppo di discussione teorica che raccoglieva compagni militanti in differenti collettivi autonomi e che, a seguito di una divisone interna, avrebbe poi dato vita, dal 1974 al 1980, al Centro Comunista di Ricerche sull’Autonomia Proletaria (C.C.R.A.P.) e successivamente, ancora, a Collegamenti, fondando l’omonima rivista. Da cui sarebbero ancora derivati, nel 1975-77, «La fabbrica diffusa», rivista milanese di analisi e intervento sulla figura dell’operaio sociale e, dal 1981 al 1983, al foglio che dal 1983 si sarebbe unito a «Collegamenti» per dare vita alla rivista «Collegamenti-Wobbly», fino alla primavera del 1994.

Una storia lunga come si può vedere da questo fin troppo rapido excursus, anche se questo primo volume si occupa specificamente del primo periodo dal 1969 al 1973, mentre resta in preparazione un volume successivo che si occuperà del periodo dal 1973 al 1982. Una storia che, come ci ricorda Giorgio Sacchetti, nasce dall’idea che, al contrario di quanto ha rivelato ancora una volta la sottomissione confederale all’Autorità statale, così tanto e spesso invocata dai sindacati confederali, in occasione dello sciopero “generale” del 17 novembre: «all’origine del movimento operaio non c’era lo Stato, ma l’idea di far da sé, di autogestione e di azione diretta»1.

Tocca però a Cosimo Scarinzi, testimone e protagonista di quell’esperimento fino ed oltre «Collegamenti-Wobbly», nella sua prefazione al testo, elencare per sommi capi le caratteristiche di quella esperienza, sia nella novità, che ebbe modo di rappresentare, che nei suoi limiti, visibili a cinquant’anni di distanza.

1. La critica radicale dei sindacati individuati come strumento di integrazione della classe anche nelle loro forme più estremiste e democratiche. Da ciò un giudizio negativo dello stesso “sindacato dei consigli” la cui “democratizzazione” ci parve , in maniera per certi versi unilaterale, una trasformazione volta a recuperare e inquadrare le stesse lotte più radicali.
2. La critica altrettanto radicale dei partiti della sinistra che si stendeva coerentemente ai gruppi della nuova sinistra di orientamento leninista giudicati non solo autoritari ma espressione degli interessi di una piccola borghesia parassitaria che cerca di utilizzare le lotte degli operai per occupare spazi di potere nell’apparato statale e sindacale.
3. Una differenziazione rispetto alla componente maggioritaria dello stesso movimento anarchico percepito come chiuso rispetto al conflitto di classe e troppo legato alla salvaguardia di una tradizione rispettabile ma talle da bloccare l’azione. Fuori dalle passioni dl tempo a chi scrive quel giudizio appare eccessivo e, in alcuni casi, ingeneroso ma era parte del nostro sentire che aveva alcune ragioni.
Guardando oggi a quelle vicende appare evidente che la nostra eresia era, per molti versi, un ritorno a un’ortodossia, non all’ortodossia […].
Mi piace, a proposito del mio/nostro operaismo radicale, ricordare come mi colpì quanto mi disse una volta Lea Melandri, una femminista molto conosciuta che frequentava i nostri ambienti, che mi fece rilevare come il proletariato tenda all’integrazione non, o non principalmente, per l’influenza della malefica piccola borghesia parassitaria ma proprio per il suo essere classe di questa società volta a migliorare, magari con lotte radicali, la propria condizione all’interno dei rapporti sociali dominanti2.

L’Utopia concreta, come afferma infine Roberto Brioschi nella seconda parte della Prefazione al testo, «è la inedita ricostruzione e proposizione della esperienza rivoluzionaria antiautoritaria degli anni dal 1968 al 1982 […] Anni che videro il tentativo cogente della abolizione del cosiddetto ordine capitalistico». Per poi concludere, poco dopo, affermando:

Un ribaltamento tutt’ora celato, temuto ed esorcizzato poiché rappresenta una storia che non è più una cronaca temporale dell’avvicendarsi di un Potere sopra ad un altro ma diviene Storia di liberazione sociale, collettiva ed individuale, propria di un immaginario che diventa realtà. Oggi più che mai bisogna tornare ad essere in grado di immaginare la vita altra e di realizzarla, ora3.


  1. G. Sacchetti, Milano, un laboratorio del sindacalismo conflittuale, Introduzione a Francesco Schirone (a cura di), L’Utopia concreta. Azione libertaria e Proletari autonomi. Milano 1969-1973, Volume I, Zero in Condotta, Milano 2023, p.13.  

  2. C. Scarinzi, Azione Libertaria e l'”eresia operaista”, prefazione a L’Utopia concreta, op. cit., p.15. Sul punto sottolineato da Lea Meandri si veda anche Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì, Milano 2017.  

  3. R. Brioschi, In punta di matita, prefazione a L’Utopia concreta, op. cit., p.16.  

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Contro l’etica e la disciplina del lavoro che uccide https://www.carmillaonline.com/2023/09/15/contro-letica-e-la-disciplina-delle-stragi-sul-lavoro/ Fri, 15 Sep 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78816 di Sandro Moiso

Sandro Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 190, 14 euro.

La recensione di questa indagine di Sandro Busso, edita dal Gruppo Abele, arriva per esclusiva colpa del recensore un po’ in ritardo, ma d’altra parte non vi potrebbe essere momento migliore per segnalarne l’importanza e indicarla come validissimo strumento per riflettere su quanto sta accadendo quasi quotidianamente nei cantieri e nelle fabbriche, a partire dalla strage di lavoratori avvenuta sui binari della stazione ferroviaria di Brandizzo.

Spesso, su Carmillaonline, chi [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 190, 14 euro.

La recensione di questa indagine di Sandro Busso, edita dal Gruppo Abele, arriva per esclusiva colpa del recensore un po’ in ritardo, ma d’altra parte non vi potrebbe essere momento migliore per segnalarne l’importanza e indicarla come validissimo strumento per riflettere su quanto sta accadendo quasi quotidianamente nei cantieri e nelle fabbriche, a partire dalla strage di lavoratori avvenuta sui binari della stazione ferroviaria di Brandizzo.

Spesso, su Carmillaonline, chi qui scrive ha sottolineato l’hybris, l’arroganza e la tracotanza, di un modo di produzione che pur di soddisfare le proprie ambizioni di guadagno non si preoccupa minimamente della salvaguardia della specie e dell’ambiente in cui dovrebbe soprav/vivere. Un distruttività che in nome del profitto e del “lavoro” non si perita nemmeno di salvaguardare o proteggere chi, per salari spesso da fame, si adatta ad accettarne le logiche e le richieste legate a una necessità di estrazione di plusvalore e plus-lavoro che risponde soltanto agli interessi immediati del capitale e dei suoi miserabili funzionari.

Anzi, si potrebbe dire che proprio dallo sfruttamento selvaggio della forza lavoro deriva quello dell’ambiente e delle sue risorse, tra le quali, è bene non dimenticarlo mai, il lavoro umano e l’intelligenza ad esso applicata sono forse da annoverare tra le principali per il prosieguo della specie e della sua riproduzione.

Però è proprio sul concetto di “lavoro” che lo scontro deve e dovrà farsi, così come è già avvenuto in passato, particolarmente cruento nel prossimo futuro. Proprio per liberarlo da ogni ambiguità e ogni residua permanenza di intesa tra interessi del Capitale e interessi della specie e della classe lavoratrice. Ed è proprio intorno a questo punto che la riflessione di Sandro Busso, professore associato di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino, che insieme a Eugenio Graziano aveva già curato l’edizione italiana di Disciplinare i poveri. Paternalismo neoliberale e dimensione razziale nel governo della povertà di Joe Soss, Richard C. Fording e Sanford F. Schram (Mimesis Edizioni 2022, recensito qui), si rivela particolarmente efficace.

In un testo destinato a portare la riflessione sulla necessità di ridurre l’orario lavorativo, più che ad aumentarlo a dismisura per chi già lavora escludendo dal circuito del lavoro regolare un numero sempre più ampio di giovani, donne e lavoratori di vario genere e provenienza, e su quella di migliorare le retribuzioni ad esso collegate, l’autore sembra non dimenticare mai, nemmeno per un momento, l’autentica lezione, o se si vuole il filo rosso, che corre lungo tutta la storia del movimento operaio: quello della lotta non “per il lavoro”, ma “contro il lavoro salariato” e lo smisurato sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Occorre qui ricordare che a caratterizzare la classe operaia e la sua funzione di innovazione rivoluzionaria, per Marx, non era tanto l’orgoglio del lavoro, ma la necessità di liberarsi proprio dalle catene di quel lavoro che la schiavizzava, abbruttiva e sfruttava senza sosta. Come ebbe infatti a ricordare più volte il rivoluzionario originario di Treviri, «la classe o lotta o non è». Affermazione non tanto apodittica, quanto chiarificatrice del fatto che per l’antagonismo sociale il termine classe nella sua essenza non costituisce una categoria sociologica, ma politica.

Nella classe sociologica il lavoratore e la lavoratrice sono individui dispersi in conteggi dal carattere puramente alfanumerico (occupati, disoccupati, etc.), di volta in volta valutabili attraverso il plusvalore prodotto (di cui è il PIL nazionale a render conto) oppure come vittime di uno sfruttamento “eccessivo ed erroneo”. Mai come protagonisti della propria esistenza collettiva e autori della trama del proprio futuro insieme a quello della specie.

Basterebbe riferire le frasi fatte piene di lacrime di coccodrillo, gli stanchi riti delle istituzioni e dei sindacati per cogliere questo aspetto, così come è stato fatto nei giorni successivi alla strage sul lavoro di Brandizzo, per comprenderlo al meglio. Si piangono gli oggetti e si ignorano i soggetti, comodamente liquidabili con le frasi di circostanza ammantate di pietà i primi, ma non riconoscibili e forse addirittura innominabili i secondi.

Troppo spesso si pensa, infatti, che il rifiuto del lavoro sia stata una bella e originale invenzione o teorizzazione dell’autonomia operaia degli anni ’70, dimenticando che il rifiuto del lavoro salariato, delle sue stimmate sociali, culturali, economiche e politiche e dell’interiorizzazione delle sue logiche è stato, già nel passato, l’elemento centrale delle lotte operaie più avanzate. Là dove i braccianti di Captain Swing incendiavano macchine e stalle dei proprietari terrieri che erano anche i datori di lavoro agli albori dell’Ottocento; là dove i minatori e ferrovieri americani impugnavano i winchester contro le squadre armate della Pinkerton e l’esercito federale alla fine del XIX secolo e là dove i giovani operai degli anni ’60 e ’70 lanciavano sanpietrini e molotov contro le forze dell’ordine che intervenivano per riportarli alla disciplina di fabbrica: là si manifestava la classe nel suo significato politico ovvero nel suo rifiuto di una condizione di sottomissione che proprio nel lavoro “ben disciplinato e organizzato” e nei suoi implacabili ritmi produttivi riconosceva spontaneamente il volto del suo avversario storico: il capitale.

Capitale che proprio intorno all’esaltazione del lavoro e del suo valore etico, dall’epoca del protestantesimo medioevale fino alla Rivoluzione industriale e dopo, aveva visto costituirsi la classe che ne avrebbe rappresentato gli interessi e l’essenza: la borghesia.

Per comprendere come l’etica del lavoro sia a pieno titolo da considerare come il prodotto di processi sociali, e non un immanente comandamento morale insito in ognuno di noi, è necessario tornare […] a quelle civiltà classiche che vedevano nel lavoro un’attività squalificante da riservare unicamente a chi si trovava ai livelli più bassi della stratificazione sociale. Solo adottando una prospettiva temporale così è possibile cogliere come la rappresentazione positiva del lavoro sia un fenomeno culturale estremamente recente e sostanzialmente riconducibile alla rivoluzione industriale del XIX secolo […] Il concetto di valore morale del lavoro è ovviamente di molto precedente l’industrializzazione, e il suo processo di estensione è almeno in parte graduale […] quell’impianto valoriale era diffuso in un ambiente estremamente ristretto e dinamico che si collocava (temporalmente) «tra il feudo e la fabbrica»: era il credo del capitalismo preindustriale […] il binomio grazia-ricchezza rendeva quell’etica un tratto distintivo dei «salvati»1.

Un tale «stato di grazia» attribuibile al lavoro lo si può, in fin dei conti, riscontrare anche in slogan triti e ritriti, e oggi decisamente populisti, spesso con un fondo di intrinseco razzismo, come «Chi non lavora non mangia!». Ispirato sicuramente in origine dall’odio contro la borghesia e gli imprenditori, ma che rischia di rivoltarsi contro la stessa classe lavoratrice quando questa, come in passato e ancor ai nostri giorni, pencola sempre più tra lavoro e non lavoro, tra proletariato occupato e proletariato marginale (lumpenproletariat).

Quello che succede a metà del XIX secolo è un processo di «astrazione», in cui tutti i lavori divenivano nobili, indipendentemente dal prestigio o dalla ricchezza che ne poteva conseguire, ma unicamente per l’atto in sé. Questa estensione rispondeva a un obiettivo politico: utilizzare la dimensione morale per giustificare le condizioni di lavoro di una crescente massa di proletariato e dunque garantirsi la sua «collaborazione» senza bisogno di eccessi di coercizione […] Le prescrizioni dell’etica del lavoro sono incredibilmente stabili nel tempo, non mutano a seconda dei soggetti che la predicano e comportano sempre «l’identificazione e la dedizione sistematica al lavoro salariato, l’elevazione del lavoro a centro della vita e l’affermazione del lavoro come un fine in sé»2.

Come dire che il proletariato deve fare di necessità virtù e di ciò accontentarsi, come la deriva sindacale e delle politiche di sinistra sembra predicare e aver fatto sua ormai da decenni. Anche al di là di una riflessione non solo di classe, ma anche di genere. Busso, infatti, sottolinea ancora, grazie alle le ricerche della studiosa femminista Kathi Weeks, come le due strategie del femminismo delle prime due ondate:

tanto quella che si è concentrata sull’ingresso delle donne in tutte le forme di lavoro salariato, quanto quella mirata a ottenere il riconoscimento sociale e la pari responsabilità degli uomini per il lavoro domestico non salariato non abbiano problematizzato il lavoro, ma anzi l’abbiano considerato una leva materiale e simbolica imprescindibile.
Un meccanismo analogo può essere rintracciato adottando altri sguardi. A ben vedere, per quanto eretico possa sembrare, possiamo pensare che il valore in sé del lavoro sia uno dei pochi tratti ad accomunare operai e borghesi o che si ritrova su entrambi i lati della lotta di classe o nelle retoriche tanto di progressisti quanto di conservatori. Addirittura, la si trova al centro della lotta generazionale: giovani desiderosi di dire la loro nel mondo del lavoro contro anziani che rimproverano una mancanza di etica e di spirito di sacrificio. Il risultato è una chiusura dello spazio discorsivo che porta con sé la scomparsa delle alternative3.

Alternative che, oggi, si riferiscono solo e sempre all’interno dei diritti individuali distribuiti dall’ordine liberale del mondo e in cui tutti devono essere oggetto di legge ma non soggetto di cambiamento radicale e definitivo dell’esistente (delle sue stragi, distruzioni e guerre).

Ed è esattamente questo meccanismo che rende l’etica del lavoro uno strumento disciplinare molto efficace, che lo trasforma in un elemento che accomuna tutti e genera identità collettiva occultando come i benefici che ha portato non sembrano essere per nulla equamente diffusi. In fondo , riprendendo un aforisma attribuito al sindacalista statunitense Lane Kirkland, «se il duro lavoro fosse davvero una cosa così preziosa, i ricchi lo avrebbero tenuto tutto per loro»4.

Su queste note si rende necessario chiudere la recensione di un testo utile e ricco di spunti che, alla luce di avvenimenti come quelli legati alle sempre più frequenti morti sui luoghi di lavoro, occorrerebbe leggere con estrema attenzione. Specie se si è giovani, donne, lavoratori precari o disoccupati, disposti a tutto pur di avere un lavoro, anche a costo della vita stessa. Poiché la morte, che ormai troppo spesso attende in agguato chi lavora, non è un errore di percorso o «un oltraggio alla convivenza civile» come ha affermato la più alta carica dello Stato in occasione della morte dei cinque operai a Brandizzo, ma l’estrema espressione di quello sfruttamento mascherato da norma universalmente condivisa che costituisce altresì la base della più incivile forma di convivenza sociale.


  1. S. Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 91-93  

  2. S. Busso, op. cit., pp. 93-94  

  3. Ivi, pp. 94-95  

  4. Ibidem, p. 95  

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Cronache marsigliesi /8: la guerra civile in Francia. Un tentativo di bilancio https://www.carmillaonline.com/2023/07/13/cronache-marsigliesi-8-la-guerra-civile-in-francia-un-tentativo-di-bilancio/ Thu, 13 Jul 2023 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78242 di Emilio Quadrelli

La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)

I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una [...]]]> di Emilio Quadrelli

La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)

I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una lettura politica di quanto andato in scena. Una lettura che, senza una base empirica, diventa puro esercizio retorico. “Solo chi fa inchiesta, ha diritto di parola” e a partire da Mao, ma si potrebbe aggiungere tranquillamente da tutta la storia dello “operaismo”, abbiamo cercato in tutti i nostri articoli di mantenere questa “linea di condotta”.
Diamo pertanto, senza fronzoli di troppo, la parola a M. R., operaio precario dell’edilizia attivo nel Collectif Chomeurs Precaries.

Che percezione c’è nei “quartieri” a Marsiglia dopo la rivolta?
Allora, in linea di massima, c’è un senso di soddisfazione abbastanza generalizzata. Questo è ampiamente comprensibile perché, almeno per sei giorni, i “quartieri” sono stati in grado di riversare, e con gli interessi, ciò che abitualmente subiscono. Questo è un fatto che puoi facilmente constatare attraversando una qualunque zona ghetto. La polizia, almeno per il momento, sta tenendo un profilo basso il che rafforza l’orgoglio della banlieue anche se questa calma, più che essere la ratifica di un mutamento dei rapporti di forza, appare come la classica calma che precede la tempesta. Questo è il timore che cogli se esci dalle fasce giovanili. Mentre i petit sono decisamente esaltati perché ritengono di aver vinto, gli altri, che sono passati più volte per l’inferno pensano che le ricadute repressive potrebbero essere molto pesanti.

Ma questo significa che nei “quartieri” vi è una rottura interna?
No, questo no diciamo che, piuttosto, mentre i più giovani focalizzano lo sguardo sull’immediato, gli altri cercano anche di pensare a cosa accadrà a breve. Questa non è una cosa sbagliata ma che rimanda, per quanto magari non esplicitata in maniera chiara, a una visione e consapevolezza politica che ha più di una ragione di essere. In qualche modo molti nei “quartieri” si chiedono: “Adesso cosa facciamo, adesso cosa succede?” Credo che la sintesi esatta di quanto è accaduto possa sintetizzarsi così: una vittoria militare a fronte di una sostanziale debolezza politica. Il che non è proprio una novità, a fronte di una capacità militare e volontà di combattimento che non trovi da nessuna altra parte, ti ritrovi sempre dentro una difficoltà a trasformare in forza permanente, come esercizio di contro potere effettivo, tutto ciò che è stato messo in campo nella battaglia di strada.

Questo vuol dire che la rivolta, almeno sul piano organizzativo, ha lasciato tutto come prima?
Non è facile dare una risposta a questa domanda. Non lo è perché l’internità politica, anche la nostra per carità, a tutto quello che è successo è stata veramente minima per cui quello che possiamo dire con onestà è solo il frutto di alcune relazioni e contaminazioni periferiche con questi mondi. Sulla base di queste possiamo dire che le gang dei petit ne escono notevolmente rinforzate e agguerrite. Non bisogna dimenticare la quantità di armi che sono state sottratte nel corso delle sei giornate il che significa che, di fatto, c’è un livello di armamento operaio e proletario non proprio irrisorio ma è anche vero che, al momento, nessuno è in grado di dire come verranno utilizzate queste armi. Diciamo che l’ipotesi più probabile è che si scivoli dentro, uso un termine che non ha bisogno di molte spiegazioni, un militarismo tanto eroico quanto suicida. Questo, ovviamente, non è scontato, ma se su tutto ciò non si innesta una prospettiva di lotta di lunga durata il rischio c’è anche perché i petit, di loro, hanno una mentalità più affine all’insurrezione, intesa come spallata, che a una lotta che comprende tattica, strategia e disciplina. Per molti versi possiamo dire che vi è una situazione che non si è ancora cristallizzata e quindi un vero bilancio è veramente difficile farlo. In tutto ciò non bisogna sottovalutare il modo in cui, nel suo insieme, la società legittima ha reagito e sta reagendo. Forse è dai tempi dell’Algeria, almeno a memoria d’uomo, che non si vedevano livelli repressivi militari così alti e il richiamo all’Algeria ha a che fare anche con un altro aspetto, in campo sta scendendo, anche sul piano militare, un intero fronte di classe. L’apparire delle “ronde fasciste” va considerato e osservato non come qualcosa che rimanda al passato perché questi non sono i fascisti di ieri ,che cercano di avere un po’ di notorietà nel presente, ma un fronte di classe nazionalista che rappresenta ampi strati di società francese.

Quindi, se quanto affermi è vero, è stato giusto dire, come abbiamo fatto, che siamo di fronte all’incipit della guerra civile?
Penso proprio di sì ma questo non deve stupire. L’epoca attuale è contrassegnata da crisi, guerre dentro uno scenario che vede un obiettivo tramonto dell’occidente, questo riaffiorare del nazionalismo ha ben poco di nostalgico, questo nazionalismo è un frutto moderno e contemporaneo che allinea un fronte di classe anche variegato. Contro la rivolta non vi è solo la grande borghesia ma tutte le classi intermedie e pezzi di classe operaia. La solidarietà mostrata nei confronti del poliziotto omicida non deve essere presa sotto gamba perché mostra come intorno alla polizia e a ciò che rappresenta, si coagulano diverse forze sociali. Qua non si tratta di gridare al fascismo e neppure Le Pen, per essere chiari, pensa di restaurare Vichy, ma di cogliere la messa in atto di una guerra civile su basi nazionaliste intorno alla quale si coagulano diversi pezzi di società. Questo meccanismo è in atto e, come sempre, a un certo punto le cose cominciano a marciare da sole. Questo fa capire anche la cautela che c’è tra la gente dei “quartieri”. Però questo indica anche un’altra cosa, la possibilità che questa situazione offre alle forze rivoluzionarie ma, e lo ripeto sino alla noia, bisogna uscire dall’estetica del conflitto e dalla logica della spallata. In Francia, oggi, va sperimentata una forma organizzativa, su più piani, che sia in grado di instaurare un dualismo politico a tutti gli effetti. Chiaramente questa scommessa è tutto tranne che facile e scontata. Quello che sta andando in scena in Francia, nonostante le indubbie particolarità che ovviamente vi sono e vengono da lontano, ha a che fare con un modello politico e sociale che appartiene al mondo capitalista contemporaneo e, proprio per questo, credo che sia un errore, come spesso accade, ridurre il tutto al “caso francese”. Io credo che in quanto sta accadendo dobbiamo leggere una tendenza in atto del comando capitalista e non il frutto di ciò che viene comunemente definita “frattura coloniale”. Se guardiamo bene la Francia, in realtà, è il laboratorio europeo del modello americano e quindi del punto più avanzato dello sviluppo capitalista.

Questo mi sembra veramente il cuore della questione e mi spiego. Tutti hanno osservato come il livello di scontro di questi sei giorni sia stato di un tale portato da far impallidire persino le rivolte del 2005 e del 2006 le quali non erano state certamente una bagatella. Questo sembra essere vero sia per come si sono mossi i “quartieri”, sia per la risposta militare messa in atto dallo stato. Nel 2005 e 2006 lo stato si è mosso ponendo in atto, accanto alla repressione militare e poliziesca, un tentativo di politiche sociali finalizzate a gestire, non solo in termini di guerra e conflitto, la questione banlieue. Al proposito basta ricordare la quantità di interventi di politologi, sociologi e intellettuali che si erano riversati sul popolo dei quartieri e, insieme a questi, anche il proliferare di organismi sociali in banlieue. Oggi, invece, sembra che l’unico linguaggio che lo stato è disposto a parlare è quello della guerra. Allora, se tutto questo è vero, questa rivolta più che in continuità con il passato sembra incarnare una rottura del presente. Le cose possono essere viste in questo modo?
Cominciamo con il dire che sicuramente lo scontro posto in atto da entrambe le parti è sicuramente incommensurabile a quanto visto nel 2005 e nel 2006 ed è sicuramente giusto rilevare come, questa volta, la risposta statuale sia stata unicamente militare. Sono passati diciotto anni e in questo periodo sono cambiate parecchie cose. La crisi del 2008, che in qualche modo è ancora lì, la guerra come linea strategica del comando capitalista a livello internazionale, la necessità, quindi, di pacificare le retrovie, la guerra preventiva a quella composizione di classe che incarna, in tutto e per tutto, la non possibilità di un patto sociale con il comando. Questo non ha più nulla di francese, secondo noi sbagliano quelli che leggono quanto sta accadendo come un continuum del colonialismo francese. Certo, questo c’è, ma quello che deve essere colto è come questa particolarità francese oggi si inserisce dentro un modello che caratterizza un po’ tutte le metropoli imperialiste occidentali che si stanno sempre più plasmando sul modello americano. Paradigmatico il modo in cui Macron ha attaccato le donne di banlieue. Di questo ne parlerai dopo con M. B.

Ciò che, in qualche modo, prefiguri è uno scontro a tutto tondo tra questo nuovo soggetto proletario e ciò che si sta coagulando intorno alla polizia. Abbiamo letto tutti il comunicato dei sindacati di polizia così come abbiamo dovuto constatare come la solidarietà, che poi in realtà è il dichiararsi favorevole con l’esecuzione di Nanterre, nei confronti del poliziotto omicida abbia trovato consensi non proprio irrilevanti infine, ma certamente non per ultimo, quanto le cosiddette ronde fasciste riscuotano un notevole consenso. Tutto questo, per la società francese, cosa significa? Cosa dobbiamo aspettarci?
Io credo che dobbiamo aspettarci una realtà sociale plasmata sul modello della società americana dove guerra di classe e guerra di razza si intersecano in continuazione anche se è molto utile precisare che quando si parla di razza bisogna precisare che si è neri perché si è poveri. Al fianco della polizia e dello stato non vi sono solo i bianchi, per questo ho più volte detto che qua non siamo dentro a alcun remake fascista, ma anche tutta quella popolazione, soprattutto araba che nel tempo ha acquisito un certo status sociale, che odia il nuovo proletariato. Impostare la lotta sul’antirazzismo significa non vedere che cosa concretamente è diventata questa società. Il fallimento a cui sono andate incontro tutte le associazioni di questo tipo presenti nei quartieri ne sono una buona esemplificazione.

Scusa se ti interrompo. Queste associazioni che ruolo hanno avuto nel corso della rivolta?
Ne sono state travolte e non poteva essere altrimenti. Sono diventate, e non da oggi, una struttura superflua e questo indica anche il mutamento di passo che c’è stato dentro la società francese. Ora provo a spiegarti. Tutte queste organizzazioni, nate anche con buoni propositi, facevano, direttamente o meno, parte di quel “pacchetto sociale” finalizzato a gestire i quartieri non solo in maniera militare. Ben presto, però, queste realtà, la cui esistenza dipende dai finanziamenti pubblici cosa che non bisogna dimenticare, si sono trovate di fronte a un bivio: o cercare di assolvere sino in fondo il loro ruolo di addomesticatori di una situazione sociale la quale, giorno dopo giorno, diventava sempre più esplosiva oppure farsi carico di questa. Farsi carico di questa, però, significava affrontare di petto alcuni nodi che chiaramente entravano direttamente in rotta di collisione con le politiche statali e cittadine nei confronti dei quartieri. Chi ha provato a farlo si è ritrovato con i fondi tagliati e con la quasi impossibilità di svolgere una qualche attività. Chi, per capirsi, si è del tutto integrato con la “linea dello stato” è stato foraggiato ma, in contemporanea, ha iniziato a essere odiato dentro i quartieri perché considerato, e con ampia ragione, come l’altra faccia della polizia. Durante la rivolta queste associazioni sono state attaccate e distrutte. Le poche associazioni non allineate sono semplicemente state scavalcate dagli eventi. La rivolta ha fatto tabula rasa un po’ di tutto di per sé, il fatto che vi siano solo macerie non è un male, bisogna vedere che cosa si sarà in grado di ricostruire.

Questa tabula rasa ha comportato anche l’azzeramento delle strutture islamiche?
Le uniche cose che sono rimaste in piedi delle realtà islamiche sono state le moschee, per il resto i petit non hanno fatto sconti a nessuno. Non sono state risparmiate le macellerie islamiche, le tabaccherie gestite da arabi o i negozi. Quelli che parlano di islamizzazione dei quartieri dicono solo cazzate. Per quello che ci è dato sapere molti Imam hanno cercato di fare da pacificatori ma nessuno è stato ad ascoltarli. Quella che si chiama , in giro c’è anche, è un discorso che appartiene prevalentemente alla vecchia destra, la reazione in atto è contro il proletariato non è di destra e borghese, questo è ciò che va compreso.

Grazie per averci fornito una lettura ben poco convenzionale di ciò che sta accadendo ora, però, torniamo a cosa succede adesso nei “quartieri”.Vi è una possibilità di interazione con questo settore proletario oppure tutto ciò che ha un qualche sapore di politico, dai petit, viene rifiutato a priori?
No, un rifiuto a priori non c’è, parlo almeno per quanto riguarda noi, però è anche vero che esiste una difficoltà enorme di comunicazione e di lettura della cornice diciamo culturale e esistenziale dei petit. Sicuramente rileviamo che gran parte di tutto il nostro armamentario politico e teorico con questi ha ben poco a che fare e che, quindi, occorre un grosso sforzo da parte di chi si ritiene avanguardia di ricalibrare la teoria comunista a partire da ciò che il movimento reale esprime. Su questo, però, occorre essere chiari per non finire in ciò che, di fatto, è l’intellettualismo del movimento. Qua non si tratta di sfornare analisi sociologiche o di fare delle interpretazioni più o meno fantasiose su ciò che accade, si tratta di stare dentro a ciò che il movimento reale esprime. In altre parole si tratta di andare sempre a scuola dalle masse e tenere sempre ben a mente che le masse del presente non possono mai essere uguali e neppure simili alle masse di ieri. Le masse, come noi tutti del resto, siamo il frutto di una realtà in perenne trasformazione. Il marxismo è un metodo non una verità assoluta e rivelata. Noi nei quartieri un po’ ci siamo, delle cose le stiamo facendo e sappiamo che dovremmo continuare, con pazienza, a percorrere questa strada. Solo l’internità alla classe può dare dei frutti, poi si vedrà.

Nel corso dell’intervista si è accennato alle donne di banlieue e come proprio contro di loro si sia riversato l’odio delle istituzioni in quanto considerate dirette responsabili dei comportamenti dei petit. Su questo aspetto riportiamo un sintetico ma molto significativo punto di vista di M.B., una giovane donna di banlieue, pugile agonista e attiva all’interno del Collectif boxe Massilia

Macron ha chiaramente tirato in ballo le famiglie e le donne di banlieue ree di non saper educare i figli. Di fronte a ciò il movimento femminista ha preso posizione?
Diciamo che su questo si è veramente toccato il fondo. Un attacco di questo tipo non si era mai visto, qua siamo veramente alla messa al bando di interi pezzi di società. In questo passaggio si consuma, sul piano formale, la stessa idea dell’esistenza della République. Questo attacco ci racconta di quanto sempre più la banlieue sia stata del tutto assimilata al modello dei ghetti americani. In questi sono le donne a vivere la condizione di maggiore oppressione e sfruttamento oltre a essere, quasi sempre, sole a gestire i figli. Su questo andrebbero dette e scritte una marea di cose, ma non è questo il momento. Ciò che va evidenziato è come di fronte a questo attacco specifico e mirato alle donne di banlieue il movimento femminista non abbia aperto bocca, A noi questo non stupisce perché da tempo ripetiamo che il movimento femminista è tutto interno allo stato e da questo è foraggiato. Il movimento femminista è un movimento borghese e non possiamo aspettarci certo da questo la nascita di strutture di autodifesa delle donne di banlieue. Ma le donne di banlieue non sono l’anello debole dei quartieri, semmai il contrario. Non è utopia pensare che proprio da loro possano prendere forme di organizzazione politica particolarmente avanzate. I presupposti, non solo oggettivi, ma soggettivi vi sono tutti e chi ha un qualche rapporto reale con questi mondi lo può facilmente constatare.

Chiusa questa prima parte abbiamo provato attraverso le parole di J. B., militante del Collectif Chomeurs Precaries e redattrice della rivista Revue Supernova, a dare uno sguardo sull’insieme di ciò che si sta muovendo in Francia dove, prima dell’esplosione dei “quartieri”, si era assistito a due grossi movimenti di massa, i gilet gialli e il movimento contro la riforma delle pensioni, per comprendere se e come questi movimenti hanno, in qualche modo interagito con il “popolo dei quartieri”. Infine abbiamo provato a capire in che modo le varie forze politiche hanno interagito con i petit focalizzando lo sguardo anche sui sommovimenti che la rivolta ha prodotto nel fronte borghese.

C’è stata una qualche interazione tra questa rivolta e i segmenti sociali che avevano dato vita al movimento dei “gilet gialli”
Come ben sai io vengo proprio da quella esperienza e ti ho spiegato anche i motivi per i quali, a un certo punto, l’ho abbandonata. D’altra parte quel movimento si è dissolto e oggi di esso non vi è alcuna traccia. Solo alcune delle persone con le quali ero in più in stretta relazione all’epoca dei gilet ha guardato con una qualche simpatia alla rivolta i più, però, mi sono sembrati contrari.

Eppure i gilet avevano mostrato una non secondaria radicalità e non sembravano particolarmente afflitti dal legalitarismo. Sicuramente non con i toni della rivolta attuale però, nel corso dei loro sabati, si era assistito a livelli di scontro di notevole spessore. Come mai, allora, questa distanza?
Mah, il problema è essenzialmente una questione di classe. Il movimento dei gilet era principalmente un movimento di settori sociali in via di proletarizzazione, di lavoratori autonomi in grave difficoltà e, cosa da non dimenticare, sviluppatosi in gran parte in quelle aree che vengono definite come “la Francia profonda”, ovvero molto poco cittadina. Era un movimento che esprimeva un grosso malessere sociale che aveva manifestato anche alcune punte di radicalizzazione, ma non era riuscito a darsi una chiara connotazione di classe tanto che non è mai riuscito a mettere in piedi uno sciopero. Quel movimento, alla fine, è andato per conto suo senza riuscire a collegarsi con altre realtà ma se ci pensi questa è la storia di tutti i movimenti che nell’ultimo periodo si sono espressi.

Questo mi porta inevitabilmente a chiederti se c’è stata una qualche interazione tra il “popolo della rivolta” e la composizione di classe scesa in piazza contro la riforma delle pensioni?
Direi proprio di no e la cosa non deve certo stupire. Si tratta di due ambiti completamente diversi che rimandano a postazioni e visioni del mondo ben difficilmente compatibili. Non esagero se dico che una parte di quelli che sono scesi in piazza per la riforma delle pensioni nei confronti della rivolta si sia posizionata sulla stessa lunghezza d’onda della polizia- Pensare che l’aristocrazia operaia possa inserirsi in massa dentro una prospettiva rivoluzionaria è pura follia, l’aristocrazia è parte dello stato e questo non da oggi. Storicamente l’aristocrazia operaia, nei momenti di crisi, si è sempre schierata, e anche in maniera attiva, con la borghesia. Ciò che mi riesce veramente difficile capire è come in tanti abbiano potuto prendere un simile abbaglio. Come ti ho detto ogni movimento è andato per conto suo, ma le cose sarebbero potute andare in altro modo? Io non credo. Siamo di fronte a una trasformazione complessiva delle condizioni di classe e ogni frazione di classe combatte a partire dal suo punto di vista. La borghesia in via di proletarizzazione non vuole diventare proletaria, l’aristocrazia operaia vuole rimanere tale e il nuovo proletariato combatte eroicamente contro tutto e tutti ma non ha un programma. Ma le cose vanno avanti e la piccola borghesia sarà proletarizzata e la aristocrazia operaia spazzata via e, a quel punto, se il proletariato sarà stato in grado di elaborare un programma, molte cose potrebbero cambiare. In tutto questo mi sembra importante dire che forse il principale problema che ci troviamo a affrontare è l’assenza di una idea–forza. Che cosa significa comunismo? Cosa significa rivoluzione? Cosa vuol dire dittatura operaia? In un passato ormai remoto a queste domande vi erano delle risposte, oggi palesemente no. Questa mi sembra essere la vera strettoia che dobbiamo affrontare. Diciamo che è chiaro contro cosa lottare, molto meno per che cosa. A me sembra molto significativo che, come abbiamo visto qua a Marsiglia, le merci siano state il principale obiettivo della rivolta. Al momento la merce è, chiamiamolo, il programma di questo proletariato il che non è né un bene, né un male ma un fatto. Da questo orizzonte, da questo immaginario occorre partire.

Quindi, è una domanda che ho già fatto ma vorrei tornarci sopra, tutti i discorsi sulla islamizzazione e via dicendo non hanno alcun senso?
Assolutamente. I petit erano interessati a portare via tutto, oltre che a scontrarsi con la polizia, erano quelle merci che a loro sono negate a mandarli all’attacco. Erano tutti quegli oggetti che potevano solo guardare da lontano a smuovere il loro immaginario, le merci erano e sono la loro idea–forza. Da lì, può piacere o meno, devi partire. In questo, però, devi leggere il rifiuto della povertà, il rifiuto di condurre una vita fatta di continue rinunce, di assenza di risorse, insomma il rifiuto all’essere operai e proletari. Qua, ed è qualcosa di completamente diverso da quel passato che ha caratterizzato per lo più il movimento comunista, vi è tutto tranne che l’orgoglio di essere operai e proletari, semmai ciò che si odia è proprio questa condizione. Prendersi le merci è sicuramente una cosa illusoria, ma appare il modo più semplice e immediato per emanciparsi dalla propria condizione. Come puoi capire in tutto questo l’Islam non c’entra niente. Semmai, ma questo è un altro discorso, in certi casi l’Islam può essere assunto in maniera simbolica in quanto antifrancese il che, come puoi capire, è ben diverso da una adesione a questo. Le realtà islamiche presenti nei quartieri hanno provato a svolgere un ruolo di pacificazione nel corso della rivolta, ma non sono stati minimamente ascoltate.

A questo punto vorrei chiederti che rapporto c’è stato, se è avvenuto, tra la frazione proletaria della rivolta e le varie anime del “movimento”?
Intanto diciamo che non c’è stato. Tutti hanno preso una posizione che andava dall’entusiasmo proprio delle aree autonome, anarchiche e maoiste, a quello di appoggio sì ma con dei distinguo delle varie anime trotskyste sino alla condanna propria degli eredi del PCF e dell’associazionismo sociale e pacifista. In linea di massima, però, non si è andati oltre a un atteggiamento da tifosi. Questo il vero problema della situazione. Non mi sto a ripetere sulla nostra, pur modesta, presenza dentro alcuni ambiti di questa composizione di classe, ne abbiamo già ripetutamente parlato ed è inutile tornarci sopra. Potrei dirti, a partire da ciò, che noi siamo stati dentro alla rivolta, ma direi una falsità. Il lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo sta dando anche dei frutti ma ciò non toglie che, anche noi, siamo molto distanti da tutto ciò che è successo. Ora, come sempre accade in queste situazioni, si consumeranno fiumi di inchiostro, ognuno dirà la sua, ognuno si sentirà di essere il vero interprete della rivolta e tutto questo, ovviamente, sino alla prossima volta. Nel frattempo i quartieri continueranno a stare lì e il movimento a stare qua. Da questa situazione se ne esce solo in un modo: alzando il culo e andando a relazionarsi con la classe. Tutto il resto sono parole che lasciano il tempo che trovano. Potrei mettermi qua a fare le pulci a questo e quello ma non credo che sia questo il modo per affrontare la situazione. Ha senso mettersi a polemizzare che so con gli anarchici piuttosto che con i maoisti? Questo ipotetico dibattito sposta forse di una sola virgola la realtà dentro i quartieri e la sua composizione di classe? Se le domande che mi faccio sono queste allora il mio agire non può che assumere tutta un’altra dimensione. Devo partire dalla classe e non dal movimento. La discussione sul movimento e le sue prese di posizioni mi sembra solo una perdita di tempo. Invece, questo sembra essere l’ultimo dei problemi. I vari siti sono già inondati di articoli, saggi, analisi e chi più ne ha più ne metta ma di come relazionarsi a questa composizione di classe proprio non si parla. C’è la gara a chi fa l’analisi più raffinata, anche se non si capisce sulla base di che cosa, e tutto il resto viene messo tra parentesi. Avrai notato come noi e le realtà simili a noi con le quali stiamo cercando di costruire, a partire dal movimento dei precari e dei disoccupati, un rapporto organizzato con questo proletariato siamo stati i più cauti, quelli che hanno scritto di meno e questo perché, a differenza di altri, abbiamo cercato di capire di più.

Vorrei chiudere chiedendoti qual è stato il comportamento di La France Insoumise di fronte alla lotta dei banlieuesards?
Qualcuno ha sentito la sua voce? A parte la battuta no, La France Insoumise è completamente scomparsa, di lei non si è avuto alcuna traccia. Ma la vera domanda da porsi è: “Che cosa avrebbe potuto fare?” La France Insoumise è un cartello elettorale e basta. Un cartello elettorale, in un paese dove la maggioranza non vota, che pensa di essere ancora negli anni ’60 dove le politiche riformiste avevano un notevole spazio e la ricerca di un patto sociale tra le classi era anche nelle corde della borghesia. In una situazione in cui tutto tende a declinarsi dentro un conflitto politico–militare cosa può fare, che ruolo può avere una forza come La France Insoumise ? Palesemente nessuno. Poi, anche volendo, sulla base di cosa avrebbe potuto agire? Non ha strutture territoriali, non ha strutture di lotta, non ha Comitati di quartiere, La France Insoumise è una forza politica virtuale al pari di tutte le altre. Il suo distacco dal paese reale non è poi così diverso da quello di Macron. Il parlamento è un corpo vuoto e questo vale per tutte le forze politiche. Al proposito mi sembra indicativo il fatto che la controffensiva borghese non sia partita da qualche forza politica, ma che a dettare la linea della guerra civile sia stata la polizia. La stessa Le Pen si è accodata alla polizia, il che vuol dire ben qualcosa. Le classi si stanno organizzando, sicuramente questo è vero per il fronte borghese, attorno a corpi e strutture non riconducibili ai partiti politici i quali non hanno alcun legame, se non quello puramente elettoralistico, con la società. Questo è un mondo che, in qualche modo, aveva decretato la fine della società di massa dove, per società di massa, si intende la partecipazione attiva e organizzata delle classi sociali alla vita pubblica. Una convinzione che attraversa tutti gli schieramenti politici i quali, non per caso, non hanno alcuna articolazione di massa. Chiaramente questa è una illusione perché le masse, tutte le masse, finiscono sempre con l’entrare in gioco. Quando questo succede i partiti politici rimangono spiazzati. Qua non si tratta neppure più di tirare a mezzo il “cretinismo parlamentare”, non si tratta di questo, qua si tratta di prendere atto come le masse per affermare il loro protagonismo non possano fare altro che, nel caso della classe operaia e del proletariato, costruire i suoi organismi ex novo, mentre la borghesia fa leva su alcune strutture, come la polizia, le quali iniziano a assolvere un compito politico. La France Insoumise ha dimostrato di non essere altro che un fetido cadavere, fuori dal tempo e dalla storia.

Ma con tutta quell’area sociale che è stata l’anima del successo elettorale de La France Insoumise è possibile costruire delle relazioni in funzione della costruzione di organismi di massa?

Se consideriamo l’ossatura politica de La France Insoumise direi proprio di no. Politicamente questi sono il retaggio di tutte le cose peggiori della vecchia sinistra francese, il PCF e dintorni. Con loro non è possibile neppure parlare, figuriamoci ipotizzare dei percorsi organizzativi comuni. Se il discorso si sposta su quelli che hanno votato il movimento allora le cose possono anche cambiare ma è qualcosa che devi andare a verificare nella pratica, dentro a delle proposte e iniziative concrete, non si può rispondere in astratto. Tieni presente che la gran massa degli elettori de La France Insoumise è riconducibile a quel settore di classe che ha dato vita al movimento contro la riforma delle pensioni. Sui limiti e le contraddizioni di quel movimento mi sembra che abbiamo già discusso a sufficienza. Rispetto a questi ci potranno essere, per un verso, minimi spostamenti soggettivi, dei quali tra l’altro abbiamo già parlato, dall’altro, e si tratta della cosa più importante, degli spostamenti oggettivi ovvero quanta di quella composizione di classe si ritroverà sempre più alle condizioni del soggetto operaio e proletario che ha dato vita alla rivolta. Lo smembramento della aristocrazia operaia è uno dei progetti del governo Macron ed è un progetto che verrà realizzato, a partire da questo si potranno fare altri ragionamenti che però avranno una base materiale e non ideologica. La France Insoumise e tutto il suo ceto politico in tutto questo non possono avere alcun ruolo.

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