Charlie Hebdo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Preludio ad una più ampia riflessione sulla disfatta afgana e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2021/09/15/prolegomeni-ad-una-piu-approfondita-e-meditata-riflessione-sugli-attuali-fatti-afghani/ Wed, 15 Sep 2021 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68172 di Sandro Moiso

[Quelli che vengono qui riproposti, come contributo ad una necessaria riflessione sul “caos” afgano, sono due scritti, riunificati ad hoc ma destinati originariamente ad uso interno di un ristretto numero di compagni provenienti dalla comune esperienza nell’ambito della Sinistra Comunista, prodotti a caldo, immediatamente dopo gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Quegli attentati consistettero in una serie di attacchi terroristici di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, che provocarono 192 morti e 2057 feriti. A seguito di questi il governo di Luis Rodriguez Zapatero, poi [...]]]> di Sandro Moiso

[Quelli che vengono qui riproposti, come contributo ad una necessaria riflessione sul “caos” afgano, sono due scritti, riunificati ad hoc ma destinati originariamente ad uso interno di un ristretto numero di compagni provenienti dalla comune esperienza nell’ambito della Sinistra Comunista, prodotti a caldo, immediatamente dopo gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Quegli attentati consistettero in una serie di attacchi terroristici di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, che provocarono 192 morti e 2057 feriti. A seguito di questi il governo di Luis Rodriguez Zapatero, poi insediatosi nella primavera di quello stesso anno, avrebbe decretato il ritiro delle truppe spagnole dal quadrante iracheno.
L’articolo che segue risulta dunque dall’unione dei due testi appena citati, intitolati rispettivamente “Ciò che non si può dire” e “Ancora su ciò che non può essere detto”, con alcuni necessari tagli e minime variazioni oltre all’aggiunta di due note di aggiornamento. Pur riferendosi a fatti correlati alla guerra irachena è parso utile sottoporli all’attenzione dei lettori di Carmilla, anche ad anni di distanza, per riportare l’attenzione sull’autentica trasformazione antropologica e politico-culturale intervenuta in Occidente nella percezione degli avvenimenti bellici e dei conflitti sociali successivamente all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. S.M.]

Di fronte ai fatti più recenti occorre dire l’indicibile, uscire dagli schemi, guardare alla storia futura.
Le immagini tragiche delle vittime, lavoratori e studenti, devono farci riflettere, così come quelle delle manifestazioni contro la violenza e il terrorismo, il cui significato reale potrà essere soltanto quello della difesa e del mantenimento dello status quo mondiale basato sulla supremazia dell’Occidente sul resto del mondo.

Il disordine regna oggi a Madrid e, forse, domani regnerà in Europa1.
Tutti chiedono ordine e democrazia. Indistintamente. Il solco è stato scavato. La strada senza ritorno imboccata.
Non solo, come sarebbe facile pensare, da coloro che hanno colpito le stazioni di Madrid, bensì dallo stesso proletariato europeo ed occidentale più in generale.

Il proletariato o lotta o non è diceva Marx. Oggi non solo non è, non solo spera di ricavare dalla repressione degli altri popoli un proprio miserabile vantaggio, ma è soprattutto vittima del proprio essere imbelle, della assoluta mancanza della propria coscienza di sé, dell’esser venuto meno qui, in Europa, a quelli che, forse un po’ troppo retoricamente, un tempo si ritenevano i suoi compiti storici. Per questo, come le immagini tragiche dei treni carichi di pendolari dimostrano, sarà come al solito il soggetto sociale destinato a pagare il prezzo più pesante della guerra che s’è iniziata e che non ha saputo contrastare. Pagherà di più in termini di vite umane, di crisi economica, di tagli a qualsiasi tipo di libertà d’espressione, opinione, di azione sindacale.

In compenso parteciperà incosciente e gioioso alla nuova Union Sacrée, senza contare che nel disastro infinito che ci attende sarà sempre più facile colpire un treno, un supermercato, un cinema che non la sede di una multinazionale o una base militare.
Ad ogni colpo in compenso si sentirà più offeso dai desperados della terra e più vicino ai suoi reali aguzzini. Ma tant’è, anche la plebe di Roma cadde sotto le spade dei barbari invasori ancora rimpiangendo il pane e il circo che gli venivano offerti dagli imperatori.

E da quando la nobiltà
Iniziò il servilismo ad amare
Iniziò la nobiltà
Con i servi a degenerare

Parafrasando i “Carmina Burana” si potrebbe dire che “da quando il proletariato / iniziò il capitalismo ad amare / iniziò il proletariato / con il capitale a degenerare”.
Quando si afferma, però, che il proletariato occidentale è degenerato non si intende parlare di un processo irreversibile, from here to eternity, ma solamente ed opportunamente segnalare l’enorme distanza che separa ormai una buona parte dei lavoratori salariati non solo dalle teoria rivoluzionaria, ma anche da un modello di riferimento antimperialistico ed anti-capitalistico.

Tale distanza, prevalentemente di carattere culturale più ancor che politico, è dovuta ad una miriade di fattori che sono da individuare in una serie di apparenti garanzie che il capitale sembra aver concesso ai più; alle speranze di gioia e ricchezza che questo ha saputo alimentare anche al di fuori delle promesse riformistiche; alle illusioni basate sulla proprietà privata e sulle sue magnifiche sorti e progressive, che sono state instillate in quella che dovrebbe essere la classe nemica, un tempo per antonomasia, attraverso ogni strumento e mezzo di propaganda politica e mediatica.

Certo ciò che ha funzionato di più è stato l’aver garantito ai più la panza piena e la capa coperta, apparentemente anche alle generazioni future. Che poi si sappia che le cose non stanno esattamente così, non vuol dire che sia facilmente comprensibile dalla maggioranza dei lavoratori e dei giovani occidentali. Gli ultimi trent’anni non sono passati in maniera indolore. Le idee socialdemocratiche e la propaganda del sempre pimpante (quando si tratta di cantare le proprie lodi) capitale hanno lasciato il segno.

E’ questo un fenomeno né raro né sconosciuto: basti pensare allo sciovinismo e al conservatorismo della classe operaia americana bianca nei contesto della guerra del Vietnam. Solo che ora tale fenomeno, grazie ad un trend economico che tra scosse e riprese ha tenuto fino ad oggi lo spettro della fame lontano dalle porte della maggioranza delle famiglie, coinvolge i lavoratori di tutti i paesi più ricchi (USA, Europa Occidentale, Giappone).
Tra ferie, TV, casetta di proprietà e welfare la classe s’è ulteriormente abbruttita, ma senza percepire più quella spinta che dal dramma o dalla festa può derivare: il dramma è lontano ed è festa tutti i giorni (soprattutto in TV).

Ora alcune cose stanno sicuramente cambiando, un’era di guerra e di crisi si è aperta, ma tutto ciò è percepito ancora come un pericolo che deriva dall’esterno della compagine nazionale ed istituzionale.
Non vi è comprensione per i moti degli altri popoli, se non come timore del pericolo rappresentato dalle loro migrazioni o dal loro terrorismo.
Non vi è più contestazione dei governi esistenti che non passi attraverso la prassi democratico-parlamentare o la denuncia del mal funzionamento delle istituzioni e dei governi.

La protesta è troppo spesso forcaiola, dettata da esigenze egoistiche, per di più accecata dal timore di perdere qualche privilegio o diritto, fosse pure quello di schiacciare la maggioranza dell’umanità altra pur di mantenere macchinetta, casetta, partitella, biciclettata salutista e lavoretto.
La scomparsa di un comune linguaggio di riferimento (magari anche solo vagamente classista), di prospettive anche parzialmente collettive, di idee di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, che non si basino soltanto sulla beneficenza e sulla solidarietà di stampo cattolico, e di qualsiasi riferimento alla possibilità, anche remota, di sostituire questo modo di produzione con un altro ha fatto sì che la situazione abbia subito un processo di reale imbarbarimento.

La violenza permea la vita della maggioranza delle famiglie, trasuda nei comportamenti sociali, nei rapporti tra individui e trionfa in quelli tra istituzioni e cittadini2, ma è vietato parlarne in termini politici: tutti sono diventati pacifisti e non violenti.
La sinistra democratica e quella sedicente antagonistica fanno poi a gara nel rimuovere il discorso sulla violenza, nel denunciarlo come il peggiore degli obbrobri, relegandolo tutt’al più ad un passato mitizzato, mistificato e neutralizzato (più o meno lontano: la resistenza, gli anni settanta) come un’icona da esporre durante la settimana santa.
In compenso i valori borghesi della tranquillità, della sicurezza, dell’ordine diventano autentici imperativi categorici.

Le stesse manifestazioni contro la guerra, lo stesso voto (di protesta?) spagnolo degli ultimi giorni avvengono non in difesa del diritto degli altri popoli di giungere ad una propria autodeterminazione nazionale né, tanto meno, per affermare che l’unico nemico che si ha è quello che ogni proletariato ha in casa propria, bensì piuttosto che la guerra e il disordine tocchino anche noi, ledano il nostro diritto alla vita e al benessere. Si protesta non per le sofferenze degli altri, ma soltanto per salvare i nostri ragazzi, a scuola o in divisa.

Tutto ciò pesa come un macigno non sui rivoluzionari, che di fatto non possono nemmeno accampare il diritto ad esistere, ma sulla possibilità di una ripresa classista delle lotte a carattere sindacale e/o internazionale. Non del tutto e per sempre, ma certo per un lungo periodo che solo un tracollo violento della potenza dominante potrebbe abbreviare.

Anche questo però senza reali certezze di sviluppo delle tematiche classiste nel seno del proletariato internazionale, poiché se da un lato quello occidentale si è allontanato da temi che dovrebbero essergli più cari ancora del proprio essere (Marx e Engels dicevano a proposito del proletariato inglese e della questione irlandese che un proletariato che non sa difendere i diritti degli altri popoli non sa e non può difendere neanche sé stesso) e quindi non sa più in qualunque modo appoggiare e consigliare i fratelli d’altro colore, dall’altro i proletari dei paesi oppressi, i dannati della terra, i contadini dei paesi in via di sviluppo o ancora soggiogati dall’imperialismo, non trovando sostegno e risposte nel seno delle metropoli, hanno rivolto la loro fede e le loro speranze verso altre bandiere e altre modalità organizzative.

Per questo si può dire che un proletariato (quello occidentale) che non riesce più a percepire la propria alterità rispetto al capitale è condannato a divenire vittime di sé stesso.
Di fronte ai dannati della terra i proletari occidentali non sono più altro che cittadini occidentali cui viene riconosciuto il diritto di morire come nemici tout-court.
E’ evidente l’imbarbarimento che tutto ciò provoca, la regressione politica a livello nazionale ed internazionale che ne è contemporaneamente causa e conseguenza, e non basteranno poche frasi fatte o slogan a superare questo stallo storico.

Quando tempo addietro si insisteva sulla necessità di intervenire nei movimenti post-Seattle, lo si faceva nella speranza che uno spiraglio si fosse aperto e che permettesse un minimo di propaganda antimperialista, ma Genova ha schiantato tutto: ha separato il grano dalla pula, i buoni dai cattivi. Da un lato oggi abbiamo i teorici del commercio equo e solidale o i vari forum passerella per leaderini e dall’altro una nebulosa variegata di giovani enragés che pencolano tra la galassia dei centri sociali antagonisti, spesso ancora troppo lontani tra di loro a causa di divisioni causate da frattaglie ideologiche che sarebbe bene superare, e l’iniziativa individuale votata alla disfatta. Motivo per cui non esiste più un mare comune in cui sperare di nuotare, ma soltanto una palude piuttosto inquinata e asfittica.

Un pericolo che, infine, si rischia di correre è quello di scambiare la difesa delle posizioni di rendita acquisite da alcuni settori delle classi medie come obiettivo (libertà e diritti individuali) di lotte passibili di conseguenze interessanti. Ma non è ancora giunto il momento della rovina delle mezze classi di cui si parlava in altri testi3 e così si rischierebbe soltanto di contaminare il ben poco che rimane (in termine di significato delle lotte) con richieste giustizialiste e piccolo borghesi spacciate come rivendicazioni per un ancora inesistente conflitto sociale allargato.

(Lettere ai compagni, primavera 2004)


  1. Come avrebbero confermato successivamente i due attentati di Parigi, alla redazione di Charlie Hebdo il 7 gennaio e al Bataclan il 13 novembre, del 2015 e quelli di Barcellona del 17 agosto 2017 – NdA successiva alla prima stesura dell’articolo 

  2. Si legga a tal proposito il bel libro di Michel Warschawski, A precipizio (Bollati Boringhieri, Torino 2004), nel quale l’autore, vecchio comunista internazionalista ebreo, descrive la deriva violenta della società israeliana degli ultimi decenni  

  3. Come la crisi del 2008 e quella successiva e attuale legata alle ristrutturazioni socio-economiche riconducibili alle conseguenze dell’epidemia emergenziale da Covid-19 hanno invece successivamente avviato – NdA successiva alla prima stesura del testo.  

]]> Guerrevisioni. Tendenze iconoclastiche, visioni aumentate, combat video, cinema e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2018/08/26/guerrevisioni-tendenze-iconoclastiche-visioni-aumentate-combat-video-cinema-e-videogiochi/ Sat, 25 Aug 2018 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48000 di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social [...]]]> di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social network? In che modo la modificazione quantitativa e qualitativa dei media ha mutato il nostro modo di guardare gli eventi bellici, rispetto anche solo ad alcuni decenni fa? Che cosa vediamo e che cosa non siamo più in grado di vedere delle guerre contemporanee?» (p. 9).

Il libro analizza il rapporto immagine/guerra nella contemporaneità tenendo ben presente che se quest’epoca da un lato offre inedite modalità comunicative e di produzione diffusa e decentrata delle immagini, dall’altro si caratterizza per una concentrazione monopolistica senza precedenti dei flussi di informazione sia nel web che nelle modalità più tradizionali.

Il corposo volume risulta suddiviso in tre parti: nella prima si ragiona sull’utilità delle immagini dei conflitti mondiali nella comprensione delle attuali guerre; nella seconda si indagano le modalità con cui le arti possono oggi testimoniare gli eventi bellici; nell’ultima parte si analizzano i conflitti contemporanei che si danno grazie alle immagini. Facendo riferimento proprio a ques’ultima sezione del libro intitolata Pensare le guerre con gli occhi (e con le loro protesi), in questo scritto ci soffermeremo sui contributi di Mauro Carbone e Ruggero Eugeni che si occupano rispettivamente della paradossale piega iconoclasta che sembra attraversare una contemporaneità che si vuole votata al visivo come non mai, il primo, e delle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna, il secondo.

Mauro Carbone, nel suo “L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica?”, torna, dopo essersene occupato nel libro Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri, 2007), a riflettere su come le immagini televisive dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, in particolare quelle relative alle persone lanciatesi nel vuoto per sfuggire alle fiamme, dopo essersi impresse nella memoria collettiva a livello planetario grazie ai media, siano immediatamente divenute oggetto di una vera e propria strategia di rimozione. Ad essere in gioco, sostiene lo studioso, sono la memoria e l’oblio collettivi di un evento che ha aperto il nuovo millennio nonché inaugurato quella che W.J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La casa Usher, 2012) ha definito l’attuale “guerra delle immagini”.

Alle immagini è spettato un ruolo fondamentale nella percezione collettiva della tragedia dell’11 settembre: non fosse stato per esse, quella delle Twin Towers sarebbe stata una tragedia simile a tate altre e ciò, sostiene Carbone, dovrebbe «aiutarci a considerare sino in fondo l’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno» (p. 305). Secondo l’autore il sistema mediatico si è preoccupato di an-estetizzare il trauma dell’11 settembre 2001 attraverso l’incessante ripetizione dello stesso, ricorrendo alla riproduzione della medesima sequenza televisiva che mostra un aereo che attraversa lo schermo fino a schiantarsi contro una delle due torri provocando un’esplosione spettacolare. Lo studioso riprende a tal proposito ciò che ha scritto Allen Feldman nel suo “Ground Zero Point One: on the Cinematics of History” (2002): “Era come se al pubblico fosse stata data una terapia temporale facendolo testimone, più e più volte, di una sequenza meccanica di eventi che restaurava la linearità del tempo sospesa con gli attentati”. Carbone individua in tale an-estetizzante ripetizione ossessiva della medesima sequenza una certa convergenza e complementarietà con la strategia di rimozione delle immagini degli individui lanciatisi nel vuoto ed è proprio proprio sul rilievo assunto da tali immagini «nel progetto di costruzione di una certa memoria collettiva dell’11 settembre» (p. 306) che riflettere in questo scritto.

La strategia di rimozione delle immagini dei cosiddetti jumpers lanciati nel vuoto prende il via sin dal giorno successivo ai fatti, quando un’ondata di proteste, in particolare negli Stati Uniti, colpisce i quotidiani accusati di sciacallaggio per aver pubblicato soprattutto la fotografia che mostra un uomo, divenuto noto come Falling Man, in una caduta verticale incredibilmente composta con la testa in giù, le braccia lungo i fianchi e una gamba piegata in linea con le geometrie del palazzo. Da allora questa fotografia, ben riuscita dal punto di vista formale, non è più stata pubblicata negli Stati Uniti nonostante possieda una carica attrattiva che l’accomuna all’immagine dell’aereo che impatta con una delle due torri. La straniante perfezione dell’immagine del Falling Man «riesce tanto a sospendere il tempo – proprio come abbiamo sentito Feldman dire che gli attentati hanno fatto – quanto a capovolgere lo spazio. Al punto da spingere a chiedersi se la foto sia stata bandita malgrado le sue qualità formali oppure proprio per queste. Dubbio legittimo, che rivela come la bellezza, anziché mitigare, possa acuire l’atrocità di un’immagine. Dubbio che comunque non deve far dimenticare una ben più generale verità: la documentazione visiva sui cosiddetti jumpers, nel suo complesso, ha avuto una sorte analoga a quella della foto di Falling Man, specie negli Stati Uniti» (p. 307).

Secondo Carbone anche se la strategia di rimozione sembrerebbe derivare da una questione di privacy da rispettare, in realtà già nel corso del primo anniversario della strage sono state soggette ad aspre critiche, dunque rimosse, alcune opere d’arte evocanti i tragici eventi pur senza fare alcun riferimento a individui specifici violandone la privacy. Il risultato è che negli Stati Uniti si è smesso di mostrare e di parlare di quegli individui gettatisi nel vuoto. «Ecco allora che la memoria del “giorno più fotografato e più videoregistrato della storia mondiale” si confessa abitata da una paradossale volontà iconoclastica, che segnerà ambiguamente anche molti altri combattimenti della “guerra delle immagini” esplosa quel giorno» (pp. 308-310).

Volontà iconoclastica che, secondo lo studioso, ritroviamo anche nell’attentato del 2015 alla sede del giornale satirico francese «Charlie Hebdo», definito da «Le Monde» “L’11 settembre francese”. Nel presentarsi come una rappresaglia per la pubblicazione di alcune caricature di Maometto, il gesto palesa la volontà iconoclastica degli attentatori. «Né questa volontà risulta di per sé contraddetta dall’enorme impatto, non solo emotivo ma anche politico, esercitato nel settembre dello stesso anno dalla fotografia del corpo annegato del piccolo migrante siriano Aylan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum: un impatto che, proprio per la valenza politica assunta, da più parti si cercò di contrastare bollando quella foto come manipolata. E gli esempi di tale volontà iconoclastica – rintracciabile, pur con ovvie e significative differenze, in schieramenti culturali, ideologici e mediatici dichiaratamente opposti – potrebbero continuare» (p. 310).

Nella parte finale dell’intervento, l’autore prende in considerazione la conclusione del romanzo di Jonathan Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, 2005) in cui un bambino decide di invertire la sequenza delle immagini di un altro falling man e con essa degli eventi, immaginando il padre che dal suolo, salendo con l’ascensore, finisce col raggiungerlo nell’appartamento. «In questo testo e nella sequenza rovesciata d’immagini che l’accompagna sembra agire appunto una precessione reciproca del tragico reale e dell’immaginario infantile, i quali non cessano di rinviare l’uno all’altro pur rimanendo disperatamente divergenti come solo possono esserlo il trauma e l’inconsolabile desiderio di cancellarlo. Emozione contrastata. Emozione dalla cui violenza è impossibile difendersi. Diversamente dal sublime kantiano, lo spettatore non riesce più a distinguersi dal naufrago. Così, se Kant può immaginare il sublime come “l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta”, un testimone dell’11 settembre non ha potuto fare a meno di modificare implicitamente quell’immagine scrivendo: “il dolore che avvolge queste colonne è inimmaginabile e continuiamo a fissarlo come travolti da un mare in tempesta”. Non c’è possibile “distanza di sicurezza” dal naufragio. E tanto peggio per noi se speriamo di poterla creare alzando muri. Perché tale naufragio non si limita a essere “incredibilmente vicino”, come annunciava il titolo del romanzo di Foer, ma è piuttosto il nostro stesso naufragio. Per questo si rivela abitato da quella che prima chiamavo “strategia di rimozione”. Anche per questo una guerra alle immagini percorre l’attuale guerra delle immagini» (p. 317).

Ruggero Eugeni, nello scritto “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia”, prende in esame alcune tecnologie di assistenza-potenziamento della visione umana in condizioni di scarsa visibilità, riflettendo soprattutto sulle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna. Dopo aver tratteggiato lo sviluppo di alcune tecnologie visive – image intensification, active illumination, thermal imaging – dapprima in ambito militare e, successivamente, civile, lo studioso analizza alcuni combat video sottolineando come le modalità con cui sono stati montati e la diffusione in internet tendano a trasformarli da materiale di documentazione in propaganda. In molti di questi video esiste un «legame metonimico fortemente esibito tra appropriazione visiva e appropriazione fisica del territorio» (p. 326). Non a caso, continua Eugeni, la conquista dei differenti spazi, nel corso delle operazioni belliche riprese, viene da un lato esaltata dalla natura “embedded” della videocamera (al contempo testimone impersonale e parte integrante del movimento di conquista) e dall’altro resa possibile e visibile dal ricorso a dispositivi di visione notturna, «atto di vittoria preventiva sulle “tenebre” del male che circondano i corpi dei soldati e minaccerebbero altrimenti di inghiottirli» (p. 326). I combat video sono spesso girati in prima persona secondo modalità stilistiche molto simili a quelle che si ritrovano nei videogiochi del genere first person shooters di guerra; è evidente come videogiochi e combat video si rimandino a vicenda.

Nei videogiochi di ambientazione bellica più avanzati si ha una «sovrapposizione metonimica tra superiorità visiva garantita dalle tecnologie di visione notturna, e superiorità tattica espressa in atti di conquista e di “bonifica” del territorio mediante un sistematico sterminio dei nemici impossibilitati ad agire nel buio» (p. 328). Vi sono però altri due elementi importanti messi i luce dall’autore: «la struttura del videogioco in prima persona non solo esprime la conquista visuale, sensomotoria e militare di un territorio, ma permette al giocatore di viverlo direttamente grazie a una esperienza di simulazione incorporata. In secondo luogo, nei paratesti che hanno accompagnato il lancio del gioco la superiorità tecnologica e militare della visione notturna viene fatta rimare metaforicamente con la superiorità tecnologica del videogioco stesso (e quindi, ancora metonimicamente, con la fluidità dell’esperienza di gioco e il relativo piacere), la cui costruzione assume tutti i connotati di una delle operazioni belliche che vengono epicamente narrate» (p. 328).

In questi casi di combattimento al buio registrati attraverso sensori notturni (gli stessi videogiochi simulano tale modalità), lo spettatore viene calato nella medesima situazione di “vantaggio scopico” di cui si avvalgono i combattenti “armati di visori”. «La rilevanza di questo fatto per quanto concerne l’esperienza spettatoriale emerge chiaramente se analizziamo al contrario casi in cui allo spettatore viene negata, almeno a tratti, questa condizione» (p. 329). A tal proposito il saggio porta come esempio la sequenza finale del film Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow in cui si mostra l’assalto notturno al rifugio in cui è nascosto Osama Bin Laden realizzata montando in alternanza immagini a luce naturale scarsamente visibili e immagini realizzate con visori notturni. Tale alternanza risponderebbe «a una precisa strategia espressiva ed emotiva: nel momento di massima tensione, lo spettatore viene calato in una situazione alternativamente di sollecitazione e deprivazione visuale e sensomotoria. Per un verso la presenza intermittente delle immagini girate coi sensori stimolano il suo coinvolgimento nell’azione secondo un modello di simulazione incorporata […] per altro verso l’irrompere e il prorompere dell’oscurità lo risospingono in una condizione di spaesamento e deprivazione: essi innescano dunque un disperato bisogno di informazione percettiva indispensabile per portare a temine i processi di simulazione incorporata dell’azione precedentemente innescati» (pp. 332-333).

Un effetto visivo analogo lo si ritrova in Flames of War. Fighting Just Begun (settembre 2014), un video di propaganda realizzato e diffuso dall’Isis. «Anche qui le immagini, girate da una helmet cam, sono spesso quasi indistinguibili o completamente buie. Di tanto in tanto tuttavia alcune riprese con sensori notturni mostrano immagini di soldati siriani morti, abbattimento di porte, scene di combattimento, ecc. con assolvenze e dissolvenze al nero a far sì che la piena visibilità della scena sia costantemente compromessa» (p. 333). Non è difficile, continua Eugeni, cogliere la volontà da parte dell’Isis di fare il verso alle sequenze finali del film della Bigelow: «la conquista della base di Raqqa diviene nella retorica del video la eroica “risposta” dei mujahidin di Daesh alla uccisione del leader di Al Quaeda – o per meglio dire: il racconto visuale dell’una diviene la risposta al racconto visuale dell’altra» (p 334).

Nella parte finale del saggio vengono ricostruite le analisi relative alle relazioni tra guerra, media e tecnologie del visibile prodotte da autori come Paul Virilio, Friedrich Kittler e Jean Baudrillard, mettendo però in luce come tale dibattito necessiti di essere aggiornato alla luce dell’uso e degli effetti della visione aumentata dai dispositivi visivi contemporanei.

Se Paul Virilio tende, sin dalla metà degli anni Ottanta, a porre l’accento sull’assorbimento di tecnologie mediali da parte dell’industria militare, indicando in particolare il ricorso nelle guerre novecentesche a tecniche cinematografiche, lo studioso tedesco Friedrich Kittler sostituisce alla “logistica della percezione” di cui parla il francese, una “logistica dell’informazione” e sostiene invece che sono le esigenze belliche a determinare lo sviluppo e la logica dei media.

La questione posta da Virilio circa la progressiva “smaterializzazione” della guerra, la si ritrova per certi versi anche in Jean Baudrillard che da parte sua «sviluppa una teoria dei media basata sull’idea di una loro autoreferenzialità e della cancellazione del loro referente “reale”. Il motto mcluhaniano “il medium è il messaggio” va reinterpretato secondo Baudrillard: i media hanno prodotto una implosione del sistema di distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione mediata, e hanno dato luogo a un sistema di simulazione e di iperrealtà diffuse» (pp. 337-338). Mettendo a confronto i due studiosi Eugeni nota che se Virilio «prende in esame tecnologie di svolgimento del combattimento e sottolinea l’importanza crescente del momento scopico di sorveglianza rispetto a quello pratico del combattimento, Baudrillard dal suo canto si focalizza sulle strategie di rappresentazione mediale (soprattutto televisiva) della guerra e sottolinea la sua derealizzazione» (p. 338). Entrambi insistono comunque sul processo di smaterializzazione subito dalla guerra nel momento che questa ha iniziato la sua «interazione con tecnologie visuali sia panottiche che rappresentative: le tecnologie visuali per i due studiosi sottraggono il soggetto da un confronto diretto e pratico con il mondo isolandolo in una dimensione di sguardo distante, simulacrale o impersonale che sia» (pp. 338-339).

Secondo Eugeni, se a proposito delle modalità di relazione tra i media e gli apparati bellici, Virilio e Kittler hanno il merito di aver posto in evidenza una presenza “extramediale” dei media, «il limite del dibattito su media e guerra risiede [nel fatto] di opporre semplicemente tecnologie del visibile mediali e belliche per studiare le forme di scambio e di influenza delle une sulle altre e/o viceversa» mentre, continua lo studioso, in una condizione postmediale pienamente intesa occorrerebbe «radicalizzare questo modello e pensare piuttosto i differenti dispositivi di visual data setting come capaci di lavorare contemporaneamente all’interno di differenti e numerose cornici e pratiche sociali: non solo l’ambito dei media in senso stretto e non solo la ricerca e le applicazioni belliche, dunque, ma anche la sorveglianza, l’astronomia, i trasporti, la produzione industriale, la meteorologia e così via» (p. 340).

Per quanto riguarda invece la questione della smaterializzazione e della virtualizzazione della guerra derivate dall’utilizzo di tecnologie visuali, nonostante il merito di aver sottolineato il ruolo dei media «in una condizione postmediale all’interno dei fenomeni geopolitici contemporanei», le analisi di Virilio e Baudrillard, sostiene Eugeni, non possono essere condivise in quanto «il caso dei sistemi di visione notturna e aumentata dimostrano chiaramente che le tecnologie visuali si pongono al servizio di una relazione situata e incarnata del soggetto con il mondo: esse sono finalizzate ad accrescere la sua “consapevolezza situazionale” al fine di una gestione ottimale del suo agire. Non si assiste dunque a una assolutizzazione autoreferenziale del visibile, quanto piuttosto a una negoziazione dei suoi limiti rispetto all’invisibile» (p. 341).

 

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Il conflitto sociale che viene, tra guerra e populismo https://www.carmillaonline.com/2017/03/16/conflitto-sociale-viene-guerra-populismo/ Wed, 15 Mar 2017 23:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37052 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, SULLA GUERRA. Crisi Conflitti Insurrezione, Red Star Press 2017, pp. 276, € 18,00

quadrelli-sulla-guerraOggi la guerra non è più una tendenza bensì un dato di fatto” (E. Quadrelli)

Seguo con estremo interesse e, ormai, da più di dieci anni il lavoro di pubblicista di Emilio Quadrelli. A partire, almeno, da quegli straordinari reportage pubblicati dieci anni fa su “Alias”, supplemento settimanale del “Manifesto”,1 in cui l’autore dava voce alle donne protagoniste delle rivolte delle banlieues oppure delle violenze collegate [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, SULLA GUERRA. Crisi Conflitti Insurrezione, Red Star Press 2017, pp. 276, € 18,00

quadrelli-sulla-guerraOggi la guerra non è più una tendenza bensì un dato di fatto” (E. Quadrelli)

Seguo con estremo interesse e, ormai, da più di dieci anni il lavoro di pubblicista di Emilio Quadrelli. A partire, almeno, da quegli straordinari reportage pubblicati dieci anni fa su “Alias”, supplemento settimanale del “Manifesto”,1 in cui l’autore dava voce alle donne protagoniste delle rivolte delle banlieues oppure delle violenze collegate alla presenza militare della Nato nei Balcani, soltanto per citarne due dei più interessanti.

Ne ho sempre apprezzato la ricerca militante unita ad una passione che è raro trovare persino nel pensiero antagonista e di sinistra. Non sempre ho completamente condiviso i presupposti teorici ed ideologici2 su cui basa le sue analisi, ma ho comunque sempre ritenuto le sue narrazioni e proposte un buon punto di partenza per discutere delle contraddizioni del presente e delle prospettive della società e delle lotte di classe in questa fase di senescenza dell’imperialismo occidentale.

Tale impressione mi è stata confermata dal testo edito di recente dalla Red Star Press che affronta, senza mezzi termini, il problema della guerra in cui siamo già immersi. Anche se, troppo spesso, molti sembrano non essersene ancora accorti.
Su tale problema Quadrelli spende parole sintetiche e prive di dubbi fin dalle prime righe: “Il mondo è nuovamente in guerra. La crisi sistemica cui è giunto il modo di produzione capitalista non sembra avere altra via di uscita se non quella di un’immane distruzione di capitale variabile e capitale costante. Come le due guerre mondiali novecentesche sono lì a testimoniare, solo distruggendo il capitalismo può dare vita ad un nuovo ciclo di accumulazione. Il ricorso alla guerra, pertanto, diventa la soluzione non solo possibile ma necessaria”.3

Mentre i media e i governi continuano a coltivare l’illusione che il modo di produzione capitalistico abbia superato le sua contraddizioni più violente e che la guerra generalizzata sia soltanto un brutto ricordo, di cui i conflitti attuali non costituiscono che un riflesso, in una società destinata a durare in eterno, l’autore ci ricorda che la guerra costituisce l’anima dell’imperialismo, sia nella sua forma finanziaria e commerciale che in quella guerreggiata. Non un errore da correggere, ma l’essenza del suo divenire e della sua sopravvivenza.

Quanto la triade crisi-guerra-ricostruzione sia, oggi, un semplice dato di fatto è sotto gli occhi di tutti. Il mondo è già in guerra e la generalizzazione di questa una possibilità che sembra darsi dietro ad ogni angolo. In ciò vi è ben poco di soggettivo. La guerra non è il frutto di qualche folle «volontà di potenza» bensì il sobrio approdo di un processo oggettivo che nessuno è in grado di controllare. La borghesia imperialista la quale, aspetto che non deve mai essere ignorato, è l’agente «fenomenico» di forze storiche materiali e oggettive di cui incarna le funzioni senza, però, governarle coscientemente, precipita dentro la guerra non diversamente da come piomba nella crisi.4

sulla guerra 1 I nove saggi che costituiscono il volume, di cui quattro scritti con Giulia Bausano, intorno al discorso della guerra che viene, ne costruiscono però un altro, più articolato, che non esamina soltanto i moventi oggettivi del conflitto, ma, e soprattutto, le forme politico-sociali e militari che gli attori devono darsi per affrontarlo e le loro possibili ricadute sulla lotta di classe e la sua organizzazione, autonoma ed insorgente, che potrebbe derivarne.

Da qui la particolare attenzione che Quadrelli riserva sia alla diffusione della militanza islamica radicale, tanto nel Medio Oriente che nelle metropoli imperialistiche, e allo scontro militare che ne deriva, sia alla rinascita dei movimenti populisti negli stati occidentali e alle ragioni della loro affermazione. In tutti e due i fenomeni, che l’autore non esita a ricollegare al neo-imperialismo arabo (il primo) e ad una più moderna riproposizione del fascismo degli anni Venti e Trenta (il secondo), è però già possibile ravvisare una manifestazione di contraddizioni di classe insolute che, in riferimento ad alcune opere di Karl Marx ed Friedrich Engels, possono essere definite come “gemito degli oppressi”.5

Per quanto riguarda il primo, l’autore afferma:”Nel campo dell’imperialismo arabo-fondamentalista sono presenti masse proletarie e subalterne attratte dalle retoriche «anticoloniali» che questo imperialismo sfrutta in maniera intelligente e che, questo il punto, poggiano su contraddizioni reali e materiali […] Bisogna comprendere, cioè, che nella relazione crociato-colono a essere determinante per i combattenti islamici è l’aspetto coloniale che il crociato riveste e che lo «scontro di civiltà», nel mondo contemporaneo, non è altro che una forma alienata di un conflitto politico che affonda le sue radici nelle contraddizioni materiali prodotte dal sistema imperialista6

Quindi, facendo riferimento alle personali conoscenze dovute alle sue precedenti indagini e ricerche condotte sulle banlieues parigine, può ricollegare la militanza islamica radicale alle trasformazioni della condizione della classe avvenute nelle metropoli occidentali, in cui illegalismo e attività precarie costituiscono il cuore di una condizione materiale di sopravvivenza, e di rabbia, in cui sono state fatte sprofondare milioni di persone. Di entrambi i sessi.

Proprio parlando degli attentatori di Charlie Hebdo e del susseguente attacco ad un piccolo supermercato nel quartiere ebraico di Parigi, l’autore può rilevare che: “I tre provengono da quei mondi sociali dove attività legali ed illegali si intrecciano in permanenza in quella complessa e variegata articolazione a cui è approdata “la giornata lavorativa” di quote non secondarie di forza lavoro globalizzata in basso, i cui numeri cominciano a essere particolarmente consistenti anche dentro le metropoli imperialiste europee […] Lì, in aperta contrapposizione al nulla nichilista dei territori metropolitani, l’Islam politico ha buon gioco nell’offrire un’identità forte, una prospettiva di vita, un obiettivo storico/politico a quote di popolazione alle quali, il capitalismo globale, non riserva altro che un’esistenza prossima al servaggio”.7

Citando un autore cui fa più volte riferimento Quadrelli nel corso dei suoi scritti, si potrebbe affermare che cogliere appieno le contraddizioni di classe e della Storia “non è possibile se non nello spazio vuoto e popolato, al tempo stesso, di tutte quelle parole senza linguaggio che fanno udire a chi tende l’orecchio un rumore sordo che proviene da sotto la storia, il mormorio ostinato di un linguaggio che dovrebbe parlare da solo: senza soggetto parlante e senza interlocutore”.8

E’ nel silenzio delle periferie e del malessere privato della parola e della possibilità di esprimersi, anche e soprattutto dalla sinistra istituzionale, che occorre infatti individuare le radici profonde della rabbia e delle rivolte che verranno. Con modalità e manifestazioni inaspettate e talora, come nel caso del radicalismo islamico o dei populismi, stravolte nella loro intima essenza.
Deviate dall’”affermarsi di un modello dove non esiste più alcun collante collettivo. Anzi, a essere rimossa, come nella nota asserzione di Margaret Tatcher – «La società non esiste» – è l’esistenza stessa dei mondi sociali. Palesemente ciò che emerge è il venir meno di qualunque retorica incentrata sulle masse. Queste spariscono dalla scena storica. Per il potere imperialistico non esistono più.9

Accade così, paradossalmente, che le masse giovanili espropriate di qualsiasi diritto delle banlieues e gli operai timorosi di perdere il lavoro, oppure che già l’hanno perso,10 finiscano col proiettare il loro scontento, nella totale assenza di una sinistra capace di rappresentarli, su forme di organizzazione politica e all’interno di proposizioni ideologiche tra di loro soltanto specularmente rovesciate: il radicalismo islamico e il populismo. Entrambi nazionalisti ed identitari su basi non classiste. Entrambi prodotti da borghesie già avviate ad una deflagrazione bellica mondiale in cui il ruolo partecipativo delle masse tornerà ad essere decisivo. Sia durante che dopo. Con buona pace di coloro che dell’esclusione delle stesse dalla partecipazione attiva avevano fatto uno degli obiettivi prioritari del liberismo sovranazionale di cui la Tatcher sintetizzava così chiaramente il pensiero e l’attitudine.

sulla guerra 2 Gabbie autentiche in cui il moderno proletariato delle suddette metropoli è paradossalmente tornato alle condizioni di partenza del XVIII secolo11 grazie alla globalizzazione produttiva, ma anche alla progressiva perdita della propria identità di classe dovuta a decenni di illusorio “benessere” e di campagne di ricomposizione ideologica condotte dalle forze sindacali e delle sinistre istituzionali.

Una trasformazione passata anche attraverso una riformulazione in chiave individualistica dei rapporti di lavoro di cui i giuslavoristi, come ben individua Quadrelli,12 portano una significativa responsabilità. Anche se “Centrale, in tutto ciò, è la liquidazione di tutta una procedura formale, fondata sui resti di un modello di rappresentanza politica, sostituita attraverso la «messa in scena» della comunicazione diretta del leader con il popolo”.13
Forma di comunicazione che, se è servita in tempi di liberismo trionfante ad annullare la “società” in quanto insieme di organi rappresentativi, oggi fonda il populismo trionfante che, in tempi di crisi e di tendenza esplicita alla guerra, deve illudere masse de/classate di essere nuovamente protagoniste del proprio destino.

Il Movimento 5 Stelle sotto tale aspetto è esemplificativo, acquista consensi e organizza quote di popolazione, per lo più subalterne, a partire da un programma sociale all’interno del quale vi è tutto e il contrario di tutto” così, prosaicamente “i movimenti populisti di destra si occupano di negozi che chiudono, di mercati rionali che spariscono, di officine che abbassano le serrande, di fabbriche che cessano la produzione, di case che mancano, di pensioni insufficienti, di degrado e insicurezza urbana e di lavoro che non c’è. I politici, i potenti in generale, le banche, le multinazionali sono individuati come i soli e veri responsabili della crisi e, in virtù di ciò, identificati come gli elementi antinazionali e antipopolari di cui occorre sbarazzarsi”.14

Insomma, non diversamente dai riformisti di un tempo, il populismo “coltiva e propaganda l’illusione di un capitalismo buono contro un capitalismo cattivo”.15
Immagine tutta interna, però, alle differenti forze imprenditoriali ed imperialistiche che nella loro lotta a livello nazionale ed internazionale si preparano a ripartirsi, ancora una volta sui campi di battaglia, la ricchezza socialmente prodotta.
Un grande gioco in cui la “nazionalizzazione” delle masse torna ad essere un elemento portante, ma che, per altri versi, potrebbe condurre ad effetti destabilizzanti e indesiderati per la classe al potere ed insperati, in prospettiva, per la lotta di classe.

Ancora inconsapevole, almeno in parte qui in Europa,16 di questo suo indubbio fine storico, il populismo “volta per volta fornisce, senza alcun problema di coerenza, risposte apparentemente forti e risolutive alle domande che i vari segmenti di subalterni o di borghesia in piena decadenza gli pongono. La sua vera forza e capacità, tuttavia, non consiste in questa sorta di equilibrismo permanente bensì nel saper convogliare tutte le istanze provenienti dal basso verso un nemico”.17 Esattamente come il radicalismo islamico sa fare.

La negazione della dialettica amico/nemico o, perlomeno, lo spostamento del suo significato su altri piani (per esempio quello dei diritti umani generici e privati di qualsiasi caratteristica di classe oppure l’”educazione alla legalità”), è stato lo strumento essenziale per disarmare i lavoratori e le classi subalterne del loro pieno diritto all’odio nei confronti del modo di produzione capitalistico che continua a devastare le loro vite e l’ambiente in cui vivono.18 Mentre questa è tornata oggi ad essere maneggiata da segmenti di borghesia in chiave bellicista, razzista e giustizialista.

Pertanto, e qua la cosa si fa interessante, l’emergere del populismo indica il passaggio da una forma politica ad un’altra […] Ovviamente le rotture storiche che permettono l’affermarsi del populismo da un lato, insieme al decisionismo che immancabilmente si porta appresso, intervengono dentro contesti determinati e ogni volta assumono forme e aspetti diversi19
Occorre che le contraddizioni economiche e politiche tra le borghesie imperialiste stesse siano giunte al punto da far sì che “le stesse classi dominanti mostrino segni di insofferenza verso il proprio ceto politico.20 Deve cioè prodursi un corto circuito tra tutte le classi sociali e gli istituti e i partiti politici chiamati a rappresentarle […] Perché il populismo sortisca un qualche effetto occorre che i subalterni non si riconoscano più dentro determinati vincoli e forme di rappresentanza e che, al contempo, quegli stessi vincoli si mostrino superati e inadeguati per le medesime classi dominanti”.21 Cosa che l’attuale crisi delle istituzioni e dei vincoli europei comincia a dimostrare piuttosto bene.

La sinistra, non solo istituzionale, sembra non saper cogliere pienamente i segnali che giungono in tal senso e neppure quelli provenienti dalle rivolte, anche se ancora sporadiche, delle periferie.
Nel momento in cui la banlieu è insorta, la sinistra bianca, la quale detto per inciso a quei territori è del tutto estranea, ha catalogato quell’insorgenza come insorgenza degli esclusi e degli emarginati nell’accezione classica che questa comporta. Non si è resa conto, cioè, che quella marginalizzazione non era il frutto di residui sociali del passato, non era eccedenza (tanto per usare un termine caro alla sinistra intellettuale) ma la prosaica materializzazione di un proletariato moderno, filiazione diretta delle punte più avanzate del modello capitalistico, Quel soggetto sociale rappresentava la storia del nostro futuro non la storicizzazione del nostro passato. Quella condizione marginale era l’esatta configurazione di gran parte della forza lavoro del presente. Con questa forza lavoro, palesemente, la sinistra bianca non vuole avere a che fare o, meglio, non vuole avere a che fare su un piano di parità. Ciò è diventato palese quando, nel 2006, nelle lotte degli studenti universitari e liceali contro le riforme del lavoro prospettate dal governo, universitari e liceali hanno volutamente cercato di tener fuori i coetanei dei tecnici e i banlieusards in generale”.22

Lo stesso atteggiamento discriminante caratterizza oggi la sinistra istituzionale nei confronti di un movimento come quello NoTav, accusato di essere localistico, primitivo, arretrato e antiquato quando, invece, può rappresentare un valido modello per l’organizzazione futura delle lotte.
Su tutto questo invita e induce a ragionare il testo di Quadrelli, ma non certo per il gusto della conoscenza e dell’astrazione. Al termine l’obiettivo non può infatti essere altro che quello della definizione, teorica e pratica, di quella che dovrà essere l’organizzazione destinata ad aiutare la storia a partorire una nuova comunità umana, libera dal capitale e dallo sfruttamento dell’uomo e della natura.


  1. Emilio Quadrelli su Alias del 13 gennaio 2007 e 3 febbraio 2007  

  2. Ad esempio Togliatti, Dimitrov e il concetto di “Grande guerra patriottica” solo per citare alcuni di quelli presenti nel testo  

  3. pag. 7  

  4. pag. 38  

  5. Il riferimento di Quadrelli è a K.Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel e F. Engels, La guerra dei contadini in Germania  

  6. pp. 58-59  

  7. pp. 35-36  

  8. Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Prefazione alla prima edizione del 1960  

  9. pag. 49  

  10. Si veda ad esempio, sul rapporto tra paure operaie e successo lepenista in Francia, Anais Ginori, Gli operai di Marine: nella Lorena tradita da Parigi ora le fabbriche votano Le Pen, La Repubblica 4 marzo 2017  

  11. Si vedano: E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, Milano 1969; Dario Melossi e Massimo Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo), Quaderni della rivista “La questione criminale” – n° 1, Società editrice il Mulino, Bologna 1977 e Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1982  

  12. nota a pag. 18  

  13. pp. 18 – 19  

  14. pp. 21-23  

  15. pag. 23  

  16. Trump e le forze economiche che lo sostengono sono molto più consapevoli del proprio progetto politico  

  17. pag. 26  

  18. Un ulteriore esempio di ciò può essere costituito del discorso alla Camera con cui Fausto Bertinotti rifiutò apertamente la logica amico/nemico in nome di un superiore interesse nazionale  

  19. pag.17  

  20. Sicuramene oggi tra imprenditoria legata alla piccola e media industria e partiti rappresentativi del capitale finanziario qualche screzio c’è, considerati anche i pessimi risultati della produzione industriale italiana; come si può vedere nel più recente studio dell’ISTAT http://www.repubblica.it/economia/2017/03/13/news/istat_produzione_industriale-160428547/?ref=RHPPBT-VE-I0-C6-P7-S1.6-T1 oppure come mostra ancor meglio la crisi di Confindustria e del suo “autorevole” quotidiano: http://www.huffingtonpost.it/2017/03/13/sole_0_n_15341040.html?utm_hp_ref=italy  

  21. pag.16  

  22. pp.71-72 Senza poter escludere che proprio al Bataclan alcuni dei differenti attori di quelle manifestazioni non si siano poi ancora ritrovati sui lati opposti dell’attentato  

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Je suis Naja https://www.carmillaonline.com/2016/04/02/je-suis-naja/ Sat, 02 Apr 2016 21:33:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29602 di Irene Incarico

Occhi di tenebra(Il racconto che segue è apparso nell’antologia Occhi di tenebra, contenente ventisei storie ispirate al mito di Medusa, per i tipi Delmiglio, Verona 2015.)

Sleep, sleep now my child / In the sea of crystal trouble For better is the violent sigh / Than all that you leave behind

MOONSPELL, ‘Than the Serpents in my Arms’

Non potevo dire quello che ho visto. Non posso. Primo, perché non voglio la polizia a tormentare me e la mia famiglia. Secondo, perché non tutto il male viene per nuocere. Ho detto che [...]]]> di Irene Incarico

Occhi di tenebra(Il racconto che segue è apparso nell’antologia Occhi di tenebra, contenente ventisei storie ispirate al mito di Medusa, per i tipi Delmiglio, Verona 2015.)

Sleep, sleep now my child / In the sea of crystal trouble
For better is the violent sigh / Than all that you leave behind

MOONSPELL, ‘Than the Serpents in my Arms’

Non potevo dire quello che ho visto. Non posso. Primo, perché non voglio la polizia a tormentare me e la mia famiglia. Secondo, perché non tutto il male viene per nuocere. Ho detto che ero rimasta tutto il tempo in biblioteca e che ero uscita direttamente, senza passare dalla palestra. Tanto avevo il permesso, visto che ho l’esonero dalle attività fisiche. E poi perché Naja mi sta simpatica. Mi stava. Non so nemmeno dov’è, cosa fa, non so nemmeno cos’è. So solo che lei era un po’ come me, almeno sotto un certo punto di vista. Un bersaglio. Il bersaglio della nostra classe, proprio come la sottoscritta, Patrizia Padraig, la bruttina con l’apparecchio ortopedico e la media dell’otto e mezzo. Lei, col suo fazzolettone da musulmana in testa, il nome egiziano e la faccia un po’ troppo abbronzata, da Signora-Fatima-Che-Mangia-Solo-Kebab, era la mia perfetta partner. Due cazzutissime Carrie White nella stessa classe, nemmeno Stephen King ci aveva pensato, eh? Le povere sfigate che nessuno vuole come compagne di banco. Che nessuno vuole accanto sul pullman della gita. Con cui nessuno scatterebbe un selfie se non per postarlo su Facebook come trofeo: guarda, ho la foto con lo sgorbio e con la marrocchina mussulmana, con due erre e esse, come se i vocabolari e i libri di geografia mancassero.
Ma Naja è speciale, e lo avrebbero capito anche gli altri, se avessero passato un po’ di tempo a parlare con lei e fossero andati oltre le loro paranoie da camicie verdi della domenica, che vedono torri gemelle in fiamme nascoste anche nel cesso e che trovano divertenti le battute di Salvini sulle ruspe.
Naja parla un sacco di lingue, per esempio, non solo arabo e francese e italiano. Conosce il latino e il greco meglio dei professori. A volte l’ho vista leggere certi libriccini che sembravano in aramaico, ma ho preferito non fare domande. Se non avesse viaggiato tutta la vita per il lavoro del padre – non ho mai capito cosa faccia – di certo non sarebbe ancora al liceo, alla sua età. Età, sì, certo. Come se fosse facile dire che Naja ha vent’anni. A volte sembra una donna grande, quando parla. A volte sembra una vecchia stanca. Altre volte sembra fuori di testa, con tutte quelle storie sugli Udjet che sono gli ultimi discendenti del popolo della dea Merseger – o come diavolo si scrive – dispersi per l’Europa e costretti a nascondersi in esistenze normali e fittizie. Le storie sui serpenti, gli scorpioni e le punizioni. I viaggi e i racconti di epoche in cui no, non potrebbe mai avere vissuto una ventenne.
Per questo non dirò quello che ho visto. Non voglio ritrovarmi la polizia a tormentarmi, e tantomeno quelli coi camici bianchi e le pilloline, pronti a farmi chissà quale perizia. Io sono stata in biblioteca, in palestra non ci sono mai entrata, punto. E se anche sapessi dove è andata Naja dopo quello che è successo, no, non lo direi a nessuno. Perché tra Carrie White bisogna aiutarsi.

È di 26 vittime, di cui 20 minorenni, il terribile bilancio della strage avvenuta ieri presso il liceo Tommaso Parentucelli di Sarzana, cittadina in provincia di La Spezia. Ad un solo giorno di distanza dalla sparatoria presso la sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, l’insospettabile e tranquilla località lunigianese è stata teatro di quello che fin dalle prime indagini sembra essere un attacco terroristico di matrice islamica. I corpi dell’intera classe 5B e dell’insegnante di educazione fisica sono stati rinvenuti nella palestra dell’istituto dall’operatore scolastico che ha dato l’allarme. “Era l’ultima ora. Ho fatto il mio solito giro e prima di chiudere sono sceso a controllare la palestra. Li ho trovati lì. Tutti morti. Pietrificati” è ciò che l’uomo ha raccontato alle forze dell’ordine. Da un immediato controllo, le uniche sopravvissute all’eccidio della 5B sono risultate essere la diciassettenne P.P., esonerata dalle lezioni di educazione fisica, e la diciannovenne francese di origini egiziane Naja Udjet, iscritta da pochi mesi presso il Parentucelli e proveniente dall’hinterland parigino. Sono scattate subito le indagini e la Udjet, insieme alla sua famiglia, sembra essere sparita nel nulla, lasciando dietro di sé un appartamento vuoto, numerosi documenti falsi e un’unica traccia: il suo hijab blu, il tanto contestato velo con cui era solita presentarsi a scuola, abbandonato in mezzo ai corpi delle vittime. La comunità islamica locale esclude ogni possibile legame con la studentessa e la sua famiglia – attualmente ricercata dalle squadre antiterrorismo dell’At.Pi – e si resta in attesa di eventuali rivendicazioni e collegamenti con i fatti di Parigi. Per il momento, resta sconosciuta la causa della morte dei 26 ragazzi, ad una prima analisi apparentemente stroncati dall’utilizzo di armi chimiche. Alcune ipotesi preliminari sembravano implicare l’utilizzo dei già noti gas nervini Sarin o Tabun, ma lo stato di rigidità estrema delle salme sembra far pensare al test di un nuovo tipo di gas, ancora sconosciuto.

Non dirò mai quello che ho visto. Primo, perché tanto ormai non servirebbe a niente. Secondo, perché a volta la natura sistema le cose da sola, con degli strani, stranissimi fenomeni. Non lo dirò, ma ho visto tutto. Dalla finestra del corridoio. Ho visto gli occhi di Naja, mentre quei figli di puttana la tormentavano. “Devi gridarlo, troia musulmana, oppure te ne torni da dove sei venuta” sbraitavano, infervorati “Devi gridare JE SUIS CHARLIE. Dai, mezza negra del cazzo, che il francese lo parli così bene, no?”. Ho visto il professore ridacchiare e fare finta di niente, come se fosse uno scherzo divertente. Le ragazze che sogghignavano e cercavano i cellulari per filmare il tutto, strizzate nei loro leggings Nike, tutte uguali come Barbie rincoglionite. Poi ho visto le mani di quei cretini, tese verso il fazzoletto blu di Naja.
“Toglitelo, mezza negra di merda. Togliti quel velo schifoso!” gridavano “E poi mettiti in ginocchio e urla JE SUIS CHARLIE”.
Sono state le loro ultime parole.
Le hanno strappato l’hijab, con una violenza da branco, quegli stupidi fighetti infervorati dalla sbornia mediatica del momento. Avrei voluto saltare dentro e gridare “Smettetela, imbecilli!” ma non ce n’è stato bisogno.
Perché è successo. Non so dire bene cosa. Un brulicare nell’aria. Forme distorte attorno alla testa di Naja. Mille piccoli occhi lucenti, piccole lingue sibilanti pronte a punire.
Un senso di vittoria denso come fango mi ha travolta. Poi, il silenzio rotto solo dal rumore dei miei piedi, mentre scappavo, senza nemmeno rendermene conto, nel corridoio che non finiva più. Una frase mi si rimescolava in testa, come un groviglio di serpenti: je suis Naja.

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Ora che la guerra sta accadendo https://www.carmillaonline.com/2015/11/24/paradossi-di-una-guerra/ Tue, 24 Nov 2015 17:00:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26796 di Sandro Moiso

Made_in_France_posterParigi – Londra, patto di guerra. Così titolava in prima pagina il “Corriere della sera” ieri mattina. Poi, nella stessa giornata, un caccia russo Sukhoi 24 è stato abbattuto nei cieli turco-siriani su ordine del premier Ahmet Davutoglu e la Russia ha schierato le proprie navi davanti alla costa turca. L’esplodere dei grandi conflitti è sempre stato preceduto dal manifestarsi di una grande “voglia di guerra”. Voglia che si manifesta nelle dichiarazioni pubbliche e nei discorsi privati, nei quotidiani e, oggi, nei media di ogni genere. Nelle scelte della politica e dell’economia. Nella preparazione delle azioni militari e [...]]]> di Sandro Moiso

Made_in_France_posterParigi – Londra, patto di guerra. Così titolava in prima pagina il “Corriere della sera” ieri mattina. Poi, nella stessa giornata, un caccia russo Sukhoi 24 è stato abbattuto nei cieli turco-siriani su ordine del premier Ahmet Davutoglu e la Russia ha schierato le proprie navi davanti alla costa turca. L’esplodere dei grandi conflitti è sempre stato preceduto dal manifestarsi di una grande “voglia di guerra”. Voglia che si manifesta nelle dichiarazioni pubbliche e nei discorsi privati, nei quotidiani e, oggi, nei media di ogni genere. Nelle scelte della politica e dell’economia. Nella preparazione delle azioni militari e in quelle repressive. Nella designazione di un nemico disumano, meritevole di ogni violenza e di ogni atto di vendetta.

Voglia di armi
“Energia e difesa trainano le borse”. Non erano ancora passati cinque giorni dai fatti di Parigi che, mercoledì 18 novembre, “il Sole 24 Ore” poteva trionfalmente dichiarare in prima pagina la felicità degli investitori per la situazione venutasi a creare per le conseguenze poltico-militari degli attentati messi in atto dai militanti dell’Isis . Come se ciò non bastasse sulla colonna di sinistra un altro articolo dichiarava, quasi spudoratamente: “Europa e conti. Più che la stabilità poté la sicurezza”.

L’appello di lunedì 16 novembre del Presidente della Repubblica francese alla clausola dell’articolo 42, punto 7, del Trattato di Lisbona, riferito al mutuo soccorso europeo, ha aperto di fatto la porta alla possibilità di uscire dai vincoli dei trattati europei, riguardanti la spesa degli stati, per tutto ciò che riguarda la sicurezza ovvero uomini, armi e tecnologie securitarie. Il taglio della spesa pubblica, tanto richiamato da tutti i partiti di governo e di opposizione, in un solo colpo può quindi essere aggirato, grazie sostanzialmente all’appello di François Hollande, a favore delle imprese fornitici di armamenti per gli eserciti e servizi all’intelligence.

Da qui la gioia delle Borse, per le quali, evidentemente, i morti, parigini o siriani che siano, della guerra in atto non sono altro che una forma di interesse da pagare per il buon funzionamento e la ripresa dei mercati. Una specie di keynesismo del sangue che andrebbe di diritto inserito tra i crimini dei potenti e dell’economia di recente analizzati da Vincenzo Ruggiero in alcuni suoi testi.1

Sabato 21 novembre “Repubblica.it” titolava “L’affare della guerra all’Is: boom di Borsa e vendita di armi, l’Italia c’è”, affermando chiaramente che “Domandare, offrire; vendere, comprare. Le regole del mercato sono poche e semplici. E la guerra aperta dalla Francia e dalla Russia dopo gli attentati terroristici ad opera dell’IS non fa eccezione. Per chi domanda sicurezza, c’è chi offre strumenti di difesa; per chi vende armi, c’è chi le compera. Gli stanziamenti degli Stati per armarsi contro la minaccia terroristica cresceranno, questa è una delle poche certezze di questi giorni: Francois Hollande ha già ottenuto da Bruxelles di fare più deficit del previsto e anche la Stabilità italiana si prepara a trovare 120 milioni di nuove risorse.2

Per poi proseguire “Con i lampeggianti delle sirene parigine ancora accese, già si sapeva che gli Usa avevano venduto migliaia di bombe intelligenti all’Arabia Saudita, per 1,29 miliardi di dollari di valore. Per chi avesse dubbi, basta guardare all’andamento di Borsa, dove fiutare l’affare è la regola: aziende come la leader delle armi Lockheed Martin, ma anche altri colossi come Bae System, la Airbus e la Boeing (che non producono solo aerei passeggeri) e la nostra Finmeccanica hanno registrato un balzo in avanti sui mercati. L’indice Bloomberg del settore aero-spaziale e della difesa, dagli attentati di Parigi ha guadagnato il 4,5%, Finmeccanica più dell’8%”.

Per essere bipartisan occorre poi ricordare che Carlo Pelanda, su “Libero” di domenica 22 novembre, non dimenticando che “La grande depressione americana degli anni ’30 finì per la svolta espansiva e mobilitante data dall’entrata in guerra nel 1941”, ha sottolineato come non si veda “una mobilitazione pacifista contro i bombardamenti, manco tanto selettivi, di Raqqa o una condanna morale di Hollande perché, oltre alla parola «guerra», ha anche aggiunto «vendetta». Pare che la percezione sia quella di una Pearl Harbour europea caricata di una forte caratterizzazione del nemico come indegno e non meritevole di pietà”.3 Sintetizzando: il clima favorevole alla guerra c’è, vediamo solo di sfruttarlo al meglio.

Il paradosso sta nei fatti: finita quella che si potrebbe definire come la terza guerra mondiale, con cui sostanzialmente, tra il 1991 e, indicativamente, l’eliminazione di Osama Bin Laden, gli Stati Uniti hanno cercato di ridisegnare a proprio vantaggio il panorama geo-politico venutosi a creare nel quarantennio di divisione condominiale del mondo con l’URSS dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha avuto inizio, proprio dall’imbarbarimento di consuetudini e stati seguito alla (fallimentare) balcanizzazione dell’Europa Orientale e del Vicino Oriente voluta e perseguita dai vertici politico-militari ed economici statunitensi, la quarta.

Mentre la terza, però, aveva visto ancora una parte consistente del mondo, sviluppato e non, adattarsi al comando americano sperando di trarre vantaggio sia dal rafforzamento imperialista statunitense che dall’indebolimento e dalla scomparsa dell’imperialismo sovietico in nome di un Nuovo Ordine Mondiale, oggi a seguito della crisi economica, dello sviluppo e della affermazione di varie potenze regionali e mondiali, della debolezza della strategia americana e delle sue possibili prospettive, si ha uno scontro di tutti contro tutti. In cui tutti gli attori sono contemporaneamente possibili alleati e possibili nemici. Dal punto di vista capitalistico, mercantile e finanziario è una situazione magnifica: tutti possono vendere armi a tutti in attesa che i fronti si definiscano meglio e le popolazioni, soprattutto in Occidente, si abituino all’idea dell’inevitabilità dei sacrifici determinati dal clima bellico e della giustezza delle ragioni della propria “patria” o del proprio schieramento di riferimento.

Così la Francia può ballare tra Stati uniti e Russia e l’Italia vendere armi agli Emirati del Golfo e alla Turchia (solo per citare due esempi) continuando a gridare, sempre più forte “Al lupo! Al lupo!” per il nemico alle porte. Quando il vero nemico, il più importante, è costituito proprio da quei governi che ci stanno portando al macello. Così mentre gli Stati Uniti, nel corso della terza, avevano pensato di preparare una situazione utile sia a contenere gli alleati/concorrenti occidentali, sia a circondare strategicamente il colosso cinese, ora si trovano impantanati in una situazione in cui ad ogni falso movimento rischiano di calpestare pericolosamente i piedi di possibili alleati e possibili avversari (ancora una volta i balletti di Kerry e Obama tra Iran, Israele, Turchia, Russia ed Arabia Saudita possono servire da esempio).

Ballando sull’orlo del baratro qualcuno inizierà a scivolare, trascinando con sè tutti gli altri. In Turchia, in Siria, sulle coste del Mediterraneo: dove sarà, sarà. Il luogo non sarà così importante alla fine.4 Per questo ho detto e ripeto ancora che il 13 novembre non corrisponde all’11 settembre 2001 (tutto americano), ma al 28 giugno 1914.

L’italietta, intanto, corre gioiosa incontro al proprio destino: soddisfatta degli investimenti arabi sul territorio nazionale e nella sua linea aerea di bandiera, spera di continuare a vendere armi a tutti, facendo girare a mille gli stabilimenti di Finmeccanica e della Beretta e facendo finta che il decreto legge che proroga la partecipazione militare italiana a missioni internazionali approvato alla Camera, con la norma che consentirà agli “007” di avvalersi dei corpi speciali per le operazioni all’estero, non costituisca ancora un atto di guerra.5

In che modo la lotta al terrorismo sia un affare interessante per le aziende del comparto è scritto anche nella relazione al bilancio 2014 di Finmeccanica, portabandiera italiana della Difesa. Già in chiusura dello scorso esercizio, ad assalto a Charlie Hebdo concluso, si registrava che «la spesa per nuovi investimenti tenderà nei prossimi anni a crescere con un ritmo intorno al 2% annuo, grazie al lancio di programmi per lo sviluppo di nuovi sistemi di armamento e allo stanziamento di fondi per operazioni contro il terrorismo organizzato internazionale (circa 40 miliardi di euro tra il 2015 e il 2017)» […]L’azienda della Difesa è presente con dodici siti tra Arabia, Emirati arabi uniti e aree circostanti. Con gli Eau, in particolare, nel bilancio di sostenibilità Finmeccanica ricorda che c’è un interesse «testimoniato dalla più che quarantennale presenza sul territorio degli Eau, con i quali sono stati avviati importanti programmi di sviluppo che hanno condotto alla creazione di una sede ad Abu Dhabi, con funzione di coordinamento di tutte le attività nell’area. Finmeccanica intende rafforzare la partnership con gli Emirati Arabi Uniti mediante la definizione di ulteriori alleanze con il settore pubblico e privato e con importanti enti di ricerca governativi, ampliando la rete di collaborazione con i player di settore locali». A scanso di equivoci, proprio in questi giorni l’ad Mauro Moretti è tornato a chiarire che l’interesse è rivolto in tutte le direzioni: «Fornire armamenti a paesi come Arabia Saudita e Qatar che sono considerati controversi? Sono paesi che sono legittimati dagli Usa ed entrano a far parte del fronte Occidentale in questa vicenda»“.6 Continuando a far finta che un comune fronte Occidentale ancora esista.

… e di petrolio
L’euforia borsistica, come si diceva all’inizio, si è estesa anche all’altro grande protagonista dei drammi mediorientali presenti e passati: il petrolio.
Protagonista indiscusso dello scontro sia mondiale che locale tra potenze imperiali, ma anche tra potenze regionali con aspirazioni globali come ben dimostra il coinvolgimento nel dramma siriano di Arabia Saudita, Stati del Golfo e Turchia, più o meno, dallo stesso lato e Iran dall’altro.7 Petrolio che costituisce anche una delle fonti dirette di finanziamento dello stesso Stato islamico e uno, se non l’unico, dei principali motivi della sua azione nel Vicino Oriente e in Africa.

I proventi vengono per il 27 per cento dalla vendita di petrolio” sostiene in un articolo, sull’Espresso on line del 20 novembre, Gianluca Di Feo a proposito delle finanze dell’Is.8 Mentre Maurizio Ricci, in una più dettagliata analisi, sostiene che, pur essendo limitate le capacità estrattive dei miliziani, lo Stato islamico ha potuto contare sull’estrazione di 50.000 barili giornalieri nei territori occupati in Siria. nella zona orientale di Deir al-Zour, e altri 30.000 nella regione di Mosul.

Una parte di questo petrolio è avviato attraverso mezzi di fortuna, asini compresi, verso la Turchia dove, nel terminale petrolifero di Ceyhan può essere mescolato con il greggio ”proveniente da fonti legittime”. “Di fatto, l’Is può vendere il suo greggio, in condizioni di monopolio, nella regione che controlla, […]Gli esperti calcolano che questo flusso porti oggi l’equivalente di un milione, un milione e mezzo di dollari al giorno nelle casse del Califfato. In prospettiva, un tesoro di 4-500 milioni di dollari l’anno […]L’Is gestisce, però, solo in parte il traffico. I jihadisti hanno il controllo diretto dei giacimenti e quello, diretto o indiretto, di alcune delle maggiori raffinerie.
Ma il trasporto del greggio verso queste raffinerie e le molte piccole e piccolissime, quasi casalinghe, è assicurato da centinaia di operatori indipendenti. Chi ha potuto girare nelle aree controllate dall’Is dice che, fuori dai giacimenti, ci sono code fino a 6 chilometri di camion che aspettano di poter riempire le loro cisterne
”. 9

Solo recentemente, però, l’aviazione americana, forse seguendo l’esempio di quella russa, ha iniziato a bombardare tali raffinerie, spesso mobili, dislocate principalmente lungo il corso dell’Eufrate. Una delle fonti di finaziamento è stata dunque per lungo tempo operativa e, nonostante tutto, continua ad esserlo tutt’ora. Così come il Qatar, che è tra i maggiori indiziati per il sostegno allo Stato islamico (presente probabilmente nella lista dei quaranta paesi finaziatori dell’Isis cui ha recentemente accennato Putin), continua a godere di una fitta rete di relazioni in Europa e in Italia grazie a investimenti milionari nei settori chiave: dalla moda al turismo fino all’alimentare.

Pur essendo noto che la sua ostilità nei confronti del regime di Assad, secondo una ricostruzione del giornale britannico The Guardian, , è dovuta al fatto che nel 2009 “il presidente siriano Assad rifiutò la proposta dell’emirato di costruire un gasdotto che si sarebbe collegato all’Europa in concorrenza con il gasdotto della Russia di Vladimir Putin, alleato dei siriani.
Non solo: l’anno successivo Damasco strinse un accordo per un’altro gasdotto con l’Iran, sciita, che avrebbe permesso a quest’ultimo di rifornire l’Europa attraversando Siria e Iraq. […] Il Qatar possiede un terzo delle riserve mondiali di gas, ma ha un bisogno disperato di un mercato come l’Europa per venderle. E la Siria avrebbe ostacolato un possibile sbocco
”.10

Anche in questo caso, non vi è dubbio, tutti vendono a tutti e tutti sono disponibili a comperare. L’unico problema, a Est come a Ovest oppure per gli stati del Middle East, è costituito dal determinare, manu militari, chi gestirà e dove passerà il fiume di petrolio e quello di dollari che porta con sé.

Ora che la guerra sta accadendo ancora tarda a formarsi una coscienza anti-militarista. Per ora ancora niente “guerra alla guerra!“, mentre soltanto qualche debole proposizione di principio sembra costituire la risposta antagonista (?) alla carneficina che si avvicina. Basterà a dar vita ad un movimento unitario o sarà sopraffatta anch’essa dallo sciame sismico della paura e del perbenismo nazionalista ed identitario prodotto e alimentato dall’imperialismo?

N.B.
L’immagine scelta per accompagnare l’articolo costituiva il manifesto pubblicitario di un film francese sul terrorismo islamico nelle banlieu, la cui uscita nelle sale cinematografiche era stata programmata per il 18 novembre. A seguito dei fatti di Parigi l’uscita del film è stata rinviata a data da definire così come anche il poster sarà sostituito da altra immagine (anch’essa ancora da definire)


  1. Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli 2013 e Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli 2015 (Quest’ultimo recensito su Carmillaonline il 28 ottobre 2015 https://www.carmillaonline.com/2015/10/28/lessenza-criminale-del-potere-v-ruggiero-perche-i-potenti-delinquono-recensione-ed-intervista-allautore/)  

  2. http://www.repubblica.it/economia/2015/11/21/news/armi_isis_guerra_borsa_emirati_arabi-127849393/?ref=HREC1-8  

  3. Carlo Pelanda, La guerra all’Isis può farci guadagnare, Libero, 22/11/2015, pag. 9  

  4. Si veda anche: https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/  

  5. Il decreto prevede quasi 59 milioni di euro fino al 31 dicembre prossimo per la missione in Afghanistan, 42.820.407 euro per la partecipazione ad Unifil in Libano e 64.987.552 euro per attività della coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica dell’Isis. Per quanto riguarda le missioni in Europa, il provvedimento destina, tra l’altro, 4.213.777 euro per la proroga della di Active Endeavour; 33.486.740 euro per la proroga di EUNAVFOR MED, 25.602.210 euro per le missioni nei Balcani, e quasi 70mila euro per la partecipazione di personale militare alla missione dell’Unione europea in Bosnia-Erzegovina, denominata EUFOR ALTHEA“ https://www.lastampa.it/2015/11/19/italia/politica/alla-camera-via-libera-per-la-proroga-delle-missioni-allestero-corpi-speciali-a-supporto-degli-qWwuz8EYSTXIIgVGurvb8I/pagina.html  

  6. Si veda ancora http://www.repubblica.it/economia/2015/11/21/news/armi_isis_guerra_borsa_emirati_arabi-127849393/?ref=HREC1-8  

  7. Si veda in proposito https://www.carmillaonline.com/?s=la+bomba+iraniana  

  8. http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/11/20/news/terrorismo-da-dove-vengono-i-soldi-del-califfo-1.240236?ref=HRBZ-1  

  9. http://www.repubblica.it/esteri/2015/11/19/news/bombe_sul_petrolio_dello_stato_islamico_la_guerra_di_usa_e_russia_al_tesoro_di_al_baghdadi-127679597/  

  10. http://www.repubblica.it/economia/2015/11/20/news/qatar_isis_italia-127717794/  

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Formelle di Stato https://www.carmillaonline.com/2015/06/10/formelle-di-stato/ Wed, 10 Jun 2015 20:12:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23144 di Rinaldo Capra

formella 1Dalla pagina Facebook di Viviana Beccalosi, “notorio” assessore della giunta Maroni in quota Fratelli d’Italia, leggo: “Vigilia dell’anniversario della strage di Piazza della Loggia: ecco la “pacificazione” tanto cara alla sinistra: nella notte trafugata la lapide che ricorda Sergio Ramelli in Contrada Sant’Urbano,…. A Brescia continuano a esserci morti di serie A e di serie B. Vergogna!

Le sparate della Beccalossi ci ricordano i conflitti concreti della memoria incapsulati nelle lapidi, come se la celebrazione dell’indelebile scritta nel marmo, rappresentasse un’irrequieta memoria del confronto irrisolto tra principi opposti. Una conversazione sociale sull’Italia post-fascista e post-strategia della [...]]]> di Rinaldo Capra

formella 1Dalla pagina Facebook di Viviana Beccalosi, “notorio” assessore della giunta Maroni in quota Fratelli d’Italia, leggo: “Vigilia dell’anniversario della strage di Piazza della Loggia: ecco la “pacificazione” tanto cara alla sinistra: nella notte trafugata la lapide che ricorda Sergio Ramelli in Contrada Sant’Urbano,…. A Brescia continuano a esserci morti di serie A e di serie B. Vergogna!

Le sparate della Beccalossi ci ricordano i conflitti concreti della memoria incapsulati nelle lapidi, come se la celebrazione dell’indelebile scritta nel marmo, rappresentasse un’irrequieta memoria del confronto irrisolto tra principi opposti. Una conversazione sociale sull’Italia post-fascista e post-strategia della tensione, che apre una negoziazione tra le parti nella ricerca di una normalizzazione ideologica, ancor prima che emotiva.

Gli scontri sulle lapidi sorgono quando gli eventi che trattano sono ancora vicini e dividono profondamente. L’uso strumentale della memoria attraverso la lapide mira a un’indeterminatezza del sapere collettivo, per legarlo al racconto della lapide stessa e rendere la storia e i valori che l’hanno determinata un ricordo residuale, indifferenziato, alieno e confuso.

Lo stato, attraverso i suoi istituti, gestisce la memoria collettiva per normalizzare e mistificare la storia di strategia della tensione, conflitti di classe, terrorismo di stato e mitigare la tensione agli scontri sociali e ideali, sempre brucianti, che pervadono la società. La memoria condivisa, l’imposizione della compassione per le vittime, sempre e comunque, senza nessun distinguo, unisce tutti in un unico grumo d’incoscienza e in nome della non violenza, della conciliazione e del perdono per il bene comune ci rende plasmabili e reclutabili per tutte le lotte del capitale con violenza inaudita. La dissoluzione dei contenuti della storia ci sottrae non solo coscienza, ma libero arbitrio.

La rimozione della formella che commemora Ramelli è emblematica; il lavoro di alcuni storici (più storia e meno memoria?) vuole, ma non ha ancora potuto, archiviare e conciliare le cronache animate da fronti opposti, che si stanno fronteggiando in una partita tuttora in corso, con un neo-revisionismo del fascismo, in qualsiasi forma si sia manifestato.

In quest’ottica è esemplare il progetto di Casa della Memoria, Rotary Club, Comune di Brescia, Gruppo Locale Bu e Bei per il “ Percorso della Memoria”, sancito con Delibera Comunale n° 230 2012 e con l’Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica (è già eloquente la composizione dei promotori). Esso prevede la posa di formelle commemorative di tutte le vittime della violenza politica dal 1962 a oggi, in forma indifferenziata e arbitraria, ordinate in fuorviante ordine cronologico. Il percorso si snoda da Piazza della Loggia, esattamente dalla Stele che ricorda la bomba, verso la salita al Castello, via Sant’Urbano.

Ecco le finalità, testualmente: “Si ritiene che una collettività, desiderosa di giudicare serenamente una parentesi tragica della propria storia, debba avere il coraggio di ammettere e di ricordare il dolore pagato quale prezzo per sconfiggere la violenza di quegli anni. Questa testimonianza vuole raccogliere in un’unica espressione ciò che è affidato all’episodica rievocazione in manifestazioni deputate.

brescia_loggiaBene: raccogliere il tutto in “un’unica espressione” avvicinando, nelle lapidi poste con tanta pompa, vittime e carnefici in nome di una stagione di tolleranza e “serenità” è la manipolazione delle coscienze, assolvendo e riabilitando, senza che ci sia stata nessuna espiazione, i fascisti di ieri e di oggi e i loro folli ideali. Vedere in un tratto di quattro metri le formelle di Pinelli, di Serantini e più in alto di Calabresi è simbolicamente il rinnovato controllo di polizia su quei compagni, è disinnescare ogni possibile consapevolezza e mistificare la storia, oltre che fare un torto a Pinelli e Serantini. Ironia inconsapevole della cronologia esasperata.

E ancora, se la Delibera del 2012, con il Patrocinio del presidente della Repubblica e della Casa della Memoria, celebra le vittime della violenza politica e Pinelli è morto in questura mentre era affidato a Calabresi, di quale violenza politica è vittima? Calabresi quale violenta parte politica rappresentava, prima di esserne a sua volta vittima? Chi ha scelto, con tanta sensibilità, di metterli vicini evidenzia la volontà di portare avanti il processo tanto caro ai vari La Russa, Beccalossi e assessori della giunta Paroli, con il placet di parte della cosiddetta sinistra, di mettere repubblichini e partigiani, terroristi fascisti e immigrati o sindacalisti tutti sullo stesso piano.

La violenza è sempre inaccettabile, indegna e chi ne è vittima va subito santificato, salvo che sia un immigrato morto in cella nella caserma dei Carabinieri di Piazza Tebaldo Brusati, il 12 Dicembre (bel caso di sincronicità) 2010, in circostanze diciamo oscure, o qualche altro miserabile, che non sarà mai ricordato con una formella sulla salita di via Sant’Urbano.

Per altro ci sarà sempre qualche intellettuale di sinistra pronto a inerpicarsi in ardite teorizzazioni per creare il consenso revisionista; ecco che alla commemorazione del 28 Maggio s’imbarca anche lo storico (ex Lotta Continua) Giovanni de Luna, il quale sostiene la necessità di un nuovo sguardo verso le vittime delle stragi, verso la resistenza e che la strategia della tensione ha perso. Auspica un nuovo patto di cittadinanza per riavvicinare la classe politica all’opinione pubblica per dare spessore alla memoria, che altrimenti rimane sospesa. Paragona Piazza Loggia a Charlie Hebdo: un’apoteosi alla presenza dell’Ambasciatore francese.

Forse sfugge qualcosa: non è la memoria collettiva a essere sospesa, ma è la sua revisione continua che la desertifica. Lo stato non solo ha il monopolio dell’uso della violenza, ma della violenza ha anche il monopolio della gestione della sua memoria e celebrazione, piegandone tratti e contenuti secondo la convenienza politica del momento, e in un’ineguaglianza abissale di rapporti di forza, ci obbliga a guardare la nostra storia con una lente deformante fino a perderne per sempre la cognizione.

Enigmatica, in tal senso, l’adesione di Manlio Milani e della Casa della Memoria al progetto. Quarant’anni passati a elaborare lutti personali e lottare per ottenere una giustizia borghese negata, avrebbero fiaccato chiunque. La perdita, il dolore, la frustrazione è il muro invalicabile con il quale si va a cozzare, noi pensiamo solleciti lo spirito di rivolta, ma l’oppressione, l’umiliazione inesorabile e invincibile, alla lunga genera sottomissione, pietà logora e indeterminata, rabbia esausta e addomesticata. Il ruolo ieratico di infaticabile custode della memoria e della verità, usura e compensa squilibri emotivi, assorbe tutto, ma ha inevitabilmente una funzione politica.

I riti e i protocolli delle istituzioni rapiscono la ragione alla lunga e generano un ruolo pubblico, autoreferenziale, lunare a volte, che crede di incarnare tutte le istanze relative alla storia e alla violenza politica, ma finisce per essere strumento di quel potere che ha creato la strategia della tensione.
Si vede la liturgia e non la fede.

Poi tutti con i capi in testa, Sindaco, Casa della Memoria, Ambasciatore Francese e notabili vari, via di corsa a riposizionare la formella del fascista Ramelli e posare l’ultima, quella per Charlie Hebdo.

Per concludere un proverbio polacco di rara efficacia, citato in uno Spaghetti Western di Sergio Corbucci1 : “Ci stanno facendo spingere un secchio pieno di merda con un bastone troppo corto per non sentirne l’odore”.


  1. Il mercenario, 1969  

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#jesuishumain https://www.carmillaonline.com/2015/02/02/je-suis-humaine/ Mon, 02 Feb 2015 22:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20377 di Girolamo De Michele

[NB: Questo testo esprime le idee personali dell’autore e non è rappresentativo della redazione di Carmilla.]

matite“People can be so cold / They’ll hurt you and desert you / Well they’ll take your soul if you let them” (Carole King – James Taylor)

Conoscere una città significa perdervisi, diceva un filosofo che conosceva Parigi come pochi: significa lasciarsi guidare dalle sue suggestioni, dai suoi mille segni, dai nomi delle vie. Significa privilegiare la via più lenta, non quella più immediata: e fare della topografia un’etica. Da rue Nicolas Appert, dov’era [...]]]> di Girolamo De Michele

[NB: Questo testo esprime le idee personali dell’autore e non è rappresentativo della redazione di Carmilla.]

matite“People can be so cold / They’ll hurt you and desert you / Well they’ll take your soul if you let them”
(Carole King – James Taylor)

Conoscere una città significa perdervisi, diceva un filosofo che conosceva Parigi come pochi: significa lasciarsi guidare dalle sue suggestioni, dai suoi mille segni, dai nomi delle vie. Significa privilegiare la via più lenta, non quella più immediata: e fare della topografia un’etica.
Da rue Nicolas Appert, dov’era la redazione di Charlie Hebdo, a place de la République sono una ventina di minuti, a piedi. Diventano molti di più se li si percorre cercando di cogliere tutto ciò che si annida in quelle strade. Non sono sicuro di aver capito tutto, ma almeno ci ho provato.
Il cielo di Parigi, quel giorno, era scuro e nuvoloso, e l’aria sferzata dal vento del nord: come nei versi di Carole King: If the sky above you / should turn dark and full of clouds / and that old north wind should begin to blow – ma dove, in questi giorni, non lo è?

percorso1

1. Touche pas à ma liberté d’expression
10, rue Nicolas Appert

Dunque qui lavorava una redazione giornalistica sterminata da due terroristi armati di AK-47. La redazione di Charlie Hebdo, quella delle famigerate vignette che…
No, un momento: qui non è questione di quelle o altre vignette. La questione è una, e una solo: quei 10 corpi accatastati uno sull’altro in un giornale, più il portinaio ammazzato nella sua portineria, un gardien de la paix ammazzato a freddo poco più in là, sul boulevard; e, nei giorni a seguire, una guardia municipale a Montrouge, e 4 ostaggi nel negozio kosher di Porte de Vincennes. Morti che pesano come montagne.
Perché delle vignette se n’è parlato a più riprese, a torto e a ragione, per otto anni: e tutto quello che poteva esser detto pro o contro, è stato detto. E perché molti dei sottili distinguo che separano la libertà d’espressione e il diritto di satira dal vilipendio e dall’uso scriteriato dei diritti, che per otto anni sono stati argomento di pubblico dibattito, erano irrilevanti, fors’anche ignoti, e di certo impercepibili da parte dei fratelli Kouachy.
Per dire: non facevano più ridere? I Kouachy non avrebbero riso neanche con Gipi e Zerocalcare…
touche_pasLa questione non è neanche quella della protezione di Charlie Hebdo, che era stata ritirata (sulla
Street View di Google Maps, aggiornata ad agosto, è ancora visibile la sorveglianza dell’ingresso della redazione): il ritiro della vigilanza è argomento rilevante in altro genere di discussioni. Ma con franchezza bisogne ammettere che il commando costituito da due fratelli militarmente preparati e armati, imbevuti di ideologia  Takfir, ma per altro verso privi di supporto logistico, di capacità organizzativa e di conoscenze financo elementari (chessò, sorvegliare l’ingresso dell’obiettivo; piazzare un palo, se non un supporto armato, sulle vie d’accesso; allacciarsi le scarpe…), avrebbe comunque trovato un target alternativo di grande rilevanza mediatica – forse quell’asilo ebraico che era l’obiettivo iniziale di Amedy Coulibaly.
Ma c’è un ma: è stato colpito un giornale, sono stati massacrati (non solo, ma anche) dei giornalisti.
Questo crea un precedente: nella logica dell’escalation militare (dell’innalzamento del livello di scontro, si sarebbe detto in altri anni), motivata dal bisogno di clamore mediatico – per dirla con cinico realismo: nella logica di vendere meglio un prodotto al-Qaeda rispetto a quello dei rivali del Daesh (=Isis), in una logica di rilancio continuo – non si torna indietro. D’ora in poi, giornalisti e scrittori sono un target anche in Occidente: la logica di eliminazione fisica di giornalisti e scrittori come strumento per l’eliminazione materiale della libertà di espressione è stata esportata dal Medio Oriente all’Europa. D’ora in poi, un giornalista o uno scrittore “scomodo”1 può essere intimidito, imbavagliato, o eliminato costruendogli il profilo di target ideale e facendo filtrare il suo nome.
Questo è il punto: la libertà d’espressione – non quella formale, scritta nei principi astratti: quella concreta, che consiste in produzioni d’informazione, inchieste, prese di parola e quant’altro vi viene in mente. Quella libertà d’espressione stretta nelle maglie di un conflitto nel quale non ci sono solo due attori, uno buono e uno cattivo, ma una pluralità di attori, tutti – seppur in diversi gradi – cattivi.
E le condizioni materiali di tutela e, soprattutto, auto-tutela di questa libertà.

2. Le rêve aux loups (Allarmi, son fascisti!)
Passage Sainte-Anne Popincourt

Uscendo da rue Nicolas Appert ci si sente osservati da sguardi malvagi: lupi purpurei con occhi di bragia sui muri separati dal passage. Sono graffiti stampati dall’autore di un romanzetto probabilmente pessimo, di sicuro rancoroso (Le rêve aux loups): pubblicità, insomma, destinata ad essere sommersa da ben altri clamori mediatici. Restano questi lupi feroci che ti guardano mentre mediti sul fatto che questi jihadisti sono dei fascisti, senza se e senza ma. E che questa strage costringerà a riformulare, ad ampliare il concetto di fascismo.
reve_aux_loups copiaLo si potrebbe argomentare in molti modi, scelgo di farlo con una voce che viene da piazza Tahir2: Alaa el-Aswani, romanziere di fama, ma anche attivista politico contro (nello stesso tempo) la dittatura di Mubarak e il fondamentalismo salafita della Fratellanza Musulmana. El-Aswani ha partecipato sia all’accampata di piazza Tahir – narrando le morti degli accampati al suo fianco per mano dei cecchini – sia alla rivolta contro la dittatura fondamentalista instaurata da Morsi3. In un articolo dell’ottobre 2011, L’Egitto di fronte al fascismo4, el-Aswani, dopo aver spiegato ai lettori egiziani l’origine del termine “fascismo”, cala nella realtà egiziana questo concetto politico:

«Purtroppo il concetto di fascismo si adatta a numerosi partigiani dell’islam che credono di esserne i soli rappresentanti; che considerano come nemici tutti quelli che non sono d’accordo con le loro opinioni, e che sono pronti a imporre le proprie idee con la forza. La loro storia è piena di crimini e aggressioni contro chiese e mausolei, di incendio e saccheggio di negozi e magazzini copti [minoranza religiosa discriminata e perseguitata dai fondamentalisti islamici in Egitto]».

Citando la persecuzione dello scrittore Nagib Mahfuz, accusato dai fondamentalisti di essere «responsabile della decadenza morale degli egiziani con i suoi romanzi pornografici», el-Aswani avverte: questo «fascismo religioso che sfrutta i sentimenti religiosi degli egiziani per arrivare al potere […] non è un prodotto originario dell’Egitto», ma dei fiumi di denaro provenienti dal petrolio saudita di cui dispongono i gruppi salafiti wahhabiti. E – argomenta in altri articoli – dell’indottrinamento degli emigrati che sono andati a cercare lavoro nell’Arabia saudita wahhabita, e del potere mediatico dei predicatori televisivi (i cui programmi si moltiplicano perché veicolano, con i loro indici di ascolto, maggiori introiti pubblicitari per le emittenti televisive). A scanso di equivoci, el-Aswani è un musulmano credente, imparentato con figure importanti del clero musulmano egiziano: ma rifiuta il fanatismo che riduce «la religione ai galabieh e agli hidjab»5.
Il riferimento al denaro saudita coglie un aspetto importante: il contesto geo-politico mediorientale, segnato dalla geometria variabile delle politiche imperiali statunitensi e delle mosse e contromosse delle altre potenze locali. Politiche che creano e sostengono il fondamentalismo, ma delle quali i fondamentalisti a loro volta si servono con astuzia e pragmatismo (proprio come le dinamiche di reciproca infiltrazione e strumentalizzazione fra servizi cosiddetti “deviati” e gruppi eversivi neofascisti fra piazza Fontana e la stazione di Bologna): il che non impedisce al romanziere di riconoscere una soggettività politica agli jihadisti (piuttosto che crederli semplici burattini), di comprenderne la pericolosità dei comportamenti politici, e di riconoscerli come nemici da combattere.

3. Écrasez l’Infâme
Boulevard Voltaire

boulevard_voltaireOgni articolo di el-Aswani si conclude con la stessa frase: La democrazia è la soluzione. Quasi ogni articolo ribatte su quattro parole chiave: libertà, uguaglianza, giustizia, democrazia. Chi in questi giorni ha appiattito il significato di queste parole – un evidente calco della triade Liberté Égalité Fraternité – sul formalismo liberale dovrebbe riflettere sul fatto che queste sono parole d’ordine provenienti dalla rivolta di piazza Tahir, dove si lottava e si moriva non per astratte parole, ma per la concretizzazione materiale di questi principi. Fosse mai necessario, basterebbe a ricordarcelo il nome celebre e abusato di Voltaire, che col proprio boulevard interseca il boulevard Richard Lenoir.
Si, certo, Voltaire: quello di quella frasetta sul morire per la tua opinione che non condivido, che tutti sanno – e che Voltaire non ha mai detto. E che, soprattutto, ha l’effetto di esentare dalla conoscenza del Trattato sulla tolleranza, del quale ricorrono quest’anno i 250 dalla pubblicazione: a distanza dei quali bisogna riconoscere che sembra essersi perduta la memoria di cosa davvero significava, nel XVIII secolo, parlare di “tolleranza”. Trattato che contiene in sé i principi della Rivoluzione Francese, e anche qualcosa di più: la descrizione di un mondo non di astratti principi, ma reale, con le proprie norme e relazioni, nel quale in nome della tolleranza si concretizzano gli altrimenti astratti principi della triade rivoluzionaria. Una cosa così, per capirci:

Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobane, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta. Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli.

Se poi valga la pena di morirvi, fate voi: per i popoli di Rojava, sì.

Una breve, ma necessaria precisazione: una cosa è la concezione liberale di libertà, eguaglianza e fratellanza, un’altra quella concreta, materialista – si può dire: comunista? (L’armata dei sonnambuli dei Wu Ming, su questo, sarebbe dovuto bastare ad abundantiam…). Così come un conto è opporsi ai principi della rivoluzione francese perché sono rimasti sulla carta – dunque lottare per concretizzarli nelle vite e nei corpi degli esseri umani, un conto opporvisi perché si è contrari alla libertà, all’eguaglianza, alla fraternità – dunque lottare, come fanno i fascisti di ogni risma e colore, fra i quali gli ubriachi di ideologia salafita e jihadista, per una società governato dalla disuguaglianza, dalla servitù e… qual è il contrario di fratellanza?
Il contrario di fratellanza è “schiavitù”: perché Fraternité significava abolizione della schiavitù. Il che, nell’ideologia jihadista, è un male del tempo presente, un abbaglio satanico:

Before Shaytan [=Satana] reveals his doubts to the weak-minded and weak hearted, one should remember that enslaving the families of the kuffar [=miscredente] and taking their women as concubines is a firmly established aspect of the Shari’ah that if one were to deny or mock, he would be denying or mocking the verses of the Qur’an and the narrations of the Prophet, and thereby apostatizing from Islam. Finally, a number of contemporary scholars have mentioned that the desertion of slavery had led to an increase in fāhishah (adultery, fornication, etc.), because the shar’i alternative to marriage is not available, so a man who cannot afford marriage to a free woman finds himself surrounded by temptation towards sin. In addition, many Muslim families who have hired maids to work at their homes, face the fitnah [=disagio, sofferenza] of prohibited khalwah (seclusion) and resultant zina [=rapporti sessuali non legittimati dal matrimonio] occurring between the man and the maid, whereas if she were his concubine, this relationship would be legal. This again is from the consequences of abandoning jihad and chasing after the dunya [=il mondo terreno].

Questa citazione è tratta da Dabiq, il magazine del Daesh6. Si potrebbe rafforzare questo argomento con alcune analisi testuali sui diversi numeri di Dabiq: ad esempio sulla ricorrenza della parola “woman” nei 5 numeri finora pubblicati: dalla cui inesistenza si evince come la donna non sia non solo soggetto di diritto, ma men che meno soggetto; o della parola “oil”: la cui assenza conferma l’attitudine fascista a mascherare dietro paraventi ideologici – razza, credo, popolo, Stato – la radice economica dei conflitti.
VoltaireO analizzare le modalità di propaganda jihadista – l’islamismo twitter e il gore You Tube, per dirla con  Serge Quadruppani – per trovare pregnanti analogie con, ad esempio, le ultime produzioni grafiche  ideologically troglodytic di Frank Miller: in particolare, l’uso mediatico dello sgozzamento come rituale necropolitico7, come modalità di scatenamento emotivo-retorico che si sostituisce all’uso del logos e della ragione. Ma, per l’appunto: Frank Miller è un fascista, e della sua fascistità nessuno (al di fuori dei frequentanti di casapound e simili) dubita.

Voltaire, si diceva, e il suo concetto di tolleranza. C’è un corpo vivente che, nel suo essere moltitudine, la descrive e la esprime più d’ogni parola:  Lassana Bathily, il migrante maliano, nero, musulmano, banlieuesard del foyer Bara (la P’tite Bamako) di Seine-Saint-Denis che lavorava come commesso nell’ipermercato kosher di Porte de Vincennes. Lassana Bathily, uno di quelli che in Italia arrivano con Mare Nostrum; uno di quelli che “perché non te li prendi a casa tu”, che “meglio se restano a casa loro, invece di portare malattie qui”, come dicono fascisti e razzisti; Lassana Bathily, che se non c’era, c’erano 15 ostaggi morti in più; Lassana Bathily, che è stato arrestato e interrogato per un’ora (un’ora preziosa persa), prima che i gorilla delle forze speciali capissero che non era un complice di Coulibaly. Ecco: la tolleranza di cui scriveva Voltaire può essere un mondo reale, nel quale i Lassana Bathily hanno diritto di cittadinanza anche senza compiere gesti eroici. Un mondo per cui vale la pena di battersi, e continuare a gridare: Écrasez l’Infâme!

4. Je suis Ahmed
132, boulevard Richard Lenoir

132_bd_richard_lenoirPer un autore di romanzi polizieschi, o per un semplice lettore, il numero 132 del boulevard Richard Lenoir non è un indirizzo qualunque: lì, ogni sera, rincasava il commissario Maigret (tranne la breve parentesi in cui si trasferì in place des Vosges). Maigret è una figura di rilievo nel genere poliziesco. Non è ancora arrivato il noir dei Malet e Manchette, ma qualcosa di torbido comincia già a filtrare: la grettezza, l’ipocrisia, il sordido rancore della società piccolo-borghese, il cui grigiore diverrà cupa tenebra nei film di Clouzot. Jules Maigret non è un un poliziotto legge-e-ordine: ha simpatia per i piccoli delinquenti, per la “vecchia mala”, a volte lascia andare i colpevoli (come nel magistrale Le pendu de Saint-Pholien). Simenon gli ha dato  due regole: “comprendere e non giudicare, perché ci sono soltanto vittime e non colpevoli”; “non bisognerebbe mai togliere all’essere umano la sua dignità personale”. Il mondo (fors’anche ai tempi di Maigret) non è quello dei gialli di Simenon: chi vuole leggere la realtà con le chiavi del poliziesco fa meglio, oggi, a rivolgersi a David Simon e Olivier Marchal. Ma l’estrema lontananza del mondo di Maigret ci rende quel mondo come un passato remoto che si mostra come un presente desiderabile, ovvero come un futuro potenziale (un futuro anteriore): un mondo di essere umani dotati di dignità.
Quella dignità che è stata negata ad Ahmed Merabet, l’essere umano ucciso come un animale sul boulevard Richard Lenoir.

Si, certo: era un poliziotto, come gli altri due suoi colleghi uccisi poteva scegliere un altro mestiere. Anche i giornalisti di Charlie Hebdo, del resto, potevano disegnare altre vignette. Quanto agli acquirenti e all’inserviente del negozio kosher, potevano non nascere ebrei. Ci restano un portinaio, due visitatori occasionali, e un impiegato: vogliamo definirli epifenomeni sovrastrutturali che non incidono sulla tendenza?
E una volta che finiamo col ragionare così, in cosa siamo diversi dal fascio-jihadista che cerca nel kalashnikov un sostitutivo della propria impotenza?

Ma Ahmed Merabet, mentre moriva, non era un poliziotto. Lo era stato, come era stato molte cose: un musulmano, un immigrato di seconda generazione, un franco-arabo; un banlieuesard che era riuscito a studiare (ci vuole il Bac per fare il gardien de la paix), nato nella famigerata Seine-Saint-Denis8. Ma in quel momento, mentre implorava il fascio-jahdista che stava per dargli il colpo di grazia, non era nulla di ciò – men che meno, nella sua impotenza di essere umano disarmato e ferito, un flic: era una nuda vita in pugno a un essere inumano. Ci sono dei filosofi che, per ragioni che non ho mai compreso, hanno teorizzato l’esistenza di una “nuda vita” che precederebbe ogni altra attribuzione e qualificazione. No, non esiste alcuna nuda vita: esiste solo la vita denudata, spogliata di ogni essenza e ridotta a un mero corpo. Ridurre l’essere umano a nuda vita è qualcosa che ha a che fare con l’espropriazione dell’essenza umana di cui scriveva Marx, e con la riduzione a quella condizione di impotenza assoluta che si esperiva ad Auschwitz (condizione per la quale valeva l’appellativo di “musulmano”, testimonia Primo Levi).
je_suis_humaine«I Fratelli [Musulmani] e gli sceicchi salafiti hanno l’abitudine di negare la natura umana dei loro oppositori. Non considerano i loro oppositori esseri umani come loro, ma li classificano sotto l’etichetta negativa di “laici”, “seguaci dell’Occidente” o “nemici della shari’a”»9, scrive el-Aswani. Le stesse dinamiche, con un’analisi più raffinata, sono descritte da Didier Fassin come “intolleranza alla tolleranza” che fa sì che gli appartenenti a un corpo chiuso si sentano legittimati a farsi giustizia da sé, secondo un’economia morale che nega la percezione dell’altro come essere portatore di dignità e umanità, così come rende impercepibile il carattere immorale dell’esercizio arbitrario della violenza: la violenza esercitata è anzi percepita come inscritta all’interno di uno spazio morale nel quale i “buoni” infliggono una “giusta” punizione ai “colpevoli”10. Se non che, le dinamiche descritte da Fassin sono quelle, fasciste e razziste, delle Brigate Anti Criminalità, cioè dei corpi speciali impiegati dalla polizia nelle banlieue. Il fascio-jihadismo interiorizza i comportamenti del “nemico” (compresa l’attitudine ad agire secondo modalità da racket delinquenziale), senza percepirne l’apparente paradossalità (un fenomeno noto come “dissonanza cognitiva”). Ahmed Merabet era un essere umano spogliato della propria umanità prima di essere assassinato da un essere inumano che non gli riconosceva alcuna dignità. Una combattente curda, nel  reportage da Kobane di Zerocalcare, spiega qual è la differenza: «A noi nessuno può venirci a dare lezioni di Islam. Sono quelli dell’Isis a non essere musulmani. Noi rispettiamo tutti. Noi seppelliamo i morti. Anche i loro».
Tutto questo, ancor più dell’ashtag #jesuisahmed, è esemplificato da un cartello lasciato davanti alla redazione di Charlie Hebdo: Je suis humain.
Con le parole di Vittorio Vik Arrigoni: restiamo umani. Vik è stato assassinato da fanatici salafiti ai quali era stato “indicato” come pervertitore della morale della gioventù, mentre accompagnava alla critica della pulizia etnica del governo sionista su Gaza, la critica al carattere antidemocratico del governo di Hamas: era il 2011.

5. #jesuishumain
Place de la République

Place de la République è il luogo nel quale un sit in proclamato da un’associazione di giornalisti francesi s’è trasformato in una manifestazione di massa la sera del 7 gennaio, per proseguire nei giorni successivi: #jesuischarlie11.
Non avendo di meglio da dire o da fare, in molti si sono esercitati nei distinguo tra cosa significa “essere” e “non essere” Charlie: laddove un’inesistente gauche francese avrebbe dovuto chiedersi perché non era in grado di lanciare parole d’ordine diverse in grado di agglutinare corpi e consenso. Viene il sospetto che la moltitudine, o le masse, o come si vogliano chiamare centinaia di migliaia (milioni, alla fine) di individui che si radunano e agiscono vadano bene solo a patto di fare, “spontaneamente”, quel che altri ritengono debbano dire e fare. Eppure, Charlie o non Charlie, quella moltitudine ha reagito all’uso politico della paura – il “governo della paura”, come lo chiama Marc Crépon, la “politica della paura”, come la chiama Serge Quadruppani –; ha espulso sin dalla prima sera dalla piazza chi si era presentato con l’intenzione di bruciare il Corano o con bandiere del FN; non ha fatto proprie le richieste sicuritarie di un Patriot Act in salsa francese (lo scambio libertà-sicurezza, la limitazione del trattato di Schengen); ha creato le condizioni perché il Front National fosse tenuto al di fuori della piazza12. Tutto questo è accaduto prima della pagliacciata dei capi di Stato che hanno cercato di mettere il loro cappello su una piazza nella quale non c’erano.

Dice: ma si sono stretti attorno ai valori della Francia coloniale, alla ragione bianca e occidentale (#jesuischarlie = je suis blac = je suis occidental?)…
Dice ancora: ma nelle manifestazioni del 7-11 la banlieue non c’era (davvero? e, ad esempio, i familiari e amici di Ahmed Merabet?)…

consÈ quasi incredibile la semplificazione che sottende questi discorsi. A partire dall’identità bianca e coloniale della République: come se nella storia della Francia ci fossero solo le guerre coloniali, e non anche la resistenza e il maggio ’68. Sul numero di Philosophie magazine uscito due settimane dopo la strage, in un serrato dialogo col filosofo identitario Finkielkraut, Marc Crépon afferma: «L’identità della Francia, come ogni identità collettiva, deve prima di tutto essere compresa come identità relazionale. L’identità non è qualcosa che si tiene da sola, è il risultato di una storia. E questa storia integra ciò che ci ha messo in relazione col resto del mondo»13. Solo appiattendo questa complessa stratificazione sul momento coloniale si può ignorare che persino l’appello a una Repubblica i cui valori, nella costituzione materiale, si sono affievoliti può significare, da parte di chi li invoca, il diritto a una società diversa, nella quale i diritti astratti ridiventano concreti: che è quello che almeno una parte di place République intendeva nell’identificarsi con la vittima-Charlie, contro chi vuole costruire un modo asservito, disuguale e schiavo.
Ancor più grave è la schematizzazione meccanica di due linee del colore – quella bianca-occidentale contrapposta a quella nera-banlieue: come se ci fossero due sole linee del colore, come se la linea del colore coincidesse con quella che separa la miseria dal benessere. Come se non intervenissero altre linee invisibili, e non solo nelle banlieue: ad esempio, quelle che trasportano i conflitti mediorientali all’interno delle comunità ebraica e araba.
Proiettare le proprie chiavi di lettura universali su realtà distanti, nella convinzione che esse realtà siano intellegibili in funzione dell’universalità delle categorie: non c’è nulla di più “occidentale”, “bianco”, culturalmente imperialista. Col risultato di interiorizzare quelle semplificazioni derivanti dalla riduzione dell’altro allo stesso, quella reificazione della soggettività messe in atto dall’ordine del discorso politico – i banlieuesard contro i parigini, i poveri contro ricchi, i neri contro i bianchi, i selvaggi contro gli studenti, gli indignati contro la République, ecc. – allo scopo di «poter leggere con facilità questa strana soggettività che emerge, fissare il volto e dire il nome»14.
E infine: quale sociologismo da quattro soldi, quale determinismo che neanche nei tribunali sovietici – e che ignora la contraddizione costituita dai due banlieuesard di questa storia: Ahmed Merabet e Lassana Bathly – si cela dietro i benaltrismi sulla banlieue, che glissano sul dato duro della responsabilità politica, della scelta etica individuale, dell’esistenza di processi di soggettivazione che avvengono lungo spazi, linee di comunicazione, filiere gestite come racket malavitosi, che riterritorializzano sui crinali di produzione dell’odio le linee di fuga determinate dalla crisi di governabilità dei territori urbani – o forse, della messa a profitto di queste linee di crisi?

Non si tratta di sapere chi si è, men che meno di aggrapparsi a un’identità. Si tratta, però di sapere cosa non si vuol diventare, cos’è giusto e cosa non lo è: #jesuishumain.

Post scriptum: Hey, ain’t it good to know that you’ve got a friend?
Hôtel de Ville

Da République, con la linea 11 della metro, si può arrivare in pochi minuti all’Hôtel de Ville, dove un’ipocrita Stato ha conferito post mortem la cittadinanza onoraria a quel Charlie Hebdo che non ha voluto proteggere. Alla commemorazione funebre, com’è noto, è intervenuto James Taylor, con un gesto che lì per lì m’è sembrato strano: arrampicato su uno sgabello, ha suonato qualche nota della Marsigliese, per poi usare come ponte una nota in comune ed eseguire senza soluzione di continuità  You’ve got a friend. Mi sarebbe dovuto suonare smielato, retorico: e invece no.
loves_from_the_warMa ho faticato a capire perché: finché non me l’ha fatto comprendere Zerocalcare, col suo reportage su Kobane. Nel quale lui stesso di chiedeva cosa l’ha davvero spinto, al di là delle motivazioni “razionali”, a partire per Kobane (lui: io sono un povero stronzo che a Kobane non c’è andato e non ci andrà): il cuore. Quel muscolo che dovrebbe pompare sangue e non sentimenti: e dentro il quale (in culo all’anatomia e alla verità della medicina) pompano «gli insegnamenti, le cose trasmesse, quelle che ti hanno fatto piangere, quelle che ti hanno fatto ridere, il sangue che ti ribolliva dentro e quello che ti hanno fatto sputare fuori». In una parola, le passioni: quanto di più politico esista. You’ve got a friend parla di passioni tristi, di uomini gelidi che ti feriscono, che cercano di portarti via l’anima. E di esseri umani che davanti alla tragedia quotidiana (non importa quanto grande o piccola sia) cercano una via d’uscita non nell’obbedienza assoluta a una qualche guida, non nel vittimismo paranoico, non nella demonizzazione dell’altro, non nell’esistenza di un complotto globale15 – non nell’assoggettamento alle passioni tristi, ma nel cercare una relazione con l’altro che si trasformi in processo di soggettivazione. Creare una relazione con l’altro è cosa tutt’altro che banale: comporta scelte, conflitti, la stessa accettazione della guerra come situazione-limite rispetto a una modalità relazionale. I due ragazzi kurdi nell’immagine qui sopra lo sanno bene, ciascuno di loro può sussurrare, mentre che il vento della guerra, come fa, si tace: You’ve got a friend.

Tutte le immagini, tranne l’ultima, sono state scattate da me. Una delle matite nella foto in alto era la mia


  1. Uno che, poniamo, denunci eliminazioni mirate dei leader delle comunità migranti mascherate da risse di strada da parte delle forze dell’ordine: uno come il Salman Rushdie dei Versi satanici, per capirci; uno che cominci a fiutare l’aria in redazione e intuisca che qualcosa che ancora non era nota come P2 sia diventata il vero padrone del primo quotidiano d’Italia: uno come Walter Tobagi, per capirci ancora; uno come Vik Arrigoni, per continuare a capirci… 

  2. Non dalle caffetterie o dagli hotel a 5 stelle del Cairo dai quali in genere scrivono gli inviati della “grande stampa”. 

  3. Con i decreti che lo trasformavano in un sovrano legibus solutus: una procedura analoga a quella seguita da Hitler. 

  4. Alaa El Aswany [el-Aswani], Extrémisme religieux et dictature. Les deux faces d’un malheur historique, traduit de l’arabe par Gilles Gauthier, Actes Sud, 2014, pp. 136-143. 

  5. Id., p. 20. 

  6. Dabiq n. 4, The revival of slavery, 1435 dhul-hijjah (ottobre 2014), pp. 14-17, p. 17. Questo magazine, avendo stomaco, è facilmente reperibile in pdf. 

  7. Sulla necropolitica dello jihadismo vedi  Horror jihadista di Paul B. Preciado. 

  8. A differenza dei fratelli Kouachy e di Coulibaly. Certo, anche il confine nord del XIX arrondissement, dove sono cresciuti i Kouachy, era una zona segnata da un forte degrado sociale, sul quale insiste la penetrazione salafita: ma non è la banlieue. Resta sintomatico il riflesso pavloviano nel citare la banlieue come giustificazione per il carnefice, quando invece è il luogo dove è cresciuta, abitava, ed è ora sepolta la vittima. 

  9. El Aswany, op. cit., p. 183. 

  10. Didier Fassin, La force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, Seuil, 2011 (nuova edizione 2015); trad. it. La forza dell’ordine, La Linea, Bologna 2013. 

  11. Non mette conto parlare del fatto che per qualche giorno erano tutti Charlie col culo dei redattori di Charlie Hebdo – anche quelli che s’erano afFratellati (d’Italia) con Massimo Carminati e Daniele De Santis (l’assassino di Ciro Esposito), anche quelli che i giornalisti palestinesi assassinati dall’esercito israeliano se la sono cercata, anche quei razzisti in salsa Le Pen-Salvini dei quali Charlie Hebdo pensava che sono  una cofana di stronzi: è proprio dei “significanti vuoti” il fatto di non esistere, ovvero che ciascuno può riempirli come crede – anche a sprezzo del ridicolo. 

  12. Vedi Marco Assennato,  Quattro tesi sul 7 gennaio 2015

  13. Marc Crépon, Alain Finkielkraut,  Comment peut-on être étranger?, in Magazine philosophie n. 86, febbraio 2015, pp. 60-65. Il mensile, dedicato al tema “L’enfer, c’est les autres”, è stato approntato prima della strage. Alla denuncia della “politica della paura” e dello “scontro di civiltà” Crépon ha dedicato diversi libri, dal 2001 a oggi; probabilmente definirebbe la tolleranza di cui parlavo in precendenza come “l’au-delà de la tolérance”

  14. Della reificazione messa all’opera per produrre una riduzione forzata «à l’image rassurante du même» – stesso colore della pelle, stessa religione, stessa età, stesso rapporto di scacco rispetto all’integrazione e alla memoria dei propri padri – scrive Judith Revel in Qui a peur de la banlieue?, Fayard, 2008, soprattutto pp. 129-142. 

  15. Cioè i quattro fondamenti dell’islamismo salafita che «mutano radicalmente il senso della religione: invece di essere il mezzo per realizzare giustizia, libertà e uguaglianza, essa diviene strumento di odio degli altri e una minaccia contro le loro vite e i loro diritti», El Aswany, op. cit., p. 185. 

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