Cittá del Messico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 31 Aug 2025 20:00:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache di una lavoratrice notturna di Città del Messico https://www.carmillaonline.com/2017/03/22/cronache-lavoratrice-notturna-citta-del-messico/ Wed, 22 Mar 2017 04:33:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37219 1di Helena Scully Gargallo

[Questo testo è stato tradotto dallo spagnolo da Nino Buenaventura e vissuto dall’autrice nella città-mostro, come è nota ai più la capitale messicana. Le illustrazioni sono a cura di Helena S. G.]

Notti Marziane

1_ In una città di lavoratori notturni

15 gennaio

Si sdoppia la vista, credo sia il sonno. Chiudo gli occhi e ricordo che sto guidando, ma nel secondo in cui li chiudo, sogno di guidare nel mio materasso e sogno che le piante di [...]]]> 1di Helena Scully Gargallo

[Questo testo è stato tradotto dallo spagnolo da Nino Buenaventura e vissuto dall’autrice nella città-mostro, come è nota ai più la capitale messicana. Le illustrazioni sono a cura di Helena S. G.]

Notti Marziane

1_ In una città di lavoratori notturni

15 gennaio

Si sdoppia la vista, credo sia il sonno. Chiudo gli occhi e ricordo che sto guidando, ma nel secondo in cui li chiudo, sogno di guidare nel mio materasso e sogno che le piante di Reforma sono annaffiate da idranti fugaci che scendono dal cielo… ah no, le annaffia qualcuno, marziani?

Chiudo gli occhi e sono in un bagno buio, un bagno che dopo il tempo necessario spenge le luci perché anch’esso ha sonno.

Chiudo gli occhi e al aprirli vedo doppio, vedo due piccole mele in un’auto, che vola o corre, e non capisco se vuole andare a dormire o va a una festa, una festa di martedì? Sì, una festa, e ora la vita sta dall’altro lato, e mi rendo conto che una mancia non vale il tuo lavoro, le tue chiacchiere, il tuo tempo, e ti fa più male che pensare che le piante di Reforma si innaffino sole.

La vita del martedì notte nella città più grande del mondo, più grande del mio mondo, il mio mondo di orfana con madre, con molte madri, ma senza padre, quel padre che un giorno percorse queste strade che percorro io, chiudendo gli occhi mentre guido, immaginando un materasso da quale vedere gli idranti che irrigano Reforma alle due della mattina…

Marziani, marziani, marziani, che corriamo in carapaci di plastica che chiudiamo a chiave non essendo assicurato il nostro ritorno a quel materasso dal quale io mi vedo percorrendo lo stesso cammino che mi porterà al mio cane-elefante che dorme ai piedi del mio letto.

Merda, troppo lavoro e poco sonno, troppe chiacchiere, troppo spreco….

16 gennaio

Mercoledì: Cane-Elefante accanto a me dorme e non dorme, perché lui sa e io non so. Chiudo gli occhi e mi rendo conto che gli idranti che escono dal cielo per irrigare le piante di Reforma oggi non mi accompagnano, piante che bevono meno che quelli che mi accompagnano o accompagnano il mio lavoro senza lavorare… Città-Mostro è più marziana di mercoledì che di martedì.

Due della mattina e il carapace torna con il sonno e ancor più sonno, accumulato in giorni, notti, settimane, mesi… cosa c’è dopo?

Il bagno già è buio, ora lo illuminano solo due candele che, anche se nuove, sono quasi finite.

Cane-Elefante russa e mi sveglia dai sogni di questa notte quasi tanto marziana come lui, però mi include nei suoi pensieri e vedendo il conducente del carapace dal finestrino inizio ad abbaiare bauuuu bauuuu. Si spaventa? No, è marziano come lo sono io e mi strizza l’occhio che è in cima alla sua antenna per avvisarmi che ci sono alcuni esseri vestiti con uniformi che mi vogliono arrestare:

  • Ha bevuto?
  • No, però ho servito più di 20, 30, 40 o molti più bicchieri di bevute con nomi che mi fanno sentire assonnata e con voglia di abbaiare (stolichnaya, buchanan’s, jack daniel’s, bombay…) uff… se soltanto non fossero alcoliche me le berrei tutte per i loro nomi.
  • Continui… bau bau bau bau.

Grida di marziani che vorrebbero essere ascoltati, però non sanno che nella Città-Mostro sempre c’è qualcuno che scrive o che abbaia.

Speriamo che domani gli idranti tornino e che Reforma non si senta tanto sola e triste, tanto sola e assetata, tanto sola e tanto… Bombay, Gin&Tonics.

17 gennaio

Giovedì: dimentico che vivo in una città semidesertica e che le piante non possono essere annaffiate tutti i giorni, i miei occhi s’illuminano per le lacrime e al chiuderli mi immagino all’interno degli idranti che vengono dal cielo a irrigare le piante di Reforma.

La Diana mi osserva dall’alto amandomi e ridendo di me e il mio carapace notturno che torna tutte le notti, Diana che scocca una freccia all’infinito, in lei c’è scritto “io non ho bisogno di un carapace, io sono una donna nuda”, carapace di merda che annebbia la mente per creare felicità false, le mie lacrime che parlano e mi dicono – cazzo di metro, perché chiude così presto- con esso non ci sarebbe motivo per portare un carapace, o almeno sarebbe arancione e divertente.

Passeggiata notturna di marziani per la città. Si credono apposto perché se la vivono di giovedì, io servo zacapa zacapa zacapa zacapa, bombay, tutte le notti… e tutte le notti dal mio carapace vedo Città-Mostro nuda e chiusa dentro un carapace.

Le risate che provengono da dentro casa mia mi dicono di uscire e Cane-Elefante mi morde per dirmi che mi vuole bene.

Saltiamo come se fossimo ragni per lo spazio legnoso, amici, amori. Esco dal carapace e penso. […]

18 gennaio

Venerdì: ricordo una notte d’estate a Varanasi-Benares. Montagne di cacca fanno tremare i miei piedi, la mia anima è scossa appena penso che questa merda non fa arrossire la faccia dei milioni di passanti di quella città sacra. Merda!, in questa Città-Mostro un bambino che caga nelle strade della zona ricca causa grida e risate euforiche, (il mostruoso toglie il sacro alla cacca).

Il sonnellino nel bagno già non mi toglie la noia, per quanto che se ne vada la luce; canto e ballo per le strade e sembra che la marziana sia io, ogni volta sento più forte la mancanza di Cane-Elefante e i suoi cantici mistici alla luna e alla finestra, nella quale si riflette “Hotel Paraíso”, hotel paradiso a un isolato da “Piazza della Repubblica, Monumento a la Revolución, architettura fascista”; Città-Mostro tanto piena di contraddizioni in un solo quartiere… Frontón México? Revolución? Republica? Fascismo? Hotel paradiso? Tacco dorato? No per favore! Un’altra volta… le una de mattino… Carapace torna a me, tutte le congiunzioni marziane fanno si che il carapace si travesta da falcate che possano attraversare la città con due passi. Fugacemente mi accorgo che una parte di Reforma è stata già raggiunta dagli idranti che cadono dal cielo, e l’altra parte no… che vuol dire questo? Mi piange un occhio e l’altro no? È probabile.

Oggi nessuno mi strizza l’occhio ed i camuffati mi domandano ancora:

  • Ha bevuto?

(Oggi non posso rispondere che ho servito bombay, buchanan’s, zacapa, zacapa, zacapa)

  • no, marziano, solo ho servito due cappuccini di mucca sfruttata…
  • vada pure

I camuffati, si levino i travestimenti, è venerdì notte in una città di lavoratori marziani.

Chiudo gli occhi e il carapace vola nei cieli. (Lavorare di notte mi sta facendo male). Di notte le storie del giorno mi frullano in testa e non le posso fermare, fino a che non arrivo al più marziano di me, un cane-elefante e un marziano di antenne tranquille e ricciole mi abbracciano insieme con altri personaggi affascinanti della vita. Riflessione di una marziana con il salario minimo: “ho bisogno di tornare a viaggiare, senza carapace verso sud”.

219 gennaio

3:40 del mattino e la città sembra essere in vacanza.

“Mario Santiago vive”, rimbomba nella mia testa, e non posso immaginare altra cosa che i marziani ubriachi proclamando ululati da cigni.

Il carapace non torna terminato l’orario di lavoro, perché il lavoro di divertirsi ed essere felici e ancora più stancante ed entusiasmante.

Plutone è ogni volta più lontano e anche così mi sento come una marziana in un paese di tartarughe.

Cane-Elefante è così solo come me, però isolato dalla moltitudine che mi circonda. Cane-Elefante e io ci accompagniamo senza produrre suoni, mordendoci e raccontandoci storie di passanti poco umani che volano quando nessuno li vede, dai tuguri di Città-Mostro.

Scappo e dopo due ore torno, non è cambiato nulla. La lumaca che si trascina, senza perdere il ritmo, è sempre più vicina alla pianta; ogni giorno sprofonda di più nella noia quotidiana di sbavare […] (quasi mi divora, quasi mi divoro).

3:00, carapace torna, però non così forte come prima, perché sa che riposerà per molto tempo, carapace che mi fa perdere a Sullivan e mi fa conoscere un mondo di tacchi dorati e uomini con ali di angeli. 3:00 del mattino e sembra che la notte non finirà mai. 3:00 del mattino e chiudo gli occhi per ricordare il ritorno a quel materasso tanto lontano e tanto desiderato. 3:00 del mattino e non ci sono marziani dai travestimenti assurdi ai quali rispondere a domande senza senso, ma che oggi lo avrebbero; meglio così, i marziani che fanno la guardia alla guardiola non devono essere molto simpatici.

Città-Mostro, marziana, ammirabile, deplorabile, amata, odiata, geniale… -E VAI A DORMIRE, CAZZO.

24 gennaio

Carapace notturno torna però senza essere io a guidarlo, chiudo gli occhi, penso “oggi si possono chiudere gli occhi”, la mia immaginazione e la mente volano nei passati lontani e non tanto lontani: Camminata Notturna che sbocca in una discoteca marziana, persa nel mezzo di Ulan Bator, statua gigante di Stalin, musica mongola, imitazioni di Michael Jackson in russo (Chinguis, Chinguis Kan, ubriachi cantano). 13 anni e la statua di 10 metri mi schiaccia, mi schiacciava, bum, bum.

Sembri molto grande –Sono molto grande– Mi dicevano allora, oggi i ruoli cambiano, oggi mi rispondono a me –sono molto grande. La bambina non tanto bambina, penso. La bambina marziana, lavoratrice notturna, amica di Cane-Elefante, studenta

Cane-Elefante riderebbe con me vedendo che anche nella città-mostro ci sono statue giganti chiuse in cassette di cristallo, inamovibili in Reforma, non di Stalin, ma sì di cavalli.

[…]

Giovedì 14 febbraio

Le ombre ci spogliano, le ombre ci segnano il passo, le ombre mi dicono “quello è un marziano, quasi come te”.

Vedo gli idranti che piangono su Reforma da lontano, piangono come io ho pianto in un bagno e per la prima volta non si sono spente le luci.

Cane-Elefante è così tanto solo come lo sono io, però lui non piange tanto. L’unico che penso mentre vado a casa è che Cane-Elefante ha bisogno di me come io di lui.  Balza, salta, salta, quattro zampe per aria, che si fottano tutti, io festeggio il giorno e salto; e non quelle cagate.

Il carapace è tornato a me, e non vi preoccupate, è solo questione di dormire un po’ e tornare a pestare i pedali della vita. Domani me ne vado in bicicletta a lavoro, chiaramente con un cane-elefante.

1 marzo

Disoccupazione

327 marzo 2013

Domenica in cerca di un nuovo titolo: “lavoratori notturni”: si può chiamare così la propria condizione se quasi tutti i giorni il lavoro finisce alle 5 o alle 6 del mattino?

Nuova versione: Pata Negra per sfruttati…

[…]

25 aprile 2013, giovedì.

Un’alba da marziani nella città dei lavoratori notturni.

Se avessi la pelle di Cane-Elefante il vento della mattina non mi congelerebbe le gambe deboli al freddo. Ha piovuto finalmente?

Se Cane-Elefante corresse dietro la mia bicicletta non mi starei lamentando per il clima. Credo che sia impossibile, non vedrò più gli idranti di Reforma, né i film notturni, né i marziani che mi chiedono se ho bevuto o no.

Non mi mancherà, è bello vedere come l’acqua sa cadere senza bisogno di marziani, cade e pulisce tutto.

[…]

24 maggio 2013

Vedo la luna e mi sento viva.

Esco, quasi fuggitiva, con un permesso tanto effimero come i sussurri e le risate della gente che mi passa accanto. Mi sento in un libro di cattivo gusto, uno dei quali nulla ti sorprende, il finale è scritto sulla copertina.

Però la luna, la luna, rende il libro vita.

23 giugno

Marziani in uniforme escono da ogni angolo del quartiere, sono come piccole formiche azzurre, possono essere aggressive o molto tranquille, dipendendo dal loro stato d’animo, o dalle indicazioni della formica regina. Confesso che sento un po’ di timore nel vederli, tutti insieme, con i loro falli assassini puntati al cielo, sentendosi potenti per avere un arma.

I colori, la musica, le luci schizofreniche, i marziani formiche azzurre, le grida, i pianti, l’alcool… Mi fanno girare la testa, esce un respiro, vedo la pioggia e mi sento felice.

[…]

2_ Nelle notti del mondo

20 dicembre 2013 Siracusa

Notte da marziani. Piccolo viaggio nel tempo. Quattro anni fa camminavo questa città, la conoscevo così bene che mi metteva paura volerla vivere per tutta la mia vita, non fu così, la lasciai, la città non si arrabbiò con me, mi lasciò andare con aria da innamorata offesa, ma pronta per il mio ritorno.

Ritornai. Gli occhi non hanno mai smesso di piovere.

20 gennaio 2014, Città del Messico

Piccole barchette di carta colano nel cristallo, mi piacerebbe vedere la luce accesa che le accarezza…

Cane-Elefante mi ascolta da dentro la casa, si affaccia alla finestra e con lo sguardo mi dice che dobbiamo scappare da questo mondo in una di quelle piccole barchette.

Cane-Elefante e io ci capiamo, ci manchiamo e ci dimentichiamo per un istante che nessuno capisce la nostra lingua di extraterrestri che corrono alle due del mattino per il semplice piacere di sentirsi liberi, in queste strade sudice e transitate di Città-Mostro.

 

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Messico Invisibile: Orme della Memoria per i Desaparecidos https://www.carmillaonline.com/2016/07/05/messico-invisibile-orme-della-memoria-per-i-desaparecidos/ Mon, 04 Jul 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31713 di Fabrizio Lorusso

orme della memoria huellas messico italia[A questo link invito a seguire il progetto Orme della Memoria e il cammino della mostra, che sarà in Italia da aprile 2017 (Firenze 18-23 aprile, Roma 19-30 aprile, Verona 1-15 maggio, Venezia 16-30 maggio, Torino 1-12 giugno, Padova 15-30 giugno), dedicata agli oltre 30mila desparecidos in Messico. A fine post e come giusta conclusione segnalo il trailer dell’ottimo documentario Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Il testo seguente è estratto dal libro di [...]]]> di Fabrizio Lorusso

orme della memoria huellas messico italia[A questo link invito a seguire il progetto Orme della Memoria e il cammino della mostra, che sarà in Italia da aprile 2017 (Firenze 18-23 aprile, Roma 19-30 aprile, Verona 1-15 maggio, Venezia 16-30 maggio, Torino 1-12 giugno, Padova 15-30 giugno), dedicata agli oltre 30mila desparecidos in Messico. A fine post e come giusta conclusione segnalo il trailer dell’ottimo documentario Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Il testo seguente è estratto dal libro di Fabrizio Lorusso, Messico Invisibile: Voci e Pensieri dall’Ombelico della Luna**, prologo di Alessandra Riccio, Ed. Arcoiris, 2016, € 15, pp. 356]

Mezza primavera 2016. Il laboratorio di Alfredo López Casanova, attivista e scultore messicano, è un piccolo museo con opere e narrazioni che catturano il visitatore. Siamo nel cuore antico di Città del Messico, dove il frastuono delle strade trafficate trova pace e, smorzato negli androni e nei patii interni delle case di ringhiera, diventa silenzio. Qui la memoria può lasciare le sue tracce. Il progetto Orme della Memoria è nato in questo spazio nei suoi aspetti materiali, ma spiritualmente è sorto ed è cresciuto per le strade, nelle dimore, nei cortei e nelle famiglie che sono testimoni delle sparizioni forzate in Messico.

DSC_0726 mejor (Small)La maggior parte dei casi di desaparición è legata a qualche tipo di omissione, azione o complicità commessa dalle autorità. Secondo i dati ufficiali sono più di 27.000 le persone scomparse nel Paese e oltre 150.000 i morti attribuibili al conflitto interno dell’ultimo decennio. Solo nel governo di Peña Nieto, tra il dicembre 2012 e il marzo 2016, si contano più di 60.000 omicidi. Si tratta di un fenomeno di violenza esplosivo e complesso che comprende ed eccede la cosiddetta “guerra alle droghe” o “narcoguerra”, dichiarata dall’allora presidente Felipe Calderón nel 2006. In realtà la strage dei morti ammazzati, dei femminicidi e dei desaparecidos, siano essi messicani, centro o sudamericani, rispecchia molteplici tensioni sociali, disuguaglianze e problematiche irrisolvibili nel breve periodo, anche perché frutto di un modello economico e sociale escludente e traumatico. Un modello di stato minimo, anzi infimo, e nettamente business oriented, che nel contesto messicano e latinoamericano crea il terreno ideale per il proliferare delle “imprese criminali” regionali e globali.

Le scarpe di chi cerca i propri cari desaparecidos possono trasformarsi in messaggeri di speranza e di denunce. Per questo Alfredo, che concepisce l’incisione e l’arte come mezzi per il cambiamento sociale, s’è dedicato a incidere sulle suole delle loro scarpe i nomi, i ricordi e le date di chi è scomparso e a stampare su carta le loro orme. Il progetto, concepito per diventare collettivo e itinerante, comincia a girare il Messico e, si spera, il mondo nel mese di maggio 2016. Settanta paia di scarpe riempiono il Museo della Memoria Indomita nel centro della capitale messicano e si preparano per un lungo viaggio.

Com’è nato il progetto “Orme della Memoria”?

Dal contatto con le famiglie dei desaparecidos. Da alcuni anni seguo alcune famiglie, ancora prima che nascesse il Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità del poeta Javier Sicilia, nel 2011. Proprio nel mezzo di questa sterile, fottuta e non pianificata guerra iniziata da Felipe Calderón, che forse era vincolato a un gruppo per sconfiggerne un altro.

DSC_0823 (2) nivel (Small)Il 10 maggio 2010 ho partecipato al corteo annuale del 10 maggio, Festa o Giorno della Mamma, che è un corteo nazionale molto importante in cui convergono a Città del Messico i familiari dei desaparecidos di tutto il Paese. Faceva un caldo tremendo, stavamo camminando e mi sono messo a pensare a come risuonavano i passi delle persone. Si sentivano slogan e canzoni, alternati ai silenzi. Ed era quando i passi si sentivano di più. C’erano gruppi organizzati e gente sola, tutti con dei desaparecidos da rivendicare. Ho pensato allora a tutte queste scarpe che fuggono e che registrano tutto il contenuto di chi le porta, denuncia e non si stanca di cercare i propri cari. Ho iniziato a osservare la parte posteriore delle loro scarpe che è sempre molto consumata e ho visto che le scarpe erano elementi dell’identità delle persone e della loro regione di provenienza: da Tijuana a Guerrero, da Oaxaca a Monterrey, l’unica cosa che hanno in comune è il dramma della sparizione forzata.

Cosa hai fatto dopo?

Dovevo parlarne con qualcuno di fiducia e mi sono rivolto a Lety Hidalgo affinché mi prestasse delle scarpe vecchie che non usava. Lei è di Monterrey e cerca suo figlio Roy. Mi ha dato le scarpe, ora le apprezzo molto, con affetto. Quindi ho elaborato io un testo perché conosco il caso. L’idea era di mettere su una scarpa i dati della persona, per esempio: “Io mi chiamo Lety Hidalgo e cerco mio figlio”. Sull’altra dice: “Roy è stato fatto sparire l’11 gennaio 2011”. Nello specifico è stato tecnicamente difficile incidere sul materiale di queste scarpe, quindi alla fine ho deciso di aggiungere linoleum e la scritta è venuta in rilievo e così l’ho stampata su un foglio.

Dopo mi sono arrivate le scarpe di Luz Helena Montalvo, del Coahuila. Al loro interno c’era una lettera indirizzata al suo figlio scomparso. Era la chiave. Ho preso una parte del testo, oltre ai dati di base, e l’ho incisa, poi ho chiesto a Luz Helena il permesso di caricare la stampa sulla pagina Facebook del progetto e da lì i contatti si sono moltiplicati. Hanno iniziato a scrivere perfino dal Cile, dall’Argentina, dall’Uruguay.

E dopo questa fase sperimentale?

A metà del 2014 mi sono arrivate altre scarpe su cui potevo incidere più facilmente, anche senza aggiungere linoleum. Facebook è servito a diffondere il progetto e la rete di relazioni s’è allargata anche grazie a gruppi organizzati come FUNDEC, Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Coahuila, FUNDENL, Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Nuevo León, e altre. Non era ancora scoppiato il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa. Molti di questi gruppi sono stati legati al Movimento per la Pace di Javier Sicilia e grazie a questo siamo entrati in contatto. Mi sono accorto che per vari motivi ciascun familiare aveva messo via un paio di scarpe a cui era affezionato. Tere Vera è una di loro, cerca sua sorella Minerva che è scomparsa a Matías Romero, Oaxaca, il 29 aprile 2006, cioè molto prima della dichiarazione della cosiddetta “guerra al narcotraffico”. Lei camminava da sola, non c’era nessun movimento a cui unirsi.

DSC_0761 (2) (Small)Quindi non c’erano organizzazioni fino a poco tempo fa?

L’unico precedente che io ricordo di persone organizzate per la ricerca dei desaparecidos è Eureka, intorno alla figura di Rosario Ibarra de Piedra e quindi agli anni ‘70, e i gruppi del Guerrero, legati a quel periodo storico e alla figura di Tita Radilla, figlia di Rosendo Radilla Pacheco, vittima di sequestro politico per cui il Messico è stato condannato internazionalmente.

Ma c’è molta gente che ha casi in famiglia e non è vincolata a nessun gruppo, non sa cosa fare e allora parte da sola nella ricerche. Tere con queste scarpe che ho qui e che ha consumato, cucito e ricucito fino a non poterne più, ha camminato per tutto lo stato di Veracruz e Oaxaca da sola, fermandosi a dormire in casa di sconosciuti, nelle chiese o dovunque potesse per cercare sua sorella. Lei mi disse: “Guarda, avevo queste scarpe, non so perché dal 2006, te le do perché questo progetto ha molto a che vedere con esse”. E così potrei raccontarti altri casi. Qui ci sono quelle di Araceli Rodríguez che dice: “Guarda, ti consegno i miei stivali da carovana”, cioè quelli che hanno marciato nella carovana di Javier Sicilia nel Nord del Messico nel 2011. Anche María Rueda mi ha dato le sue scarpe della carovana, le chiamano così.

A che epoche si riferiscono le storie?

Il progetto non è limitato ad alcune date, ma ha camminato da solo e in questo camino ti trovi con persone con casi d’ogni epoca, anche degli anni ’70. Alejandra Cartagena è figlia di Leticia Galarza Campos, scomparsa a Città del Messico nel 1978. Era il periodo delle sparizioni forzate ai danni dei militanti del movimento guerrigliero Liga Comunista 23 de Septiembre.

Ci sono le scarpe di Celia. Suo marito è scomparso nel 1974 e io sapevo il suo nome: Jacob. Ma non sapevo un altro dettaglio finché lei non m’ha inviato uno scritto per inciderlo sulle suole in cui dice che lui era un maestro diplomato alla scuola normale di Ayotzinapa: “Mi chiamo Celia Piedra Hernández, cerco mio marito, Jacob Nájera Hernández, vittima di sparizione forzata a San Jerónimo de Juárez, Guerrero, dal 2 settembre 1974, maestro diplomato alla Normale di Ayotzinapa, con queste scarpe non smetterò di cercarti, ti amiamo con il cuore che è il motore della nostra ricerca”.

Chi scrive il testo per le suole?

Quando, all’inizio del progetto, mi arriva il testo di Luz Helena dentro una scarpa, capisco che lì c’è già tutto: l’oggetto o la scarpa e il contenuto da registrare che loro mi mandano e non elaboro io. Preferisco così, anche se è molto doloroso per loro scriverlo. Dunque questa è la prima lettera, dell’8 maggio 2014: “Sono Luz Helena Montalvo, madre dell’architetto Daniel Roberto Dávila Montalvo, scomparso il 23 giugno 2009 a Torreón, Coahuila, all’età di 27 anni. Daniel è padre di una bimba e un bimbo che lo aspettano con ansia, quando l’han portato via si sono portati via la vita, per noi non c’è nessun progetto di vita, non c’è allegria, per me che sono sua madre c’è solo il camminare, il cercare, cercarlo nella speranza di trovarlo e riportarlo a casa. Dany, continuo a cercarti, manchi ai tuoi genitori e fratelli, a tua moglie, ai tuoi figli, ai nonni, agli zii, ai cognati e ai cugini, ti rivogliamo con noi e ci manchi molto. Tua madre”.

C’è un tema centrale nelle lettere che ricevi?

Ci sono sempre tutti i dati delle persone, ma ho pensato che le lettere dovesse contenere anche qualcosa sul tema della ricerca e dell’incontro. Cosa ti dicono le parole ricerca e incontro? Questo chiedo loro e mi scrivono qualcosa. Ognuno si libera e mette quello che vuole, cose semplici o elaborate e intime.

“Io mi chiamoYolanda Oropeza, cerco il mio figlioletto Roberto Oropeza Villa che è scomparso a Piedras Negras, Coahuila, il 21 marzo 2009. Camminare per me è un respiro di speranza per poterlo trovare un giorno”. E’ un testo semplice e diretto, ma ce ne sono altri più complessi perché col tempo le famiglie costruiscono narrazioni diverse.

“Melchor Flores Landa, cerco mio figlio, Juan Melchor Flores Hernández, vittima di sparizione forzata. I fatti sono avvenuti a Monterrey il 25 febbraio 2009. Melchor, detto Cow-boy Galattico”, questa è la parte essenziale, ma poi continua emotivamente: “Figlio mio, ti cerco da 7 anni e non mi sono ancora stancato, continuerò a cercarti finché Dio me lo permetterà e le mi forze e il mio corpo resistano, ovunque tu sia ti mando tutto il mio amore di padre, ti amo e ho bisogno di te”.

Qual è la tua relazione con le persone che ti spediscono le loro lettere e le scarpe?

E’ molto importante per me, è un simbolo di fiducia, significa che il progetto vale la pena e che loro condividono qualcosa che fa molto male. Il progetto sta diventando collettivo e bisogna essere più rispettosi e attenti. Ho incontrato personalmente quasi tutti i proprietari delle scarpe e, quando non è stato possibile, me li hanno lasciati da qualche parte, ma cerco sempre di vederli e parlarci prima o poi. Quando ci troviamo mi parlano del loro caso e spesso scrivono il messaggio subito dopo. Meglio avere una relazione personale. Per esempio c’è una lettera con foto che viene dalla frontiera nord, da Mexicali. Un’amica me l’ha consegnata e non li ho conosciuti direttamente: “Pierre Meza López, scomparso il 14 agosto 2006 a Mexicali. Seguirò sempre le tue orme fino a trovarti, fino alla fine del mondo, mi manchi molto, ho molto bisogno di te, ti amerò sempre, tua mamma Imelda”. Quello che resta inciso alla fine sono i dati essenziali e poi una parte più personale, emotiva, che si prende dalla lettera o che quasi sempre riguarda la ricerca e l’incontro, anche se non sempre gli suggerisco io queste parole. Ma queste finiscono per apparire, in un modo o nell’altro, e la speranza di trovarli è costante.

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DSC_0815 (2) nivel (Small)Priscila ha un fratello, Juan Chávez, scomparso l’8 settembre 1978: “Sono Priscila Chávez e cerco mio fratello. Sopportando e pellegrinando, stanca di tanto camminare per un fratello che tanto amo, continuerà sempre a lottare fino a trovarlo insieme agli oltre 500 desaparecidos”. Lei sta citando la cifra che si conosceva ai tempi della guerra sucia [guerra sporca dello Stato e dei militari contro i movimenti di protesta, guerriglieri e sociali in generale]. Ci sono varie persone che scrivono e dicono che stanno cercando tutti gli altri, non solo i loro cari. A volte, parlando delle scarpe, ho chiesto ai genitori se qualcosa era cambiato in loro a partire dalla scomparsa di loro figlio. Vari dicono di sì, perché hanno camminato tantissimo nei cortei, nelle procure, nei ministeri, nelle fosse e nelle ricerche. E hanno cambiato il loro modo di vestire, per cui portano scarpe più comode, con le suole resistenti e flessibili, per andare avanti a camminare.

Com’è nato il nome “Orme della Memoria”?

E’ stato facile perché qui ci sono memorie, scarpe, incisioni, prove di fatti, passi e orme, e allora così siamo arrivati al titolo.

In che lingue è tradotta la página Facebook?

All’inizio facevo una foto e riproducevo il testo, coi dati e le frasi die familiari, delle scarpe su una pagina Facebook in spagnolo più o meno una volta alla settimana. Strada facendo ho conosciuto una studentessa inglese che faceva la tesi su questo tema e s’è offerta di tradurre in inglese la pagina. Altri amici qui in Messico hanno fatto lo stesso per l’italiano. Poi sono nate le pagine in tedesco e in giapponese, data una forte relazione che mantengo con i collettivi “Bordamos por la Paz” (Tessiamo per la Pace). Loro hanno un collettivo in Giappone. Stesso discorso per la versione francese, c’è un’amica che collabora dal Québec. L’idea è che ci sia un impatto fuori dal Messico.

Per ora le orme sono verdi, ma in futuro di che altri colori le farete?

Nel progetto Bordamos por la Paz abbiamo cominciato a tessere in rosso per raffigurare tutti gli omicidi che ci sono nel Paese. Poi, sul tema dei desaparecidos, i familiari hanno preferito il verde che simboleggia la speranza di ritrovarli vivi. Il verde s’è consolidato e molti gruppi l’hanno adottato. Comunque ci saranno due altri colori. Il nero nasce perché arrivano scarpe relative a casi particolari, come questo: “Io sono María Helena, mamma di José Saúl Ugalde Vega, desaparecido il 14 settembre 2015 a Queretaro. Con queste scarpe sono andata fuori a cercarti tutti i giorni, sono stati giorni disperati, senza dormire e mangiare, sperando di trovarti. Il 4 dicembre 2015 hanno trovato i tuoi resti, ti amo figlio e non ti dimenticheremo mai”. Come segnale di lutto dobbiamo inciderli in nero. Può essere perché sono stati ritrovati i resti della persona o i membri della famiglia che i occupavano delle ricerche sono morti. Alcuni a volte muoiono cercando, s’ammalano, perché quando avviene la sparizione davvero solo loro sanno quanto forte è il dolore, l’ansia e la disperazione. Questo causa malattie. Useremo anche il rosso perché molti di quelli che seguono le ricerche sono stati assassinati, come nel caso di Nepo, Nepomuceno Moreno. Lui aveva detto in faccia all’ex presidente Calderón, una settimana prima che lo ammazzassero, che aveva ricevuto minacce perché cercava suo figlio. A Calderón non fregò nulla e Nepo fu assassinato. Qui ho 5 o 6 casi di familiari che sono finiti così per aver continuato le ricerche.

Ci sono altri casi che puoi condividere?

Ho conosciuto Lucía Vaca, moglie di Alfonso Moreno, al corteo nazionale del maggio 2014. Avevamo amici in comune. Alfonso mi ha parlato del caso di loro figlio, Alejandro, e mi ha dato un paio di scarpe per il progetto, le prime da uomo. Il secondo paio è stato quello di don Margarito, che mi ha dato i suoi sandali. Sono stato ad Ayotzinapa, ci siamo conosciuti perché eravamo seduti vicini sull’autobus e mi ha detto di avere le scarpe che ha usato quando, insieme agli altri genitori dei 43 studenti scomparsi, è andato a cercarli fuori dalla città di Iguala. E fu quella volta che rinvennero molti altri corpi e fosse clandestine, per cui nacque il movimento degli Altri Desaparecidos de Iguala (Los Otros Desaparecidos de Iguala). Molti di loro, nella maggior parte dei casi, posseggono solo le scarpe che portano. Il mese dopo ci siamo visti in manifestazione a Città del Messico e abbiamo fatto uno scambio di scarpe: gli ho dato dei sandali nuovi in cambio dei suoi vecchi. Ora hanno questo testo stampato: “Io Margarito Ramírez cerco mio figlio che si chiama Carlos Iván Ramírez Villareal, studente della normale di Ayotzinapa. Lo hanno fatto sparire i poliziotti, insieme a 42 dei suoi compagni, a Iguala, il 26 settembre 2014”.

Allora qui c’è tutto il Paese, raccolto nelle scarpe delle famiglie che sono alla ricerca dei loro cari, perché ho paia che vengono da Tijuana e dal Guerrero, da Oaxaca e dal Chiapas. E’ sintomatico che ne arrivino di più dai luoghi in cui il conflitto è più presente, ci sono tantissime scarpe del Tamaulipas, di Tijuana o di Veracruz e del Guerrero. E’ un termometro del conflitto.

Ne arrivano dall’estero?

Al riguardo è successo qualcosa d’imprevisto. Così come ne sono arrivate del periodo della guerra sporca in Messico, ne hanno mandate alcune dall’Argentina. Ne ho un paio di un bambino, Camilo, figlio di Paula Mónaco, che ha 5 anni e ha cominciato a chiedere insistentemente dove erano i suoi nonni. Paula le ha cominciato a spiegare. Sai, là le famiglie non nascondono le cose e cercano un modo di spiegare. Lei ha detto al bambino che li stavano ancora cercando. I genitori di Paula sono spariti durante la dittatura. Le scarpe dicono: “Mi chiamo Camilo Tovar Mónaco, cerco i miei nonni, Esther Felipe y Luis Carlos Mónaco, sono scomparsi a Villa María, Córdoba, Argentina, l’11 gennaio 1978. Io chiedo a mia mamma, Paula, quando troveremo i suoi genitori. Lei dice che non lo sa, ma che continueremo a cercarli. Quando torneranno, correrò ad abbracciarli perché sono i miei nonni”.

Poi mi sono arrivate due paia dal Guatemala e due dall’Honduras. Le reti sociali aiutano molto. E’ venuta una compagna dell’associazione Hijos México e ha portato delle scarpe del periodo della guerra degli anni ’80 in Guatemala. Ho fatto un intercambio anche con una mamma durante la Carovana delle Madri Centroamericane che è passata dal Messico recentemente e altre mi sono arrivate da Ana Enamorado, una signora dell’Honduras che è rimasta in Messico per cercare suo figlio, desaparecido nello stato del Jalisco. Forse ne manderanno altre da El Salvador e dalla Colombia. Si chiude una fase e la prima esposizione è per il 9 maggio al Museo de la Memoria Indómita di Città del Messico.

Come proseguirà il progetto?

In futuro dovrà essere aperto e collettivo, non importa chi farà le incisioni e il resto. Ora è finita la fase sperimentale e tecnica. Da solo non potrei continuare. Per adesso è già collettivo nella misura in cui esistono 5 pagine-specchio tradotte in varie lingue e varie persone che ci si dedicano. Poi alcuni compagni in Messico si sono fatti coinvolgere in vari modi ed è così, necessariamente, che potremo procedere a creare maggiore visibilità sulla sparizione forzata in Messico.

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In che senso?

Stiamo sperimentando il ritorno di uno stato di terrore, di uno Stato repressore e di una strategia mediatica, specialmente delle TV, che influisce sull’elezione di un presidente e instaura una visione idilliaca del Paese. La paura è stata impiantata nella società e fa sì che la maggior parte della gente entri in una fase di negazione, cioè che neghi quello che succede qui e, quando poi gli succede qualcosa, solo allora arriva la botta. E dunque s’impedisce che, in una situazione così drammatiche come questa, con oltre 30.000 desaparecidos e 150.000 morti, la gente si mobiliti e protesti. Se sono trentamila i desaparecidos, dovresti avere là fuori per le strade a manifestare, fisse, a dir poco 30 o 60mila persone, una o due per ogni famiglia con vittime. E invece non è così, non ci si mobilita. I gruppi di familiari fanno quello che possono, cercano almeno di unirsi a livello nazionale per avere più forza, soprattutto per quanto concerne l’iniziativa di Legge sulla Sparizione Forzata che si discute in parlamento. Un paese come questo non ha una legislazione adeguata su questa materia ed è un’altra tragedia…

DSC_0829 (Small)Infatti, si susseguono le condanne internazionali contro il Messico per il disprezzo imperante dei diritti umani. Si fanno addirittura in leggi come quella appena approvata nel Estado de México, detta Ley Atenco o Ley Eruviel (dal nome del governatore Eruviel Ávila), che ampliano molto le facoltà della polizia, anche senza previa consultazione del potere politico, nell’uso della “forza letale” contro i manifestanti. Oppure c’è il caso dell’approvazione del regolamento dell’articolo 29 della Costituzione che dà al presidente più possibilità di decretare lo “stato d’eccezione” e la sospensione delle garanzie individuali, anche in presenza di presunte emergenze economico-sociali.

Ciò conferma che si va all’indietro, verso uno Stato più autoritario. E stiamo parlando di un Paese con un narco-governo, dobbiamo dirlo chiaramente. Una gran quantità di desaparecidos, come successe nel caso emblematico dei 43 di Ayotzinapa ma anche in tanti altri in Messico, sono presi e consegnati ai narcotrafficanti da diversi corpi della polizia, includendo i federali e i militari. Lì c’è una situazione per cui non sai dove comincia la relazione di complicità tra narcos e governo. Stiamo vedendo un deterioramento tale da poter parlare di un narco-governo.

Perché vengono fatti sparire?

E’ molto assurdo. Molti casi sono assurdi. Tere Vera cerca sua sorella che era andata a tagliarsi i capelli e non è più tornata. Non chiedono soldi né riscatti alla famiglia. Al figlio di Lety l’hanno costretto a uscire di casa a mezzanotte, poco prima d’andare a dormire. Arriva la polizia, o personaggi vestiti da poliziotti, di nero, lo prendono per portarlo in questura e perché, dicono, hanno bisogno d’informazioni, ma poi non si sa niente di lui, sparito. Il marito di Ixchel nello stato del Coahuila. Vanno a prenderselo all’alba, gli dicono che vogliono precisazioni su un caso qualunque e non fa più ritorno a casa. Con i ragazzi di Ayotzinapa abbiamo visto un altro caso di coinvolgimento diretto delle autorità.

Ci sono tante ipotesi. Nel caso del figlio di Alfonso Moreno, per esempio, lui è un tecnico delle telecomunicazioni. Ci sono casi di ingegneri e altri professionisti che sono rapiti e quindi si crede che i narcos li sta usando per e comunicazioni, la costruzioni di tunnel e altre questioni tecniche. Ma in altri casi pare non ci sia logica, è l’assurdo.

I casi degli anni ’70 ricadevano nella logica del nemico politico che bisognava annichilire. Questi esistono anche oggi. Per esempio il “Tio”, Teodulfo Torres Soriano, un attivista che nel giorno dell’insediamento del presidente Peña Nieto si trova affianco a Juan Francisco Kuykendall. E’ il primo dicembre 2012. Il Tío filma, nei pressi del palazzo del Parlamento, come un proiettile di gomma viene sparato dalla polizia e rompe la scatola cranica di Kuykendall. Questo di vede, si vede il proiettile sparato, soprattutto se si congela il fotogramma. E’ quindi una documento di prima mano della repressione e della responsabilità della polizia federale nell’accaduto. Il ferito fu portato in ospedale e rimase in coma per un anno. Il Tío è un testimone oculare e viene fatto sparire. E’ una desaparición politica simile a quelle di 40 anni fa, perché Teodulfo aveva in mano un’informazione precisa e chiara di un abuso indiscutibile della polizia. La PGR, la procura o Procuraduría General de la República, ha chiesto il video al Tío e gli ha dato 5 giorni per consegnarlo. Ma in questi pochi giorni ecco che Teodulfo sparisce. Per fortuna è riuscito a dare il video ad altre persone o oggi possiamo vederlo su internet. L’evidenza mostra che sono stati apparati dello Stato a farlo sparire, non si vede nessun’altra spiegazione. E’ il primo desaparecido politico del governo di Enrique Peña Nieto. L’80% dei desaparecidos non aveva nessuna affiliazione politica, non sono militante di nessuna organizzazione. Sono professionisti o lavoratori senza appartenenze specifiche, come Alejandro Moreno, il figlio di Alfonso. Ma capiamo anche che spariscono perché c’è una strategia di spopolamento forzato di molte regioni in cui ci sono acqua, risorse naturali o minerarie. Questa è un’altra ipotesi, ma in fin dei conti pare evidente perché è vero che si registrano spopolamenti e spoliazioni come in una guerra di sterminio.

Puoi spiegarlo meglio?

DSC_0754 nivel (Small)Ci sono persone che a partire dal loro caso individuale hanno compreso che si tratta di un problema strutturale e, quando affrontano il tema, cominciano a parlare alla prima persona plurale, come un collettivo, e non più in prima persona. Ed è proprio per segnalare che tutte le vittime del Paese sono di ognuno di noi. Se noi sovrapponiamo la mappa geografica del Paese con le regioni dove ci sono più desaparecidos, vedremo che stiamo assistendo alla fase più acuto di saccheggio d’argento dall’epoca coloniale e, quando non sono le risorse naturali, sono i centri di resistenza come Atenco, il Chiapas o Oaxaca a catalizzare l’attenzione. Cioè, dove ci sono zone in resistenza sociale, questa deve essere debilitata, e dove ci sono risorse naturali, per esempio lo shale gas, bisogna spopolare, sfollare. Quindi, come si fa? Instaurando uno stato del terrore con la sparizione forzata, cioè una strategia perversa, peggiore dell’assassinio o della prigione.

Che esempi hai trovato al riguardo?

Ne ho uno del gruppo de Los Otros Desaparecidos de Iguala. “Mi chiamo Mario Vergara, cerco mio fratello Tomás, è stato sequestrato e fatto scomparire a Huitzuco, in Guerrero, il 5 luglio 2012. Ho imparato a cercare in fosse clandestine, ma chiedo a Dio di non farmi incontrare mio fratello in un orribile buco, cammino anche per ritrovarlo vivo”. E di un familiare di un ragazzo di Ayotzinapa. “Sono Margarita Zacarías, mamma di Miguel Ángel Mendoza Zacarías, studente della normale di Ayotzinapa, in Guerrero, è scomparso il 26 settembre a Iguala, insieme a 42 dei suoi compagni. Figlio mio, voglio dirti che ho camminato tanto cercandoti e non ce l’ho fatta, ma voglio che tu sappia che non riposerò fino ad ottenerlo, anche se dovesse costarmi la vita”.

Di una madre honduregna che sta qui in Messico: “Sono Priscila Rodríguez Cartagena, vengo dall’Honduras camminando fino al Messico, cercando mia figlia, e seguirò le orme fino a trovarla. Yesenia Marlén Gaitán è sparita il 10 febbraio a Nuevo Laredo, in Tamaulipas, quando si dirigeva verso gli Stati Uniti”.

Una è del gruppo Hijos México. E’ stato difficile incidere, la scarpa è arrivata tutta rotta. E’ del periodo della guerra sporca, lei non ha conosciuto suo padre, perché è scomparso quando sua mamma era incinta: “Sono figlia di Rafael Ramírez Duarte, desaparecido politico dal giugno del 1977. Seguire le tue orme è voler toccare i tuoi piedi coi miei, come il gioco della tana dei conigli tiepida che c’hanno rubato, papà, Tania”.

Ci sono bambini che ti inviano le loro scarpe?

Sì. Una frase di un bimbo riflette tenerezza e semplicità e dice molto di una regione, per esempio il Michoacán, che sta al centro della narcoguerra. “Sono Leonel Orozco García, ho 8 anni. Mio papà Moisés Orozco è stato catturato-fatto sparire il 22 maggio 2012 ad Apatzingán, in Michoacán. Cerco mio papà per trovarlo perché è mio papà, e gli vogliamo tanto bene”.

Un altro bambino è figlio di uno studente di Ayotzinapa. “Io mi chiamo José Ángel Abraham de la Cruz, ho 9 anni e sto cercando mio papà, Adán Abraham, studente della normale di Ayotzinapa, desaparecido il 26 settembre 2014 a Iguala, in Guerrero. Per questo mi trovo ora qui a Città del Messico, esigendo la presentazione con vita di mio papà e dei suoi 42 compagni”. Miguelito non aveva altro che queste scarpe e, siccome è cresciuto e non ha niente di niente, le scarpe ormai gli andavano strette. Ho chiesto permesso a suo fratello e a sua zia, lo abbiamo portato a comprare delle scarpe nuove. Tanto ai genitori dei 43 come agli altri desaparecidos che non hanno niente di più di quello che portano addosso io chiedo le scarpe per fare uno scambio e gli consegno un paio nuovo.

Quante scarpe hai inciso fino ad ora?

Abbiamo circa 70 paia di scarpe, ma ne stanno arrivando altre. Saranno esposte qui a Città del Messico per un po’ e poi si sposteranno secondo un percorso logico, verso nord, ma anche dove la gente e i gruppi organizzati vorranno. Potrebbero arrivare all’estero, negli USA e in altri posti, perché l’idea è di denunciare la situazione. Mi sono arrivate le scarpe di un familiare di quello che è noto come il primo desaparecido del Paese nel 1969, che era legato alla guerriglia di Genaro Vázquez. Da lì si arriva fino ad oggi con un paio di scarpe che è del 2015. Se mi inviano una scarpa di una moglie che cerca un marito o un figlio che magari è un militare, non lo scarto. Non escludo nulla, perché l’idea è mostrare l’intero paese, per cui le ragioni delle sparizioni sono molteplici in tanti luoghi diversi.

Allora abbiamo incluso il figlio di Araceli Rodríguez, che è della Polizia Federale, o il papà di Nadim Reyes, Edmundo, che è rivendicato come militante desaparecido dall’EPR (Ejército Popular Revolucionario, gruppo guerrigliero dello stato di Guerrero). C’è di tutto, è il Paese: scompaiono militanti politici e contadini, studenti e perfino soldati o poliziotti, e non mi hanno ancora mandato il caso di un giornalista, ma ce ne sono. E’ una gran tragedia. Sono donne sole, figli orfani e tutta una strategia di Stato che rappresenta un filo conduttore. Per esempio nel caso di Araceli Rodríguez c’è una denuncia e un’ipotesi chiara secondo cui i capi della polizia federale hanno mandato suo figlio, Luis Ángel León Rodríguez, con altri cinque e un autista a occupare una cittadina. Che è successo lì? E’ il novembre 2009. Li mandano a un paesino in un giorno di riposo, non lavorativo, in un’automobile non di servizio, che è stata chiesta a terzi e non è della polizia, senza armi né uniformi. E così gli danno l’ordine di occupare il paesino. Poi tutti spariscono. Quello che sta succedendo è un disastro, una guerra non detta. Se paragoni cosi come l’Afghanistan o l’Iraq o altri ancora vedrai che qui ci sono bilanci peggiori, in un Paese che teoricamente non è in guerra.

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Userai anche altri oggetti?

Per Orme della Memoria non ho voluto le scarpe dei desaparecidos perché già è stato fatto molto con gli oggetti dei desaparecidos e mi interessa la parte vitale, la parte di chi cerca, di chi più ha indagato e di chi sta lavorando in questo periodo alla Legge sulle sparizioni forzate. Chi farà uscire questo paese dal disastro sono i familiari perché vogliono cercare i loro figli e stanno scoprendo le ragioni del deterioramento, quindi vogliono denunciare e cambiare il Paese. Lo spirito collettivo del progetto può potenziarlo affinché non si centri su una persona sola e prosegua indefinitamente.


** Cos’è Messico Invisibile?

Il libro riunisce reportage, interviste e saggi sul Messico attuale che è diventato il centro dei traffici degli stupefacenti consumati negli Stati Uniti e in Europa: marijuana, cocaina, eroina, metanfetamine. In 10 anni la “guerra alle droghe” ha fatto oltre 150mila morti, 30mila desaparecidos e migliaia di femminicidi nel Paese. La crisi dei diritti umani colpisce specialmente giornalisti e attivisti che lavorano sotto minaccia del crimine organizzato, spesso indistinguibile dalle autorità. Messico invisibile spiega l’evoluzione dei narco-cartelli, le vicende del boss Joaquín “El Chapo” Guzmán e il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, sequestrati da poliziotti e narcos a Iguala la notte del 26 settembre 2014 e, ad oggi, ancora desaparecidos. L’autore dà spazio a storie silenziate, invisibili, come quelle delle donne della prima casa di riposo al mondo per ex prostitute o di chi s’organizza per cercare i propri cari desaparecidos, e critica le narrazioni tossiche sui “cervelli in fuga” e sul neoliberalismo, il sistema culturale ed economico che fa da cornice alla conflitto messicano. Nuovi studi sul culto popolare della Santa Muerte, sugli italiani all’estero e sui legami tra l’amianto e il “filantrocapitalismo” in America Latina completano il testo. Alla fine di ogni capitolo sono raccolte le voci, con interviste a Don Ciotti, fondatore di Libera, Alfredo López Casanova, ideatore di Orme della Memoria per i desaparecidos, agli scrittori Alberto Prunetti, Pino Cacucci e Roberto Saviano, al difensore dei diritti umani Francisco Cerezo, al pittore partigiano Luciano Valentinotti e a Xitlali Miranda, coordinatrice delle ricerche degli Altri Desaparecidos di Iguala. Segnalo presentazione del libro il 7 luglio alle 19:30 presso l’ex OPG occupato Je so’ pazzo a Napoli.


Di seguito il trailer del documentario (presto disponibile per varie proiezioni in Italia) Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Seguitene i passi! FaceBook Link 

Un viaggio nel Messico che resiste al neoliberismo. Voci da una terra in cui Non ci si rassegna, dove immaginare un mondo che include altri mondi non è un semplice slogan ma una reale e costante pratica quotidiana. Abbiamo iniziato a pensare in collettivo, a immaginare un progetto. La forma che abbiamo scelto è quella del film documentario. Una serie di interviste che possano rendere diversi sguardi sul Messico e sulle lotte che lo animano. Negli stati che abbiamo attraversato siamo entrati in contatto con diversi attivisti e militanti di organizzazioni radicali e anticapitaliste, cercando di cogliere il comune sentire che vive intorno al “discorso rivoluzionario” nel Messico di oggi. Parlando di capitalismo e resistenze, di collettività e autonomia, abbiamo imparato che, nonostante tutto, pensare un futuro rivoluzionario e agire in un presente tanto complesso può essere una pratica quotidiana. Abbiamo visto come si possa parlare di tutto ciò con una semplicità disarmante. La stessa semplicità con la quale da ormai più di vent’anni dei contadini, in Chiapas, tengono testa agli attacchi del governo, costruiscono il proprio mondo sottraendolo al capitalismo e ci regalano ogni giorno un motivo di speranza.

Un film di: Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri.
Fotografia di: Claudio Carbone
Disegni di: Mario Berillo
Montaggio di: Leonardo Botta
Musiche di: Moover
con la collaborazione di Kairos elementikairos.org
Pagina Facebook: facebook.com/Cielito-Rebelde-Voci-del-Messico-resistente-493029287533380/timeline
Sito: cielitorebelde.org
Trailer: vimeo.com/151901240

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Eroi dello sport https://www.carmillaonline.com/2016/06/13/30867/ Mon, 13 Jun 2016 21:30:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30867 di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano [...]]]> di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Daniele Marchesini.

Marchesini ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma e da molti anni si dedica all’analisi dello sport come fenomeno sociale e culturale, indagando svariati temi (Coppi e Bartali, le Mille Miglia, il Giro d’Italia, il ruolo dello sport nella formazione di un’identità nazionale, la relazione tra sport e totalitarismi). Il saggio più recente di Marchesini è uscito in una collana del Mulino, diretta da Carlo Galli, dedicata al tema dell’eroe in diversi ambiti e discipline.

Nelle prime pagine del volume Eroi dello sport Marchesini definisce l’oggetto della sua ricerca distinguendo tra il campione e l’eroe. Entrambi si caratterizzano per l’assoluta eccellenza delle loro prestazioni che suscitano ammirazione, ma questo non basta per fare di un campione un eroe. Oltre alle numerose promesse mancate, anche grandi protagonisti dello sport – come Indurain nel ciclismo o Phelps nel nuoto – pur accumulando vittorie e medaglie si sono fermati prima della soglia che si apre sullo spazio dell’eroismo sportivo. A differenza dei campioni, gli eroi sportivi assumono una rilevanza che esula dall’originario ambito di appartenenza, entrano nella memoria collettiva, ispirano ideali, rispecchiano valori e attese, costituiscono riferimenti culturali.
D’altronde, si può diventare eroi senza essere vincitori, come nel caso di Dorando Pietri. Il maratoneta carpigiano nel 1908 taglia per primo il traguardo nella gara dei giochi olimpici di Londra ma “perde la vittoria” (sono parole dello stesso Pietri, squalificato a causa dell’aiuto di medici, giudici e assistenti che lo sostengono in prossimità dell’arrivo). Tuttavia mentre Hayes, il vincitore della maratona, cade nell’anonimato, lo sconfitto Pietri “vince” sul piano dell’immaginario collettivo grazie alla trasfigurazione mitica dell’evento. La dimensione dell’eroe è infatti quella del mito, cioè di un sistema di comunicazione «definito non tanto dal suo oggetto, quanto dal modo in cui lo si costruisce e lo si trasmette» (p. 230).

pietriDeterminante nella costruzione dell’eroe sportivo è anzitutto la presenza di un pubblico che segue con grande passione le prodezze del campione e instaura una relazione stabile e fiduciaria con lui, identificandosi con le vicende che, nel bene e nel male, in campo sportivo e extrasportivo, punteggiano la sua carriera e la sua vita. L’eroicizzazione implica inoltre la presenza di un “cantore” capace di narrare le imprese del campione. Nel caso di Pietri è Arthur Conan Doyle – appassionato di sport e presente all’evento come cronista del “Daily Mail” – a celebrare la vicenda in un articolo che rappresenta il corrispettivo scritto della celebre immagine del maratoneta barcollante e distrutto dalla fatica: «Avvenne allora una cosa meravigliosa. Col viso d’un morto, Dorando si rialza, barcolla, le gambe riprendono lo strano incedere automatico: ricadrà? No. Oscilla, tentenna un istante, ed eccolo tagliare il traguardo, raccolto da venti braccia amiche! E’ arrivato all’estremo limite delle forze umane! Mai alcun romano dei primi giorni gloriosi si comportò meglio di Dorando alle Olimpiadi del 1908» (p. 233). Con il suo articolo, il creatore di Scherlock Holmes perfeziona e universalizza l’eroicizzazione di Pietri, trasformandolo in una celebrità mondiale ingaggiata, e profumatamente pagata, per le sue esibizioni in Europa e in America. I maggiori giornali scrivono di lui, il personaggio è acclamato ovunque e il pubblico accorre per vederlo in azione.

Passando in rassegna numerose esperienze sportive, Marchesini analizza gli aspetti culturali, i registri espressivi e i codici comunicativi che alimentano le retoriche della mitografia sportiva, in relazione ai contesti politici e sociali, alle dinamiche specifiche degli sport, al loro carattere individuale o collettivo, alle modalità della loro narrazione.
Un capitolo del saggio è dedicato al mondo classico, nel quale lo sport assume già una dimensione strutturata e caratteri tipici dei fenomeni sportivi moderni (professionismo, tifo, ideologia atletica, celebrazione dei vincitori ecc.). L’attenzione è rivolta però prevalentemente alla contemporaneità in quanto è la società di massa a favorire il radicamento, la diffusione e la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo, in un processo di «familiarizzazione» (p. 8) che lo rende sempre più pervasivo e che si intreccia con la vita quotidiana, con la dimensione politica, le dinamiche sociali, la sfera economica.

Nel primo scorcio del Novecento, i temi che fondano la rappresentazione eroica di figure come Pietri, impegnate in corse di fondo che comportano grande sofferenza, e dell’epopea degli albori del ciclismo, lo sport allora più popolare, sono legati alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure, difficili, povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale. Al pubblico che segue il Giro d’Italia o la Grande Boucle, su strade sterrate in tappe impervie e interminabili, il ciclismo «appare come una variante della lotta per la vita che coinvolge la maggioranza dei lavoratori che, in quegli anni, faticano “da sole a sole” nelle campagne (cioè dall’alba al tramonto), 12-14 ore nelle fabbriche, sette giorni su sette la settimana, in attesa di un avvio di legislazione sociale che interviene solo al principio del Novecento a disciplinare i casi più clamorosi di sfruttamento selvaggio» (pp. 78-79).

coppi-bartaliNel secondo dopoguerra, sono Gino Bartali e Fausto Coppi ad incarnare nuovamente lo sport della fatica come metafora della ricostruzione dopo le tragedie del conflitto mondiale. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico e “razionalista” Coppi).
In un contesto profondamente mutato – quello di un’Europa che sembra «appagata dai risultati di un benessere in continua espansione, che rende la bicicletta un oggetto antiquato» (p. 126) – occorrono altri ingredienti per costruire il mito. Se la grandezza di Coppi veniva esaltata con toni epici e favolistici dai radiocronisti e giornalisti dell’epoca (nel linguaggio sportivo prevaleva il campo metaforico del “volo” o della “regalità”, con espressioni come “dominare”, “librarsi”, “aquila”), le immagini utilizzate per descrivere Eddy Merckx – il ciclista in assoluto più vincente nella storia del suo sport: 445 vittorie tra il 1966 e il 1978 – esaltano invece la potenza atletica pura, con iperboli quali “mostro”, “robot”, “marziano”, «tendenti a suscitare ammirazione e sorpresa nell’ordine dei valori “tecnico-avveniristici”» (p. 126).
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

Oltre al ciclismo, lo sport più popolare nella prima metà del Novecento è il pugilato. Progressivamente addomesticata nella sua originaria carica di violenza e caratterizzata da contenuti di grande raffinatezza tecnica, nell’immaginario collettivo la boxe rimane comunque prevalentemente legata alla «messinscena del corpo forte» (p. 95). Se nel ciclismo il corpo si espone senza nascondimenti sul “cavallo di ferro”, nella boxe il corpo dell’atleta viene portato in prima scena, in uno scontro da solo a solo. Definito da Albert Camus come «lo sport assolutamente manicheo», un rito che semplifica tutto, il bene e il male, il vincente e il perdente, il pugilato mantiene un seguito popolare sino agli anni Sessanta-Settanta, segnati in Italia dalle figure di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti. Come ricorda Marchesini, il 17 aprile 1967 la sfida mondiale tra Benvenuti e Griffith al Madison Square Garden, titolo dei pesi medi in palio, fu trasmessa dalla RAI in diretta solo radiofonica «per non compromettere, a causa dei fusi orari, il sonno degli italiani e le loro capacità lavorative dell’indomani. Il miracolo economico da un po’ di tempo scricchiola e bisogna evitare di incentivare l’assenteismo in fabbrica e negli uffici. Nonostante le preoccupazioni educative e moralizzatrici della RAI monopolista, in più di 15 milioni quella notte puntano la sveglia e si alzano per ascoltare la radiocronaca del trionfo dell’italiano condotta da Paolo Valenti» (p. 98).
L’autore dedica ampio spazio anche alla figura di Cassius Clay, dai primi successi, all’adesione alla fede islamica, al rifiuto di arruolarsi nell’esercito e di partire per la guerra in Vietnam, sino all’incontro con Foreman per il titolo mondiale dei massimi: il 30 ottobre 1974 il pubblico che segue il match (60 mila persone) è tutto con lui «così come i neri di tutto il mondo, in una diretta televisiva che per l’epoca riuniva una platea infinita: 700 milioni di persone». All’ottavo round Muhammad Ali atterra Foreman e si conferma l’eroe non solo di uno sport che quel giorno «tocca vertici mai prima e mai più in seguito raggiunti di partecipazione emotiva, ma anche di ideali di libertà e giustizia» (pp. 219-220).

Quarant’anni prima, era stato il fascismo a utilizzare politicamente le potenzialità del pugilato, sfruttando l’immagine eroica di un altro peso massimo, il friulano Primo Carnera, «capace di sedurre affascinare eccitare il pubblico come una star del sistema divistico» (p. 159). Un capitolo del saggio di Marchesini è dedicato al rapporto tra lo sport e i regimi totalitari, i primi a cogliere le opportunità di controllo delle masse offerte dalla loro passione per lo sport. Il fascismo dà forma all’ideologia dell’“atletismo politico”: il coraggio, la lotta, la forza, l’agonismo sono valori che vengono piegati alla logica del regime e riassunti in una rappresentazione del corpo che mira alla definizione dell’“uomo nuovo” fascista. Oltre a Carnera, che esemplifica in modo evidente l’uso dello sport a fini propagandistici e di ricerca del consenso, altre figure che corrispondono alle aspettative del regime acquisiscono profili eroici: ciclisti come Bottecchia e Binda; Beccali, che trionfa nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932; piloti come Nuvolari e Varzi; i calciatori guidati da Pozzo che conquistano il titolo mondiale nel 1934 e nel 1938.

jesse_owens_berlino_1936Anche la Germania nazista imbocca la strada della mistica sportiva. Ma all’esaltazione dello sport come arena nella quale dimostrare la potenza del regime e la superiorità della razza ariana, culminata nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, tocca una micidiale eterogenesi dei fini: come è noto, a Berlino Jesse Owens – con le sue quattro medaglie d’oro – si afferma come “contro mito”, il “lampo d’ebano” che contraddice col suo stesso corpo, il colore della pelle e una straordinaria forza atletica i principi dell’ideologia hitleriana. Qualche anno dopo, al tempo dell’occupazione della Francia, il nazismo andrà incontro ad un altro inatteso fallimento nel tentativo di umiliare i francesi, oltre che sul piano militare, su quello della simbologia sportiva. Marchesini dedica pagine dense e appassionate alla vicenda del pugile Marcel Cerdan, un francese figlio di pieds-noir. Il 20 settembre 1942 i nazisti organizzano un incontro tra Cerdan e lo spagnolo Josè Ferrer, campione in carica dei welter: «Ferrer sale sul ring avvolto in una bandiera nazista e i suoi secondi indossano l’uniforme della gioventù franchista», «mentre i 16 mila spettatori, quasi in un mormorio, intonano la marsigliese nonostante la presenza di molti alti ufficiali nazisti a bordo ring»; Cerdan domina l’incontro e viene «acclamato come un liberatore dalla folla in delirio» (p. 102).

Nel campo opposto, l’Unione Sovietica non esprime in quegli anni una significativa mitologia sportiva, anche per la diffidenza diffusa nel movimento socialista, sin dalle origini, verso lo sport, considerato un fenomeno borghese, destinato a “distrarre” le masse e a ostacolare la loro presa di coscienza politica. Negli anni dello stalinismo è il lavoro che assurge a mito nella esemplificazione estrema di Stachanov e Marchesini coglie giustamente il nesso tra lo stachanovismo e l’interesse per lo sport manifestato nel dopoguerra dall’Urss e dai paesi satelliti. Attraverso Stachanov «si fa strada nell’immaginario collettivo sovietico l’idea che il primato in quanto tale è possibile e accettabile, se inserito nel progetto di educazione e formazione dello spirito pubblico nazionale, e se obbedisce al ruolo di dimostrazione dei risultati che il socialismo reale rende concreti a vantaggio della comunità». Dopo Stachanov e attraverso la guerra, «nel pantheon d’oltrecortina» il testimone passa dal campione del lavoro al campione dello sport: «tramonta lo stachanovismo ma si afferma il culto dell’individualità straordinaria» (p. 164). Un culto tanto più importante nel momento in cui l’Urss viene ammessa alle Olimpiadi (per la prima volta a Helsinki nel 1952) e deve quindi dimostrare, anche sul piano sportivo, di saper competere con il capitalismo. Gli eroi sportivi sovietici o di altri paesi dell’Est (come Zatopek, Brumel, Bubka, Borzov e molti altri delle discipline olimpiche, nominati da Marchesini, ai quali si dovrebbero aggiungere alcuni calciatori come Jascin) vincendo e stabilendo primati difendono la causa del proprio paese, secondo quanto teorizzato dai dirigenti del movimento sovietico.

Tommie Smith John CarlosMolti altri esempi di “eroismo sportivo”, descritti in modo puntuale da Marchesini, mostrano le diverse sfaccettature del fenomeno e dei personaggi che lo hanno incarnato.
Le olimpiadi sono il palcoscenico di imprese che danno vita a nuovi eroi. A Roma nel 1960 Livio Berruti è un ragazzo “normale” che nulla ha dell’eroe, ma si trova vincere in una contingenza particolare (l’Italia del miracolo economico) che consente la trasfigurazione mitica; Abebe Bikila, primo africano a vincere un oro olimpico, diventa simbolo del «riscatto da condizioni di povertà e di emarginazione» di un continente «più di ogni altro brutalmente saccheggiato» dal colonialismo (p. 91). Nel 1968 a Città del Messico, in un contesto infiammato dai movimenti di contestazione, sul podio dei 200 metri Tommie Smith e John Carlos levano il braccio col pugno guantato del Black Power, un gesto che denuncia le intollerabili condizioni in cui vivono gli afroamericani. Tuttavia, secondo Marchesini, sono “eroi perdenti”: sanzionati pesantemente dai vertici olimpici, subiscono l’oblio istituzionale e l’emarginazione in una «società disposta a garantire rispetto solo in cambio di successi sportivi e sottomissione all’ideologia dominante» (p. 217).

In alcuni casi, la dimensione eroica non è connessa alla forza ma all’estro e alla fragilità. In Brasile, il paese che ha fatto del calcio una religione laica, al mito di Pelè (il calciatore «”apollineo”, cioè perfetto, esemplare, da manuale») si contrappone quello di Garrincha, soprannominato «torto» o «zoppo» a causa del «bacino visibilmente deviato» e della «deformità delle ginocchia»: il suo calcio è «”dionisiaco”, sovrabbondante, tutto genio e sregolatezza», basato sul dribbling con il quale irride l’avversario grazie a una finta che sembra quasi favorita dal suo difetto fisico. Dopo una lunga decadenza «fatta di depressione, alcol, ostinazione a giocare ancora in squadre sempre meno titolate», la sua morte «è annunciata come la scomparsa della “gioia del popolo” (a alegria do povo), secondo il titolo del film girato nel 1962 su di lui […] da Jaquin Pedro de Andrade, uno dei capofila del cinema novo» (pp. 187-188).

Oltre alle individualità, nel saggio di Marchesini spicca la dimensione eroica collettiva legata in particolare ad alcuni sport, come il rugby (è il caso ad esempio degli All Blacks neozelandesi, capaci di suscitare una forma di riconoscimento collettivo che supera le barriere razziali) e il calcio, dal “Grande Torino” che, all’apice delle vittorie, va incontro alla tragedia a Superga nella notte del 4 maggio 1949 (per la tifoseria granata Superga rimane il tempio di una sorta di culto civile) alla squadra del Manchester United che precipita in aereo il 6 febbraio 1958 (non a caso Bobby Charlton, miracolosamente sopravvissuto all’incidente, diventerà l’eroe non solo dell’Old Trafford, lo stadio della squadra, ma dell’intero paese, guidando la nazionale inglese alla vittoria nei mondiali del 1966).

oldtrafford113In diverse pagine del saggio l’autore ritorna sul tema della morte precoce che contribuisce ad eternizzare la grandezza dell’eroe, evidente negli sport motoristici, in cui il rischio è più presente (si pensi a Ayrton Senna, idolo nazionale in Brasile e pilota più amato dagli appassionati di automobilismo), o nelle vicende di campioni del ciclismo come Coppi e Pantani e del calcio come George Best (l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 in seguito a una cirrosi epatica per alcolismo, gli è intitolato l’aeroporto di Belfast e la sua immagine viene stampata su una serie limitata di banconote emessa dalla Ulster Bank). A non dimenticare i campioni morti servono stele, colonne votive, lapidi, busti che punteggiano le strade percorse o campeggiano nei luoghi che hanno conosciuto le loro vittorie. A questa “statuolatria”, come la definisce Marchesini, si accompagna la “stadiolatria” ovvero la rilevanza assunta nei contesti urbani del “monumentale sportivo”: stadi, piscine, palasport, villaggi degli atleti «sono i templi indispensabili all’eroicizzazione dell’atleta vincente, i luoghi sacri in cui celebrare i rituali del culto che ogni quattro anni trova nelle olimpiadi la sua massima espressione» (p. 8).

Attraverso queste ed altre storie si snoda il racconto di Marchesini che si apprezza per la qualità della scrittura, per i puntali ritratti di personaggi noti e di figure inconsuete (almeno per il lettore italiano, si veda tra l’altro il capitolo dedicato al cricket), per la ricchezza di riferimenti storici. Il taglio della ricerca, attenta agli intrecci tra la dimensione sportiva e quella sociale, tende a privilegiare figure assunte come modelli di identificazione collettiva con una funzione unificante di carattere nazionale. Si tratta di fenomeni di indubbia rilevanza, che lasciano però in ombra altri processi di “eroicizzazione” sportiva, costruiti e vissuti come modelli alternativi rispetto alle narrazioni condivise, o figure di “antieroi” riconducibili ad una dialettica con la dimensione epica dello sport, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Anche sul ruolo delle donne, che secondo Marchesini in ambito sportivo raramente innescano dinamiche di identificazione e mitografie (tema discusso nel capitolo dedicato all’“eroismo al femminile”) rimangono aperti percorsi di ricerca in una prospettiva di genere.

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Nuova Mappa del Narcotraffico in Messico e negli Stati Uniti https://www.carmillaonline.com/2015/09/04/nuova-mappa-del-narcotraffico-in-messico-e-negli-stati-uniti/ Thu, 03 Sep 2015 22:00:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24905 di Fabrizio Lorusso

Movimiento alterado Revolución NarcoCultura NarcocorridosPeriodicamente l’agenzia antidroga americana DEA (Drug Enforcement Administration) traccia la mappa del narcotraffico negli Stati Uniti e in Messico e, in base al lavoro d’intelligence dei suoi uffici distaccati sul territorio, pubblica una relazione sull’evoluzione dei cartelli messicani in America del Nord. Colori e macchie, città conquistate e perse, confini e nomi ormai noti della criminalità organizzata locale e globale non hanno nemmeno bisogno di una legenda per essere compresi. L’impatto visivo è immediato e così l’idea della narcoguerra che insanguina il [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Movimiento alterado Revolución NarcoCultura NarcocorridosPeriodicamente l’agenzia antidroga americana DEA (Drug Enforcement Administration) traccia la mappa del narcotraffico negli Stati Uniti e in Messico e, in base al lavoro d’intelligence dei suoi uffici distaccati sul territorio, pubblica una relazione sull’evoluzione dei cartelli messicani in America del Nord. Colori e macchie, città conquistate e perse, confini e nomi ormai noti della criminalità organizzata locale e globale non hanno nemmeno bisogno di una legenda per essere compresi. L’impatto visivo è immediato e così l’idea della narcoguerra che insanguina il continente si lega alla geopolitica. I frammenti si ricompongono sullo schermo e, restringendo lo zoom, i pixel scompaiono e la visione globale si fa nitida. La lotta militarizzata alle organizzazioni criminali, che in Messico ha mietuto oltre 130mila vittime in 8 anni e mezzo e ha provocato un aumento drammatico delle violazioni ai diritti umani, viene analizzata dalla DEA in una dimensione internazionale e geografica che, pur offrendo un quadro cognitivo generale, mette in secondo piano le vite quotidiane di milioni di persone che vivono sulla propria pelle le conseguenze della war on drugs e dell’ipocrisia di fondo che la alimenta. Sono i milioni di pixel concentrati nei vari sud del mondo: dal Latinoamerica, o “NarcoAmerica”, secondo il titolo di un interessantissimo libro di giornalismo narrativo “sulle tracce della cocaina” pubblicato da Tusquets (2015), a Gioia Tauro, dall’Afghanistan a Ciudad Juárez o i Balcani.

Mexican Cartels in Mexico DEA Map 2015 (Large)

Dal cartello alla mafia

In riferimento ad alcuni gruppi della delinquenza organizzata messicana non si parla più, o non solo ormai, di gangster, cartelli e delinquenti, di tagliagole e sicari, di gang, bande e pandillas, ma di vere e proprie mafie. Si tratta di uno stadio superiore di sviluppo dell’organizzazione criminale che acquisisce e consolida codici e strutture, regole e lealtà, discipline e logiche imprenditoriali e da clan. Una mafia sa riprodursi, organizzarsi, darsi regole. Sa anche essere anche discreta e rafforzare i suoi legami con la politica e lo stato, specialmente in Messico. E a questo modello, rinsaldato da legami tra compari e di sangue, risponde sicuramente il cartello di Sinaloa, al cui vertice restano Ismael “El Mayo” Zambada e il fuggitivo Joaquín Archibaldo Guzmán Loera, alias “El Chapo”. Ma Sinaloa, come evidenzia l’analisi della DEA, è tacchinato da altri gruppi emergenti e da vecchi rivali.

narcotraffico eroinaIl report identifica otto grandi cartelli messicani: Sinaloa, Cartello Jalisco Nueva Generación (CJNG), Beltrán-Leyva Organization (BLO), Los Zetas, Cartello del Golfo (CDG), Cartello di Juárez/La Línea (CDJ), La Familia Michoacana (LFM) e Los Caballeros Templarios (LCT). Questi ultimi due hanno perso nettamente influenza, capacità operative e coesione a livello di organizzazione, mentre il CJNG, nato da una scissione del cartello di Sinoloa nel 2010, si presenta come il gruppo in maggior crescita. Dal suo stato d’origine, il Jalisco con la sua bella capitale Guadalajara, l’organizzazione s’è espansa ai vicini Nayarit, Colima, Guerrero, Michoacán e al Veracruz. Ma non solo. Sfruttando abilmente le debolezze dei rivali e le sue alleanze ha fatto ingresso anche nel Guanajuato e nel San Luis Potosí, così come nei meridionali Oaxaca e Chiapas.

L’ascesa del Cartello Jalisco Nueva Generación e il dominio di Sinaloa

In particolare la quasi totale disintegrazione della Familia Michoacana e dei Cabelleros Templarios nel Michoacán, territorio strategico sulla costa pacifica grazie allo scalo portuario di Lázaro Cárdenas, porta d’ingresso di precursori chimici per la produzione di metanfetamine e di cocaina dalla Colombia, ha portato all’ascesa del Jalisco Nueva Generacion i cui membri sono riusciti anche a infiltrarsi nella Nuova Polizia Rurale. Questa forza di polizia è stata creata dal governo per “risolvere” il conflitto coi gruppi armati di autodifesa e incorporarli in una struttura statale. Insieme ad essi, però, anche operatori del cartello CJNG sono entrati nella polizia oltre che nei territori prima controllati dalla Familia e da LCB.

Per questo il cartello di Jalisco viene identificato come il prossimo “nemico numero uno” della DEA. Negli USA nessun gruppo criminale straniero è così ben posizionato e potente come i cartelli messicani, specialmente Sinaloa, che tramite network distributivi e tracciati consolidati, soprattutto lungo il confine sudoccidentale, gestiscono traffici policromatici: marijuana verde e bianca coca, cristalli chiari e celesti di metanfetamine e infine eroina. Proprio queste due sostanze rappresentano i business in aumento, anche grazie alla “spinta dell’offerta” in tal senso.

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La mappe disegnate dalla DEA evidenziano la presenza delle mafie messicane in territorio statunitense nella prima metà del 2015: il predominio di Sinaloa è schiacciante ma non totale. Infatti, il cartello di Juárez, quello del mitico boss degli anni ’90 Amado Carrillo Fuentes (El señor de los cielos) mantiene la sua influenza tradizionale nel New Mexico e nel Texas sud-occidentale, mentre gli Zetas e il cartello del golfo lottano per il controllo di plazas, punti di passaggio e territori tanto in Messico, soprattutto nelle regioni del Tamaulipas e del Veracruz, come negli USA, nel Texas sudorientale e centrale. Allontanandosi dal confine messicano-statunitense solcato dal Rio Bravo, la loro capacità operativa va scemando.

Come in genere accade nell’economia legale, anche nel settore del traffico degli stupefacenti la gran fetta della torta, i guadagni più sostanziosi, finiscono nelle mani della grande, media e piccola distribuzione nel mercato USA: lo smercio città per città, quartiere per quartiere, effettuato da dealer e pusher formano il grosso delle entrate, per cui è strategico controllare i punti di transito in Messico, ma ancor di più lo sono la gestione degli snodi di frontiera e dei trasporti e la distribuzione al consumatore finale.

Sebbene abbiano perso potere e mercato, non sono assenti da numerose città americane le organizzazioni criminali messicane decadenti (come i Templarios, il cartello di Tijuana della famiglia Arellano Félix o i Beltrán Leyva, presenti a Denver e lungo la costa orientale) e quelle emergenti come il Jalisco Nueva Generación. Il cartello, sebbene non sia ancora molto presente nel mercato americano, sta guadagnando rapidamente posizioni in Messico, ottima base di partenza per la conquista degli States, per cui è visto con crescente preoccupazione dalle autorità di quel paese.

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Narco-Storia del Cartello Jalisco Nueva Generación

Proprio riguardo a questo gruppo, alla ribalta dei media nel maggio scorso in Messico per una serie di attentati e scontri a fuoco con la polizia alla vigilia delle elezioni parlamentari, cito un estratto dal libro NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga per cercare di capirne le dinamiche e la storia:

Abigail González Valencia, alias “El Cuini”, era un boss discreto, vecchio stile. Poco presente sui media, non figurava nemmeno nella lista dei 122 obiettivi prioritari del governo, elaborata in base a fattori quali il numero di indagini aperte su un individuo, le sue reti nazionali ed estere e il suo giro d’affari. Il narcos è stato arrestato il 28 febbraio 2015 ed è stato rimpiazzato da quello che secondo la stampa, il governo messicano e il Dipartimento del Tesoro statunitense sarebbe uno dei nuovi “uomini forti” della malavita in Messico, suo cognato Nemesio Oseguera Cervantes, “El Mencho”. González Valencia operava con il “El Mencho” in qualità di capo del gruppo armato, alleato del CJNG, noto come “Los Cuinis” e attivo dagli anni Novanta all’interno del cártel del Milenio. El Cuini appartiene alla famiglia dei fratelli Valencia, vecchie glorie della narco-storia messicana che da coltivatori di avocado divennero negli anni Settanta piantatori di papaveri e marijuana.

narcotraffico messicoUno di loro fu addirittura sindaco di Aguililla, cittadina d’origine dell’intera stirpe dei Valencia. L’incipiente organizzazione divenne un potente cartello, il Milenio, sotto la guida di Armando Valencia e grazie all’alleanza coi colombiani di Medellín, all’estero, e a quelle con i fratelli Amezcua di Colima, pionieri nel commercio di droghe su disegno o sintetiche, e con Sinaloa, in patria.

Nel 2003 stabiliscono una rete per l’importazione da Hong Kong dell’efedrina, precursore chimico delle metanfetamine, in virtù dell’accordo con l’impresario sino-messicano Zhenli Ye Gong, e si legano più strettamente al Chapo Guzmán, responsabile della “divisione droghe sintetiche” del cartello del Pacifico o Federación de Sinaloa. In seguito si associano allo storico capo sinaloense Ignacio Nacho Coronel, boss indiscusso della zona del Jalisco. La mafia del Milenio si trasforma in Jalisco Nueva Generación nel 2010, dopo la morte di Coronel, e stabilisce un patto con gli scissionisti Beltrán Leyva, ormai nemici di Sinaloa. Dal 2013 ingaggia una guerra contro i Templarios del Michoacán per il controllo dello snodo portuale di Lázaro Cárdenas e conduce un’infiltrazione graduale nei gruppi armati di difesa, le autodefensas, che sorgono proprio in quell’anno e che sono confluiti nella Nueva Fuerza Rural patrocinata dal governo.

 Nel 2011 il CJNG si proietta al centro delle cronache per una serie di video in cui si presenta come una banda di “Ammazza-Zetas”, i Mata-Zetas, in lotta per ripulire Veracruz e il golfo dagli odiati Zetas. In molti hanno pensato che fosse un espediente mediatico dei narcos di Sinaloa e del loro boss, il Chapo Guzmán, per fiondarsi alla conquista dell’Oriente messicano, presentandosi come dei salvatori, ma in realtà si trattava di un gruppo autonomo, di fatto scisso da Sinaloa. Nel 2015 il Jalisco Nueva Generación ha condotto una guerra su più fronti e ha espanso la rete delle sue operazioni a sette stati del Paese. Nel sud del Michoacán ha spodestato i Templarios, mentre nella zona a nord di Guadalajara gli Zetas hanno dovuto ripiegare. Il cartello sta battagliando ancora con Sinaloa per il mercato delle metanfetamine e secondo alcuni esperti in futuro potrebbe scavalcare gli Zetas e contendere il primo posto nella classifica criminale proprio a Sinaloa e al “Mayo” Zambada.

narcotraffico mexico juarezSecondo molti osservatori l’accanimento mediatico contro il CJNG ha fatto concentrare l’attenzione su un gruppo lasciando operare più tranquillamente gli altri, specialmente il cartello di Sinaloa. Inoltre viene data poca rilevanza al gruppo dei “Los Cuinis”, presumibilmente alleati del Jalisco Nueva Generación, che la DEA non ha citato tra gli otto cartelli messicani principali, nonostante il Dipartimento del Tesoro abbia incluso affaristi e imprese ad esso legati nella sua lista nera e lo abbia etichettato come “uno dei cartelli più pericoli e violenti del paese”. Probabilmente l’Agenzia non considera Los Cuinis come un cartello indipendente: i legami di parentela dei fratelli José, attuale capo, e Abigail Gonzalez Valencia con il boss del CJNG, Nemesio Oceguera, loro cognato, e il fatto che i due gruppi abbiano sempre collaborato strettamente può avere influito sulla scelta della DEA. Prima dell’arresto Abigail era l’operatore finanziario del Jalisco Nueva Generación a Guadalajara.  Comunque nemmeno la quarantennale organizzazione cartello dei Diaz Parada o cartello di Oaxaca non è menzionata nel rapporto dell’agenzia USA.

Dopo la cattura del fratello maggiore dei Los Cuinis, secondo la Procura Generale della Repubblica messicana è il minore, José González Valencia, alias La Chepa, che ha assunto il comando e sarebbe responsabile della sicurezza di Nemesio Oceguera, El Mencho, e degli attacchi militari contro le forze della polizia del Jalisco nei mesi scorsi. I narcos avrebbero perso l’appoggio della polizia statale per cui si sarebbero rivolti contro di loro con una serie di attentati, approfittando anche della congiuntura preelettorale durante la quale ci sono sempre possibilità di nuovi accomodamenti tra criminalità organizzata e apparati statali. La Chepa González ha il sostegno di un medico di Aguililla, nel Michoacán, che è anche luogotenente del CJNG: si chiama Rogelio Guízar Camorlinga, El Doctor, e avrebbe organizzato gli scontri con le forze federali e della polizia statale del Jalisco il 9 marzo 2015, quando morirono cinque elementi della gendarmeria nazionale, due presunti delinquenti e quattro civili, e il 6 aprile, quando a San Sebastián del Oeste sono stati fatti fuori 15 poliziotti che si dirgevano a Guadalajara.

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Michoacán, Los Zetas e l’invasione dell’eroina negli USA

La Familia Michoacana, dopo la scissione dei Caballeros Templarios nel marzo 2011 ed in seguito ad altre faide, ha dato origine a gruppi criminali come “La Empresa Nueva”, “Los Moicas” (presenti in California) e il “Cartello Indipendente del Michoacán” che oggi sono rimasugli locali di quella mafia messianica e unitaria che, per alcuni anni, ha dettato legge nel Michoacán e nelle zone limitrofe. Anche gli Zetas si sono spezzettati in cellule locali che, non potendo più gestire il business della droga a livello internazionale, si sono riconvertite ad altre tipologie criminali: sequestro di persona, estorsione, tratta di bianche, traffico di organi, prostituzione, traffico di migranti, vendita di “protezione”, riciclaggio e giros negros come l’apertura di club, casinò, discoteche e bische legali e clandestine. La figura 2 mostra quali sono le mafie predominanti in ciascun stato USA e la scurezza del colore riflette la densità della popolazione e, quindi, del mercato potenziale per gli stupefacenti, non il livello d’influenza attuale del cartello criminale.

narcotraffico amapolaNegli ultimi tre o quattro anni c’è stato un cambiamento dell’offerta, con la spinta maggiore dell’eroina, data la stasi della cocaina e del traffico illecito di marijuana come conseguenza della legalizzazione del consumo ricreativo e della produzione di questa pianta e delle sostanze derivate in Alaska, Colorado e Washington. E quindi la mappa numero 3 rappresenta graficamente i dati relativi alle morti per overdose di eroina nel 2013 del National Center for Health Statistics/Centers for Disease Control (NCHS / CDC) e la stessa DEA segnala l’invasione di questo psicotropico che ha fatto 8.257 vittime nel 2013, circa il triplo di quelle del 2010. Il consumo aumento per la spinta dell’offerta, la maggiore disponibilità a basso costo propiziata dalla politica dei cartelli messicani, specialmente di Sinaloa, e poi si registra un uso più sostenuto di numerosi pazienti che possono averla su prescrizione.

L’espansione della frontiera dell’eroina viaggia ora verso i mercati della East Coast. Storicamente, riporta il testo della DEA, “il mercato dell’eroina negli Stati Uniti è stato diviso in due lungo il fiume Mississippi, con i mercati occidentali che usavano l’eroina messicana nera (black tar) o in polvere marrone, e quelli dell’Est che usavano eroina bianca in polvere (precedentemente del Sudest e del Sudovest asiatico, poi negli ultimi vent’anni quasi solo sudamericana)”. Dunque il ruolo di intermediari dei messicani, così com’era successo per la cocaina, è diventato strategico e questi hanno altresì incrementato la produzione di eroina bianca in Messico, per cui i cartelli sono entrati con successo nel redditizio mercato degli stati medio-occidentali e del Nordest: Chicago, il New Jersey, Philadelphia e Washington e molte zone di New York sono ormai terra azteca.

Nota Finale. Sebbene i rapporti e le mappe emessi dalla DEA siano attendibili e delineino le tendenze generali, in particolare per quanto riguarda il territorio statunitense, spesso non coincidono con quelli di altre fonti come, per esempio, la PGR (Procura Generale della Repubblica) messicana. Per esempio nel giugno scorso Tomás Zerón, direttore dell’Agenzia d’Investigazione Criminale della PGR, ha dichiarato con tono trionfalista che, dopo la cattura di numerosi boss storici, le organizzazioni criminali sono così frammentate e disperse che si può affermare l’esistenza oggi di soli due cartelli veri e propri: Sinaloa e il CJNG.  Per questo molti gruppi criminali sono descritti più come “franchigie” o “cellule” che come “grandi imprese” o “reti”, etichette valide invece per le organizzazioni più grandi, solide e strutturate. Nel settembre 2014 la Procura aveva parlato, invece, di 9 cartelli (quelli segnalati dalla DEA più il “cartello del Pacifico” nella zona di Acapulco) e 43 gang o fazioni derivate o legate ad essi. Sono informazioni, nomi e mappe criminali che cambiano con frequenza, tanto nella realtà come nelle narrazioni e indagini della stessa Procura per cui van prese con le pinze. Per i funzionari pubblici e la PGR è comunque gioco forza presentare progressi nella narcoguerra intrapresa dal governo e quindi la tendenza è quella di mostrare la frammentazione di alcuni cartelli come un passo avanti nella lotta al narcotraffico anche se la violenza non diminuisce ed anzi aumentano delitti gravissimi, in cui apparati dello stato sono complici, come le desapariciones (sparizioni) forzate e i sequestri di persone.

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Xochiquetzal: casa di riposo per prostitute della terza età in Messico https://www.carmillaonline.com/2015/01/15/xochiquetzal-la-casa-di-riposo-per-prostitute-della-terza-eta-in-messico/ Thu, 15 Jan 2015 05:07:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20072 di Fabrizio Lorusso

casa-xochiquetzal[Questo articolo, con qualche piccola modifica, è stato pubblicato sul numero 20 della rivista IL REPORTAGE con le foto di Giorgio de Carmillis. Le foto contenute in questa versione vengono da fonti web]

Élia Guadalupe ha un sorriso inconfondibile da nonnina complice. Porta sempre un cappellino da baseball la cui visiera nasconde il suo sguardo vissuto e malinconico.  Fino a pochi mesi fa la sua dimora era una panchina del parco della Soledad, un giardinetto del centro di Città del Messico in cui si dedicava [...]]]> di Fabrizio Lorusso

casa-xochiquetzal[Questo articolo, con qualche piccola modifica, è stato pubblicato sul numero 20 della rivista IL REPORTAGE con le foto di Giorgio de Carmillis. Le foto contenute in questa versione vengono da fonti web]

Élia Guadalupe ha un sorriso inconfondibile da nonnina complice. Porta sempre un cappellino da baseball la cui visiera nasconde il suo sguardo vissuto e malinconico.  Fino a pochi mesi fa la sua dimora era una panchina del parco della Soledad, un giardinetto del centro di Città del Messico in cui si dedicava alla prostituzione. Ora siede sul suo letto in una stanzona di Casa Xochiquetzal, nella calle Torres Quintero. Per gli aztechi Xochiquetzal era la dea della fertilità, dei fiori, della bellezza, della gravidanza e del piacere amoroso, mentre oggi, nell’ombelico d’America, a quella divinità precolombiana è intitolata la prima casa di riposo al mondo per prostitute della terza età. La casona-rifugio è costituita da un edificio dell’epoca coloniale, incastonato tra vicoli rumorosi e mercatini affollatissimi, come solo se ne vedono nel cuore della metropoli più grande del mondo, la capitale del Messico coi suoi 25 milioni di abitanti. Ma all’interno della struttura, nel patio centrale e nei lunghi ballatoi, regnano, surreali e indisturbate, la pace e la tranquillità.

Affianco a Élia c’è Berta, una delle sue compagne di stanza, sessantenne della regione di Hidalgo, che è appena uscita dall’ospedale e lentamente recupera le forze dopo un’operazione chirurgica che le ha salvato la vita. Avvicino discretamente la mia seggiolina e ascolto, osservo, registro. “Qui ho la casa e il calore che non ho mai avuto, trovo affetto, comprensione e un senso d’unione”, racconta Élia che, insieme a Berta è una delle nuove arrivate e mi spiega che la sua amica se l’è vista veramente brutta: “Era moribonda, stava per terra, è stata portata in ospedale da alcune assistenti sociali e poi l’hanno accettata qui”.

Élia ha iniziato a fare la prostituta a13 anni e ha smesso poco tempo fa, compiuti i 65. “Dopo i vent’anni ho partorito sei volte, tutti maschi, e il fatto è che nella prostituzione una perde le cautele, resta incinta e poi ai miei tempi bevevo molto, non sapevo mai di chi era il bebè…”, racconta. Élia non ha avuto infanzia né adolescenza e ha iniziato a prostituirsi perché era l’unica possibilità che le era rimasta. “La mia famiglia non esisteva, non c’era affetto, mancava la comprensione del padre e della madre e c’erano solo problemi e violenza, per questo me ne sono andata così”, narra con tono rassegnato.

Berta ha tre figli che ormai non vede più perché si vergognano di lei. “Sono stata trabajadora sexual [“lavoratrice del sesso” in spagnolo] quasi tutta la vita tra le vie Guatemala e Santísima e mi pare proprio di avervi passare di là a voi due!”, esclama mentre scoppia a ridere e con l’indice punta dritto verso di me e Giorgio, il fotografo. Nel deserto urbano, in cui lo stato è assente ingiustificato, gli abitanti delle zone più povere del centro cittadino vivono alla giornata, tra lavoro nero ed espedienti. Quest’oasi chiamata Xochiquetzal è un rifugio sicuro e necessario per le venticinque donne, indigenti e senza tetto, che vi sono accudite. Durante buona parte della vita tutte loro sono state sexo-servidoras, altro termine usato in Messico per indicare la prostituzione. Alcune lavorano ancora, sporadicamente, e mantengono i contatti con qualche vecchio cliente.

La strada è stata la loro casa per decenni. Vengono dai ghetti della Merced, di Tepito, Loreto, la Lagunilla e Granaditas. Sono nomi che non dicono nulla ai frequentatori occasionali di Mexico City, ma che evocano storie d’emarginazione e insicurezza in chi conosce la topografia socioeconomica di questa megalopoli che sa essere contraddittoria ed escludente però anche amichevole e solidale. Infatti, la Casa si mantiene grazie al sostegno del comune e dell’Istituto Nazionale delle Donne, ma il grosso dei finanziamenti arriva da donazioni, dalla partecipazione a concorsi e dalla vendita d’oggetti d’artigianato di cui si occupano la direttrice, Jessica Vargas, le associazioni Mujeres de Xochiquetzal e Semillas, e i volontari che collaborano al mantenimento e alle attività della Casa.

Quattro letti individuali occupano gli angoli della stanzona in cui dormono Élia e Berta. Il calore delle pareti color ambra, i soffitti altissimi e le ampie finestre esaltano la luce del sole tropicale che entra insieme al fievole vocio dei commercianti delle bancarelle. Patricia, un’altra compagna di camerata che si fa chiamare Pato, ha allestito affianco al letto un altare della Santa Muerte, ricco di offerte per quest’icona popolare messicana. “Sono Suo devoto da vari anni, fai pure una foto alla Patrona”, mi dice Pato con la sua voce roca e grave riferendosi alla statua della Santa.

casaxochiquetzal6Gli scaffali sulle pareti ospitano peluche, radio, effetti personali, alcune riviste e qualche vasetto di crema. Pochi oggetti e scarsi capi d’abbigliamento sono tutto ciò che le inquiline posseggono. Ma i beni materiali non sono tutto nella vita. “Qui condividiamo tante altre cose, allegrie, tristezze, pianto, e comunque ci aiutiamo l’una con l’altra, com’è successo per esempio con la compagna malata che tutte siamo venute a trovare e grazie a Dio la stiamo curando”, spiega Élia alzando inavvertitamente la voce. “Negli ultimi anni i soldi non bastavano più perché la prostituzione adesso non è più come una volta: i clienti pagano poco o niente e non ci basta nemmeno ad affittare una stanza per dormire”. Dopo aver passato 53 anni in strada, tra marciapiedi e camere d’hotel, un anno e mezzo fa Élia ha trovato famiglia, comunità e protezione.

Per una scelta della direzione di questa specialissima casa di riposo la discrezione e il rispetto delle inquiline sono d’obbligo. Non ci sono targhe all’esterno del palazzo, né citofoni o cassette delle lettere. L’enorme portone di legno dell’entrata è l’unico elemento distintivo, un varco che fa sparire magicamente i rumori e ferma il tempo. L’oasi è fatta per introdurvici lentamente, per calpestarla in silenzio senza troppi scatti fotografici o parole al vento. “Già verso il 2001 nasce l’idea di creare una casa di riposo di questo tipo ed è Carmen Múñoz, leader delle sexo-servidoras della zona, a lanciare la proposta con alcune militanti femministe e con la scrittrice Elena Poniatowska”, spiega Jessica. “L’amministrazione comunale inaugurò il progetto nel 2006 e il piano prevedeva di ospitare fino a 65 donne, purché avessero più di 55 anni e fossero prive di reti familiari e fissa dimora, ma è stato problematico trovare tutte le risorse e mettere d’accordo tante inquiline così diverse tra loro, così abituate a diffidare delle altre o a competere”, continua Jessica. Per ora, dunque, l’obiettivo è recuperare le risorse sufficienti per prestare servizio a 35 donne, “ma non è facile perché a volte la lotta è per non chiudere piuttosto che per crescere ancora”.

La direttrice è ben consapevole dei potenziali conflitti e dei problemi di adattamento alla vita comunitaria nella Casa, per cui “si fanno riunioni, iniziative collettive, laboratori psicologici e pure corsi sull’igiene, l’alimentazione, la cura personale, la non violenza, le questioni di genere e di equità e l’autostima”, specifica. “Sai cosa succede, quando invecchiano, alle donne che hanno trascorso tutta la loro vita esercitando la prostituzione?”. Partendo da questa domanda, all’inizio del 2014 è stato pubblicato in Messico un libro della fotografa francese Bénédicte Desrus e della giornalista messicana Celia Gómez per sostenere le precarie finanze della Casa. S’intitola Las amorosas más bravas, cioè le amorose più irrequiete o sbarazzine. “Difatti nel 2006, quando la struttura fu aperta, l’idea di fondo era anche quella di stimolare attraverso l’arte e un approccio multidisciplinare una serie di cambiamenti culturali nella comunità e nella società intera”, chiarisce Jessica. Di fronte alla solitudine e alla paura della vita di strada è possibile comunque creare comunità. “Avevo tante compagne con cui si condividevano le notti, il parco e i luoghi dove restavamo e al freddo s’aggiungeva la paura che ci prendessero in giro, che ci picchiassero o che gli sbirri ci portassero in prigione dato che anche loro se la prendevano con quelle della zona”, ricorda Élia.

“Il timore principale di tante anziane che si fermano da noi è di finire in una fossa comune, di essere cremate nei forni della polizia senza che nessuno mai le venga a cercare o gli dia una degna sepoltura”, spiega Jessica, “invece qui i loro familiari possono trovarle o almeno sapere dove sono seppellite”. Tutte le donne della Casa hanno alle spalle storie familiari difficili e, in generale, vengono rifiutate da figli, partner e genitori per via della loro professione, per vergogna e ignoranza. Mi confida Élia: “Un figlio se lo portò via il padre, altri restarono con me ma non per strada, da mia madre, che faceva le pulizie nelle case e ogni venti giorni ci vedevamo”. Solo il più giovane di loro vive a Città del Messico e mantiene i contatti con lei, mentre gli altri sono spariti dalla circolazione: “José Miguel è molto contento perché ha provato a lungo a cercarmi finché un giorno ha saputo che ero qui nella mia nuova casa e ci siamo visti”.

casa-retiro-prostitutas-mexico-0Prima di uscire e dire adiós, Jessica, la direttrice, mi mostra la foto di una donna anziana dallo sguardo intenso e profondo. La parete del suo ufficio è tappezzata di ritratti delle mujeres de Casa Xochiquetzal, di quelle che ci abitano ancora e quelle che non ci sono più. Carmelita, la donna della foto, è mancata due anni fa, all’età di 76 anni. Aveva cresciuto i suoi due figli grazie al lavoro da prostituta. Da qualche tempo si dedicava a vendere dolci per la strada per racimolare qualche soldo e un giorno, mentre lavorava, fu investita da una macchina che le fratturò il bacino. Il primogenito la curò per sei mesi, ma quando fu il turno del figlio minore, questi si tirò indietro. Scaricando la colpa sulla moglie che, a suo dire, aveva minacciato di lasciarlo, abbandonò sua madre a una fermata della metro, come fosse un cane. Dopo essere sopravvissuta tra stenti e carità per qualche settimana in una stazione degli autobus, Carmelita fu accolta nella Casa Xochiquetzal, solo per un po’, prima di morire lontana dalla famiglia ma vicina alle compagne di Casa Xochiquetzal. Dire che la prostituzione è il mestiere più vecchio del mondo significa ripetere un cliché che giustifica i pregiudizi e le generalizzazioni di chi si fa portatore dei “buoni costumi”, ma allo stesso tempo dimentica le lotte, le difficoltà, gli abusi, le imposizioni, le condizioni e le scelte che stanno dietro alle storie personali di ognuna delle donne che si prostituiscono. Da quasi 10 anni Casa Xochiquetzal rompe stereotipi e barriere, esclusioni e solitudini, e rappresenta con dignità la Città del Messico solidale.

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Identificati in Messico i resti di uno studente di Ayotzinapa, proteste #1DMX #6DMX #YaMeCanse2 https://www.carmillaonline.com/2014/12/07/identificati-in-messico-i-resti-di-uno-studente-di-ayotzinapa-proteste-1dmx-6dmx-yamecanse2/ Sun, 07 Dec 2014 02:46:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19363 di Fabrizio Lorusso

Ayotzi monumento 6dmx“Compagni, a tutti quelli che ci hanno sostenuto, sono Alexander Mora Venancio. Con questa voce vi parlo, sono uno dei 43 caduti del giorno 26 settembre per mano del narco-governo. Oggi, 6 dicembre, i periti argentini hanno confermato a mio padre che uno dei frammenti delle mie ossa mi appartiene. Mi sento orgoglioso che abbiate alzato la mia voce, la rabbia e il mio spirito libertario. Non lasciate mio padre solo col suo dolore, per lui significo praticamente tutto, la speranza l’orgoglio, il suo sforzo, il suo [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Ayotzi monumento 6dmx“Compagni, a tutti quelli che ci hanno sostenuto, sono Alexander Mora Venancio. Con questa voce vi parlo, sono uno dei 43 caduti del giorno 26 settembre per mano del narco-governo. Oggi, 6 dicembre, i periti argentini hanno confermato a mio padre che uno dei frammenti delle mie ossa mi appartiene. Mi sento orgoglioso che abbiate alzato la mia voce, la rabbia e il mio spirito libertario. Non lasciate mio padre solo col suo dolore, per lui significo praticamente tutto, la speranza l’orgoglio, il suo sforzo, il suo lavoro, la sua dignità. Ti invito a raddoppiare gli sforzi della tua lotta. Che la mia morte non sia avvenuta invano. Prendi la miglior decisione ma non mi dimenticare. Rettifica se possibile, ma non perdonare. Questo è il mio messaggio. Fratelli, fino alla vittoria”.

I genitori dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa, nello stato messicano del Guerrero, hanno diffuso il questo messaggio su Facebook. Sono le quattro del pomeriggio. Mentre Città del Messico si prepara a un pomeriggio di cortei contro il crimine di stato del 26-27 settembre a Iguala, nello stato del Guerrero, e per il ritrovamento in vita dei 43 studenti desaparecidos della scuola normale di Ayotzinapa “Raúl Isidro Burgos”, arriva una notizia inattesa. La piazza grida, chiede la rinuncia del presidente Enrique Peña Nieto e del procuratore della repubblica Jesús Murillo Karam. Alcuni normalisti del comitato studentesco di Ayotzinapa hanno appeno fatto un annuncio importante, le emozioni e le reazioni sono contrastanti.

Tra i resti umani trovati dagli inquirenti nella discarica dei rifiuti di Cocula all’inizio di novembre ci sono quelli del diciannovenne Alexander Mora Venancio, uno degli studenti che, secondo le testimonianze di tre narcotrafficanti in stato di arresto, sarebbero stati bruciati per 15 ore nella stessa discarica. Lo hanno confermato i periti argentini dell’Equipe Argentina di Antropologia Forense i quali, su richiesta dei familiari delle vittime, stanno lavorando con la procura alle prove del DNA. I genitori di Alexander, vittima di un attacco da parte di narcos e poliziotti di Iguala e Cocula insieme ad altri compagni, sono partiti immediatamente per la loro terra d’origine, il paesino di Teconoapa, sulla costa del Pacifico, per le esequie. Sono otto gli studenti scomparsi a Iguala che provengono da questa località e i genitori di tutti loro appartengono all’organizzazione indigena, contadina e popolare Unione dei Popoli e Organizzazioni dello Stato del Guerrero (UPOEG).

Ayotzi NORMALISTAL’avvocato della UPOEG, Manuel Vázquez, ha confermato che in questi primi due mesi di ricerche, insieme ai genitori di Ayotzinapa, hanno contribuito al ritrovamento di 200 fosse clandestine nella zona di Iguala e in altri comuni vicini. Alcuni reportage recenti, in particolare uno della televisione France 24, hanno rivelato la probabile scomparsa, per mano della polizia di Cocula secondo alcuni testimoni, di altri 31 studenti nella regione tra il marzo e il luglio del 2013. Le denunce relative a 17 di questi desaparecidos sono state confermate dal governo del Guerrero nella sua pagina web. Il 3 dicembre i familiari di altre 375 vittime della polizia collusa coi narcos hanno preso coraggio, dopo anni di silenzio, e hanno manifestato nella piazza centrale di Iguala per denunciare la desaparición di tanti loro cari negli ultimi anni. Grazie a un frammento d’osso e un molare è stato possibile ricostruire il DNA di Alexander, ma restano da verificare sia i resti in mano ai forensi argentini e alla procura sia quelli che sono stati rinvenuti nel fiume San Juan di Cocula e inviati in Austria per un complesso esame mitocondriale. E soprattutto restano da verificare le migliaia e migliaia di fosse comuni e di resti umani che emergono dalle terre di mezzo paese. “Ne mancano 42 e li rivolgiamo in vita”, ha detto nel comizio finale della giornata di Azione globale per Ayotzinapa del 6 dicembre, #6DMX + #YaMeCanse2. La rivista di Tijuana, Zeta, da anni specializzata nel confronto di dati ufficiali sulla violenza, ha confermato la cifra allucinante di 41mila morti nei primi 23 mesi del governo del “nuovo PRI”.

Continua la protesta globale

Sono state settimane convulse in Messico. La capitale, lo stato del Guerrero, le città solidali del mondo intero sono in ebollizione per l’indignazione e lo sconforto, per il disanimo, la voglia di reagire, gridare e protestare, accompagnate dalla tristezza e dalla paura che tutto torni come prima. Il letargo mediatico, l’apatia sociale, il conteggio dei morti in un box rosso sui principali quotidiani. Una madre, un padre, una famiglia che cercano i loro figli e cari desaparecidos, moltiplicati per 27mila. Un compa che racconta in radio l’ultima estorsione subita dagli sbirri, un tentativo di sequestro, una minaccia di sparizione forzata. Gli universitari che han scoperto d’essere spiati perché in facoltà hanno nascosto delle telecamere. Altri che vengono attaccati da infiltrati e poliziotti nelle assemblee. Le violenze subite nell’anima e nel corpo delle donne, da Ecatepec a Ciudad Juárez, dalle strade alle maquiladoras. E ancora l’azzeramento delle vittime nei meandri della burocrazia e nei corridoi dell’oblio. La paura travestita da normalità. Crimini di stato trasformati in guerra alle droghe e viceversa, in un turbinio. Meglio risvegliarsi, rifondare, che ignorare e normalizzare una strage, quella degli studenti di Ayotzinapa del 26 settembre, che è solo la punta di un iceberg in un mare d’impunità e corruzione.

Ayotzi poster proteste 4-5-6 dicMi appresto a scrivere questo aggiornamento mentre vomito notizie e rimastico cronache. Guardo il video del flash mob, l’ennesimo, che 43 ragazzi hanno realizzato alla Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara. Alla fine urlano tutti insieme dall’uno al quarantatré. Per un minuto la Fiera si ferma, la terra non gira, silenzio, giustizia! Finisce il coro, cominciano gli applausi. Un brivido, l’ira, le lacrime, la speranza in un cambiamento. Penso alla grande manifestazione qui a Città del Messico, lunedì primo dicembre, #1DMX. Abbiamo calcolato 50mila persone. Una marcia instancabile ed energetica, nonostante sia finita anche questa volta a manganellate e lacrimogeni, con sette arresti casuali, terribilmente random e violenti, e una serie di incapsulamenti della polizia che solo un cordone di funzionari della Commissione Nazionale per i Diritti Umani, di bianco vestiti, ha potuto bloccare, almeno per un po’. Ora i prigionieri sono tutti liberi, le pressioni internazionali e di tutto il Messico stanno obbligando le autorità a risolvere i problemi da loro stesse provocati in modo più spedito, salvo poi dimenticarsi della legalità e del famigerato stato di diritto non appena i riflettori si spengono. Il rischio è questo, il governo è paziente, ha potere e mezzi per resistere e sfiancare, può aspettare qualche settimana e contrattaccare, sequestrare, riconquistare, offendere. E lo sta già facendo.

Si riconferma la modalità dell’accerchiamento delle forze dell’ordine e dei rastrellamenti a tappeto contro tutto e tutti, ma non contro chi li attacca o ne “giustifica” inizialmente l’intervento. E’ un copione ormai noto: un manipolo di ragazzi incappucciati, ma anche a volto scoperto a volte, causa danni a qualche edificio pubblico o privato. I celerini intervengono, picchiando a destra e a manca senza ritegno, impedendo ai manifestanti disarmati e pacifici di proseguire, di esprimersi, di respirare, per poi catturare un po’ di gente a casaccio. I detenuti del 20 novembre sono stati rilasciati tutti, non c’erano prove né elementi concreti per accusarli di alcunché. I familiari dei prigionieri e dei desaparecidos di Ayotzinapa, accompagnati dalla società civile e dai movimenti, chiedono adesso le dimissioni del procuratore Jesús Murillo Karam, oltre a quelle del presidente della repubblica.

DSC_0001 (Small)La testimonianza di una signora sotto shock, con la testa spaccata e sanguinante, consolata dalla figlioletta e curata alla buona da un’infermiera (?), diventa virale sui social e suscita la rabbia di chi ha un computer e una connessione, cosa che non è affatto scontata né così generalizzata come molti credono. Le classi medie cittadine hanno internet, ma il Messico guarda la televisione. In TV la storia è sempre un’altra. La padrona delle menti, Nostra Catodica Signora dei rimbecillimenti, passa scene di violenza, immagini di vandalismi e distruzioni, dimenticandosi delle 3 ore di corteo pacifico e del motivo per cui tanta gente scende in piazza sfidando la propaganda governativa e la criminalizzazione delle autorità contro il dissenso sociale.

I 43 studenti desaparecidos non importano più, meglio mostrare due bancomat sfasciati e qualche vetrina imbrattata per giustificare l’azione “gagliarda”, parola usata dal responsabile della sicurezza nella capitale, della polizia. Sì, ma contro chi? Eccoli lì che si scagliano ferocemente contro una signora che cerca lavoro e nemmeno sa che c’è un corteo quel giorno. Eccoli lì che lasciano stare i presunti responsabili degli attacchi nei loro confronti o nei confronti delle “preziosissime” proprietà private e dei palazzi della Avenida Reforma e che aggrediscono famiglie e cittadini, strappano striscioni e rinnegano la loro umanità. Se ti muovi, può toccare anche a te. Se corri, ti prendiamo. Se sei schifato e arrabbiato perché i narcos sono la polizia, lo stato è la mafia o viceversa, e ha sequestrato e ammazzato migliaia di persone in pochi anni, 43 studenti in una notte a Iguala, e poi trova scuse ciniche e idiote per non cambiare nulla, praticando il gattopardismo più becero, meglio che te ne stai zitto e ti dedichi a spendere gli ultimi risparmi, erosi dalla crisi e da un modello consumista sfrenato, per i regali di Natale. Questi i messaggi delle autorità alla gente.

Ayotzi tractores 5 diciembreIl cittadino cileno Laurence Maxwell, studente del dottorato in lettere della Universidad Nacional Autonoma de México detenuto la sera del #20NMX, per cui s’era mosso anche il ministro degli esteri del Cile, denuncerà lo stato messicano per le torture subite e così faranno anche gli altri 10 cittadini detenuti ingiustamente. Ma è l’intero sistema politico ad essere messo alle strette e criticato a fondo, delegittimato come mai prima. La popolarità di Peña è ai minimi storici. E’ scesa al 39%, la più bassa per un presidente dal 1995 ad oggi secondo il quotidiano Reforma. Il 5 dicembre il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon ha sollecitato un’indagine a fondo del caso Ayotzinapa e di tutte le sparizioni forzate in Messico in una conferenza stampa, ribadendo anche l’importanza del diritto alla libertà d’espressione e la necessità di canalizzare le legittime richieste della gente in modo pacifico, nel rispetto dei diritti umani. Avrà cominciato a percepire l’aria che si respira in Messico e la vena repressiva del governo? Non molto. Dopo le critiche, infatti, Ban Ki-moon ha dato il suo beneplacito alle misure autoritarie promosse dall’esecutivo negli ultimi giorni.

Burle presidenziali e cinismi

Nel maggio 2012, quando mancavano meno di due mesi alle elezioni, l’allora presidente Felipe Calderón annunciò la sua appartenenza al grande movimento studentesco e sociale #YoSoy132, che era nato da una contestazione al candidato Peña Nieto alla Universidad Iberoamericana e aveva poi segnato la fine della campagna elettorale, il ritorno del PRI al governo e l’inizio del mandato presidenziale, con le manifestazioni del primo dicembre 2012, sempre #1DMX, represse nel sangue. Fu una mossa elettorale disperata per provare a creare empatia col movimento e con una parte de. Non funzionò, il risultato della candidata del partito di Calderón (PAN), Josefina Vázquez Mota, fu deludente e il presidente fu ricordato per i 100mila morti e la narco-guerra, non di certo per la sua identificazione con gli studenti.

DSC_0119 (Small)Dopo il megacorteo del 20 novembre scorso, Peña, emulando il suo predecessore in un disperato e calcolato tentativo di riconciliazione, ha cercato di ribadire la sua identificazione con le vittime di Iguala e del Guerrero dicendo che “Tutti siamo Ayotzinapa”. Come conseguenza è stato mandato letteralmente “affanculo”, cioè a “chingar a su madre”, da uno studente della normale “Isidro Burgos”, oratore durante il comizio finale della manifestazione del primo dicembre. Tra le altre cose, gli ha anche ricordato che lui “non è Ayotzinapa, ma è Atlacomulco”, in riferimento alla città natale del presidente intorno alla quale girano tutto il gruppo di potere e le lobby delle correnti dominanti del PRI e degli impresari ad esse legati.

Superatelo, ja ja. Hashtag #YaSupérenlo

Nel suo discorso del 4 dicembre a Iguala, Guerrero, Peña ha chiesto alla comunità di “superare questa fase”, “questo momento di dolore”, per fare “un passo avanti”, dato che la sua geniale idea è molto semplice: voltare pagina, dimenticare l’inferno e salvare la sua immagine. Ottimo montaggio televisivo, un ponte da inaugurare come scusa per andare ad Iguala e dintorni, e infine un po’ di applausi dei burocrati che lo accompagnavano. Un evento pensato ad hoc per farsi vedere nella zona e prendere di nuovo la parola. Il ponte, distrutto nel settembre 2013 dall’uragano Manuel, è stato ricostruito a Coyuca de Benítez, nella Costa Grande al nord di Acapulco. Peña s’è definito come il “grande alleato degli abitanti del Guerrero” e ha indicato che quanto successo coi normalisti di Ayotzinapa “genererà una svolta, segnerà un momento e permetterà la costruzione di istituzioni migliori”. Ciononostante nessuno ha ancora capito come. La comunità sarà felice per il nuovo ponte dell’oblio, dunque, e per l’inizio del corso di superazione personale che pare voler proporre il presidente con le sue frasi ad effetto. “Hanno detto ‘superatelo’ per i femminicidi nel Chihuahua 15 anni fa, e continuiamo a cercare e lavorare, rispondiamo ‘siamo stanchi’ dell’impunità”, ha scritto via Twitter la giornalista Lydia Cacho.

DSC_0021 (Small)Occupazione simbolica di Città del Messico nella Giornata d’Azione Globale per Ayotzinapa

Intanto il Messico, e soprattutto Guerrero, continuano a bruciare, le proteste non si fermano e anche all’estero la solidarietà s’esprime nelle forme più fantasiose, incessantemente, giorno dopo giorno. Il 3 dicembre ci sono state mobilitazioni in 43 città degli Stati Uniti con l’hashtag #UStired2, oltre 3000 boliviani sono cesi in piazza a La Paz e oltre 10mila uruguayani hanno marciato per Ayotzinapa a Montevideo il giorno dopo. E’ stata la marcia per i 43 normalisti più numerosa realizzata fuori dal Messico. La settimana scorsa in Italia i movimenti sociali e l’associazione Libera hanno promosso decine di iniziative per denunciare il narco-stato messicano e i crimini di lesa umanità in terra azteca con cortei, flash mob, proteste fuori dai consolati e nelle università, diffusione di comunicati e attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

Nel pomeriggio del 5 dicembre un corteo di 43 trattori ha sfilato per l’Avenida Reforma, nel centro di Città del Messico. Sabato 6, invece, in decine di città messicane ci sono state manifestazioni e proteste che nella capitale si sono trasformate in un’occupazione simbolica della città. Infatti, a Città del Messico le mobilitazioni della CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educacion), dei genitori dei 43 desaparecidos, protetti dal collettivo Marabunta, degli studenti, del FPFV (Frente Popular Francisco Villa), del Frente de Pueblos para la Defensa de la Tiera di San Salvador Atenco, delle organizzazioni contadine, che sono arrivate a cavallo alle 10 del mattino, e della società in generale sono confluite nella spianata del Monumento a la Revolución.

DSC_0087 (Small)Hanno dato vita a un’altra oceanica Giornata di Azione Globale per Ayotzinapa per unire la causa dei 43 desaparecidos al rifiuto delle riforme strutturali, alla difesa dell’acqua, la vita e la terra e alla commemorazione dei cento anni dell’ingresso degli eserciti di Francisco Villa ed Emiliano Zapata nella capitale e l’occupazione indigena della città del 6 dicembre 1914. I megafoni della CNTE hanno annunciato la notizia, ufficializzata poco prima dai periti argentini: i resti di uno dei 43 normalisti sono stati identificati, ma la lucha sigue.

A un lato degli insegnanti dodici persone, tre donne e sei uomini, camminano in fila indiana. Hanno le mani legate e una corda li tiene uniti uno all’altro. Sono dei presunti infiltrati a cui i manifestanti della CNTE hanno appiccicato sul petto un cartello con la scritta “infiltrados” per evitare che facciano danni e si mischino con loro. E arriva anche la notizia che il capo della polizia della capitale, Jesús Rodríguez, ha presentato le sue dimissioni, dopo essere stato aspramente criticato per le sue ciniche dichiarazioni sul “valore e la gagliardia della polizia” durante lo sgombero della piazza del Zocalo il 20 novembre scorso.

Javier Sicilia e movimento per la pace

“Dissi a Peña, durante i dialoghi nel Palazzo di Chapultepec coi candidati alla presidenza, che pareva non avere un cuore, una sensibilità, e si arrabbiò perché gli stavo ricordando la repressione di Atenco del 2006, quando era governatore del Estado de México”, ha spiegato Javier Sicilia, leader del movimento per la pace con giustizia e dignità (MPJD), in un’intervista radiofonica. “Col suo discorso l’altro giorno a Iguala mostra anche una mancanza di intelligenza politica oltre all’insensibilità. Si potrebbe lanciare un messaggio del genere, forse, se almeno fossero state fatte le cose necessaria affinché i fatti non si possano più ripetere, se fosse stata fatta giustizia, se il caso fosse stato risolto, ma non così, quando niente è stato risolto e si ha un mandato per farlo che non viene rispettato. Bisogna rompere e rifondare lo stato, spegnere la emergenza nazionale e ricostruire e questo si fa solo con una logica di giustizia, dignità e servizio al paese, cosa che non è stata fatta, invece stanno facendo sparire più gente…”.

DSC_0085 (Small)Parlando del superamento del dolore, Sicilia ha sottolineato la profondità della crisi strutturale che sta vivendo il Messico: “Con cosa dovremmo superare il dolore? C’è una questione terribile dietro. E se dall’Austria ci dicono che i resti sono degli studenti, saranno comunque solo alcuni, e gli altri? E le fosse? Non è possibile accettare che non ci sia nulla, che ci sia solo la polvere degli studenti, che non resti più nulla. Perciò li vogliamo vivi, li vogliamo presenti, con un corpo almeno.

Questa situazione non si ripara in nessun modo, solo se non ce ne saranno mai più”. Il poeta e attivista ha ribadito l’obbligo dello stato chiarire cosa è successo coi ragazzi di Ayotzinapa e “l’ondata di proteste deve spingere affinché i fatti di Iguala non succedano mai più, deve esserci un punto di rottura a partire da questo. Le strutture sono corrotte, e Peña non ha nemmeno la legittimità o l’autorità morale per dire quel che dice di fronte al disastro che stiamo vivendo”. Dal “Mexican Moment” vaticinato dal The Economist nel 2012 e dal miraggio di un presidente che, secondo la rivista Time, stava “Salvando il Messico”, siamo passati inevitabilmente a una realtà fatta di tragedie dalle proporzioni immani, sequel spietato del terrore del sessennio precedente, ma ancor più amara perché s’è imposta sulla propaganda e il marketing governativo a forza di desapariciones, fosse comuni, mattanze dell’esercito, come quella di Tlatlaya del giugno scorso, e morti su morti che ritornano dagli inferi.

Anche alcuni settori della chiesa cattolica sono intervenuti per chiedere giustizia e protestare. Qualche giorno fa un gruppo di religiose ha manifestato per le strade della capitale mentre il 4 dicembre i sacerdoti e i seminaristi della diocesi di Saltillo sono scesi in piazza per chiedere la fine della violenza e il chiarimento della strage di Iguala. “Dinnanzi a quello che succede nel paese e nel Guerrero non possiamo stare zitti e far finta di niente”, ha espresso il vescovo e attivista Raul Vera che era alla testa del corteo.

L’idea che si sia raggiunto un punto di rottura, di non ritorno, nella storia recente del Messico si sta facendo strada nei movimenti e nella società. Ma se non si mantiene la pressione interna ed esterna per il cambiamento, per una “rivoluzione pacifica intelligente”, come l’hanno battezzata i normalisti sopravvissuti della strage di Iguala, per una “rifondazione dello stato”, secondo l’augurio di Sicilia, oppure per una fase costituente, come auspicano altri, insomma, “se non manteniamo la lotta e andiamo avanti per cambiare il paese, ci aspettano cose ancora più inaudite, peggiori di quelle che abbiamo vissuto fino ad ora”, prevede lo scrittore.

Ayotzi URUGUAYIl rischio di isolamento e repressione di chi non vuole e non può accomodarsi di fronte alla tragedia nazionale messicana è alto. Le alternative che Peña ha di fronte sono l’apertura di canali seri di dialogo, anche se è lecito chiedersi fino a che punto il sistema sia capace di riformarsi da solo e di ricevere proposte radicali per una “Convenzione” o una fase costituente, o la repressione. Pare che il governo e il gruppo di potere legato al presidente, spalleggiato da amministratori e governatori affini come Miguel Ángel Mancera, sindaco di Città del Messico, non abbiano dubbi sul fatto che renda di più la seconda opzione, costi quel che costi.

Guerrero seguro e Nuevo Guerrero

Guerrero vanta un indice d’impunità dei delitti del 96.7%, sopra la media nazionale del 93% e peggio degli altri 31 stati del paese. Non si contano chiaramente i reati non denunciati, che sono stimati intorno al 90% del totale. Il tasso d’omicidi ogni 100mila abitanti è di 63, il più alto del Messico. Questo significa 3680 omicidi nei primi 23 mesi di governo di Peña e oltre 1000 nei primi otto mesi del 2014. Seguono lo stato di Chihuahua con un tasso di 59 e Sinaloa con 41. Nel 2013 Acapulco è stata la terza città più violenta del mondo, dopo San Pedro Sula in Honduras e Caracas in Venezuela. Nella città costiera, ex perla turistica messicana, durante i primi 22 mesi del nuovo governo sono stati denunciati 132 casi di sequestro di persona, il numero più alto in Messico. Ecatepec, nel feudo priista del Estado de México, intorno alla capitale, ne hanno registrati 114. Con 447 casi Guerrero è il terzo stato con più rapimenti, dopo Tamaulipas e l’Estado de México.

Ayotzi Esecuzioni governo PeñaQuesta situazione era nota da tempo, evidentemente. Infatti, nel 2011, il presidente Calderón avviò l’operazione speciale Guerrero Seguro e aumento la presenza militare, una delle tante iniziative infruttuose che hanno martoriato il paese dalla fine del 2006 ad oggi. Peña Nieto ha annunciato il 4 dicembre la riedizione di quel programma per la “sicurezza” e ha lanciato un piano di “pacificazione”, un’operazione militare e poliziesca, per le zone note come Tierras Calientes (territori compresi tra la costa pacifica e le catene montuose della Sierra Madre Occidental negli stati del Michoacan, Guerrero, Oaxaca, Sinaloa e Morelos) e il piano di sviluppo e investimenti pubblici e privati battezzato Nuevo Guerrero. “Rilanciare lo sviluppo economico e sociale” è la finalità ufficiale dell’operazione. Nei giorni scorsi Peña ha parlato anche della creazione di zone economiche speciali negli stati del Chiapas, del Guerrero e del Oaxaca, il che suona come una riedizione del vecchio e fallito Plan Puebla Panamá di integrazione regionale tra il Messico e l’area centroamericana.

L’invio di truppe

Già da una settimana 2000 uomini della Polizia Federale sono stati mandati a Chilpancingo, la capitale dello stato, e altri 1500 ad Acapulco “per difendere i turisti e le famiglie”. Non si sa da chi li dovrebbero difendere, se poi è la polizia stessa che diventa parte integrante dei narco-cartelli. Adesso comunque arrivano i rinforzi, arrivano i “nostri”. Non bisogna essere esperti di sicurezza e politiche pubbliche per capire che la protezione degli investimenti delle multinazionali del settore minerario e turistico, insieme alla stabilità relativa dei narco-affari, soprattutto delle coltivazioni di papavero da oppio e marijuana, e del settore agricolo legale, sono le priorità sottese a questo piano. La protezione speciale, con più poliziotti e più vigilanza, che verrà offerta al porto e all’aeroporto di Acapulco va lette in questa chiave.

Come nel Michoacan e nel Tamaulipas pare che anche qui si stia cercando un accordo, un nuovo equilibrio tra i gruppi mafiosi in lotta in modo da regolarizzare il business e limitare la violenza: un compito molto complicato, vista la presenza di forti movimenti sociali organizzati e anche la frammentazione estrema, favorita dal tipico effetto cucaracha (scarafaggi che fuggono all’impazzata in ogni dove), che la dissoluzione del cartello dei Beltran Leyva ha portato con sé. In secondo piano passano, invece, la tutela delle comunità più povere e insicure e il rilancio delle zone rurali depresse e di quelle colpite dagli uragani degli ultimi anni. Parte dell’infrastruttura distrutta è stata ricostruita, ma l’economia non decolla. Nel suo complesso l’operazione puzza di controllo sociale e controllo delle proteste che, proprio a Chilpancingo e nel resto del Guerrero, stanno assumendo le forme più rabbiose e violente, con attacchi praticamente quotidiani alle sedi dei partiti e delle istituzioni cui si somma l’occupazione e gestione autonoma di almeno 13 comuni. Quasi non se ne parla, ma le diverse forme di autogoverno e autonomia come quelle dei caracoles zapatisti e della comunità autonoma di Cherán nel Michoacan sono una realtà in tante comunità del Messico.

cabalgata_ayotzinapa9Il decalogo di Peña Nieto

Il 28 novembre Peña ha enunciato un decalogo di misure e proposte del governo per provare a uscire dall’impasse. E’ una lista imbevuta di autoritarismo, di volontà accentratrice e di vecchie ricette dell’epoca di Calderón che attentano contro i diritti umani. A queste “nuove tavole della legge” si aggiunge anche una beffa: la legge anti-cortei. In questo contesto di escalation delle proteste e della repressione, in attesa di una possibile diminuzione della pressione internazionale e della partecipazione popolare per l’avvicinarsi del periodo natalizio e la chiusura delle università, i legislatori del PRI, del PAN e del Verde Ecologista hanno approvato la cosiddetta “Legge Anti-Corteo”.

Si tratta di una riforma degli articoli 11 e 73 della costituzione affinché il governo federale, le amministrazioni locali e i governi statali possano emettere leggi in materia di mobilità che potranno essere usate dalle autorità per impedire le manifestazioni e la libertà d’espressione e riunione. In pratica si attribuisce la facoltà di promulgare leggi e ordinanze sulla mobilità cittadina, provinciale e regionale che però in realtà nascondono l’inganno e giustificheranno la restrizione del diritto a manifestare e rappresaglie verso diverse forme di protesta sociale. Tra le misure che saranno discusse in parlamento c’è la creazione di un solo corpo di polizia per ogni stato, l’abolizione delle polizie locali o comunali, la possibilità per il governo di dissolvere comuni con infiltrazioni mafiose, la fissazione di un Codice Unico d’Identità personale, la creazione del numero 911 per tutte le emergenze, una riforma della giustizia e nuove operazioni militari per la sicurezza negli stati fuori controllo.

La stretta anti-libertaria del governo non ha comunque bisogno di molte nuove leggi dato che continuano le “vecchie” pratiche del sequestro, dell’arresto arbitrario e della desaparición come nei casi di tre studenti della Universidad Nacional Autónoma de México che hanno denunciato il tentativo di farli sparire della polizia federale, in azione contro di loro a Città del Messico.

Fabbrica di colpevoli

policia federal ayotziIl 15 novembre il ventiseienne Bryan Reyes e la sua fidanzata Jaqueline Santana, rispettivamente maestro di flamenco e studentessa di economia, entrambi militanti del gruppo Acampada Revolucion 132, stavano camminando in una zona periferica della capitale, si dirigevano al famoso mercato della Merced. Mentre passavano su un cavalcavia sono stati catturati da 14 poliziotti, otto uomini e sei donne, in borghese. Convinti che si trattasse di un sequestro di persona, dato che gli agenti non si sono identificati e li hanno picchiati per forzarli ad entrare con la violenza in un taxi e in un’automobile privata, i due hanno cominciato a gridare. Ulises Chavez, un amico che era con loro, è riuscito a scappare e un poliziotto locale è stato richiamato sul posto dai rumori e le urla, ha puntato la pistola in faccia a uno dei federali e gli ha intimato di liberare i ragazzi.

Quando il federale s’è identificato il poliziotto l’ha lasciato stare ma questo “contrattempo” ha forse salvato la vita a Jaqueline e Bryan che sono stati portati in questura e poi in prigione con delle accuse assurde ma, per lo meno, in vita. Senza il minimo rispetto dei diritti umani e del dovuto processo, in spregio al fatto che i poliziotti federali hanno cercato di sequestrare e, probabilmente, far sparire i due ragazzi, questi sono stati rinchiusi per furto aggravato per aver rubato 30 euro a una poliziotta proprio sul cavalcavia in cui sono stati immobilizzati e rapiti dai federali (in questo video-link la testimonianza della sorella di Bryan). I detenuti del 20 novembre e del primo dicembre sono stati liberati, Bryan e Jaqueline no, e da stanno portando avanti uno sciopero della fame dal 23 novembre.

Una situazione simile ha vissuto Sandino Bucio, studente di Filosofia e Lettere e attivista che lo scorso 28 novembre è stato praticamente sequestrato da alcuni agenti in borghese della polizia federale all’uscita dell’università, dopo aver partecipato all’assemblea degli studenti della sua facoltà. Picchiato e costretto a salire su una macchina bianca, anonima, come se si trattasse di un rapimento o di una sparizione forzata. Per fortuna i passanti e gli studenti che si trovavano nei paraggi hanno filmato l’arresto e hanno diffuso immediatamente l’informazione. Si sono mosse subito le reti sociali e quelle dell’attivismo universitario per organizzare un picchetto di protesta fuori dalla sede della procura, dove intanto era stato condotto Sandino. Dopo poche ore la pressione mediatica e popolare è riuscita a far liberare lo studente. Gli agenti federali coinvolti sono stati sospesi, ma resta critico il livello di guardia dei movimenti e dei cittadini di fronte alle rozze azioni d’intimidazione della polizia, alle sue operazioni delinquenziali e alle offensive legislative del mondo politico.

 

Reportage precedenti: Ayotzinapa @CarmillaOnLine

 

  1. La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica
  2. Il Messico e Ayotzinapa gridano: 43 con vida ya!
  3. Benvenuti in Messico: desaparecidos e morti di #Ayotzinapa #Fueelestado
  4. Due mesi dopo la strage: le vene aperte del Messico e #Ayotzinapa
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La Brigada para leer en libertad: Paco I. Taibo II intervista Noam Chomsky https://www.carmillaonline.com/2014/11/22/brigada-para-leer-en-libertad-paco-i-taibo-ii-intervista-noam-chomsky/ Sat, 22 Nov 2014 03:41:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18936 di Simone Scaffidi Lallaro*

brigada2La XIV Feria Internacional del Libro di Città del Messico svoltasi nello storico Zocalo, cuore dell’impero azteca prima e centro del potere colonialista poi, ha visto il coinvolgimento nell’organizzazione degli eventi della Brigada para leer en libertad, garantendo così un terreno fertile per discutere di letteratura e utopia. La Brigada para leer en libertad è un’associazione culturale nata nel 2010 con l’obiettivo di incentivare la lettura e lo studio della Storia messicana. Fra gli animatori e le animatrici del progetto compaiono tra gli altri il nome [...]]]> di Simone Scaffidi Lallaro*

brigada2La XIV Feria Internacional del Libro di Città del Messico svoltasi nello storico Zocalo, cuore dell’impero azteca prima e centro del potere colonialista poi, ha visto il coinvolgimento nell’organizzazione degli eventi della Brigada para leer en libertad, garantendo così un terreno fertile per discutere di letteratura e utopia. La Brigada para leer en libertad è un’associazione culturale nata nel 2010 con l’obiettivo di incentivare la lettura e lo studio della Storia messicana. Fra gli animatori e le animatrici del progetto compaiono tra gli altri il nome dello scrittore Paco Ignacio Taibo II e della sua compagna Paloma Sáiz Tejero. La brigata si occupa di cultura e letteratura con la consapevolezza del valore sociale che questo implica, la sua azione non si limita  all’organizzazione di presentazioni e festival letterari indipendenti e internazionali, al recupero di libri altresì condannati al macero e all’edizione di numerosi titoli, ma aspira a creare laboratori permanenti e territoriali per la condivisione dei saperi. Ne sono una prova la trentina di biblioteche di quartiere che la brigata ha contribuito a creare, così come i tianguis (termine con il quale si definisce il mercato tradizionale di epoca pre-ispanica in Centro America) di libri disseminati per le piazze del Distretto Federale.

La Fiera Internazionale del Libro di Città del Messico si è svolta dal 10 al 19 ottobre, tra i molti incontri organizzati dalla Brigada para leer en libertad anche quello in videoconferenza con il linguista statunitense, e molto altro, Noam Chomsky. Vi proponiamo di seguito la traduzione dell’intervista a cura di Simone Scaffidi Lallaro che ha visto alternarsi le voci di Paco Ignacio Taibo II, del giornalista de “La Jornada” Fabrizio Mejía Madrid e di Noam Chomsky.

Paco Ignacio Taibo II: In questi nove giorni abbiamo discusso qui nello Zócalo di Città del Messico, in un momento di grande intensità politica, con un tremendo conflitto nazionale, di Storia e utopia. Mi sembrava dunque perfetto poter parlare con te di questi temi, mescolando il tutto con la letteratura, perché è molto impegnativo avvicinarsi criticamente alla Storia senza l’aiuto della letteratura e dell’utopia. Tu sei uno dei pochi compagni che propone costantemente di riscattare l’utopia. Si può vivere senza molte cose ma non si può vivere senza utopia. Che ne pensi?

Noam Chomsky: È molto difficile per chiunque poter descrivere come sarebbe uno stato di utopia in un mondo dove la medesima esistenza, non solo degli essere umani ma del pianeta stesso è a rischio quanto la nostra, proprio per questo in qualsiasi pensatore cresce l’esigenza di poter descrivere come sarebbe uno stato di utopia.

Paco Ignacio Taibo II: Eppure la necessità, se non di definire la parola ma di sapere ciò che sta dietro alla parola, la sensazione d’intravedere la luce alla fine del tunnel, è fondamentale per la sopravvivenza del pensiero critico.

Noam Chomsky: È necessaria una distinzione tra quelle che sono le prospettive della vita e le mete della vita, le prospettive sono mete di lunga durata e sono stati del mondo nei quali gli esseri umani desidererebbero stare. Le mete sono più immediate, risolvono problemi che gli esseri umani hanno in questa vita, e per poterle raggiungere – e risolvere quei problemi – è fondamentale partire dai principi, da quei principi che le persone possiedono, e in seconda battuta pensare già a uno stato ideale che sarebbe visionario.

Paco Ignacio Taibo II: Quali identificheresti come grandi e imminenti problemi che dovremmo combattere già da ora, oggi?

Noam Chomsky: Sono due i problemi cruciali in questo momento. Il primo è la minaccia sempre presente di una guerra nucleare. Il secondo, che mette in pericolo anche l’esistenza della specie, è il disastro ecologico che stiamo portando avanti noi esseri umani, che non si arresta e non s’intravede come si possa arrestare. Questi sono solo due dei problemi fondamentali che abbiamo, fare una lista dei problemi minori e più piccoli sarebbe un lavoro interminabile.

Fabrizio Mejía Madrid: Sono passati diversi anni da quando Chomsky ha visitato il Venezuela di Hugo Chavez e poi la Bolivia di Evo Morales, disse che in America del Sud si assisteva a un’esperienza utopica, si riferiva soprattutto al fatto che dopo 500 anni giungeva alla presidenza della Bolivia un indigeno con un programma che aveva a che vedere con la sostenibilità ecologica, con una commistione di alta tecnologia e tradizione. Che ne pensa ora Chomsky dell’America del Sud e nello specifico dei processi in corso in Bolivia e Venezuela?

Noam Chomsky: Beh, non c’è dubbio che l’America Latina abbia fatto grandi passi avanti per uscire dalla condizione di colonialismo nella quale si era ritrovata dopo 500 anni di dominazione straniera. Ora ha potuto finalmente confrontarsi a tu per tu, verso l’esterno, con il potere. I migliori esempi sono tanto il Venezuela quanto la Bolivia ma non si può nascondere che ora il lavoro è verso l’interno, dove i paesi latinoamericani continuano a vivere condizioni di oppressione, non più a causa dei governi esterni ma a causa di una minoranza rappresentata dagli eredi di coloro che li conquistarono. Dunque il lavoro che deve seguire è la liberazione dei popoli di fronte a questa minoranza che detiene il potere e che continua a essere tale e quale ai successori della colonizzazione europea.

Paco I. Taibo II: Stiamo vivendo in Messico un periodo inquietante, un periodo molto complicato. I cittadini, il paese, la maggioranza, sono sottomessi a una triplice e velenosa offensiva. Assistiamo per prima cosa all’offensiva neoliberale più brutale che si sia conosciuta in Messico, che distrugge i diritti agrari, i diritti dei lavoratori, che distrugge la detenzione nazionale del petrolio. In secondo luogo, l’aumento brutale di un attitudine autoritaria e repressiva da parte del governo e dei governi locali, e per terzo la delirante guerra contro il narcotraffico iniziata dal governo Calderon. È molto faticoso trovare un modo per unificare l’enorme dissenso che si è creato nel paese e dargli un solo obiettivo. Hai qualche idea brillante per aiutarci a uscire dal marasma?

Noam Chomsky: Le tre fasi distruttive sono effettivamente queste e il Messico ha un complice per questi problemi, quel complice sono gli Stati Uniti. Innanzitutto la maggior parte del consumo della droga che si produce o che passa per il paese finisce negli Stati Uniti, in cambio gli Stati Uniti danno al Messico le armi con le quali i messicani si stanno uccidendo tra loro. Gli Stati Uniti hanno una grande responsabilità. Se a questo aggiungiamo le politiche suicide che i governanti messicani stanno attuando e le riforme suicide che stanno realizzando ci troviamo di fronte a un enorme problema. Tutti gli sforzi che i popoli latinoamericani hanno attuato per ottenere l’indipendenza dal potere degli Stati Uniti sono stati sistematicamente boicottati dagli Stati Uniti e del Canada. I popoli latinoamericani in Conferenze Internazionali come quella di Cartagena hanno cercato di bloccare il potere degli Stati Uniti, di avere politiche più liberali in merito al consumo di droghe e alla lotta al narcotraffico, e gli Stati Uniti e il Canada hanno messo il veto a tali risoluzioni prese dai popoli dell’America Latina. Allo stesso tempo, mentre i popoli latinoamericani diventano più forti, come un blocco unificato contro gli Stati Uniti e il Canada, i governanti messicani hanno preso la decisione di allearsi con gli Stati Uniti girando le spalle ai popoli latinoamericani. E qui il vecchio adagio messicano: il Messico è molto lontano da Dio e molto vicino agli Stati Uniti.

Fabrizio Mejía Madrid: Chomsky è stato un duro critico della politica esterna e interna del suo paese: gli Stati Uniti. Uno dei concetti chiave che ha sviluppato è quello relativo alla fabbricazione del consenso, manufacturing consent, che è in linea con ciò che è accaduto in Messico con l’invenzione da parte dei mezzi di comunicazione ufficiali della figura di Peña Nieto. La mia domanda per Chomsky è: di fronte al potere dominante dei mezzi di comunicazione ufficiali cosa deve fare la resistenza critica per risolvere il problema?

Noam Chomsky: La strada è sostenere con tutti i nostri mezzi la stampa indipendente e faccio gli auguri a “La Jornada” per il suo compleanno. Considero La Jornada il quotidiano più indipendente della storia. Credo che i movimenti sociali indipendenti e i gruppi di contestatori debbano rivedere i loro mezzi di informazione, lavorare tra loro e aiutarsi. Sono cosciente che questo porti a un sorta di anarchia della divulgazione dell’informazione, ma ciò non è così problematico, bensì benefico nella misura in cui si sono raggiunte molte cose grazie al movimento di moltissime persone che lavorano in modo indipendente e si scambiano di giorno in giorno le informazioni. Credo che sia grazie a questo se esiste una società più civilizzata come mai era successo prima nella Storia.

Paco I. Taibo II: Noi che siamo qui siamo book believers, crediamo nel potere della parola scritta e non solo nel potere della parola scritta sotto forma giornalistica o informativa, crediamo nel potere della letteratura, non so se è perché siamo pazzi o perché siamo messicani, entrambe le possibilità son da considerarsi degne. In Messico abbiamo provato l’immenso potere della divulgazione dell’informazione attraverso la letteratura, il confronto, le critiche, le letture. Che ne pensi di ciò?

brigadaNoam Chomsky: Non so esattamente cosa sta accadendo in Messico, però negli Stati Uniti e in Europa c’è stata un’enorme diminuzione dei giovani che si avvicinano ai libri e alla lettura. Ogni giorno si legge meno letteratura, ogni giorno si legge meno anche a livello accademico, nelle università. I giovani si avvicinano più a Internet, più ai mezzi di comunicazione virtuali e questo ha fatto sì che si metta da parte il potere della parola scritta. Credo che questo sia un problema grave, e ricordo i tempi in cui quando scrivevo potevo creare metafore rimandando ai classici della letteratura supponendo che le persone avrebbero potuto capire qual era il messaggio che stavo comunicando. Ora non posso più farlo, perché quando lo faccio, la gente, i nuovi lettori, soprattutto i giovani, non lo capiscono più. Questo è uno dei problemi che dobbiamo comprendere e saper affrontare per poter riempire questo vuoto, questo buco informativo in relazione alla formazione culturale dei giovani. C’è uno studio sui movimenti sociali del XIX secolo intitolato suppergiù “L’avvicinamento idealista delle classi lavoratrici alla letteratura in Inghilterra” dove l’autore, Jonathan Rose, sostiene che a quei tempi le classi lavoratrici, le classi popolari, si avvicinavano moltissimo alla lettura. In questa maniera godevano di un livello intellettuale e culturale superiore a quello degli aristocratici. Allo stesso tempo si riunivano le persone delle classi popolari, i lavoratori, gli operai, e discutevano le opere di Shakespeare, di psicologia, gli ultimi testi di Marx, quello che aveva appena pubblicato Freud. Oggi questo non succede più e ne sono un riflesso le problematiche sociali che affliggono gli stati.

Paco I. Taibo II: Ora farò un’affermazione provocatoria: ho una profonda sfiducia in uno scienziato sociale che non legge romanzi, so che non è il tuo caso – ho le prove del contrario – che ne pensi di una frase demolitrice come questa?

Noam Chomsky: Gli scienziati sociali devo essere coscienti che nella letteratura si trovano cose che non si trovano nei testi accademici, in letteratura il lettore si può avvicinare alle passioni umane, alle necessità psicologiche, a tutte quelle cose che gli scienziati sociali non vanno necessariamente a toccare ma che sanno che esistono. La letteratura apre questa porta per poter parlare di quello di cui nell’accademia non si parla.

Fabrizio Mejía Madrid: Dici e credo sia evidente che l’accelerazione vissuta negli ultimi 30 anni, in particolare tecnologica, ci ha levato profondità. È certo che non discutiamo più di marxismo e di psicanalisi: si è formata una cultura più superficiale?

Noam Chomsky: Beh, sicuramente oggigiorno ci sono vuoti culturali enormi, ma i progressi tecnologici hanno anche permesso che segmenti di popolazione che in precedenza, in nessuna circostanza, avrebbero avuto accesso all’educazione, ora possano più facilmente avvicinarsi agli strumenti educativi. Ciò che ha comportato la diffusione della tecnologia è pertanto un problema complesso, che si relaziona sia con questioni positive che negative. Gli intellettuali e i critici devono dedicarsi ad analizzare e mettere in luce più le questioni problematiche che le questioni benefiche, perché le questioni benefiche parleranno e lavoreranno da sole. È necessario enfatizzare e criticare quelle cose che la tecnologia sta frenando o rendendo superficiali.

Paco I. Taibo II: Ho la sensazione che cambiare il Messico implichi, oltre a moltissime altre cose – trasformarlo, portarlo verso il progresso reale – un’alleanza con il meglio degli Stati Uniti, con i suoi settori più pensanti come il movimento del lavoro, con le organizzazioni sociali, con la parte migliore dei suoi intellettuali e con il meglio di Hollywood, inclusa Rita Hayworth.

Noam Chomsky: Sai una cosa? Quando avevo 12 anni vidi una pellicola con Rita Hayworth e mi innamorai immediatamente di lei.

Taibo II: C’è una spiegazione alla mia teoria su Rita Hayworth: molti anni fa sostenni che non era necessario bombardare i talebani con le bombe, ma bisognava bombardarli con videocassette contenenti un video di Rita Hayworth mentre si levava il guanto in “Gilda”.

Noam Chomsky: (ride)

Fabrizio Mejía Madrid: Forse voi sapete che Chomsky è stato il principale critico della politica dei bombardamenti in Medio Oriente, fin dai suoi anni nella Guerra del Vietnam quando andò con una spedizione – diciamo giornalistica – per conoscere i casi del Laos e della Cambogia che erano stati bombardati a causa della guerra del Vietnam, poi andò a Beirut e infine diventò un grande oppositore alla politica dei bombardamenti degli Stati Uniti. Oggi gli Stati Uniti affrontano l’ISIS, lo Stato Islamico, in Siria, Tuchia, Iraq, ecc. Cosa pensa oggi Noam Chomsky di questa nuova guerra che si realizza con robots, i famosi droni?

Noam Chomsky: La guerra e i bombardamenti con i droni, sono senza dubbio alcuno l’atto più terrorista che si è portati a capo nella storia dell’umanità e che violenta un principio storico fondamentale: ovvero che tutte le persone sono innocenti fino a quando non si dimostri la loro colpevolezza. Oggigiorno, a causa di questo modo di fare la guerra da parte degli Stati Uniti e di altri paesi, il concetto di colpevolezza si è trasformato: colpevole ora è quella persona che decidiamo in una riunione alla Casa Bianca e tutte le persone che gli stanno intorno.

Fabrizio Mejía Madrid: La mia ultima domanda per Chomsky tratterà la sua auto-definizione politica: tu sei un anarchico o che altro?

Noam Chomsky: Tra i molti concetti che ho di anarchismo il concetto nucleare e primordiale è quello che si generò durante il periodo dell’Illuminismo e che afferma semplicemente che il potere è sempre illegittimo fino a che non dimostri il contrario. Mantenendo l’ordine delle cose, nel mondo che abbiamo, i poteri stabiliti non hanno potuto in nessun momento dimostrare che sono legittimi, e per tanto da questa prospettiva sì mi considero anarchico, e invito il resto delle persone a considerarsi tali.

Link al video: QUI

*Traduttore dell’intervista.

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Docenti di lingua-cultura italiana, precari e bistrattati all’estero https://www.carmillaonline.com/2014/04/03/docenti-di-lingua-cultura-italiana-precari-e-bistrattati-allestero/ Wed, 02 Apr 2014 22:00:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13899 di Fabrizio Lorusso

Precari docenti[Visto l’interesse comune per le tematiche trattate, questo articolo viene pubblicato oggi anche su Minima et Moralia e La poesia e lo spirito/Viva la scuola].

Nel dibattito sul precariato e il riconoscimento della professionalità dei docenti d’italiano come lingua seconda o straniera – L2 o LS – sono pochi i contributi sulle istituzioni italiane all’estero, in particolare sugli Istituti Italiani di Cultura (IIC). Il caso specifico che intendo descrivere riguarda la precarietà [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Precari docenti[Visto l’interesse comune per le tematiche trattate, questo articolo viene pubblicato oggi anche su Minima et Moralia e La poesia e lo spirito/Viva la scuola].

Nel dibattito sul precariato e il riconoscimento della professionalità dei docenti d’italiano come lingua seconda o straniera – L2 o LS – sono pochi i contributi sulle istituzioni italiane all’estero, in particolare sugli Istituti Italiani di Cultura (IIC). Il caso specifico che intendo descrivere riguarda la precarietà imperante a livello lavorativo nell’Istituto di Città del Messico, un esempio rappresentativo di un deterioramento comune a molte altre sedi estere. Sebbene esistano in Italia e all’estero condizioni di sfruttamento ben peggiori di quelle che riguardano i precari della cultura e dell’insegnamento, la situazione di queste categorie, scarsamente riconosciute in termini professionali, resta preoccupante. E riflette quella generale del mondo del lavoro in un paese con la disoccupazione al 13% in cui la caduta quasi trentennale del potere d’acquisto dei salari e la presenza di un esercito crescente di “riservisti” hanno compresso stipendi e diritti.

Riconoscere la professionalità dei docenti L2/LS

Nell’articolo “Certificare il precariato, didattizzare lo sfruttamento”, uscito in gennaio su Carmilla on line, Claudia Boscolo criticava giustamente la decisione del Comune di Brescia di creare un albo di ex insegnanti in pensione, disponibili a insegnare italiano agli studenti migranti, per sopperire alla carenza strutturale di personale nelle scuole. Si cerca di risparmiare recuperando docenti pensionati, in vena di fare del volontariato, ed escludendo le nuove figure professionali dei facilitatori linguistici, dei mediatori culturali e dei docenti specializzati nell’insegnamento della lingua come L2/LS. Tutta gente che ha dovuto ottenere dei titoli di studio ad hoc per specializzarsi o che comunque deve accumulare un’esperienza specifica ampia per insegnare lingua-cultura* italiana agli stranieri.

Il 27 dicembre 2013 su Il Manifesto Roberto Ciccarelli parlava di una “nuova frontiera dell’insegnamento”, basata sul lavoro gratuito e “la rimozione dell’esistenza di migliaia di persone con master ed esperienza”. E’ poi circolato un appello diffuso dal blog Riconoscimento della professionalità degli insegnanti d’italiano L2/LS e ripreso da Il Lavoro Culturale, intitolato “Italiano ai migranti: l’importanza delle condizioni d’insegnamento”, nel quale si ribadisce che “insegnare l’italiano a migranti non significa ‘aiutare nei compiti’: significa sapere come insegnare una lingua, quali approcci e metodi utilizzare e in quale situazione, significa saper creare attività e materiali ad hoc, significa progettare percorsi che tengano conto di determinati fattori (stadio dell’interlingua, sequenze di apprendimento, interferenze con la L1, e altri elementi teorici che si devono conoscere e saper applicare). Significa saper coinvolgere gli insegnanti di classe in questo percorso”.

 Istituti Italiani di Cultura all’estero

L’idea di trattare un caso estero nasce dalle forti somiglianze con la situazione dei professori L2/LS in Italia, dalla scarsa informazione disponibile sugli IIC e dalla mia esperienza personale. L’Istituto Italiano di Mexico City è l’Ufficio Culturale dell’Ambasciata d’Italia, dipende dal MAE (Ministero Affari Esteri) e gode dell’extraterritorialità, ovvero il suo territorio appartiene al paese ospitante, ma è politicamente amministrato dal paese ospitato. Al suo interno prestano servizio gli impiegati locali, assunti in base al codice del lavoro messicano, e quelli del MAE, che possono essere sia messicani sia italiani, hanno in genere contratti a tempo indeterminato e ricevono stipendi e benefici come i dipendenti pubblici in Italia. Tra questi ci sono i “contrattisti”, assunti sul posto con dei concorsi pubblici, e quelli provenienti dalla carriera diplomatica, per esempio l’addetto culturale e il direttore che possono raggiungere stipendi di 7 e 12mila euro al mese rispettivamente (vedi i reportage completi di Thomas Mackinson – Uno 2014Due 2011Tre 2011 in cui si parla di cifre anche maggiori, dai 12 ai 17mila euro, e di molte altre problematiche).

Dulcis in fundo ci sono i docenti, quasi tutti italiani ma a volte anche messicani, “assunti” con qualcosa di simile a un atto di cottimo o contratto di prestazione d’opera. Insomma, i professori, spesso elogiati da direttori e diplomatici di turno perché sarebbero “il volto dell’Italia nel mondo”, “i nostri rappresentanti diretti con gli studenti e con il Messico”, “l’interfaccia linguistica e culturale del paese”, pur operando praticamente in un territorio italiano all’estero, sono l’ultima ruota del carro, precaria. Il riconoscimento della professionalità dell’insegnante L2/LS, in Italia e all’estero, passa necessariamente dal riconoscimento e dalla tutela dei suoi diritti lavorativi per “ridare dignità alla nostra categoria di insegnanti di italiano a stranieri, sempre più bistrattata dalle istituzioni”, come ben rimarca il blog Insegnanti L2/LS. Quindi partiamo dal lavoro. A fine marzo 2014 Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un reportage sui docenti in nero all’IIC di Bruxelles e un video con interviste ai professori che sono praticamente dei “fantasmi per la Farnesina e l’Ambasciata” e hanno sicuramente tante storie da condividere coi loro colleghi degli altri Istituti nel mondo.

L’Istituto Italiano di Città del Messico e il precariato

In Messico la sede dell’IIC, che include due piccoli edifici  per le aule, due giardini e altre strutture per le attività culturali e amministrative, è a Coyoacán, placido quartiere coloniale del sud cittadino, mentre l’Ambasciata si trova a oltre 20 km di distanza nella zona residenziale conosciuta come Palmas. Per i 17-18 membri del corpo docente dell’IIC-Messico c’è un contratto “di prestazione di servizi”, stipulato tra il “Committente” (IIC) e il “Prestatore” (docente), valido solamente per uno o più corsi specifici e rescindibile in qualunque momento da entrambe la parti, anche senza motivi.

Al punto/clausola 5 si cita un diritto di rescissione, esercitabile senza alcun preavviso, del Committente in caso di “gravi motivi d’insoddisfazione per il comportamento e l’espletamento del servizio da parte del Prestatore”. E al punto 6 si ribadisce: “Il presente contratto può essere rescisso da entrambe le parti in ogni momento per altre ragioni”. Cioè? Arbitrio, qualsiasi altra ragione. Infine, per chi si fosse fatto illusioni: “E’ escluso il rinnovo tacito del presente contratto”, frase che suggella la precarietà di un rapporto che non va mai oltre i cinque mesi consecutivi. Non vengono versati contributi previdenziali di alcun tipo. In pratica esiste un rapporto contrattuale di lavoro tra un individuo e un soggetto non privato, l’IIC, che, secondo le modalità in cui si svolge, potrebbe configurarsi come subordinato e prevedere diversi trattamenti economici, retributivi e contributivi, ma così non è.

precari Esempio Contratto IIC Un professore che si assenta perde lo stipendio per le ore dei corsi non lavorate e rischia il posto di lavoro. Non c’è “l’indennità per malattia”. Secondo quanto riferiscono alcuni insegnanti, verrebbe accettata un’assenza solo per “gravi motivi di salute”, ma non esiste una regola scritta o una circolare che lo confermi, non sono chiari questi “gravi motivi”. Il che implica un ampio margine di discrezionalità da parte della direzione che negli ultimi anni è arrivata a togliere corsi a un docente o a escluderlo completamente dall’Istituto se questo chiede con ragionevole anticipo un permesso per motivi personali giustificati. In alcuni casi, però, il “permesso” viene concesso senza conseguenze. Per di più, a volte, la segreteria avrebbe richiesto un certificato medico ad alcuni docenti. In Messico non c’è un sistema sanitario universale e gratuito, e comunque la maggior parte dei prof non è iscritta al sistema sanitario locale, cosa prevista, invece, per i lavoratori di altre istituzioni educative. Dunque richiedere un certificato obbliga il docente a cercare un medico privato che lo redige per 40 o 50 euro. Inoltre in Messico la sanità è al collasso, non esiste la figura del medico di famiglia e l’IIC non ha un dottore interno o “aziendale”, perciò tocca andare dal privato. Sebbene se la minaccia verbale di far presentare ai docenti il certificato non si sia ancora materializzata, il fatto che sia stata enunciata è di per sé grave.

Contratti e permessi di soggiorno

Una nota “curiosa”. Il contratto è in italiano, ma dice al punto 9 che “in caso di controversie derivanti dall’applicazione del presente contratto è competente il Foro locale”, cioè quello messicano. Una stranezza che nessuno è riuscito a spiegare. Alcuni avvocati, consultati da vari professori negli ultimi anni, e alcuni funzionari del MAE, invece, sostengono che non può essere competente il tribunale locale ma quello italiano, a Roma. Tutto questo succede nonostante il punto 2 stabilisca che “Il Prestatore garantisce che la prestazione verrà effettuata in forma autonoma anche se con modalità concordate tra il Prestatore e il Committente”. Negli ultimi anni non ho visto molte “forme autonome” nello svolgimento della “prestazione” né “modalità concordate”: se non è previsto un meccanismo valido, individuale o collettivo, per fare accordi, allora esistono solo decisioni unilaterali. E se una decisione non si basa su criteri scritti e pubblici, per esempio sul web o con una circolare, diventa arbitraria. Trattandosi di un’istituzione pubblica, ci si aspetterebbe di più…

Le “modalità concordate” c’erano prima, dato che esisteva una rappresentanza legittima del corpo docente, soppressa a fine 2011, che accordava con la direzione tali condizioni e modalità: come gestire assenze e malattie, orari, semestri e gruppi/classi, fasce salariali e aumenti; come lavorare in classe e che tipo di didattica, libri, testi extra, materiali e strutture vanno utilizzate o migliorate; i criteri per l’ingresso e il tirocinio dei nuovi docenti (soppresso nel 2011, dopo oltre 10 anni d’efficace funzionamento, e sostituito da una decisione soggettiva della direzione); che tipo di graduatorie interne s’usano per distribuire il lavoro e quali eventuali sanzioni si prevedono in tutta una serie di casi ordinari e situazioni limite. Tutti elementi sui cui la direzione ha una responsabilità di fronte al Ministero e su cui mantiene, quindi, un potere di decisione finale. Ma se il contratto e il buon senso prevedono un momento di confronto sulle modalità e questo non viene realizzato, allora si tratta di “unilateralità” o imposizioni.

Il punto 8 s’occupa di quei docenti che, magari dopo aver lavorato per 10 o 20 anni continuativamente in un’istituzione pubblica del loro paese, pensavano ingenuamente di poter acquisire qualche diritto, per esempio l’accumulo di punti in una graduatoria o un tipo di considerazione nei concorsi pubblici. Invece gli anni all’IIC, in Messico e in molti altri paesi, non contano nulla: “In nessun caso il rapporto di prestazione di servizi può comportare l’assunzione nei ruoli dell’Amministrazione del Ministero degli Affari Esteri o presso l’Istituto Italiano di Cultura”. Assunzione al MAE o in IIC? Impossibile. Però almeno qualche riconoscimento per la carriera si potrebbe prevedere, no? Invece non ci sono neanche i riconoscimenti simbolici, men che meno quelli materiali.

L’istituzione mantiene una “spada di Damocle” migratoria sui docenti che per l’ottenimento o il rinnovo del permesso di soggiorno dipendono da una lettera della direzione IIC: a lavoro precario, permesso di soggiorno precario e prof ricattabili. Riassumendo: tra dipendenti MAE-Carriera diplomatica (direttori e addetti), contrattisti MAE assunti in loco, impiegati con contratto locale e docenti di lingua L2/LS sono quest’ultimi i più precari. Sono inesistenti per il sistema pensionistico e della previdenza sociale italiano o messicano, rischiano in qualsiasi momento di finire clandestini ed è una situazione che all’IIC-Messico dura da più di trent’anni. Sono invisibili anche per i sindacati che non possono intervenire.

Interrogazioni parlamentari

Il 19 dicembre 2012 ci fu un’interrogazione parlamentare del deputato Gino Bucchino, eletto nella circoscrizione Nord e Centro America, proprio sul caso dell’IIC-Messico in cui si segnalavano problemi relativi alla diffusione culturale: “L’attività culturale del nostro istituto ha conosciuto negli ultimi tempi una flessione di ordine quantitativo e qualitativo, dovuta sia alla riduzione delle risorse destinate in generale alla rete dei nostri istituti che a motivi specifici attinenti alla programmazione e alla realizzazione in loco dell’intervento; in particolare, è diminuito il numero degli eventi culturali, alcuni dei quali realizzabili a costo minimo o nullo, e dell’insegnamento linguistico”. Dal punto di vista culturale ci sono stati degli sforzi volti al miglioramento, ma secondo l’interrogazione l’offerta non è paragonabile a quella degli anni immediatamente precedenti all’insediamento della direzione 2012-2014, (Melita Palestini, direttrice, e Gianni Vinciguerra, addetto culturale).

Per esempio l’unica libreria italiana in Messico (Libreria Morgana) gestiva uno degli spazi più apprezzati e attivi all’interno dell’Istituto, un vero punto d’incontro della comunità, ottimo per la realizzazione di eventi e la lettura. Dal luglio 2012 la libreria in IIC non c’è più. Al suo posto c’è un loculo vuoto e macabro accanto all’ingresso principale che dà il benvenuto ai visitatori. Infatti, non s’è trovato un accordo con l’IIC, in quanto questo “proponeva” una riduzione degli spazi alla metà e un aumento drastico e repentino dell’affitto, oltre a riservarsi la prerogativa di maggiori poteri di controllo sulla durata del rapporto e sugli eventi letterari. Una situazione paradossale in un centro culturale. Lo spazio non è stato più valorizzato né altre librerie hanno preso il posto della Morgana, malgrado le ripetute promesse in tal senso da parte della direttrice e le rimostranze della comunità locale.

Il 12 marzo 2014 c’è stata un’altra interrogazione, presentata dal deputato Emanuele Scagliusi, che si basa su informazioni riportate dal Fatto Quotidiano, da ansa.it, dalla Federazione indipendente lavori pubblici della Farnesina e anche su una lettera di protesta della comunità italiana in Messico del 2013. Il testo denuncia una serie d’irregolarità e preoccupazioni, relative agli IIC di New York, Città del Messico, Bruxelles, Barcellona e Madrid, e chiede al Ministro degli Affari Esteri Mogherini se stia esercitando la sua funzione di controllo sull’operato dell’Ispettorato del suo ministero e dei direttori degli Istituti Italiani. L’interrogazione è stata seguita da un’interpellanza urgente sul caso dei docenti dell’IIC di Bruxelles.

Contratto etico e lavoro bistrattato

precari docenti messicoIn ambito lavorativo il testo dell’interrogazione di Bucchino cita il “Contratto etico”, un documento per la protezione di alcuni diritti di base dei docenti L2/LS e mediatori culturali unico nel suo genere in America Latina. Fu redatto e siglato nel 2008 da rappresentanti di professori, responsabili didattici, dal Comites locale (Comitato Italiani all’Estero), da gruppi, associazioni e collettivi di italianisti, e dai direttori di numerose istituzioni messicane e italiane operanti in Messico, tra cui alcune scuole Dante Alighieri e lo stesso Istituto Italiano (Link Al Documento): “Il rapporto autoritario e privo di regole con il personale adibito all’espletamento dei corsi contribuisce ad accentuare la precarietà della situazione e a insidiare la stabilità e la continuità del servizio; importanti prerogative previste nei contratti a favore del personale e le indicazioni contenute nel Contratto etico del personale insegnante, sottoscritto fin dal 2008, ricevono scarsa considerazione.”

Negli ultimi anni il “Contratto Etico” è diventato carta straccia proprio nell’istituzione che più di tutte l’aveva promosso. Da più di 4 anni non c’è un aumento salariale (orario) in IIC, mentre prima c’era un piccolo adeguamento, comunque insufficiente, ogni uno o due anni. La gestione dell’Istituto di Mexico City ha ricevuto una serie di critiche esterne molto forti. Alla fine del gennaio 2013, la comunità italiana in Messico, per la precisione un’ottantina di firmatari italiani e messicani interessati alla questione, diffuse una lettera diretta all’allora Ambasciatore, Roberto Spinelli, e a vari quotidiani, siti e riviste italiani e messicani in cui si deplorava “l’inesorabile declino di questo importante punto di riferimento per la diffusione della lingua e della cultura italiane” e il fatto che “la direzione riserva al pubblico in generale un trattamento spesso scortese e freddo: è difficilissimo essere ricevuti e, quelle rare volte in cui viene concesso un colloquio, la chiusura di fronte a qualunque proposta di collaborazione (anche gratuita) è assoluta”.

Diffusione culturale

Lo scrittore italiano Fabio Morábito, in Messico dal 1970, ne parlava su Nazione Indiana in questi termini: “Cercherò di tracciare un breve quadro del posto che occupa la letteratura italiana in Messico. Intanto non credo che l’Italia promuova una qualche politica culturale in questo paese, anzi mi domando se lo faccia in altri. L’Istituto Italiano di Cultura, che ha sede in uno dei posti più belli di Città del Messico, non si contraddistingue certamente per la sua vivacità. Per me é stato sempre un istituto grigio, incapace di attrarre un pubblico locale. Ci vanno più che altro i vecchietti italiani e forse qualche studente dei corsi di lingua”.

Resta un’opinione, ma di uno che qualcosa ne sa. Già nel 2010 la scrittrice e accademica Francesca Gargallo aveva subito un tentativo di restringere la libertà di espressione durante la presentazione del suo libro e della conferenza “Liberazione delle donne, liberazione di un popolo: gli saharawi”  in un evento culturale organizzato presso la biblioteca dell’IIC. 

E poi nel settembre 2013 la denuncia dello scrittore messicano Naief Yehya è cominciata a circolare su Facebook, insieme a decine di commenti di solidarietà e oltre cento condivisioni. In pratica l’autore ha scritto che la presentazione del suo libro “Pornocultura: lo spettro della violenza sessualizzata nei media” sarebbe stata cancellata il giorno prima dall’IIC, “che ha avuto in mano per settimane un libro che non nasconde di cosa tratta”. E continua: “Sapevano anche che avremmo proiettato alcune immagini legate al testo. Un giorno prima dell’evento apparentemente si sono accorti di cosa significava la parola Porno, si sono scandalizzati e hanno cancellato l’evento. Per fortuna Tusquets ha potuto programmare l’evento nella sala Octavio Paz della libreria del Fondo de Cultura Económica”, che, per chi non la conosce, è una delle principali case editrici messicane. Ecco il commento di Alberto Navarro, un alunno IIC contrariato su FB: “Sono studente dell’Istituto, che vergogna, non tutti la pensano così in quel posto, c’è gente molto valida e critica lì dentro, pensante. L’autorità ha paura in questo paese ed è chiaro il perché”.

La petizione al governo contro le chiusure

Sta circolando in rete (link) una petizione al governo, con quasi tremila adesioni, contro la chiusura, prevista entro l’estate, di otto istituti italiani di cultura nel mondo. Tra i primi firmatari ci sono scrittori, giornalisti, intellettuali, cineasti, accademici e artisti molto noti. La petizione è giusta ma incompleta. I problemi degli Istituti sono strutturali, non tanto o non solo legati a dirigenti e funzionari, quanto alle regole, alle dinamiche e alle consuetudini che li governano. In una petizione bisognerebbe chiedere una riforma degli IIC, delle loro logiche di funzionamento e dei meccanismi per le nomine di addetti, direttori, funzionari, contrattisti e professori che, in certi casi, riproducono la classica parentopoli all’italiana, anti-meritocratica e parassitaria. Si dovrebbe rivedere il sistema degli eventi e delle proposte culturali del “giro” ministeriale che vengono inoltrate dal MAE agli Istituti. Bisognerebbe valorizzare le persone in loco, chi insegna, chi fa cultura e semplicemente chi lavora, e rendere visibili i “precari italiani all’estero”, protagonisti di un lavoro docente e culturale bistrattato in quei luoghi, anche se poi viene dipinto da diplomatici e politici come necessario e determinante per l’immagine del paese. Non basta salvare gli IIC, vanno cambiati da cima a fondo. ___________________

* La fusione in una sola parola del binomio lingua-cultura evidenzia l’inscindibilità di due elementi che s’influenzano reciprocamente. Insegnare una lingua non significa solo trasmettere uno strumento di comunicazione o delle regole, ma è anche un’attività di trasmissione dei fenomeni culturali che sono inscindibili dagli aspetti linguistici. Non c’è isolamento tra lingua e cultura ma comunicazione e interazione in un contesto o ambiente sociale storicamente determinato.

]]> Mario e gli altri: criminalizzazione della protesta sociale a Città del Messico https://www.carmillaonline.com/2014/01/22/mario-e-gli-altri-criminalizzazione-della-protesta-sociale-a-citta-del-messico/ Tue, 21 Jan 2014 23:09:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12271 di Andrea Spotti

mario libreA poco più di tre mesi dalla sua detenzione Mario Gonzalez è stato condannato. Lo studente anarchico, detenuto a margine del corteo contro la riforma educativa e in memoria della strage del ’68 in Piazza Tlatelolco dello scorso 2 ottobre, è stato ritenuto colpevole del reato di “Attacco alla Pace Pubblica” dalla giudice Marcela Arrieta, che lo ha sentenziato alla pena di 5 anni e 9 mesi da scontare nel carcere di Santa Martha Acatitla, sito nella zona sudorientale della capitale messicana. La sua vicenda, attorno alla quale è cresciuto in questi mesi [...]]]> di Andrea Spotti

mario libreA poco più di tre mesi dalla sua detenzione Mario Gonzalez è stato condannato. Lo studente anarchico, detenuto a margine del corteo contro la riforma educativa e in memoria della strage del ’68 in Piazza Tlatelolco dello scorso 2 ottobre, è stato ritenuto colpevole del reato di “Attacco alla Pace Pubblica” dalla giudice Marcela Arrieta, che lo ha sentenziato alla pena di 5 anni e 9 mesi da scontare nel carcere di Santa Martha Acatitla, sito nella zona sudorientale della capitale messicana. La sua vicenda, attorno alla quale è cresciuto in questi mesi un movimento di solidarietà dentro e fuori i confini nazionali, è indicativa del clima repressivo che si vive a Città del Messico dall’insediamento del sindaco Miguel Angel Mancera a questa parte.

In sintonia con il presidente Enrique Peña Nieto, che sin dall’inizio del suo mandato, cominciato nel dicembre 2012, ha dovuto far fronte alle proteste popolari, il governatore di centrosinistra sta portando avanti una governance autoritaria che ha ridotto drasticamente gli spazi di agibilità politica per i movimenti sociali nella capitale. Questi, infatti, sono sottoposti a una vera e propria persecuzione poliziesca e giudiziaria, la quale, secondo quanto denunciano varie organizzazioni per la difesa dei diritti umani, rischia di mettere in discussione le stesse libertà costituzionali.

Arrestato su un autobus pubblico mentre si recava al corteo insieme ad altri otto compagni, Mario rappresenta un classico caso in cui le autorità si occupano di costruire il colpevole a tavolino. Quello dei giovani in questione, in altri termini, è stato un arresto preventivo fatto con lo scopo di fornire un capro espiatorio all’opinione pubblica alla fine dell’ennesima manifestazione terminata in disordini e duramente repressa dalla polizia locale che, per l’occasione, era guidata personalmente dal primo cittadino.

Noti all’autorità per la loro partecipazione alle lotte in difesa della scuola pubblica e per il loro attivismo all’interno di organizzazioni studentesche d’ispirazione anarchica, i fermati si prestavano perfettamente ad essere usati per svolgere il ruolo dei “violenti di turno”. Il contesto è quello di una massiccia campagna di criminalizzazione delle componenti più radicali dei movimenti messicani, dai professori della CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación) al Bloque Negro, orchestrata ad arte da governo locale e media mainstream, e orientata a creare un clima di tensione intorno alle mobilitazioni contro le riforme strutturali che hanno animato la città durante tutto l’autunno.

manceraDello studente ventitreenne e della sua odissea giudiziaria si era occupato Fabrizio Lorusso un paio di mesi or sono, documentando il drammatico sciopero della fame che stava portando avanti per chiedere la propria liberazione. Grazie a questa forma di lotta, Mario è riuscito a rompere la cappa di silenzio e indifferenza che aleggiava sulla sua ingiusta detenzione. Tuttavia, dopo 56 giorni senza ingerire alimenti, è stato costretto a interrompere il digiuno a causa del drastico deterioramento delle sue condizioni di salute che minacciava di mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. Dal 22 novembre è ricoverato nell’ospedale Torre Medica, da dove verrà trasferito a Santa Marta (uno dei penitenziari più violenti della città) appena recuperate le forze.

A questo proposito, durante la conferenza stampa del 15 gennaio scorso, Raquel Ramirez, appartenente alla squadra di medici del movimento della Sexta zapatista che segue il caso, ha denunciato la scarsa qualità dell’attenzione clinica prestata a Mario da parte del personale medico dell’ospedale. Quest’ultimo, oltre a violare costantemente il diritto all’informazione del paziente e dei suoi familiari, omettendo di comunicare i risultati delle analisi cui viene sottoposto, pare infatti più intenzionato a farlo aumentare di peso per inviarlo il prima possibile dietro alle sbarre, che a fornigli un’alimentazione adeguata alla sua condizione. Il risultato di questa scelta nutrizionale è che la massa grassa nel corpo di Mario cresce molto di più di quella muscolare, il che, lungi dal rappresentare il percorso corretto per recuperare il peso-forma del giovane, potrebbe complicare ulteriormente il funzionamento del suo metabolismo, già colpito da una pancreatite acuta e reso vulnerabile dall’abbassamento delle difese immunitarie provocato dallo sciopero della fame.

Se l’arresto è avvenuto in violazione di ogni garanzia (gli imputati hanno dichiarato di essere stati per ore vittime delle torture fisiche e psicologiche praticate dagli agenti, prima di essere presentati al pubblilco ministero), il processo ha avuto poco a che fare con i crismi stabiliti dal cosidetto stato di diritto, come denunciato dai legali di Mario, Guillermo Naranjo e Lizbeth Lugo, della de la Liga de Abogados Primero de Diciembre. Dal loro punto di vista, il percorso processuale è stato caratterizzato da molte “anomalie e irregolarità”, oltre ad essere stato viziato ab origine dalla volontà politica di dare un castigo esemplare a Mario al di là della sua effettiva responsabilità.

In effetti, l’intero castello accusatorio si basa esclusivamente sulle contraddittorie testimonianze dei poliziotti che hanno effettuato gli arresti i quali, dopo aver inizialmente dichiarato di essere stati testimoni oculari dei danneggiamenti provocati dal presunto lancio di artefatti esplosivi da parte degli imputati, hanno poi cambiato versione, sostenendo invece di essere giunti sul posto solo dopo aver ricevuto la chiamata di un automobilista, di cui si sono in seguito perse le tracce. Anche la criminalizzazione mediatica, inoltre, ha inciso nel processo. Tanto che tra gli elementi citati per giustificare la “pericolosità sociale” di Mario, e dunque la necessità della sua detenzione preventiva, si trovano anche alcuni servizi giornalistici di TvAzteca e MilenioTv. Insomma, dal punto di vista della difesa, l’unica cosa che il processo è riuscito a dimostrare è l’estraneità di Mario e gli altri processati ai reati di cui li si accusa.

no-a-la-criminalizacion-de-la-protesta-socialNonostante non abbia rappresentato una sorpresa per il giovane avvocato, la sentenza è “assurda e contraddittoria”, dal momento che condanna l’imputato per un reato che implica l’aver provocato danni a cose o persone senza però riuscire a dimostrare che i presunti vandalismi abbiano effettivamente avuto luogo e che, proprio per questo, è costretta ad assolvere Mario dall’obbligo di risarcimento dei danneggiamenti provocati (al contrario di quanto abitualmente accade in situazioni del genere). Ma non solo. La sentenza è anche “indignante” e “contraria al diritto”; poiché si accanisce nei confronti dello studente castigandolo con una pena decisamente eccessiva, se si considera che si tratta di un reato non grave e della sua prima condanna.

Questo accanimento, d’altra parte, si giustifica con l’intenzione – tutta politica – della giudice di impedire la richiesta di pene alternative e imporre la detenzione carceraria come unica opzione possibile. Contro questa prospettiva, i legali di Mario presenteranno appello, anche se non si dichiarano fiduciosi nell’autonomia del Tribunale Supremo di Giustizia del Distretto Federale (TSJDF), il quale ha dimostrato di subordinare la sua azione agli interessi politici del capo del governo della capitale.

Quello di Mario, purtroppo, non è un caso isolato. Altre condanne a 5 anni e nove mesi per il reato di Attacco alla Pace Pubblica (frutto di processi altrettanto discutibili secondo gli avvocati difensori) si sono abbattute sul fotografo indipendente Josè Alejandro Bautista, arrestato da un gruppo di agenti in borghese mentre documentava la mobilitazione del 2 ottobre; e su Rigel Barrueta, fermato invece durante il #1Dmx. A questi verdetti, bisogna poi aggiungere i quasi tre anni più multa appioppati agli studenti Gonzalo Amozurrutia, Pavel Noriega e Juan Velàzquez, detenuti all’interno di una stazione della metro, a conclusione della giornata di mobilitazione del #1S. Sono in attesa di giudizio, infine, circa trenta imputati con storie simili (alcuni dei quali si trovano in stato di privazione della libertà) che a breve dovrebbero ricevere la sentenza per gli stessi capi d’accusa e per i quali, stando le cose in questi termini, è difficile essere ottimisti.

Al di là della questione giudiziaria, è l’insieme della strategia di governo dell’amministrazione Mancera a preoccupare movimenti sociali e organizzazioni per la difesa dei diritti umani (tra gli altri, l’Associazione Nazionale Avvocati Democratici, Article 19, Limeddhh e Centro Prodh). In rotta con la tradizione progressista della città, il suo governo sta nei fatti lavorando alla normalizzazione dell’anomalia rappresentata dalla capitale – storicamente posizionata all’opposizione rispetto al governo centrale – per inibire la possibilità stessa della protesta, nel pieno della stagione delle (contro)riforme strutturali lanciata dal presidente Peña Nieto, il cui stampo liberista ha prodotto e produce mobilitazioni che hanno finito spesso per invadere le strade della metropoli, principale punto di visibilità delle lotte nel paese.

L’atteggiamento aggressivo e provocatorio messo in campo dalle forze dell’ordine locali durante i cortei (che quasi sempre finiscono con numerosi feriti e arresti indiscriminati); oltre che la scelta di bloccare il libero accesso delle manifestazioni a Plaza de la Constituciòn, cuore pulsante della città, trasformata nel giro di un solo anno in un recinto invalicabile per i movimenti, sono esempi concreti del radicale cambiamento nella gestione del conflitto operato dall’amministrazione di Mancera.

A questa svolta nella gestione della piazza, corrispondono le trasformazioni legislative messe in essere dal parlamento locale, come il Protocollo di Controllo delle Moltitudini, approvato in seguiro agli scontri di piazza del primo dicembre 2012, e la recente riforma del codice penale della capitale, i quali aumentano le pene per i reati legati a manifestazioni e proteste, allargando i margini legali per l’intervento repressivo da parte delle forze di polizia.

Vanno segnalate, infine, due leggi che si propongono di regolare lo svolgimento delle manifestazioni a Città del Messico, proposte da un deputato del partito di destra, il PAN (Partido Acciòn Nacional), e dallo stesso capo del governo cittadino, con l’obiettivo generale di imporre dei limiti alla possibilità di organizzare mobilitazioni nella capitale del paese. Si va dalla messa al bando dei blocchi stradali, alla proibizione di manifestare in zone specifiche della città, come il centro storico e le principali arterie cittadine, dal divieto di svolgere iniziative prima delle 11 e dopo le 18 a quello di organizzare proteste contro leggi già votate dal parlamento, per fare solo qualche esempio.

Questa situazione, con la quale si sta cercando di sancire a livello legale quanto imposto di fatto nel corso degli ultimi mesi a suon di manganellate, lacrimogeni lanciati ad altezza uomo, denunce e sentenze esemplari, non promette nulla di buono per il futuro della democrazia e della partecipazione a Città del Messico e nel resto del paese, poiché rischia di mettere in discussione l’esercizio di diritti fondamentali quali quello all’opinione e alla manifestazione del dissenso da parte della cittadinanza.

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Back In Town. Mexico City Smog & Streets https://www.carmillaonline.com/2013/08/15/back-in-town-mexico-city-smog-streets/ Wed, 14 Aug 2013 22:04:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8334 di Fabrizio Lorusso

Mexico2010[Un articolo reload di Carmilla del 2010 ma da rimasticare Back In Town] Messico, anno di grazia 2010. Siamo a cento anni dallo scoppio della Revolución e a 200 dall’inizio della guerra d’indipendenza vinta contro la Spagna decadente. Proprio quella Spagna che all’inizio dell’ottocento non poteva più permettersi di pensare all’America dorata e lontana e si trovava, invece, invasata, invasa e vagamente distratta dalle truppe napoleoniche dilaganti tra vigneti e mulini a vento. Insomma, c’è di che festeggiare per quest’anno. Non è che qui, in generale, manchino le occasioni, anzi, sappiamo [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Mexico2010[Un articolo reload di Carmilla del 2010 ma da rimasticare Back In Town] Messico, anno di grazia 2010. Siamo a cento anni dallo scoppio della Revolución e a 200 dall’inizio della guerra d’indipendenza vinta contro la Spagna decadente. Proprio quella Spagna che all’inizio dell’ottocento non poteva più permettersi di pensare all’America dorata e lontana e si trovava, invece, invasata, invasa e vagamente distratta dalle truppe napoleoniche dilaganti tra vigneti e mulini a vento. Insomma, c’è di che festeggiare per quest’anno. Non è che qui, in generale, manchino le occasioni, anzi, sappiamo che si segue scrupolosamente la regola della festa quotidiana di “non compleanno” per partecipare a sfide alcoliche improvvisate e ad assembramenti casalinghi incontrollabili e feroci.

Sono un sopravvissuto. Prima di tutto da me stesso, come tutti noi in fondo, anche se non lo sappiamo, e poi dalle strade, dalle gare di velocità e dallo smog patrio messicano, un fumo bizzarro generato da vetture ancestrali e inquietanti come i peseros (bus urbani) e i camiones (famigerati tir a doppio rimorchio modello TGV, cioè lunghi come il celebre treno francese): sono mostri grigioverdi, rosso bruni e arrugginiti di noia, con le scritte “Ford Boia” e “Mercedes ya se muriò” stampate in fronte, proprio sul radiatore, alla faccia loro.

Immag0145.jpgLe interminabili avenidas di Città del Messico, affollate ogni giorno da 5-6 milioni di auto libere e pericolanti, possono arrivare ad avere anche una decina di corsie per senso di marcia e fanno sembrare l’Autostrada del Sole una mulattiera provinciale ma non solo per la larghezza cui ho accennato. La ricerca nefasta della velocità, il tasso alcolico stimato del cittadino medio e il grado di competitività neoliberista superano di gran lunga i livelli italiani e danno vita a un sistema perverso di sopravvivenza veicolare che prende spunto dal modello darwinista: la fortuna, le potenzialità del mezzo di trasporto e la bravura del conducente mettono in atto una selezione della specie in un mercato perfetto del rischio che si dispiega lungo i 60 chilometri che si possono percorrere tranquillamente, o meglio, freneticamente, da un capo all’altro della città.

Devo dire che possiedo un veicolo sufficientemente adattabile alle situazioni più disparate e anche piuttosto pulito e distinto, come da foto, ma questo non serve. Si tratta di una moto piccola e agile, una Suzuki GN125 a 5 marce che ogni giorno raccoglie pazientemente l’adrenalina dall’asfalto per spararla fuori all’occorrenza, quando le sorelle maggiori marca Ducati e le jeep scintillanti dei fighetti chilangos (così sono chiamati gli abitanti della capitale) la fanno arrabbiare con le loro pretese di superiorità e con l’arrivismo yankee colato giù dal Rio Bravo.

Immag0206.jpgDelirio da inalazione tossica ripetuta? Sindrome da motociclista frustrato e frustato dal colpo della strega? Senza dubbio, ma anche un po’ di verità. Provare per credere. I tassisti e i choferes, veri e propri piloti professionisti dei minibus, tutti ex formula uno, sanno benissimo di cosa sto parlando, poveri incompresi. Siccome molti autobus sono di proprietà dei conducenti stessi o vengono a questi affittati da un magnaccio, ecco che si scatena una gara mortale per acchiappare più clienti possibile alle fermate ufficiali, pochissime a dir la verità, e all’angolo di qualunque strada ove pascolino persone in attesa.
C’è chi litiga con loro — parlo soprattutto dei tassinari a bordo dei vecchi maggioloni, cioè “gli irriducibili” — tutti i giorni e giustamente gli sputa dentro al finestrino e scappa via. Forse son maleducati tutti e due, ma non possiamo giudicare dall’esterno. “¡Por eso estamos como estamos!” (Per questo stiamo come stiamo!) è solita sentenziare la voce della saggezza popolare e del passante attento a questi casi d’inciviltà.

Comunque stiamo parlando di categorie soggette a stress cronico e al rischio di finire con una ruota in un tombino scoperchiato o in un buco apocalittico di 5 metri per 2 (e uno di profondità, un bel pozzo di petrolio abitato da scarafaggioni espressivi). Se così accade, perdono i guadagni del mese e le blatte sotterranee gli bucano la marmitta in cerca di monossido di carbonio allo stato solido.

Vale la stessa regola anche per i poliziotti che, in caso di sinistro, devono rimborsare di tasca loro i danni alle vetture in dotazione. Perciò le suddette categorie di utenti della strada possono arrivare a difendere le loro verità con le mani nude e incazzate e, all’occorrenza, con una chiave inglese Made in China, alzando ancor di più il livello adrenalinico e testosteronico nell’aria del vituperato Distretto Federale (D.F., noto anche come “Di-Fettoso”).

E’ anche per questo motivo che si respirano smog e tensione nonostante viviamo circondati da belle e invincibili montagne a 2400 metri sul livello del mare e quasi sempre splende il sole “dell’eterna primavera” messicana.
Alla fine, ad ogni modo, dopo i pestaggi da strada e le liti violente, paiono vincere la pace e la patria, basta una bandiera messicana esposta in bella vista a rasserenare gli animi in questi mesi di giubilo istituzionale e sentimentale. E poi non importa se si blocca il traffico e si sospende il gettonatissimo “servizio pubblico di trasporto collettivo” per comprare un po’ di frutta fresca e invitante (vedi foto del mega autobus fermo in seconda fila).

Immag0213.jpgLe oasi di calore umano e gentilezza nella selva cementifera della capitale sono le stazioni di servizio della compagnia petrolifera statale, la Pemex o Petròleos de Mèxico, in cui la broda puzzolente costa appena mezzo euro al litro e funziona. Pericolose macchie d’olio sparpagliate in agguato all’entrata di tutti i benzinai sono la regola e puniscono con uno scivolone anche i più sobri, esperti e devoti centauri.

La Pemex è tra le più grandi imprese al mondo ed è il simbolo della nazione e della sovranità messicana però è ormai sull’orlo del fallimento a causa dell’endemica mancanza di fatturato e di utili. Questi denari servirebbero a effettuare nuove e costose esplorazioni delle riserve nelle profondità oceaniche del Golfo del Messico e a regalare un futuro roseo di idrocarburi freschi alle prossime generazioni, ma forse anche no.
I soldi vengono invece prelevati di default ogni anno dal governo con la legge finanziaria che li destina ai capitoli di spesa più interessanti e creativi come gli interessi sul debito pubblico e l’armamento dell’esercito impegnato nella “guerra al narcotraffico”. Non si spendono solo così, evidentemente. Esistono ancora un’austera politica sociale, una timida istruzione pubblica, la ricerca scientifica e una sanità universale al 50%, ma direi che si sta seguendo anche qui l’esempio del “nuovo miracolo italiano” in tutti questi settori vitali: stringere la cinghia, studiare da soli un po’ d’inglese e d’informatica e infine curarsi con rimedi caserecci, anche questi Made in China.

Imagen088.jpgCome ci ha dimostrato il disastro delle piattaforme per l’estrazione dei gas e dei petroli in acque statunitensi, causato dalla compagnia inglese British Petroleum l’estate scorsa, c’è poco da scherzare con le perforazioni in acque profonde e probabilmente Pemex non è in grado di realizzarle da sola, pertanto il Messico potrebbe dire addio al suo oro nero già a partire dal 2020 secondo le stime più gioiose.
Nella foto che ho scelto il patriottismo raggiunge una punta folcloristica e drammatica dato che lo scatto è dell’epoca dei mondiali di calcio sudafricani, un periodo piovoso e sornione in cui le attività del paese, e quindi anche quelle dei benzinai, si sono ridotte a zero durante le poche partite che il Messico ha potuto disputare (non che alla squadra italiana sia andata tanto meglio come sappiamo).

Saltiamo, ma sempre di fiestas patrias parliamo. A Oaxaca (e c’è anche una foto) per tutto l’anno ha funzionato un contatore gigante che segnava ore, minuti e secondi e che s’è azzerato alla mezzanotte del 15 settembre, la data fatidica del grido dell’indipendenza. Quest’anno il partito dominante di regime, quello della “prima repubblica messicana”, il PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale, famoso per la contraddizione nei termini che lo definiscono) ha perso il governo dello stato di Oaxaca per la prima volta.
Immag0167.jpgE così il repressore governatore Ulises Ruiz verrà rilevato da Gabino Cuè (eletto con una coalizione di partiti che va da destra, con il Pan, a sinistra, con il Prd) che, malgrado i suoi trascorsi nel Pri, non è ancora eccessivamente sputtanato e ci si aspetta, quindi, un cambiamento di visione e gestione della cosa pubblica in una delle regioni più povere ma splendide del paese.

Stavo affogando nel mezcal del tipo “minatore” (una bibita simile alla tequila per chi non bazzicasse la zona mesoamericana) quando tra spari e fuochi d’artificio una ventina di persone hanno accompagnato il bestiale governatore Ulisse nel suo ultimo grido ribadendo le consegne del movimento di protesta del 2006-2007, “ya cayò ya cayò, Ulises ya cayò” (Ormai è caduto, già è caduto, Ulisse ormai è caduto). E’ vero ma, purtroppo, è riuscito a cadere in piedi e con la fedina pulita nonostante le numerose condanne per violazione dei diritti umani ricevute da corti e organizzazioni internazionali.
La domanda (quasi) finale è: che senso ha una manifestazione o un atto pubblico in cui partecipano più poliziotti e funzionari del governo che cittadini comuni? Il pomeriggio e la sera del 15 sono stati una sequela di atti siffatti.

Immag0163.jpgPer finire con un tema più idilliaco, ricordo che in questo giro ho riappreso che l’orgoglio degli abitanti di Oaxaca riguarda anche il loro prodotto tipico distillato, il mezcal, al punto che tutti sostengono che la ben più nota tequila è semplicemente una sottocategoria di questo. Infatti l’agave azzurra, la pianta da cui si ricava la tequila, è un tipo particolare di maguey (o anche agave che è il suo nome scientifico) che, invece, dà origine e vita al favoloso mezcal, che è tale sempre e comunque e non importa che tipo di maguey si voglia utilizzare per ottenerlo (LINK culturale). Il verme sul fondo è solo un optional gradito e temuto. Ma l’importante è brindare e sopravvivere alla follia. Fino alla prossima vittoria. Sempre?

Continua…

Mi permetto di consigliare la lettura di Back In Town. Bovisa City Milano, post estivo che ha in qualche modo ispirato e preceduto degnamente questo primo sfogo autunnale su Città del Messico. Ed è sempre periferia…

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