cinema horror – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 16 Aug 2025 20:13:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Visum et repertum 5 https://www.carmillaonline.com/2025/08/16/visum-et-repertum-5/ Sat, 16 Aug 2025 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89407 di Franco Pezzini

Cinque età per Dracula

In altra sede si osservava come a dettare periodizzazioni nell’immaginario del (neo)gotico, più che la letteratura siano stati gli schermi, e in particolare il tema-Dracula: riproposto tanto ossessivamente da assurgere a buon misuratore di un’evoluzione dell’immaginario, con cicli grosso modo trentennali, cioè con un arco che corrisponde più o meno a una generazione. Guardiamoci indietro e prendiamo in esame in termini panoramici questa evoluzione. L’età che dalle origini del cinema corre fino al 1930 – quella cioè del Drakula halála (1921), e del Nosferatu di Murnau (1922) – è in questo senso per [...]]]> di Franco Pezzini

Cinque età per Dracula

In altra sede si osservava come a dettare periodizzazioni nell’immaginario del (neo)gotico, più che la letteratura siano stati gli schermi, e in particolare il tema-Dracula: riproposto tanto ossessivamente da assurgere a buon misuratore di un’evoluzione dell’immaginario, con cicli grosso modo trentennali, cioè con un arco che corrisponde più o meno a una generazione. Guardiamoci indietro e prendiamo in esame in termini panoramici questa evoluzione.
L’età che dalle origini del cinema corre fino al 1930 – quella cioè del Drakula halála (1921), e del Nosferatu di Murnau (1922) – è in questo senso per forza di cose ancora poco strutturata: il cinema si sta organizzando, ma si è ben lungi dall’immaginare un target per i film del fantastico come poi troveremo. Per quanto nell’ambito dell’espressionismo tedesco si sviluppi infatti la prima “fabbrica dei mostri” – a preludere alle successive Universal e Hammer – il pubblico va a vedere Nosferatu e la settimana dopo una commedia rosa: e questa situazione si riproporrà all’inizio anche in America, dove a partire dagli anni Trenta le grandi platee iniziano ad accedere in modo organizzato alla celebrazione dei riti gotici su schermo.
Da allora si dipana approssimativamente una situazione di questo genere:

anni Trenta (dal 1931, Dracula di Browning, “età di Lugosi”): crescita del gotico;
– anni Quaranta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Cinquanta: contrazione/eclissi;
anni Sessanta (dal 1957, The Curse of Frankenstein di Fisher, “età di Lee”): nuova crescita del gotico;
– anni Settanta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Ottanta: contrazione/eclissi;
anni Novanta (dal 1992, Bram Stoker’s Dracula di Coppola, “età neogotica”): nuova crescita del gotico;
– anni Zero: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Dieci (dallo spegnersi del boom dei vampiri attorno al 2012): contrazione/eclissi.

Una serie di studi si sono attestati qui. Ma nel frattempo è accaduto dell’altro. Da un lato l’impatto, ma non la vera rivoluzione recata al tema-Dracula dalle serie televisive: né la pur brillantissima Penny Dreadful (2014-16), che pure ridisegna in modo originale il profilo del vampiro, né l’attesissima e senz’altro interessante serie Dracula BBC/Netflix di Mark Gatiss e Steven Moffat (2020) si sono imposte su un immaginario diffuso fino a costituire dei punti di riferimento per il tema-Dracula. Persino l’effettiva uscita di un film per tanto tempo favoleggiato quasi da appartenere unicamente ai sogni dei cultori, The Last Voyage of Demeter (Demeter – Il risveglio di Dracula, 2023) di André Øvredal, e alla fine rivelatosi una pellicola di tutto decoro, non ha cambiato le cose in termini di impatto sull’immaginario collettivo.
Tempo addietro (25 maggio 2017), si scriveva su questo sito:

Possiamo aspettarci una nuova fase “up” (indicativamente) negli anni Venti? Difficile dire se il trend trentennale troverà ulteriori conferme, e difficile anche immaginare i connotati di una rinnovata crescita del gotico – che per esempio dovrà fare i conti con l’effetto-Legione dei fantasmi dell’era di internet, indefinitamente frantumati in sciami di grumi psichici come già adesso nei romanzi di [Danilo] Arona. I nuovi dottori potranno fronteggiare sempre più frequentemente simili emergenze, con un piede in Matrix e l’altro in The Exorcist: ma di più al momento è difficile dire.

Oggi è probabilmente possibile confermare. In grazia di due eventi che sembrano aver recato elementi di novità. Nel primo caso una novità forzata, cioè la vicenda pandemica (2020-23) che per un certo numero di motivi ha proiettato all’orizzonte dei nostri pensieri fantasie di vampiri e zombie. Nel secondo caso, il successo persino inatteso del Nosferatu di Robert Eggers, 2024: inatteso a fronte di una storia non particolarmente originale benché gestita in modo brillante, ma tale da far moltiplicare tanto epidemicamente e compulsivamente le voci a commento (infiniti i post sui social, innumerevoli i video su YouTube) da costringere a chiedersi se non desse forma ad altro. Cioè probabilmente una crisi epocale fatta di covid, guerre, brutture politiche, sgomitare di sozzi tycoon e presa d’atto delle depressioni di un mondo: e insieme il nosferatu è riconosciuto come un grande incubo, un agglutinato di grumi psichici, un’ombra junghiana da esorcizzare e morirci.
Con ciò non si vuol affermare che questa nuova stagione sia l’“età di Skarsgård” come altre erano state l’età di Lugosi e di Lee: si tratta di epoche del cinema completamente diverse, e del resto la precedente non è stata l’“età di Oldman”, a dispetto della bravura dell’interprete del Conte (che da un lato non ne è stato mai assorbito, dall’altro non ha dettato all’immaginario collettivo una maschera tanto connotante come i due illustri predecessori – anche, va detto, per una certa distanza dal modello letterario). Del resto gli entusiasmi neogotici di quegli anni – chiusi dallo sbrilluccicare dei vampiri in salsa romanticismo sexy, con accento ora sul sostantivo, ora sull’aggettivo – sono ormai lontani, siamo in una fase successiva: anche di storia del mondo, ci ricorda il cinema di Dracula, che in qualche modo è un’ottima cartina al tornasole di crisi e desideri confessati e inconfessabili di singole epoche. Piuttosto, memori dei connotati del nosferatu di Eggers, potremmo chiamare la nuova età avviata come “età degli incubi”: e forse, a prescindere dal cinema, con qualche buon motivo.
L’annunciato arrivo di un altro Dracula, di Besson – c’era davvero bisogno di riproporlo in chiave di A Love Tale? andiamo… – e un fiorire di apocrifi come Dracula: Rise of the Vampire di Dean Meadows (di prossima apparizione), The Reincarnation of Dracula di Nicholas Malden (2024) o Abraham’s Boys: A Dracula Story di Natasha Kermani (2025), la minaccia stessa di un Dracula Untold 2 (fortunatamente non confermato, il primo deludeva terribilmente anche per il clamoroso miscasting che penalizzava un bravo interprete come Luke Evans) allo stato attuale non dicono molto di più d’un prevedibile interesse da parte del pubblico. Potremmo arrivare a ipotizzare uno sviluppo del genere per questa nuova età cinematografica?

anni Venti (dal 2024, Nosferatu di Eggers, “età degli incubi”): nuova crescita del gotico;
– anni Trenta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Quaranta: contrazione/eclissi.

Difficile dire: a differenza del Conte, che tra paletti e coltelli nel cuore, bagni fatali di sole, affogamenti nel fossato gelato del castello e altre amenità continua a emergere come un passato che non passa – dicendo così tanto del mondo in cui viviamo – noi siamo confitti nel tempo. Dunque, augurando a noi stessi lunga vita, saranno forse i nostri figli a confermare o meno la bontà del prospetto. Mentre per ora, benvenuti nell’età degli incubi.

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The Monkey, Oz Perkins e la Nemesi edipica https://www.carmillaonline.com/2025/03/29/the-monkey-oz-perkins-e-la-nemesi-edipica/ Sat, 29 Mar 2025 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87707 di Chiara de Stefano

Dopo il successo dello scorso anno di Longlegs, Oz Perkins torna con The Monkey: una commedia horror eccentrica, esagerata e grottesca uscita nelle sale italiane lo scorso venti marzo. Si tratta di un adattamento cinematografico di un racconto di Stephen King contenuto nella raccolta Scheletri (Sperling & Kupfer, 1989) che narra la storia di due gemelli Hal e Bill (Theo James, The White Lotus) e di una vecchia scimmia giocattolo lasciata in eredità dal loro defunto padre. A prima vista, la scimmia meccanica con il suo tamburello sembra innocua, ma presto la loro curiosità si trasforma in [...]]]> di Chiara de Stefano

Dopo il successo dello scorso anno di Longlegs, Oz Perkins torna con The Monkey: una commedia horror eccentrica, esagerata e grottesca uscita nelle sale italiane lo scorso venti marzo. Si tratta di un adattamento cinematografico di un racconto di Stephen King contenuto nella raccolta Scheletri (Sperling & Kupfer, 1989) che narra la storia di due gemelli Hal e Bill (Theo James, The White Lotus) e di una vecchia scimmia giocattolo lasciata in eredità dal loro defunto padre. A prima vista, la scimmia meccanica con il suo tamburello sembra innocua, ma presto la loro curiosità si trasforma in orrore: ogni volta che azionano il giocattolo, qualcuno intorno a loro muore. In preda al panico, cercano di sbarazzarsene, ma anni dopo riappare pronta a rovinare le loro vite e a falciarne altrettante, perché la scimmia – diabolico memento mori – non si distrugge mai​. È l’eco di un passato che non muore, un doppio oscuro del padre scomparso che torna a reclamare la propria colpa sui figli. La maledizione di una tragedia antica, una Nemesi edipica che passa di generazione in generazione, riflettendosi nelle cicatrici di una famiglia spezzata: tópos ricorrente in molte altre opere kinghiane. Essa è l’oggetto che si rivela vivo in uno spazio ritualedirebbe Carlo Severi nel suo saggio L’oggetto-persona (Einaudi, 2018) – perché non è solo un feticcio animato, ma un simulacro con una volontà autonoma. Difatti, non solo uccide, ma sceglie anche chi uccidere. Il suo criterio, divino e arbitrario, fa di essa la caricatura grottesca di Dio. Un essere che non punisce secondo giustizia, ma secondo un capriccio insondabile, un sollazzo fatale. La scimmia è dunque un’entità cosmica, un motore dell’entropia​, un giocattolo maledetto che non insegue, non minaccia, ma semplicemente sceglie. E quando sceglie, la morte è già in atto. A differenza di altri oggetti maledetti del cinema (come il video di The Ring o la bambola assassina in Annabelle), la scimmia non agisce con una logica umana: è un oracolo distorto, un’entità con un’intelligenza arcana, un demiurgo della morte.

Se c’è una costante nel cinema di Perkins, appartenente al cosiddetto elevated horror, è che l’orrore si muove in sottrazione: si insinua, sibila e poi colpisce, paziente, con violenza beffarda e inquietante. Ma The Monkey è anche un’anomalia nella sua filmografia, con la sua pellicola polverosa al neon. Il precedente Longlegs (2024), il cui color grading freddo per gli esterni e caldo per gli interni, costruiva infatti un’atmosfera di terrore ipnotico e rarefatto, qui invece il male si veste di grottesco, di ironico. C’è una consapevolezza quasi camp, in cui il decesso è coreografia, una danza macabra orchestrata con eleganza dal fato stesso​. E proprio per questo The Monkey richiama il modello di Final Destination (James Wong, 2000) e per simbolo intertestuale I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe. L’orrore non è la scimmia che uccide con smisurata violenza, ma il fatto che non possiamo sfuggire alla sua imperscrutabile decisione​. Perkins gioca con le aspettative, facendo oscillare il film tra il puro splatter quasi comico e il sottile terrore psicologico. Le morti sono coreografate come in Evil Dead 2 (Sam Raimi, 1987) assurde fino al ridicolo. Ma dietro la risata c’è una verità inevitabile: la scimmia ci osserva, prima o poi suonerà il suo tamburo di morte​ anche per noi. A meno che non stiamo già girando la sua manovella.

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Visum et repertum 1 https://www.carmillaonline.com/2025/02/01/visum-et-repertum-1/ Sat, 01 Feb 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86624 di Franco Pezzini

Ellen H. – Una storia d’amore 

ELLEN You cannot love.

ORLOK I cannot. Yet, I cannot be sated without you.

L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi [...]]]> di Franco Pezzini

Ellen H. – Una storia d’amore 

ELLEN
You cannot love.

ORLOK
I cannot. Yet, I cannot be sated without you.

L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi per esempio attacca a muzzo il capolavoro di Herzog) esse pure in genere fotografano aspetti interessanti e meritevoli almeno di riflessione.

Il problema maggiore può emergere a fronte del continuo ritorno – in sé sensato e anzi inevitabile – della comparazione con i precedenti omonimi di Murnau e di Herzog e con il Dracula di Coppola (ma vorrei citare anche Shadow of the Vampire di E. Elias Merhige, 2000, film trattato spesso malissimo dalla critica). Sensato e inevitabile, perché si tratta di riferimenti lucidamente considerati da Eggers. Il problema sta però nel comparare senza distinguo un eccellente prodotto di genere (di un elegante specialista dell’horror) come questo, con opere d’arte – due nate con l’occhio al mainstream, la terza come scampagnata d’occasione (per molti critici il Dracula non fa parte della produzione “seria” di Coppola) – di registi che nel resto della produzione si sono occupati di tutt’altro. E i cui nomi tanto eminenti hanno attratto sulle loro letture vampiresche monumenta di riflessioni critiche sofisticate, una lunghissima storia interpretativa e una pluridecennale mitopoiesi nell’ambito dell’immaginario collettivo. Chiaro che il paragone resti inevitabilmente sbilanciato, e la sensazione di tedio lamentata da alcuni spettatori anche eccellenti al film di Eggers fa i conti con la scommessa, rischiosa in partenza ma legata a istanze personalissime (e dunque da difendersi), di riprendere una trama più o meno arcinota.

Il tentativo di parlare del film consisterà a questo punto nel cercare di evitare per quanto possibile il già detto, e provare (sulla base delle letture a monte ricche e varie di Eggers) a individuare altri percorsi: non alternativi, beninteso, ma di arricchimento del quadro d’analisi.

L’anno della storia è il 1838: un anno liminare, prescelto già da Murnau ed Herzog, che guarda insieme al primo ottocento delle visioni tedesche di Hoffmann (1776-1822) e di Caspar David Friedrich (1774-1840) ma già idealmente all’età vittoriana (è quello di incoronazione della regina Vittoria). Fin dall’inizio ci rendiamo conto che la povera Ellen (Lily-Rose Depp) è un elemento di alterità e disturbo nella Wisburg (Wisborg in Murnau) città degli affari: i suoi incubi, gli tsunami sciamanici della sua interiorità, il suo bisogno di cura – forse più che di cure –, emergeranno come potenziale ostacolo alla carriera del giovane marito Thomas Hutter (Nicholas Hoult) e come elemento perturbante a casa degli amici Harding. Ellen è troppo sensibile e spezzata per la borsa d’interessi di una città commerciale che punta alla roba, alla reificazione economicistica e all’efficacia sociale (persino più che il profilo del faustiano Knock di Simon McBurney, emblematico è qui quello di Friedrich Harding, amico di Thomas interpretato da Aaron Taylor-Johnson): una città che sembra richiamare la Corinto descritta da John Keats in Lamia (1819, pubbl. 1820), altro dramma vampiresco di inquietudini femminili e violenze interpretative. Impacchettare Ellen con tutte le brutalità di certe cure ottocentesche all’isteria è insomma una risposta che va oltre le soluzioni della medicina d’epoca, guarda all’urgenza di contenere la scomodità dell’outsider e insomma di “risolvere” pragmaticamente un problema. Al punto che la morte di Ellen verrà accolta sì con strazio ma insieme con rassegnazione persino dall’innamorato giovane marito: non è lui ad aver “ceduto” la compagna al Conte, come lei a un tratto gli rinfaccia – la firma di Thomas sull’atto in una lingua che non comprende è frutto di un inganno del vampiro – ma il giovane appare travolto dagli incubi di Ellen, che nessuno riesce a supportare/sopportare.

I nomi dicono qualcosa: se in Herzog l’eroina verrà chiamata Lucy (la vittima del romanzo, per l’inversione già nota a teatro con la versione teatrale Balderston e poi nel Dracula 1931 e seguiti, che vede in pratica invertire i ruoli di Mina e Lucy) la conservazione del nome Ellen di Murnau – tranne che nella versione della pellicola che le cambia nome in Nina – richiama il nome dell’eroina mitica che pone in pericolo l’intera città commerciale Wisburg/Troia per amore. Del resto in Eggers la venuta del mostro è causata non tanto da Thomas con il tema del fatale ritratto di lei, ma dalla stessa Ellen in grazia di un antico patto con un’entità umbratile del proprio profondo.

 

Come to me. Come to me: A guardian angel, a spirit of comfort – spirit of any celestial sphere – anything – hear my call.

 

In questa versione, persino più che nelle altre, il patto/contratto mostra tutta la sua diffusiva fatalità. Ciò in fondo spinge tutti i personaggi ad accettare con un relativo sollievo il sacrificio di Hellen: non solo Hutter e il medico Wilhelm Sievers (un bravissimo Ralph Ineson) ma persino il paracelsiano professor Albin Eberhart Von Franz (Willem Dafoe, già non-morto in Shadow of the Vampire) che pure ripudia i trattamenti coercitivi della medicina della città e con la ragazza solidarizza – non foss’altro per il fatto di essere un altro outsider. Come commenta, ascoltando le intenzioni di lei,

 

In heathen times you might have been a great priestess of Isis. Yet, in this
strange and modern world your purpose is of greater worth.

 

In un’epoca antica sarebbe stata una magnifica sacerdotessa di Iside, la dea che rimette insieme i pezzi dell’assassinato Osiride. A sua volta Ellen dovrà fare i conti con i pezzi di un altro frequentatore d’oltretomba dal corpo devastato, il putrescente Orlok…

Nei commenti web si è enfatizzata la dimensione erotica e sessuale nel film, molto più esplicita che in Murnau ed Herzog, come se il sesso fosse una chiave banalizzante o un tributo modaiolo: ma il tema va correttamente impostato. Per Ellen, Orlok non è soltanto un erogatore di sesso vivace, una risposta fallica freudiana: fin dall’inizio la ragazza troppo sola ha evocato qualcuno (come Laura in Le Fanu fa con Carmilla) che rispondesse al suo bisogno d’amore e di identità sessuale, al suo desiderio molto più intenso, selvaggio ed estatico di quanto il perbenino Hutter, privo di ombre ma forse anche di passione, riesca da solo a garantire. Non a caso, in un momento in cui presenta stigmi di possessione, Ellen gli rinfaccia “Non potresti mai soddisfarmi come ha fatto lui”.

È questo che Orlok ha fiutato, una specie di grido interiore di chi non vuole reprimere o nascondere i propri desideri sessuali di definizione identitaria e legati a bisogni profondi, nonostante le istanze di vergogna e di punizione di un certo contesto sociale: Eggers ha bene in mente la critica letteraria anni Ottanta sulle eroine create da autori maschi vittoriani che vengono punite e uccise per questo, ma insieme – possiamo oggi aggiungere – arrivano nella loro oscurità a comprendere profondità sconosciute. Perché quel che Ellen cerca non è banalmente sesso, ma amore realizzante, esistenzialmente ricco e pieno fino a scuotere il corpo: peccato che a fronte di Thomas che offre solo tenerezza – e lei dovrà estorcergli una performance di maggiore vivacità, per essere anche solo vagamente competitivo con quelle dell’incursore sovrannaturale – il vampiro, che si definisce “un appetito. Nulla di più” mostrerà voracità sessuale e pretese manipolatorie da incel nei confronti di Ellen (“incantatrice […] Tu sei la mia afflizione”) ma ovviamente non l’amore di cui ha bisogno lei. Che deciderà in proprio del suo corpo, fuori dal controllo di marito e medico curante (e con la solidarietà dell’illuminato Von Franz): si lascerà violare da Orlok e ne morirà, con qualche soddisfazione fisica e riuscendo a salvare la città – sia pure senza aver ottenuto ciò che nel profondo cercava, cioè semplicemente amore. Insomma una storia d’eros frustrato, senza neppure la tragedia romantica di Mina che nel film di Coppola è almeno vedova cosciente di un amore speciale da un’altra vita. A Ellen neanche ciò è concesso, e qui sta forse la sua vera tragedia – e il fallimento di una società virile di affari & predazione.

D’altronde quello che Eggers presenta non è il vampiro della letteratura romantica a cui Coppola guarda, ma è molto più simile ai suoi fratelli folklorici (che per inciso, come qui, mordono il petto e mirano al respiro-vita): una figura sfuggente, che apre da un lato all’incubus violentatore, dall’altro al demone possessore. Per dire, come le isteriche di Charcot e della Salpêtrière, ma anche come le possedute di secoli d’esorcismi, eccola inarcare il corpo, roteare gli occhi all’indietro, contorcersi e assumere pose impossibili… e non perché infettata da un fantomatico morbo vampiresco, ma per la reazione esplosiva tra un bisogno personale profondo e uno stalking feroce che tenta, preme e ossessiona. Il regista racconta di essersi voluto smarcare dai tropi filmici sul tema, cercando nelle fonti e meravigliandosi di trovare vampiri che “Non stanno nemmeno bevendo sangue, stanno solo strangolando le persone, o soffocando le persone, o fottendole a morte” (Antonia Blyth, Nosferatu: Writer-Director Robert Eggers, Lily-Rose Depp, Nicholas Hoult & Cast Reveal Their Vampire Dream, “Deadline”, 2 dicembre 2024).

 

I do not believe. I know. I have seen things in this world that would have made Isaac Newton crawl back into his mother’s womb. We have not become so much enlightened as we have been blinded by the gaseous light of science. I have wrestled with the Devil as Jacob wrestled the angel in Peniel and I tell you, if we are to tame darkness,we must first face that it exists. Meine Herren, we are here encountering the un-dead plague carrier… the Vampyr… Nosferatu!

 

Non siamo qui nelle dotte speculazioni del professor Van Helsing di Stoker, che coordina, riordina e armonizza intere biblioteche di creature vampiresche di ogni tempo e luogo in un canone sul vampiro poi ulteriormente irrigidito dalle produzioni pop: e il dotto Von Franz, più simile in questo al ben più inefficace Bulwer di Murnau, deve ammettere di sapere ben poco sulla creatura piombata in città. Una creatura che flirta con le oscurità dell’inconscio, dove i confini valgono quel che valgono: ed Ellen ha lanciato una chiamata in quell’abisso senza sapere cosa ne sarebbe emerso.

Certo, il volto di Orlok non è quello da Urlo di Munch delle prima versione (1893 – l’anno in cui potrebbe ambientarsi il Dracula di Stoker), e richiama piuttosto Vlad III l’Impalatore; mentre accantonata la polverosa redingote stile Biedermeier impostagli da Murnau, il vampiro appare qui vestito dalla costumista Linda Muir con richiami all’abbigliamento dell’esercito transilvano 1560-1650. Interessante è poi la dimensione linguistica del film, dove il conte parla una forma ricostruita della lingua dacia, in mezzo a conterranei che si esprimono (in modo corretto, e senza sbavature americane) in rumeno e romanì. Ma la definizione della creatura resta a lungo sfuggente, e solo nel raggelante finale il corpo cereo prende definizione.

Il vampiro si collega comunque qui alla tradizione dei Solomonari, gli stregoni cavalcadraghi della Solomonărie o Şolomanţă, la “scuola di Salomone” in Transilvania germanizzata da Stoker in Scolomanza (Scholomance): come viene sintetizzato dalle monache che soccorrono Thomas fuggito dal castello,

 

A black enchanter he [Orlok] was in life. Şolomanari. The Devil preserved his soul that his corpse may walk again in blaspheme.

 

E anche il suo castello conosce le sbavature e le incertezze dei sogni.

Qualcosa merita di dire sul professore svizzero Albin Eberhart Von Franz, metafisico e studioso dell’occulto: dove il primo nome richiama Albin Grau (1884-1971), produttore, scenografo e progettista di produzione del film di Murnau, nonché occultista e membro della Fraternitas Saturni, mentre il cognome richiama quello della brillante psicoterapeuta Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva di Jung studiosa di strutture archetipiche del mito, della fiaba e di testi alchemici. In merito trovo su FB un commento interessante di una spettatrice intelligente, Apollonie Sabatier, che pur avendo amato molto questo film ravvisa un limite. Con il suo permesso, riproduco uno stralcio della sua riflessione (scritta ovviamente con il linguaggio dei social, non era un saggio – si può condividere o meno nello specifico, ma resta una provocazione acuta su cui meditare).

 

A distanza di due settimane ho identificato con soggettiva certezza ciò che non mi è piaciuto del Nosferatu di Eggers. La cosa che ho sempre adorato del genere horror e del racconto gotico è la presenza di simboli capaci di parlare di cose scomode per la mente umana. […] Non a caso il personaggio di Von Franz (cognome di una delle più grandi allieve e collaboratrici di Jung), a mio parere, è palesemente Jung. Lo psicoanalista che svela i significati. Il film riprende letteralmente sue citazioni, come: “Io non credo, io so”. Il ruolo del personaggio è quello di spiegare agli spaventati borghesi cosa sia il male e la passione, come interpretarli e sconfiggerli. Da fan di Jung avrei potuto esserne felice. Invece il personaggio mi ha convinto poco. Mi è sembrato che il suo ruolo fosse quello di rendere noto un simbolo il cui potere catartico richiede proprio che sia lo spettatore a scoprire la dinamica dentro il suo inconscio. Questa è per me materia da saggista, non da narratore. Mi sento sempre idiota quando uno sceneggiatore mi spiega le cose, e a me non piace essere trattata da idiota. Tra una figata e l’altra in questo film mi sono spesso ritrovata a pensare: “ma perché me lo dici?”.

Eggers, lascia che il perbenista borghese dentro di noi venga divorato dal vampiro della Transilvania, non toglierci da quella ambiguità che dovremmo risolverci da soli.

 

Qualcosa che beninteso non inficia la valutazione su un’alta qualità della prova – del resto sottolineata da Sabatier nel prosieguo della riflessione – e sulla forza anche visiva e l’estrema godibilità del film. Con buona pace di critici troppo severi, un’opera di questo tipo evidenzia tutta la ricchezza e le fertili potenzialità del retelling – un narrare vampiro che ci accompagna in fondo fin dai racconti nelle grotte della preistoria.

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Antropocene, Orrore e Postumano. https://www.carmillaonline.com/2023/09/13/antropocene-orrore-e-postumano/ Tue, 12 Sep 2023 22:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78731 di Walter Catalano

Fabio Malagnini, Antropocene Horror. Mostri, virus e mutazioni. Il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica, Odoya, pp. 320, euro 22,00 stampa.

Un libro utile e pieno di informazioni quello che Fabio Malagnini ha appena pubblicato per Odoya: non soltanto di cinema e sul cinema, ma testo che usa il cinema per parlare, con competenza e profondità, di molte altre cose: della realtà che abbiamo intorno, di un mondo che sempre più ci si rivela alieno. Per questo le categorie dell’horror e del weird sono le più indicate a [...]]]> di Walter Catalano

Fabio Malagnini, Antropocene Horror. Mostri, virus e mutazioni. Il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica, Odoya, pp. 320, euro 22,00 stampa.

Un libro utile e pieno di informazioni quello che Fabio Malagnini ha appena pubblicato per Odoya: non soltanto di cinema e sul cinema, ma testo che usa il cinema per parlare, con competenza e profondità, di molte altre cose: della realtà che abbiamo intorno, di un mondo che sempre più ci si rivela alieno. Per questo le categorie dell’horror e del weird sono le più indicate a cartografarlo. Se leggiamo con attenzione le note in fondo al volume, possiamo constatare quanto vasta e approfondita sia la bibliografia e la messe di riferimenti cui Malagnini ha attinto per definire i contorni del suo percorso. La nozione di Antropocene – l’attuale epoca geologica in cui le attività dell’Homo sapiens hanno drasticamente modificato la struttura, il territorio, il clima del Sistema Terra, terremotando l’Olocene, la cronozona interglaciale, successiva alla Glaciazione Würm, iniziata convenzionalmente 11.700 anni fa, cioè dall’era Mesolitica per quanto riguarda noi sapiens – accostata a quella di horror, rivela una biogeografia perturbante in cui gli ecosistemi per come li conosciamo, o crediamo di conoscerli, e il tradizionale (prospetticamente già difettoso in sé) rapporto uomo-natura, sono ormai sconvolti, alterati, terrificati: il risultato di questi cambiamenti catastrofici non può essere necessariamente (e darwinianamente) che l’estinzione del genere umano o il suo adattamento alle nuove condizioni attraverso la mutazione (e quindi l’avvento del transumano e del postumano).

Malagnini individua una serie di tematiche e di sottogeneri cardinali ad esprimere questa visione decisamente non consolatoria e ogni capitolo ne traccia una singola linea interpretativa sulla base della dettagliata filmografia specifica che viene ricondotta poi al problema complessivo attraverso una parallela disamina di testi critici, saggi scientifici, analisi filosofiche e materiali ben articolati di molteplice provenienza. Dopo aver delineato una mappa generale dell’immaginario dell’Antropocene, i nuclei narrativi principali, gli “incubi ricorrenti”, che ne compongono le traiettorie di speculazione perturbante vengono ordinati in una precisa tassonomia.

Si parte dall’Apocalisse zombie, sottogenere pandemico quanto mai longevo e multistratificato che promana dagli anni ’60 con i Living Dead di Romero, e ancora prima con The Last Man on Earth di Ragona/Salkow, iniziale trasposizione dal romanzo seminale di Richard Matheson, I am a Legend, per arrivare fino ad oggi in un florilegio di titoli: dai videogame divenuti serie, come Resident Evil o The Last of Us, alle trasposizione dai fumetti come The Walking Dead, alle versioni comico-demenziali come Zombieland di Fleischer o The Dead Don’t Die di Jarmush, a quelle survivaliste come It Comes at Night di Shults o sovrannaturaliste come The Harbinger di Mitton, e così via. Come scrive Malagnini è un cinema dello stress pre-traumatico, in cui “Un futuro disfunzionale […] retroagisce sul nostro presente e […] porta a ripensare il rapporto incrinato istituito con l’ambiente e le altre specie”.

Si prosegue con il folk-horror, che, partendo da The Wicker Man di Robin Hardy, traccia una evidente continuità – mascherata da contrapposizione – tra riti e folklore rurale da una parte e realtà capitalistica della modernità industriale: il sacrificio umano rituale celebra la fiducia nello “sviluppo sostenibile”, nell’economia green, illusoria via di mitigazione della catastrofe ecologica, mito dell’eterno ritorno di un Neolitico “accelerazionista” e paleocapitalista, rivisto in film come Midsommar di Aster, The Ritual di Bruckner o, in termini più sociologistici, Eden Lake di Watkins, o ancora nelle varianti delle “famiglie maledette” come in Moloch di van den Brink, dei “culti suicidi” come in The Sacrament di Ti West, o della metaforizzazione della lotta di classe come in Kill List di Wheatley.

Ad un passo troviamo il gotico cannibale, in cui il ritorno alla natura è visto, nella dialettica con l’identità urbana-civilizzata, come revivalismo di impulsi belluini, i capostipiti sono ovviamente Deliverance di Boorman e Southern Comfort di Hill, da lì l’epopea di Wrong Turn e di Wolf Creek, per slittare poi nel contiguo slasher, da Non aprite quella porta di Hooper ad Halloween di Carpenter, e alla subumanizzazione antropofaga di Le colline hanno gli occhi di Craven o di The Descent di Marshall, declinata in chiave pop come in La casa dei 100 corpi di Rob Zombie, fantapolitica come in Frontieres di Xavier Gens, femminista-gourmet-altoborghese come in Fresh di Mimi Cave, rozza come in Raw di Ducournau o sentimental-melenso-romanticheggiante-young adult come in Bones and All di Guadagnino.

Un altro nutrito gruppo di film significativi è quello dell’animal horror, che si dipana da Gli uccelli di Hitchcock, riferendosi a classici letterari come l’omonimo romanzo di Daphne Du Maurier o il racconto lungo The Terror di Arthur Machen, per rappresentare la rivolta di una fauna impazzita che mette in scacco l’umanità. Ora le rane – Frogs di McCowan – i ragni – Kingdom of the Spiders di Cardos, Aracnofobia di Marshall, e decine di altri, anche in dimensioni giganti come in Tarantula! di Jack Arnold – le formiche – giganti, Them! di Gordon Douglas e no, Phase IV di Saul Bass – le api – The Swarm di Irwin Allen – i topi – Willard di Daniel Mann – squali, cetacei e pesci – da Jaws di Spielberg, all’epopea demenziale di Sharknado o a quella più seria di Deep Blue Sea, da L’orca assassina di Michael Anderson, a Piranha di Joe Dante – orsi – Grizzly di Girdler – cinghiali – Razorback di Mulcahy – serpenti – Anaconda di Luis Llosa – cani rabbiosi – Cujo di Teague – coccodrilli – Rogue di McLean, Black Water di Traucki, Alligator di Teague, ecc. – pipistrelli – Bats di Morneau – e perfino pecore – Black Sheep di Jonathan King – si avvicendano a decostruire nell’inconoscibilità dell’”altro” alternativamente la nostra identificazione antropocentrica e/o biocentrica. La specie animale in realtà più letale per gli uomini – Malagnini ce lo mostra in una tabella – non ha ancora avuto un riconoscimento cinematografico: è la zanzara. Ovviamente al secondo posto ci sono gli uomini stessi.

Dopo gli animali le piante, il plant horror ha una lunga tradizione: la natura vegetale, vivente ma inerte e passiva, priva di movimento e riflessione – concezione ormai superata, radicalmente smentita dalle più recenti ricerche biologiche – è da tempo diventata protagonista delle inquietudini del nostro subconscio materializzate dal cinema. Siano queste incarnate da specie aliene, trifidi e ultracorpi, come nei classici dell’invasione negli anni ’50 – La cosa da un altro mondo, L’invasione degli ultracorpi, L’invasione dei mostri verdi – riprese dai classici della fantascienza di John W. Campbell, Jack Finney e John Wyndham, e dall’infinità dei loro celeberrimi sequel, o evocate in eco-horror in cui le piante terrestri per qualche ragione mutano e reagiscono violentemente all’aggressione umana, come in E venne il giorno di Shyamalan, Nell’erba alta di Natali, The Hallow di Corin Hardy, il percorso ci conduce nei pressi di una fiction climatica derivata dal disaster movie che vede nel global warming la radice del cataclisma incombente. Un climatic horror in cui lo scioglimento dei ghiacci e dell’ancestrale permafrost scatena incubi lovecraftiani come in The Thaw di Lewis, Blood Glacier di Kren, Harbinger Down di Guiles, The Last Winter di Fessenden. Un “soprannaturale” lovecraftiano quindi perchè nasce dal rifiuto del pregiudizio antropocentrico e scatena forze ctonie a contrastare l’espansione predatoria che i sapiens travestono da umanismo. Così in The Feast di Lee Haven Jones, dove un’entità folklorica si incarna per preparare un catering mortale contro la famiglia di avidi speculatori che vorrebbe usurpare i diritti minerari su una zona rurale del Galles, così per le entità fossili nate dal petrolio ispirate al Cyclonopedia di Negarestani, o le entità fungine quasi uscite da un libro del micologo Merlin Sheldrake, come in Unearth di Lyons e Swies, In the Earth di Wheatley e Gaia di Bouwer.

Un passo ulteriore è quello nell’uncanny valley, la “valle perturbante”, termine coniato dal ricercatore in robotica Masahiro Mori per definire lo spiazzamento cognitivo in cui l’identificazione passa bruscamente dall’empatia alla repulsione quando siamo messi di fronte ad una imitazione realistica ma non abbastanza convincente delle sembianze umane. Tutta la filmografia delle “bambole assassine”, l’eredità dell’Olympia di Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann, da The Devil Doll di Tod Browning a Megan di Gerard Johnstone, appartiene all’uncanny valley. Questa dissonanza di fronte ad un familiare alieno, un heimlich unheimlich, si può applicare però anche ad un paesaggio, uno scenario ordinario stravolto dalla riemersione di un “inconscio collettivo” e dallo scatenamento degli archetipi in esso celati: per esempio i villaggi sommersi sotto le acque di una diga in Dal profondo delle tenebre di Brian Yuzna o La casa in fondo al lago di Maury e Bustillo. Il ritorno del rimosso che percorre Fog di Carpenter o i Candyman di Bernard Rose e di Nia Da Costa, o la distorsione prospettica lovecraftiana di Colour Out of Space di Richard Stanley o de Il seme della follia di Carpenter e quella di Annientamento di Alex Garland, tratto dal primo volume della trilogia di Jeff Vandermeer. Un paesaggio perturbante in cui il mostro è il panorama stesso, l’ambiente, in genere la wilderness, come in Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir o The Blair Witch Project di Eduardo Sánchez e Daniel Myrick, dove la strega non appare mai (o solo di sfuggita come nel sequel Blair Witch). Anche l’espediente del mockumentary e del found footage, materiale filmato che appare vero e si dichiara tale, divenuto moda dopo il successo di Blair Witch ma che risale a molti anni prima, al Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, procede dallo stesso meccanismo visivo, in questo caso apertamente dichiarato dall’onnipresenza esplicita della macchina da presa. Così per una numerosa serie di film, dal Diary of the Dead di Romero al ciclo molteplice di Paranormal Activity, o a quello assai più sperimentale di V/H/S di Brad Miska e David Bruckner.

Il capitolo finale riguarda il postumano e il sottogenere che lo introduce, il body horror. A questo gruppo appartengono anche quei film in cui relazioni parentali e conflitti generazionali vengono risolti impossessandosi di corpi e volontà, in genere un vampirismo dei più anziani verso i più giovani, come in The Visit di Shyamalan, The Dark and the Wicked di Bertino, Relic di James, e in qualche caso dei figli verso i genitori come in Goodnight Mommy e nel successivo The Lodge di Franz e Fiala o Hatching di Hanna Bergholm: così famiglie modello, fisicamente, vanno in frantumi come in Speak no Evil di Christian Tafdrup, Noi di Jordan Peele o Sinister di Scott Derrickson. Il body horror canonico resta però quello di David Cronenberg, in tutta la sua filmografia culminata nella surgery art di Crimes of the Future e del figlio Brandon Cronenberg con Antivirus e Infinity Pool: il rapporto tortuoso fra tecnologia e modificazioni corporee in un deflagrare di perversioni feticistiche che derivano tutte, in modo più o meno esplicito, dal Crash di James Ballard. In parallelo le degenerazioni lovecraftiane di Re-Animator e From Beyond di Stuart Gordon o Society di Brian Yuzna, e gli imbestiamenti delle numerose isole del Dottor Moreau, della licantropia da L’ululato di Joe Dante in poi, o degli scambi genetici de L’esperimento del Dottor K di Hedison fino al remake di Cronenberg, il tutto riproposto in versione anestetizzata e scompaginata nel recente e stralunato Lamb dell’islandese Johannsson.

A conclusione del suo percorso Malagnini pone tre film come baluardi annunzianti, ognuno in modo diverso, l’anelito inquietante e imperioso verso l’avvento del postumano: Jacob’s Wife di Travis Stevens, Non sarai sola di Goran Stolevski e Titane di Julia Ducournau. Come conclude l’autore: “prototipi e sperimentazioni di un immaginario in formazione, ibridazioni che alludono a una diversa, ‘mostruosa’ allenza che riguarda oggi umani e non umani […] non modelli politicamente corretti, metafore d’affezione attraverso cui possiamo già percepire una parte di noi stessi”.

 

 

 

 

 

 

 

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