cinema d’animazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Sep 2025 22:01:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “…Tre cose belle ha il mondo”: Love, Death & Robots. https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/tre-cose-belle-ha-il-mondo-love-death-robots/ Fri, 18 Jun 2021 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66778 di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad [...]]]> di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad – ebbe, mai dimenticato quasi due decenni dopo, un meno riuscito e meno fortunato seguito, Heavy Metal 2000 – almeno la colonna sonora restava notevole comprendendo Voivod, Pantera, Bauhaus e affini – che però aveva offuscato l’immagine ancora vivida del predecessore, lasciando un po’ d’amaro in bocca  ai fan e molta voglia di un remake degno.

L’idea solleticava da anni la fertile mente di David Fincher, regista di video di gruppi appropriati come Aerosmith e Nine Inch Nails, passato poi al cinema con il terzo episodio della saga di Alien e il fortunato noir Seven, consacrato nel 1999 da Fight Club, adattamento dell’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, e confermato autore interessante soprattutto da film personali e provocatori come Zodiac (2007), ispirato alla vera storia del Killer dello Zodiaco, e  L’amore bugiardo – Gone Girl (2014), dal best-seller di Gillian Flynn. A lui si era poi affiancato Tim Miller, regista e sceneggiatore proveniente da un cinema più leggero e disimpegnato come quello dei Marvel Comics con Deadpool (2016) o della saga di Terminator, con l’ultimo episodio Dark Fate (2019). Il progetto, supervisionato da un’esperta di animazione, la Jennifer Yuh Nelson di Kung Fu Panda 2 e 3, e prodotto e distribuito da Netflix, si è trasformato nel 2019 nell’ottima serie, già giunta al momento attuale alla seconda stagione, che prende il titolo di Love, Death & Robots.

Il piccolo miracolo di cui si diceva all’inizio consiste nell’aver saputo – come già fu per l’illustre antecedente – coniugare perizia tecnica, innovazione visuale e consistenza tematica in un percorso grafico attraverso numerosi classici della short-story fantascientifica, spazianti dall’avventuroso-action al riflessivo-sociologico, dallo splatter all’erotico. La serie sa cogliere perfettamente quella dimensione del testo breve e brevissimo che è una piacevole consuetudine della migliore tradizione fantastica, in cui il racconto – esauribile in una singola seduta di lettura – emerge, da Poe in poi, assai maggiormente del romanzo, come espressione più tipica e meglio realizzata del weird&eerie, del sense of wonder, della sospensione dell’incredulità necessaria perché il meccanismo fantastico e speculativo funzioni davvero. L’efficacia di questa formula è confermata da altre recenti e riuscitissime serie antologiche di film a episodi tenute insieme da una coerenza di carattere tematico, come Black Mirror, letterario come Philip K. Dick’s Electric Dreams, o atmosferico-scenografico come Tales from the Loop.

Gli episodi di Love, Death & Robots, dalla durata variabile compresa fra un minimo di sei minuti e un massimo di una ventina, spaziano oltre che attraverso le diverse declinazioni tematiche della fantascienza, anche attraverso tutte le possibilità dell’immaginario visuale dei comics e dei cartoni animati. Dal disegno caricaturale e umoristico, a quello astratto e stilizzato, fino al realistico e all’iperrealistico del live-action, derivato dal full motion video tipico di molti videogiochi, che utilizza foto di attori reali per trasformarle in disegni in movimento. I risultati sono piacevolmente variegati ed efficaci.

I diciotto cortometraggi della prima stagione più gli altri otto della seconda attingono ai testi dei più significativi autori, classici e recenti, della fantascienza angloamericana. Fanno decisamente la parte del leone con numerose short-stories i più prolifici e famosi John Scalzi e Joe R. Lansdale, ma si piazzano bene anche i britannici Alastair Reynolds, autore di Hard SF e di Space opera, e il sodale, anche lui britannico e space operistico, Peter F. Hamilton, il sino-americano Ken Liu, l’ex cyberpunk statunitense Michael Swanwick, l’italo-americano premio Locus e Nebula Paolo Bacigalupi. Si segnalano storie che spaziano dall’umoristico-elegiaco (Three Robots), al surreal-demenziale (When the Yogurt Took Over), al cyberpunk (The Witness), alla parabola femminista più o meno scontata (Sonnie’s Edge o Good Hunting), all’ucronia (Alternate Histories o The Secret War), all’horror erotico (Beyond the Aquila Rift), al dark-fairy-tale natalizio (All Through the House), al SF noir in stile Blade Runner (Pop Squad).

Fra i classici non si staglia particolarmente Harlan Ellison con Life Hutch, racconto del 1956 – come spesso Ellison, piuttosto sadico e iperviolento – su un prevedibile malfunzionamento robotico all’interno di una cabina di salvataggio che crea grossi problemi ad un naufrago aereospaziale su un pianeta alieno. Il problema più che nella storia in sé sta nella realizzazione grafica piuttosto piatta e priva di suspense del regista Alex Beaty. Un vero capolavoro invece l’altro classico, The Drowned Giant, l’episodio in assoluto migliore della serie, diretto dallo stesso Tim Miller e tratto da un assiomatico racconto di uno dei più grandi autori postmoderni che abbiano onorato la fantascienza: James G. Ballard, scrittore spesso, ma non in questo caso, ampiamente sacrificato o edulcorato nella larga maggioranza delle trasposizioni cinematografiche dalle sue opere. Pare che Miller abbia perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard riuscendo finalmente ad ottenere da loro l’autorizzazione all’adattamento del famoso racconto: non se ne saranno certo pentite.

A differenza dei lungometraggi tratti dai suoi principali romanzi, nessuno dei quali rigorosamente fedele allo spirito ballardiano – vuoi il troppo patinato Crash di David Cronenberg (1996), vuoi l’irresoluto High Rise, La rivolta di Ben Wheatley (2015), vuoi il caotico The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss (2000), vuoi, anche al di fuori della fantascienza, il caramellato L’impero del sole (Empire of the sun) di Steven Spielberg (1987) – la trasposizione animata del racconto breve scritto nel 1964 cattura senza infingimenti l’immaginario drastico del Bardo di Shepperton e lo riporta correttamente alle sue radici simboliste e surrealiste con un gusto figurativo, un ritmo letargico e un’atmosfera rarefatta davvero rari.

Tim Miller ha già confermato l’avvio di una terza stagione che vedrà anche il ritorno del trio di simpatici robot apparsi al debutto della serie (Three Robots: l’eredità di Robbie de Il pianeta proibito o della coppia R2-D2 e C3PO dello Star Wars originale sembra infinita…) e che, riprendendo la struttura molto più coesa della seconda stagione rispetto alla prima, sarà ancora composta da otto puntate. Su questo punto la critica non è concorde: chi sostiene che la prima stagione era più innovativa e varia per stile e argomenti e considera la seconda un passo indietro verso un maggiore conformismo visivo e tematico, chi al contrario la accusa di dispersività e di eccessiva disparità fra episodi efficaci e mediocri e preferisce la seconda stagione più sintetica, organica e compatta. In realtà, considerando lo show nel suo complesso, si può affermare con obbiettività che il livello medio di entrambe le stagioni è, come si è già detto, più che soddisfacente e la risonanza acquisita da Love, Death & Robots, con tanto di logo stilizzato divenuto iconico tra i fan, sembrerebbe suffragarlo..

L’unico appunto possibile, almeno rispetto alla gloriosa tradizione da cui la serie deriva, riguarda la colonna sonora che tradisce quasi totalmente quell’Heavy Metal da cui avrebbe dovuto originarsi, attestandosi invece su una neutralità estremamente spuria ed eterogenea (country-blues, elettronica, disco, perfino l’immancabile Walkiria di Wagner, lo Star Spangled Banner e la Kalinka del Coro dell’Armata Rossa): un soundtrack di puro commento intradiegetico quindi, o al massimo di sottofondo atmosferico privo di particolari connotazioni. Questo si che è davvero un passo indietro, almeno per chi, come me, appartiene alla vecchia generazione, assuefatta ad associare l’overdrive delle chitarre distorte con quello dei motori delle astronavi…

 

 

 

 

 

 

 

 

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La natura crossmediale degli eroi contemporanei https://www.carmillaonline.com/2019/02/24/la-natura-crossmediale-degli-eroi-contemporanei/ Sat, 23 Feb 2019 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51291 di Gioacchino Toni

Giorgio E.S. Ghisolfi, Superman & Co. Codici del cinema e del fumetto, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018, pp. 242 , € 18,00

Nonostante il rapporto che lega cinema e fumetto sia da tempo dibattuto tra gli studiosi, scarseggiano analisi comparative sui codici che li caratterizzano ed il recente volume Superman & Co. Codici del cinema e del fumetto, del regista e docente di sociologia della comunicazione e di discipline attinenti al cinema e all’audiovisivo Giorgio E.S. Ghisolfi, rappresenta un importante contributo volto ad arginare tale lacuna.

Scrive Ghisolfi che, pur trattandosi [...]]]> di Gioacchino Toni

Giorgio E.S. Ghisolfi, Superman & Co. Codici del cinema e del fumetto, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018, pp. 242 , € 18,00

Nonostante il rapporto che lega cinema e fumetto sia da tempo dibattuto tra gli studiosi, scarseggiano analisi comparative sui codici che li caratterizzano ed il recente volume Superman & Co. Codici del cinema e del fumetto, del regista e docente di sociologia della comunicazione e di discipline attinenti al cinema e all’audiovisivo Giorgio E.S. Ghisolfi, rappresenta un importante contributo volto ad arginare tale lacuna.

Scrive Ghisolfi che, pur trattandosi di personaggi rispecchianti epoche differenti, Mickey Mouse e Superman rappresentano due perfetti esempi di ciò che oggi viene definito “prodotto transmediale”. Mickey Mouse fa la sua comparsa nel novembre 1928 in un film in bianco e nero animato sonoro e nel giro di un paio d’anni approda sotto forma di strip sui quotidiani americani. Superman appare la prima volta nel giugno del 1938 sulle pagine a colori dell’albo Action Comics e dopo solo due anni lo si ritrova in alcuni cortometraggi animati al cinema. L’occasione dei novant’anni dalla nascita del primo e degli ottanta da quella del secondo, pare pertanto propizia per una più estesa riflessione sulla “natura crossmediale” di diversi eroi della mitologia contemporanea.

«Nell’epoca della crossmedialità, della convergenza dei media e dello storytelling transmediale, il legame tra questi due luoghi dell’immaginario [cinema e fumetto] sembra cosa naturale. La storia insegna che moltissimi sono i fumetti tratti dai film, e altrettanti sono i film tratti dai fumetti. La loro interazione come i loro percorsi individuali segnano in maniera indelebile la società e la cultura contemporanee» (p. 12).

Visto che l’attuale convergenza dei media sembra presagire un superamento delle distinzioni tra i codici dei diversi dispositivi in direzione di un “codice integrato assoluto”, si potrebbe immaginare un superamento della nozione stessa di codice ma, sottolinea Ghisolfi, per il momento ciò non si è dato ed è da tale punto fermo che si sviluppa questo studio comparativo sull’identità di ciascun medium realizzato con gli strumenti della critica e della semiotica al fine di esaminare i meccanismi di costruzione e di decifrazione cogliendo anche la portata della loro interazione in termini sociologici.

In ambito semiologico, sino ad ora, gli studi sono risultati settoriali: o è stato indagato il cinema o il fumetto ed al “medium-punte”, costituito dal cinema d’animazione, sono state riservate scarse attenzioni.

Nel volgere di poco tempo il cinema è stato in grado di creare un immaginario capace di rivaleggiare con quelli millenari della letteratura e del teatro e, dopo aver attinto, ai suoi esordi, da questi, ben presto è riuscito a dotarsi di un linguaggio specifico.

Sebbene, a differenza del cinema, il fumetto nasca in totale autonomia, già negli anni Dieci questo inizia a intrecciarsi con la settima arte dando vita ai “disegni animanti” per poi farsi contaminare, negli anni Trenta, dal genere avventuroso ben presente nel cinema e nella letteratura. «Sono anche gli anni in cui il fumetto fa sua la grammatica cinematografica dei campi e dei piani, beneficiando di codici già accettati socialmente, e deriva l’uso della sceneggiatura: un fenomeno che coincide con gli anni del fulgore del cinema americano e dello star system hollywoodiano» (p. 16).

Pur trattandosi di media dalla storia relativamente breve, cinema e fumetto sono pur sempre «sistemi di segni, sistemi semiotici organizzati che, anzi, proprio dalla scrittura derivano in buona parte l’efficacia dei loro codici narrativi e di fruizione» (p. 17)

La linearità narrativa del cinema e del fumetto, nel corso della loro pur breve storia, ha conosciuto momenti di messa in discussione che hanno condotto alle attuali modalità di racconto che, in diversi casi, non sottostanno alla tradizionale linearità del discorso. «Se negli anni Sessanta e Settanta il fumetto underground e quello d’autore hanno rotto le regole della tradizione e portato alla nascita e al consolidamento di un genere a tutt’oggi florido – connotato da una creatività e un’espressività estremamente soggettive e libere, portate sino allo sviluppo di una “poetica dell’io” nel graphic novel –, nel cinema la contemporanea ventata della Nouvelle vague e della Neue Welle, metabolizzata in una decina d’anni dall’industria internazionale, ha rinfrescato, ma solo in parte ridefinito, l’ortodossia del linguaggio» (p. 18).

Per quanto riguarda il cinema, un altro momento di svolta importante si ha attorno alla metà degli anni Novanta; in questo caso la rottura è determinata soprattutto dall’innovazione tecnologica digitale che, oltre a rivoluzionare il processo produttivo, ha inciso sull’estetica e modificato le modalità di fruizione, pur senza ridefinire radicalmente i codici della comunicazione cinematografica.
Se è pur vero che la trasformazione digitale ha toccato anche il fumetto, gli effetti più evidenti della svolta digitale hanno toccato soprattutto l’animazione e il videogame. Il fumetto in sé, per certi versi, ha salvaguardato maggiormente la sua identità restando ancorato a una tecnica fatta di strumenti semplici.

Nel corso della trattazione Ghisolfi mostra come gli studi semiotici di tipo strutturalista, condotti nel corso degli ultimi decenni del Novecento, abbiano evidenziato la natura non linguistica di cinema e fumetto. «Tuttavia la mancanza di strumenti di indagine più appropriati ha fatto sì che la semiotica di derivazione linguistica, insieme alla narratologia e alle teorie dell’enunciazione e del punto di vista, sia stata e venga ancora impiegata per decifrare la natura dei due media» (p. 217). Se da questo punto di vista si può dire che il cinema è stato indagato a fondo, non altrettanto è avvenuto per il fumetto. Spesso sono stati posti sullo stesso piano vignetta e inquadratura intendendole “unità minime significative” dotate di analoghe funzioni ai fini sintattici tralasciando le importanti differenze che emergono, invece, da una osservazione condotta sul piano semantico e narratologico.

Gran parte degli studi semiotici si sono dedicati all’analisi della componente visiva del cinema, trascurando il legame con quella sonora: per quanto riguarda il cinema basti pensare a come l’individuazione della sua unità elementare nell’inquadratura e nel fotogramma tralasci colpevolmente la funzione della colonna sonora. Le difficoltà di individuare un’unità elementare di valore semiotico nella colonna sonora abbinabile all’inquadratura o al fotogramma ha portato ad una definizione del cinema come di un “medium plurisemiotico”.

Lo studio di Ghisolfi mette in luce come fumetto, cinema ed animazione palesino codici specifici di progettazione, espressione, comunicazione e fruizione. «Rispetto al cinema, per esempio, il fumetto garantisce all’artista una maggiore soggettività espressiva e al lettore il possesso rassicurante di un oggetto amico. L’animazione procura al pubblico una dimensione che è altra rispetto ai primi due» (p. 218). Anche il pubblico a cui si rivolgono è solo in parte coincidente.

Una parte della trattazione è riservata a quella dimensione del fumetto definita motion comic. «Dai primi tentativi, sostanzialmente definibili come cartoni animati ben disegnati ma poco animati, si è giunti oggi a un’estetica che combina in maniera efficace ottimi disegni bidimensionali con spazi tridimensionali, con animazioni e pop-up, scelta dell’angolo di visuale, vignette mobili, e che perciò offre un’interazione creativa nuova e diversa da quella del videogioco, qualificando il motion comic come un medium nuovo, ibrido tra fumetto, animazione e game, che richiederà ulteriori studi» (p. 219)

D’altra parte, anche il cinema e il fumetto sono nati ibridi. «Un’interpretazione che appare oggi chiara: alla seconda rivoluzione industriale […] tocca la responsabilità di aver creato il crogiolo nel quale, a fine Ottocento, molti elementi culturali già presenti, e tuttavia dispersi, sono giunti a coagulazione, assumendo, nell’ambito di un’ibridazione tecnologica, un’univocità di direzione e di impiego dalla quale è scaturita una forza mass-mediale travolgente. Se l’industria del cinema è un ex novo che va a soddisfare esigenze di intrattenimento, non altrettanto si può dire del fumetto, che nasce come strumento di marketing per l’industria dell’informazione a stampa. Abbiamo così media polisemiotici, che non possono trovare una definizione identitaria singolare, bensì plurale» (p. 219).

Cinema, animazione e fumetto, pur avendo in comune il ricorso al codice visivo come codice dominante, restano tre linguaggi differenti che non ricorrono alle medesime modalità narrative. Certo, sottolinea lo studioso, «trattandosi di mass-media, è pertinenza di ciascuno poter trattare gli stessi temi. Ma questo, se può essere un indice di sovrapponibilità, come accade anche tra radio e tv, non è un indice di identità» (p. 219).

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