cinema contro – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sovranismi allo specchio https://www.carmillaonline.com/2019/05/31/sovranismi-allo-specchio/ Thu, 30 May 2019 22:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52723 di Walter Catalano

Dikotomiko, Lo specchio nero: I sovranismi sullo schermo dal 2001 a oggi, Dots Edizioni, 2019, pp. 195, €. 15,00.

 

Sotto lo pseudonimo di Dikotomiko si cela un duo di autori – Mirco Moretti e Massimiliano Martiradonna – che, oltre a condurre da tempo sul web un omonimo cineblog senza peli sulla lingua, collabora – in tandem o singolarmente – a numerose riviste di settore fra cui spicca in particolare la benemerita Nocturno. La coppia di critici, com’è puntualizzato sulle pagine del blog, persegue una strada “antagonista” per [...]]]> di Walter Catalano

Dikotomiko, Lo specchio nero: I sovranismi sullo schermo dal 2001 a oggi, Dots Edizioni, 2019, pp. 195, €. 15,00.

 

Sotto lo pseudonimo di Dikotomiko si cela un duo di autori – Mirco Moretti e Massimiliano Martiradonna – che, oltre a condurre da tempo sul web un omonimo cineblog senza peli sulla lingua, collabora – in tandem o singolarmente – a numerose riviste di settore fra cui spicca in particolare la benemerita Nocturno. La coppia di critici, com’è puntualizzato sulle pagine del blog, persegue una strada “antagonista” per stile e contenuti: “le posizioni culturali e critiche espresse dal blog non sono proprio di massa, a partire dai film scelti, fino al linguaggio accurato e spietato: lo stile è una scelta politica, sebbene non meramente ideologica o partitica”. Il programma delineato viene ripreso e, se possibile, potenziato anche nell’agile ma denso volumetto pubblicato da Dots Edizioni nell’aprile del 2019: Lo specchio nero: I sovranismi sullo schermo dal 2001 a oggi, in cui Dikotomiko perlustra con entomologica precisione la rappresentazione che del “fascismo del 2000”, il mezzo audiovisivo ha fornito nel panorama mediatico italiano e internazionale. Il termine utilizzato nel sottotitolo del libro è perciò “sovranismo”, perché non è tanto il fascismo storico a interessare ai due studiosi, quanto la sua riproposizione contemporanea, sordida e ipocritamente camuffata, e la descrizione che il cinema, narrativo e documentario, ha saputo darne nell’attualità a scopo di denuncia e di smascheramento.

L’anno scelto per iniziare questa ricognizione è il 2001. L’anno del G8, della “macelleria messicana” della Diaz e di Bolzaneto, l’anno in cui – come Dikotomiko spiega nell’incisiva premessa biografico-generazionale – il fervore no-global delle bandiere arcobaleno, dei “buoni maestri” Naomi Klein, Noam Chomsky, Vandana Shiva, Ignacio Taibo II, del subcomandante Marcos e delle canzoni di Manu Chao, dei film di Kusturica e di Kitano, inizia a segnare il passo, ad involversi e stravolgersi, in una tortuosa e malevola eterogenesi dei fini, ingabbiando la retorica contro i “poteri forti”, la “finanza mondiale”, e il “turbocapitalismo”, nelle formule vuote che la neolingua orwelliana delle nuove destre, liberiste o populiste che siano, saprà riciclare e invertire di segno. L’anno dell’attentato alle Torri Gemelle e della sua diffusione mediatica virale – ben più paradigmatica di quanto il filmato Zapruder dell’assassinio di JFK a Dallas fosse mai stato per le generazioni precedenti – che inaugura l’epoca delle guerre “giuste” e degli “stati canaglia”. “Vecchi fanatismi, nuovi linguaggi, nuove platee da sedurre, e nuovi strumenti per diffondere menzogne, perché il nuovo millennio è l’era dei social network, dei passaparola virali e incontrollabili” – una deriva inarrestabile, secondo Dikotomiko, che ci porta in un progressivo svuotamento di linguaggi e simboli, al 22/07/2011, data del massacro di Utoya, vicino Oslo, quando il neonazista Breivik, travestito da poliziotto, stermina 69 ragazzini ad un congresso del movimento giovanile del partito laburista norvegese: l’odio di un fanatico contro la società multietnica trova consensi e giustificazioni e diventa arma di seduzione di massa. Siamo ormai nell’epoca dell’autoritarismo plebiscitario fondato sull’illusione della democrazia diretta propinata attraverso i social network e Internet. L’età di Putin e Trump, quella che, dopo la cosmesi preparatoria del ventennio berlusconiano, vedrà nell’Italia di Salvini e dei suoi leccapiedi pentastellati, che vuole abrogare il 25 aprile, chiudere i porti, silenziare le opposizioni, blandire la sbirraglia e legalizzare il libero uso delle armi da fuoco, il passaggio dal neofascismo satellitare delle tv commerciali a quello capillare dei tweet sul social.

La rappresentazione dei fascismi e degli antifascismi nella contemporaneità viene delineata individuando film – inclusi fiction, documentari e videoclip – che abbiano colto, prefigurato o seguito queste derive, nel neonazi drama – sottogenere codificato dagli autori stessi di questo libro da American History X di Tony Kaye in poi – nella sottocultura skinhead (in origine non razzista o di destra), o nel neofascismo implicito e forse inconsapevole del neocolonialismo magniloquente di un videoclip apparentemente innocente e nazionalpopolare come Chiaro di Luna di Jovanotti, girato all’Asmara in Eritrea, fra ingombranti vestigia littorie. Le schede, brevi ma penetranti, sono divise in una sezione italiana e in una internazionale e partono dal film del 2000 di Daniele Gaglianone I nostri anni, storia che ricorda un po’ il fumetto Le falangi dell’ordine nero di Enki Bilal e Pierre Christin, nella descrizione di un’ultima sfortunata azione, cinquant’anni dopo, di vecchi partigiani contro vecchi fascisti, memoria della Resistenza e resistenza della memoria contro ogni revisionismo. L’itinerario prosegue anche con qualche inclusione o ipervalutazione sulla quale dissentiamo, ad esempio non ci convince il qualunquismo nazionalpopolare e decisamente ruffiano di Paolo Virzì, orecchiante depotenziato della commedia all’italiana vecchio stile, con Caterina va in città del 2003 o il cabaret intelligente ma frammentario e figurativamente debole del Corrado Guzzanti di Fascisti su Marte del 2006, o ancora il troppo ambiguo macchiettismo del Sono tornato di Luca Miniero del 2018, che qui viene preferito all’originale tedesco Er Ist Wieder Da di David Wnendt del 2015, mettendo in scena il ritorno nel mondo attuale di un redivivo duce al posto del fuhrer del best-seller di Timur Vermes (un’ambiguità forse già avvertibile nel cambiamento di prospettiva del titolo del film italiano rispetto al tedesco: dalla terza alla prima persona). Nessun dubbio invece su Diaz: Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, opera irrisolta ma lancinante e meritoria sulle torture sbirresche del G8 di Genova o, sempre a proposito di sbirri, l’ottimo Acab: All Cops Are Bastards di Stefano Sollima del 2012, forse la raffigurazione più autentica del “celerino figlio di puttana”; o ancora i documentari Piazza Vittorio di Abel Ferrara del 2018, che giustappone la realtà multietnica della piazza nel centro del quartiere Esquilino a Roma alle dichiarazioni dei neofascisti durante la visita nella vicina sede di CasaPound; Dove bisogna stare del 2018, ancora di Daniele Gaglianone, che segue le storie di volontariato al servizio degli ultimi di quattro donne, figlie di militanti comunisti, che da Bressanone a Cosenza a Como a Bardonecchia non esitano a praticare la disobbedienza civile per aiutare profughi, clandestini e migranti; o le memorie degli eccidi coloniali perpetrati dal boia Rodolfo Graziani e rievocati nelle interviste a vari intellettuali e storici tra cui Angelo Del Boca di Inconscio italiano del 2011 di Luca Guadagnino.

Nel panorama internazionale invece spiccano Antifa: Chasseurs de skins di Marc-Aurèle Vecchione del 2008, documentario su un gruppo di giovanissimi antifascisti esperti di arti marziali che ripulirono le strade di Parigi dalle teste rasate destrorse tentando di riportare la cultura Skinhead alle sue origini punk, libertarie ed anarchiche; Un Francais di Diastème del 2015, film che racconta il percorso del protagonista da una gioventù skinhead passata ad aggredire arabi e neri fiancheggiando l’estrema destra, ad una successiva presa di coscienza, durante un arco temporale di diciannove anni, che lo allontanerà dalla violenza politica in un riscatto personale (verrà tra l’altro aggredito come “traditore” dalla sua ex compagna) contrapposto all’involuzione esattamente contraria della società che lo circonda; il classico Die Welle di Dennis Gansel del 2008, sull’esperimento sociologico di un insegnante di liceo tedesco che crea un movimento fascista in un gruppo di studio fra i suoi studenti, ma la mise-en-scène si trasforma presto in fascismo vero, il demone esce dalla bottiglia e la sperimentazione si conclude tragicamente; due documentari sull’eccidio di Utoya, il norvegese Utoya 22 juli di Erik Poppe del 2018 e lo statunitense 22 July di Paul Greengrass del 2018; il film danese Broderskab di Nicolo Donato del 2010, che approfondisce nella figura elusiva del suo protagonista la relazione, estetica più che ideologica, fra nazismo e omosessualità, una relazione annosa che risale fino alle origini del movimento, a Ernst Röhm, il capo delle SA, e ai suoi ambigui rapporti con Hitler culminati con la Notte dei lunghi coltelli del 1934; la coproduzione Russia/Regno Unito Pussy Riot: A Punk Prayer di Mike Lerner e Maxim Pozdorovkin del 2013, che ripercorre la storia del collettivo punk/femminista/radicale russo Pussy Riot e i loro atti di guerrilla performance, i più clamorosi dei quali sono stati l’orgia pubblica di quasi 20 persone, diffusa poi senza alcuna censura, organizzata al Museo biologico di Timiryazev di Mosca, contro l’elezione a presidente della Federazione russa nel 2008 di Dmitrij Anatol’evič Medvedev e la protesta “blasfema” contro la rielezione di Putin del 2012 nella Cattedrale di Cristo Salvatore: il film documenta le azioni, l’arresto, il processo e la successiva condanna delle militanti a due anni di carcere; su tutti i molti film inclusi nell’utilissima panoramica compilata da Dikotomiko spicca però soprattutto il capolavoro The Act of Killing di Joshua Oppenheimer del 2012, geniale documentario/mockumentario/found footage/candid camera girato in Indonesia fra i gangsters di Sumatra della Milizia Pancasila che durante il Putsch del 1965 perpetrarono le stragi di migliaia di comunisti cinesi: il regista contatta gli ormai anziani “patrioti” convincendoli a girare un film, apparentemente esaltativo delle loro gesta, in cui metteranno in scena i loro delitti interpretando alternativamente, oltre al loro ruolo di carnefici, anche quello delle vittime, utilizzando nella ricostruzione fittizia scenari e costumi dei loro generi cinematografici preferiti: noir, commedia musicale, romantico, ecc.; l’effetto straniante è micidiale, gli ex torturatori, ora padri e nonni, rugosi e sovrappeso, appaiono buffi, grotteschi, ridanciani buontemponi, addirittura simpatici, e contemporaneamente restano ancora spietati nel rievocare, senza il minimo pentimento ma anzi con orgoglio, le loro azioni omicide al servizio del paese: qualcosa però almeno in uno di loro si spezzerà alla fine, rivelando l’ipocrisia che ha mascherato per decenni il rimosso senso di colpa. Non è un caso che Werner Herzog entusiasta dopo la visione del film incompleto abbia voluto entrare nella produzione per permettere ad Oppenheimer di portare a termine l’opera senza eccessivi problemi di budget.

Grande merito di questo libro è, oltre all’accurata e sottile analisi sia politica che stilistica condotta, il fatto di aver dato pari visibilità e riconoscimento, accanto a film più commerciali e conosciuti, ad altri non meno interessanti ma spesso non distribuiti e passati ingiustamente sotto silenzio. Il lettore vi troverà un’indispensabile guida attraverso una filmografia tutta da scoprire e sulla quale profondamente riflettere.

 

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Violenza di classe. Il cinema contro di Aldo Lado https://www.carmillaonline.com/2019/05/14/violenza-di-classe-il-cinema-contro-di-aldo-lado/ Mon, 13 May 2019 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52361 di Paolo Lago

Etichettata per lungo tempo come “cinema di genere” e quindi vissuta ai margini della produzione cinematografica ‘d’autore’, relegata nei recinti cult e underground degli appassionati, quella di Aldo Lado è sicuramente un’opera da riscoprire e da rivestire di nuovi significati. Come, del resto, si sta cercando di fare: il n. 9 della rivista «Inland. Quaderni di cinema» è interamente dedicata all’opera del regista di Pola (ma veneziano di adozione), mentre all’ultima edizione del FIPILI Horror Festival, tenutasi a Livorno dal 24 al 28 aprile scorsi, uno [...]]]> di Paolo Lago

Etichettata per lungo tempo come “cinema di genere” e quindi vissuta ai margini della produzione cinematografica ‘d’autore’, relegata nei recinti cult e underground degli appassionati, quella di Aldo Lado è sicuramente un’opera da riscoprire e da rivestire di nuovi significati. Come, del resto, si sta cercando di fare: il n. 9 della rivista «Inland. Quaderni di cinema» è interamente dedicata all’opera del regista di Pola (ma veneziano di adozione), mentre all’ultima edizione del FIPILI Horror Festival, tenutasi a Livorno dal 24 al 28 aprile scorsi, uno fra gli ospiti di eccezione è stato proprio Aldo Lado, intervistato, con la solita verve, dal critico cinematografico Federico Frusciante.

E, proprio al festival livornese, che richiama artisti, studiosi e pubblico da tutta Italia, sono stati proiettati due film del regista: La corta notte delle bambole di vetro (1971) e L’ultimo treno della notte (1975). Al festival, inoltre, è stata messa in rilievo anche l’attività di Lado come scrittore, con la presentazione del giallo Il mastino e del libro di memorie su film mai realizzati, I film che non vedrete mai.

Come sottolinea Lado nell’intervista a Frusciante che precede la proiezione dei film, alla base di essi vi è l’idea di una sferzante denuncia della società borghese e perbenista. Il regista inizia svelando alcuni retroscena riguardo al titolo del film La corta notte delle bambole di vetro: poiché è stato girato e ambientato in parte a Praga e in parte a Zagabria, il titolo originale doveva essere Malastrana (dal quartiere praghese). Ma la produzione si è opposta dicendo che per il pubblico italiano poteva suonare troppo simile a “Malavoglia” (e il regista sottolinea la follia di questa idea). Quindi, si optò per La corta notte delle farfalle, modificato successivamente, sempre per richiesta della produzione, in La corta notte delle bambole di vetro (ma – dice Lado – non ci sono né bambole né vetro nel film). La grigia città dell’est che fa da sfondo alla vicenda appare quasi come una prigione in cui un potere oscuro e inconoscibile agisce indisturbato nell’ombra. Vittima di questo potere sono delle giovani donne che vengono catturate e immolate da una sorta di setta composta prevalentemente da anziani ‘zombificati’. Il Klub 99, infatti, è il centro di questo potere criminale, il luogo dove gli anziani esponenti dell’alta borghesia imprigionano e uccidono le loro vittime. A metà fra zombi e vampiri, i personaggi catturano persone giovani per succhiarne il sangue e le energie durante inquietanti orge. L’oscuro antagonista è quindi, in questo caso, un nemico di classe, esattamente come avverrà in Essi vivono (They Live, 1988) di John Carpenter: in questo film, tutti i capitalisti e le forze dell’ordine che opprimono la società umana sono in realtà degli alieni dalle fattezze di zombi. La caratterizzazione fisica degli anziani di Lado, cerei e imbambolati, ricorda semmai quella degli zombi della parodia vampiresca di Roman Polanski, Per favore non mordermi sul collo (The Fearless Vampire Killers, 1967) e, al cinema di Polanski, rimanda anche l’atmosfera da incubo psicologico che regna nelle strade e negli interni del film (si potrebbe pensare in particolare a Repulsion, 1965). La società del Klub 99 fa quindi riferimento ad un universo reazionario e ancien régime che si pone in contrasto con gli ideali dei giovani e della nuova contestazione che cerca inesorabilmente di reprimere (i vecchi zombi uccidono i giovani come tante farfalle alle quali è impedito di volare). Il rimando, in questo caso, è al Sessantotto italiano, osteggiato in tutti i modi dall’apparato statale e poliziesco. Alla repressione poliziesca occidentale riconduce anche la figura del commissario che cerca di osteggiare in ogni modo le indagini del protagonista, il giornalista Gregory Moore (Jean Sorel) che indaga sulla scomparsa della sua giovane fidanzata Mira (Barbara Bach). Anche il personaggio del commissario, perennemente vestito con un giubbotto di pelle nera, rimanda alla feroce repressione degli ‘zombi’ del Klub 99.

E, se è vero che siamo in una città dell’est, oltrecortina, per cui si potrebbe pensare che la repressione ordita ai danni dei giovani provenga dal regime sovietico (pensiamo alla primavera di Praga), le dichiarazioni del regista ci allontanano ben presto da questa idea. ‘Mascherata’ e nascosta nell’est Europa, questa repressione è quella di stampo consumista e capitalista che imperversa in quegli anni in Italia e nell’Europa occidentale. Si può ricordare che, fra anni Sessanta e Settanta, Lado frequenta importanti registi e intellettuali che si pongono in una netta posizione di dissenso politico nei confronti del consumismo capitalista, come Bernardo Bertolucci (del quale fu aiuto regista per Il conformista), Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini.

Se una nota stonata vi è nel film, è semmai la rappresentazione della donna: le giovani donne che vengono rapite del Klub sono puramente rappresentazioni di un corpo da vampirizzare e sfruttare. Del resto, quelle “bambole di vetro” del titolo – tra l’altro non deciso e nemmeno voluto dal regista – rimandano proprio a un’idea della donna come ‘bambola’ da vetrina. Per fortuna c’è la figura della giornalista interpretata da Ingrid Thulin che, seppure non dotata di una ben definita caratterizzazione, riscatta l’immagine della donna che ci viene offerta dalla pellicola. Ma, forse, in fin dei conti, la figura della ragazza come pura bellezza da vampirizzare e sfruttare è quella voluta dal potere, da quel consumismo spettacolare che, come una turba di zombi seminatrice di contagio, si insinua ogni dove. Ed è un’immagine, vulgata dal consumismo pubblicitario di quei primi anni Settanta, che molto probabilmente il film intende denunciare.

Dal cuore nero e borghese dell’Europa muove anche L’ultimo treno della notte: le prime inquadrature mostrano dall’alto la città di Monaco di Baviera in preda allo shopping natalizio. Come lo sguardo di un falco, la macchina da presa sorvola il centro cittadino, esibisce la quotidianità scontata della festa consumistica, rappresa nel rituale dei mercatini natalizi, perduta nei suoi inconsapevoli fasti. Ma è un mondo che genera la violenza: vediamo, infatti, due rapinatori che, proprio per mezzo della violenza, si insinuano tra la folla. La violenza efferata del film nasce da lì: dal cuore stesso del tempio del consumo e della spettacolarizzazione della merce. Inutile, perciò, adesso, parlare di esibizione gratuita della violenza o di autocompiacimento, di esaltazione dell’efferatezza, come fece molta critica dell’epoca. Come ha ribadito anche l’autore nella sua intervista al Festival, si tratta di una violenza metaforica, l’altra inquietante faccia del benessere consumistico. Come è improprio, ad esempio, parlare di violenza gratuita in un film come Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini – un film, tra l’altro, alla cui primissima sceneggiatura collaborò anche Lado assieme a Pupi Avati – in cui le violenze inflitte dai repubblichini di Salò alle proprie vittime non sono altro che la metafora della violenza della società dei consumi, così, ne L’ultimo treno della notte, l’efferatezza notturna è l’altra faccia di una società rispettabile, capitalista, fondata sul lavoro (e sullo sfruttamento). Il treno è una sorta di nuova “nave dei folli” che – come nell’omonimo romanzo di Katherine Ann Porter, in cui la nave del titolo contiene una varia umanità diretta, dall’America del Sud, verso la Germania del 1933 – conduce, da Monaco a Verona, i passeggeri (emblemi di quella società anni Settanta) nell’incubo di una notte gravida di colpe ataviche in un’Europa che adesso si vuole ‘civile’ e ‘industriale’. Una società industriale che, come in Porcile (1969) di Pasolini, appare legata da un sottile filo rosso ai crimini nazisti. Infatti, i due rapinatori, rifugiatisi proprio sul treno, incorreranno in uno scompartimento di anziani signori rispettabili i quali altro non sono che ex nazisti ‘riconvertiti’ in industriali borghesi.

Il treno è un vero e proprio mostro che attraversa una terra di vecchi e nuovi mostri, come in Cassandra Crossing (1976) di George Pan Cosmatos. All’interno di questo mostro notturno, i due giovani violenti (Flavio Bucci e Gianfranco De Grassi) appaiono quasi come vittime della società stessa, manovrati da una classe sociale più elevata e ‘rispettabile’. Essi, nel compiere le terribili violenze nei confronti delle due giovani studentesse che stanno rientrando a casa, in Italia, sono manovrati dalla misteriosa e inquietante signora borghese interpretata da Macha Méril. È lei, infatti, a spingere i due giovani criminali a compiere le peggiori torture e l’omicidio. I due giovani violenti, proletari o sottoproletari, quindi, sono vittime, metaforicamente, di una violenza più grande di loro che li spinge a essere così, che li schiaccia inesorabilmente nel loro ruolo di emarginazione e abbandono. È una violenza di classe che viene esercitata dai più ricchi nei confronti dei più poveri.

Una violenza metaforica che fa più male di quella fisica, fino all’epilogo del film. Ad attendere le ragazze, in una fredda mattina alla stazione di un paesino della provincia del Nord est italiano, vi sono i genitori alto borghesi di una delle due: il padre, un rispettabile chirurgo (Enrico Maria Salerno) e la madre (Marisa Berti). Se le due ragazze mai scenderanno da quel treno, sono proprio gli assassini (la signora e i due giovani) ad essere accolti nella elegante villa di famiglia poiché l’inquietante signora del treno si era ferita ad un ginocchio. Quasi come in una rilettura contemporanea de La fontana della vergine (Jungfrukäl lan, 1960) di Ingmar Bergman, dopo aver scoperto l’omicidio della figlia e dell’amica, il padre imbraccia il fucile uccidendo a sangue freddo i due giovani assassini. Tuttavia, l’unica a rimanere impunita, è proprio la signora borghese, la principale artefice delle peggiori violenze: la borghesia, infatti, non può rivolgersi contro se stessa, deve colpevolizzare ed eliminare sempre le classi sociali più deboli. La nonchalance e la freddezza con la quale il personaggio del padre, all’interno della sua elegante proprietà, imbraccia il fucile per uccidere ci può fare anche a pensare alla recente legge sulla legittima difesa, fortemente voluta dal ministro degli Interni. E Lado, nella sua intervista, lo sottolinea, ricordando puntualmente l’attuale provvedimento di legge: la violenza esercitata dal personaggio del film per difendere la sua proprietà e per farsi giustizia da sé, con dinamiche da far west, non deve assolutamente essere incentivata dallo Stato.

E, come sempre nota il regista, il personaggio peggiore di tutto il film è forse quello del voyeur: un individuo, presente sul treno, che assiste e partecipa alle violenze sulle due giovani, restando impunito, dileguandosi in una fermata notturna del treno. Elegante signore borghese, rispettabile padre di famiglia (in una telefonata dice infatti al figlio di avergli comprato un regalo), egli è in realtà uno fra i peggiori mostri di quel cuore nero dell’Europa, capace soltanto di fare una telefonata anonima per denunciare l’uccisione delle due ragazze.

Una cronaca dall’inferno, una violenza di classe emergente dal lato più oscuro della società occidentale, preda del consumismo e inglobata in macabri poteri economici è perciò quella che ci offre il cinema di Aldo Lado, un cinema che andrebbe sicuramente riscoperto e posto sotto nuove lenti critiche. E lo stesso regista, dietro l’immagine scanzonata (e indubbiamente simpatica, con spritz e sigaretta), che offre di sé all’ingresso del teatro, in occasione di questo interessante Festival, ci ha invitato a meditare e riflettere su una violenza di classe che, da troppo tempo ormai, sempre uguale si ripete.

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