Charles Bukowski – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Jul 2025 20:00:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il profeta americano dell’illusione e il talento necessario per sopravvivere agli anni Sessanta https://www.carmillaonline.com/2024/10/30/tra-mozart-e-new-orleans-unaltra-storia-dei-talenti-americani-degli-anni-sessanta/ Wed, 30 Oct 2024 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85058 di Sandro Moiso

Robert Stone, Una sala di specchi, traduzione di Dante Impieri, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 550, 20 euro

Un critico letterario americano ha definito Robert Stone (1937-2015) “il profeta americano dell’illusione”, una definizione che, pur essendo adatta anche a numerosi altri scrittori statunitensi, sicuramente calza a pennello per l’autore originario di Brooklyn. Cosa che il romanzo appena pubblicato da minimum fax, che dello stesso autore aveva già pubblicato in precedenza Dog Soldiers (qui), conferma senza alcun dubbio.

Con una differenza rispetto al precedente, però, poiché mentre Dog Soldiers era stato pubblicato originariamente nel 1974, in pieno [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Stone, Una sala di specchi, traduzione di Dante Impieri, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 550, 20 euro

Un critico letterario americano ha definito Robert Stone (1937-2015) “il profeta americano dell’illusione”, una definizione che, pur essendo adatta anche a numerosi altri scrittori statunitensi, sicuramente calza a pennello per l’autore originario di Brooklyn. Cosa che il romanzo appena pubblicato da minimum fax, che dello stesso autore aveva già pubblicato in precedenza Dog Soldiers (qui), conferma senza alcun dubbio.

Con una differenza rispetto al precedente, però, poiché mentre Dog Soldiers era stato pubblicato originariamente nel 1974, in pieno svolgimento della sconfitta americana in Vietnam e nel corso del disfacimento politico e sociale che ne era conseguito, il presente (titolo originale Hall of Mirrors) era stato pubblicato otto anni prima, all’alba di quella che sarebbe diventata l’estate dell’amore del 1967, del rinascimento psichedelico della California e di San Francisco e in pieno movimento per i diritti civili degli afro-americani (e non solo).

A Hall of Mirrors. il suo primo libro gli valse sia la Houghton Mifflin Literary Fellowship che il William Faulkner Foundation Award per il miglior romanzo d’esordio. Come afferma Assunta Martinese nel breve profilo bio-bibliografico anteposto all’edizione attuale:

Nel romanzo era già presente la struttura che caratterizzerà le migliori opere di Stone: l’intrecciarsi delle linee narrative di più protagonisti, in cerca di un brandello di significato a cui non sembrano giungere mai e sballottati da eventi sui quali sembrano non avere alcun controllo mentre la narrazione si muove inesorabilmente verso un epilogo apocalittico. Ambientato nel 1960 a New Orleans e ispirato in parte a eventi realmente accaduti, il romanzo descrive «il lato oscuro dell’America, che negli anni Sessanta emerse in modo esplosivo». Nonostante offra uno spaccato vividissimo dell’epoca – la scena politica dominata dal razzismo bianco, gli albori della controcultura, il movimento per i diritti civili – lo stile si discosta in modo evidente da quello dei primi esponenti del realismo sociale, avvicinandosi di più – con la sua alternanza di naturalismo e flusso di coscienza – a quello dei Beat1.

Dal romanzo fu tratto un film di Stuart Rosenberg – Un uomo oggi, con Paul Newman nel ruolo del protagonista – di cui Stone curò la sceneggiatura, rimanendo però profondamente deluso dal risultato finale, come sarebbe poi ancora successo con la trasposizione cinematografica di Dog Soldiers. Anche se, grazie al successo del romanzo, Stone ottenne la Guggenheim Fellowship, che diede inizio alla sua carriera di scrittore professionista.

La vicenda vede al suo centro due figure, egualmente disperate e reiette: l’alcolista Rheinhardt, clarinettista e un tempo, forse, buon esecutore di alcune delle opere più difficili di Mozart, e Geraldine, una giovane, forse giovanissima, ragazza fuggita da Galveston in Texas per finire, prima, a Saint Louis, nel Missouri, e successivamente a New Orleans. Sempre a caccia di un sogno che non la porterà ad altro che a lavorare nei bordelli o sulle strade, nelle mani di protettori sempre violenti e di poliziotti sempre corrotti. In una città che più che vocare lo splendore del passato coloniale e schiavistico, ne evoca soltanto il marciume e la miseria, economica e morale, mentre a dominare il paesaggio non sono il Mississippi o i locali noti fin dalle origini del jazz, ma le fabbriche chimiche e le paludi inquinate dalle stesse. Così, anche se su Congo Square non si vendono o acquistano più gli schiavi di origine africana, le onde radio continuano a portare nelle case un razzismo ugualmente feroce e condito di anticomunismo viscerale.

Le speranze di Geraldine sono accompagnati dalle canzoni di Faron Young e Hank Williams, dai dischi dei juke-box e dal ritmo di “Walk Don’t Run” dei Ventures; quelle di Rheinhardt dal sogno di diventare, o averlo potuto fare in passato, il migliore esecutore di Mozart. In particolare del quintetto in La maggiore per archi e clarinetti, comunemente noto come “Quintetto Stadler”. Musiche diverse per la colonna sonora di un medesimo e disgraziato film.

Una narrazione sempre sospesa tra dramma e ironia, talvolta feroce, che vede coinvolti anche altri comprimari, sia per brevi apparizioni che per ruoli più complessi e compositi. Marinai assatanati di sesso e di alcol per Geraldine oppure predicatori/truffatori come il Fratello Jensen, che Rheinardt aveva conosciuto in passato come marinaio Farley, originario della Nova Scotia e fondatore e pastore della Chiesa della visione del Potere dell’Amore. Un intreccio di storie ed esperienze, ora drammatiche ed ora esilaranti, che danno vita ad un incredible e policromatico arazzo da cui è quasi impossibile distogliere l’attenzione, anche se tutto sembra, fin dall’inizio, irrimediabilmente destinato a precipitare nel baratro.

Un mondo di derelitti e di sconfitti che, nonostante i sorrisi che lo scrittore riesce spesso abilmente a strappare al lettore, non si trasforma mai in “epica” dell’alcol, delle sbronze e dei perdigiorno affamati di sesso, come invece, troppo spesso, accade nella produzione letteraria di Charles Bukowski, contemporaneo di Stone, ma fatto di tutt’altra pasta.

Il sogno americano, grande o piccolo che sia, non porta a nulla se non alla morte, anche se si presenta tappezzato di richieste di nuovi talenti: talento per vendere il proprio corpo per pochi dollari per una ragazza come Geraldine oppure per prestarsi ad opera di imbonimento politico-religioso radiofonico nei confronti di altri poveri disgraziati, come lui, per Rheinhardt.

All’angolo tra Rampart e Canal Street c’era un negozio che vendeva oggettini splendenti. In una delle vetrine c’era una fila di telescopi d’acciaio, illuminati da una luce bianca; c’erano binocoli, radioline, treppiedi, shaker di metallo e medagliette cattoliche. Nella seconda vetrina, stesi su un velluto nero, c’erano revolver, coltelli a scatto e rasoi. […] La poesia stava tutta nei rasoi. I rasoi erano disposti a cerchi concentrici, o meglio, a forma di spirale, secondo la qualità della fattura. Quelli all’esterno erano modesti quanto i coltelli tedeschi; un uomo avrebbe potuto tranquillamente usarli per radersi. Quelli nel cerchio successivo erano più piccoli ma molto più graziosi; le lame erano affilatissime e limpide come specchi, e alcuni avevano manici pastello o a strisce o di plastica multicolore. Quelli nei cerchi più interni erano molto più festosi, ricchi di decorazioni colorate in plastica brillante: alcuni avevano la presa in legno, per quando ti sudavano i palmi; le lame avevano un luccichio particolare e parevano incredibilmente precise.
Al cuore di tanta ricchezza, esposto poco sopra gli altri e adagiato su una lussuosa pelle scamosciata, c’era un rasoio di circa trenta centimetri: il più maestoso, l’imperatore e campione dei rasoi. Non solo aveva il manico di madreperla viola, ornato da otto gemme di pietra dura, ma vi era stampata sopra l’immagine di una bionda dal seno sublime, che indossava solo una giarrettiera rossa, i cui tratti somatici mostravano, a un più attento esame, un’espressione di lascivo abbandono dedicato unicamente al suo possessore. La lama era come una musica: sembrava forgiata da una rara lega di metallo simile al ghiaccio, segretamente, di notte. […] Rheinhardt restò a guardarlo per molto tempo; dietro gli occhi gli scorreva una sinfonia che non riusciva a distinguere, antichi accordi suonati da corde perdute. Che rasoio è quello!, pensò. Dev’essere il Grande Rasoio Americano. Non riusciva proprio a distogliere lo sguardo. Da qualche parte, pensò tremando, da qualche parte, nel cuore di una montagna di pietra c’è un vecchio sfregiato dal volto demoniaco che indossa una camicia a righe e una sola bretella, e coi denti serrati e il mento umido di saliva prende quel rasoio e taglia un sudicio pezzo di spago. E mi uccide. Il Destino Americano, l’Angelo della Morte Americana, il Suo Rasoio2.

Robert Anthony Stone era nato a Brooklyn il 21 agosto 1937, figlio di Homer Stone, un impiegato delle ferrovie, e Gladys Grant, un’insegnante. I genitori si separarono quando lui era ancora in fasce, e fino ai sei anni a occuparsi di lui fu prevalentemente Gladys, che però soffriva di un grave disturbo mentale, probabilmente schizofrenia. Insieme, Robert e la madre conducevano una vita
abbastanza isolata, tra piccoli monolocali e, quando la madre perdeva il lavoro a causa della sua malattia, rifugi per senzatetto (la cui descrizione riveste un aspetto importante nel corso dello svolgimento di Una sala di specchi).

Dopo l’internamento di Gladys in un ospedale psichiatrico nel 1943, Robert rimase solo e trascorse molti anni in un orfanotrofio cattolico. All’infanzia seguì un’adolescenza tormentata. Robert frequentò severissime scuole cattoliche, dove studiò il latino e imparò a scrivere bene, distinguendosi e vincendo anche un concorso di racconti, ma a causa dell’abuso di alcol e delle sue posizioni apertamente atee venne espulso per condotta immorale l’anno in cui avrebbe dovuto diplomarsi.

Da tutto questo, e dalle successive e disordinate esperienze di vita, Stone avrebbe tratto la sua poetica e la sua filosofia: «Le storie non sono un lusso che l’umanità si concede, inventarle è necessario quasi come il pane. […] Non possiamo contemplare e analizzare la nostra situazione se non abitando, per una parte del tempo, nel mondo dell’immaginazione, dove selezioniamo, classifichiamo e ridefiniamo la caotica promiscuità degli eventi»3.

Non può esserci alcuna bellezza nel delirio alcolico e, tanto meno, nel vendere il proprio corpo al bancone di un bar. Stone lo sapeva bene e, forse, anche per questo poteva affermare che in fin dei conti il suo modo di vedere le cose era intrinsecamente religioso, quasi mistico, nutrito però di «energie distruttive», come sostiene il suo biografo Madison Smart Bell.

Energie distruttive che, a loro volta, si nutrivano anche delle droghe che lo accompagnarono a lungo: Quaalude, peyote, eroina, Ritalin, benzodiazepine. Arrivò un momento in cui le droghe gli erano necessarie anche solo per alzarsi dal letto la mattina, ma Stone non smise mai di scrivere e di “cantare” la grande disillusione americana. Cui l’alcol non poteva certo portare, come d’altra parte le droghe, un reale beneficio.

Quando si fermò, la strada si era ridotta a due smilzi binari che si attorcigliavano tra due lotti vacanti. Tirò fuori il vino, gettò via la busta di carta, trascinò la valigia sulle assi marce sotto le rotaie e si sedette su un copertone nell’erba secca. Era circondato da magazzini dalle nere finestre quadrate, e da mozziconi di umide strade senza uscita. Le luci dello scalo merci ferroviario, seminascoste dal fumo, lampeggiavano in lontananza. Si accomodò e bevve il vino sciropposo, chiudendo gli occhi e ascoltando i tramestii nell’erba, le tubature fognarie che gocciolavano acqua piovana, il vento che trascinava le lattine di birra vuote sulla ghiaia umida e i vetri rotti.
Quando ebbe finito il vino e gettato via la bottiglia si rese conto di aver afferrato una qualche profonda verità, di aver avuto un’intuizione, o di aver colto un elemento di redenzione logica di straordinaria importanza. Non aveva idea, però, di cosa fosse.
[…] «Rheinhardt», disse, per sperimentare la sua nuova consapevolezza, reggendosi a una sbarra. «Rheinhardt». Immediatamente lo scalo ferroviario e i neri edifici smisero di esistere. […] Iniziò a venirgli la nausea. Vaffanculo, pensò. Era certo che l’intuizione non fosse quella. Afferrò la valigetta e barcollò attraversando il piazzale finché, dopo un po’, non si ritrovò immerso in una profonda tenebra, una rancida e mefitica tenebra colma di un suono che non aveva mai udito. Il suono si fece sempre più forte, sferragliando a ogni suo passo, e diventò un rombo mostruoso costellato di lamenti, urla e pianti che riecheggiavano e rimbalzavano contro mura invisibili, in un frastuono di onde dal ritmo ossessivo e soffocante; la tenebra ne era carica, pareva anzi che fosse proprio questo suono ad annichilire l’aria e la luce. Rheinhardt rimase immobile, trattenendo il respiro, ma il suono non si interruppe,così decise di ritornare sui propri passi, ma era troppo buio. Allungò una mano e toccò qualcosa dalla consistenza spugnosa e umida che gli si attaccò al palmo; fece un passo indietro, mollando la valigetta, e si sentì sprofondare fino alle ginocchia in una sostanza vischiosa che lo risucchiava. Fu colto dal terrore, balzò in avanti, cadde, si rimise in piedi a fatica; ferito e coperto di sudiciume cominciò a correre inciampando e sbattendo la testa contro colonne invisibili; aveva le mani sporche di sangue, e tutto attorno a lui il suono nero e rancido martellava e martellava e Rheinhardt non si fermò finché non vide, improvvisamente, la circonferenza della luna coperta da nuvole sudicie. Finalmente si fermò, alzando le mani insanguinate, si voltò in direzione del rumore e vide strisce di luce che, come lame di rasoio, disegnavano cerchi e spirali nell’aria notturna; al di sopra del rombo c’erano migliaia di fanali che arrivavano fino al cielo rosso e poi si disperdevano in un nero infinito4.

Il buio fitto del delirio alcolico in cui sprofonda Rheinhardt sembra richiamare i deliri ottocenteschi di un altro grande alcolista e visionario: Edgar Allan Poe. Deliri, come ha affermato David Samuels, stratificati «con pesanti distorsioni emotive e feedback in stile Jimi Hendrix»5, che forse proprio al suo romanzo si sarebbe ispirato per il titolo di uno dei suoi brani più famosi: Room Full f Mirrors.

Stone era l’unico tra i suoi coetanei letterari che poteva sentire in un registro emotivo che gli permetteva di seguire come le divine speranze di trasfigurazione in cui il sogno americano si mostrava in tutta la sua nuda bellezza fossero finite in tanta desolazione e confusione. C’era qualcosa di essenzialmente religioso nel cuore della sua visione, che gli permetteva di affrontare le terribili conseguenze del mondo reale del desiderio umano di trascendenza e di non distogliere lo sguardo6.

Così come il lettore non riesce a distogliere lo sguardo dalle più di cinquecento pagine del romanzo per leggerlo, tutto d’un fiato, fino alla fine.


  1. A. Martinese, Le storie non sono un lusso. Profilo bio-bibliografico in R. Stone, Una sala di specchi, traduzione di Dante Impieri, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 7-8.  

  2. R. Stone, op.cit., pp. 74-76.  

  3. cit in A. Martinese, op. cit., p. 13  

  4. R. Stone, op. cit., pp. 85-87.  

  5. D. Samuels, Il profeta americano dell’illusione: l’ultima grande intervista di Robert Stone, «The Daily Beast», 15 novembre 2013.  

  6. Ivi  

]]>
«Superuomo, ammosciati!» ovvero l’eroe scassato e sconquassato da Philip José Farmer https://www.carmillaonline.com/2022/08/24/superuomo-ammosciati-ovvero-gli-eroi-scassati-e-sconquassati-di-philip-jose-farmer/ Wed, 24 Aug 2022 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72995 di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della [...]]]> di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della letteratura e del mito. Senza sconti e senza scampo per nessuno,
Del suo ruolo di innovatore della SF americana Valerio Evangelisti ha scritto:

Negli anni, la fantascienza era divenuta (aderendo al proprio oggetto) un’astronave proiettata fuori dal mondo letterario; e se al suo interno fiorivano le ipotesi vertiginose e i temi socialmente e politicamente scottanti, fiorivano anche le incrostazioni di tabù e divieti. Sappiamo, per esempio, da una testimonianza di Harry Harrison, che persino la menzione di un comune vaso da notte faceva storcere il naso agli editori americani, attenti a non scandalizzare un pubblico minorenne. Figuriamoci il sesso. Ma ecco che arriva Philip José Farmer ad abbattere le barriere a spallate. Non è il solo, ma certo il meno cauto. […] E non si tratta solo di sesso. La religione altro argomento precluso (ma molto meno), subisce la stessa sorte. Si pensi alla pagina di Venere sulla conchiglia in cui Gesù Cristo appare alla tv, dice «In verità vi dico…» poi viene oscurato perché il tempo è scaduto. Memorabile. […] Questo è in effetti Farmer: un rivoluzionario che magari nemmeno sa di esserlo1.

Nato a Terre Haute, nell’Indiana, il 26 gennaio 1918 e morto a Peoria il 25 febbraio 2009, Farmer è stato, fin dagli anni Quaranta, uno scrittore estremamente prolifico nell’ambito della fantascienza statunitense. A causa della rigida educazione impartitagli da una famiglia benestante e puritana, di origini inglesi, olandesi e irlandesi da parte di padre e scozzesi e tedesche da parte di madre, cercò sfogo nella lettura di romanzi fantastici e d’avventura. A nove anni scoprì i classici della letteratura greca e i libri di Oz, mentre l’anno seguente avrebbe iniziato a frequentare la letteratura di stampo fantascientifico e satirico-fantastico attraverso i romanzi di Edgar Rice Burroughs, Jules Verne e I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.

Di queste iniziali, infantili e disordinate letture avrebbe approfittato più avanti negli anni quando, nei suoi romanzi maggiori, ma anche in quelli minori e nei racconti, avrebbe mescolato figure e vicende prese a prestito da quella letteratura, oltre che da quella weird e pulp, per dare vita a saghe che avrebbero visto tra i protagonisti personaggi del calibro di Mark Twain, Erik il Rosso, Riccardo Cuor di Leone, Gesù Cristo, Tom Mix, Richard Francis Burton e molti altri ancora, come nel ciclo di Riverworld, il mondo del Fiume (cinque romanzi pubblicati tra il 1971 e il 1983, più svariati racconti).

Oppure descrivendo universi impossibili, con mondi strutturati come ziggurat, sui cui piani convivevano e combattevano esseri ed eroi provenienti dalla mitologia greca, come i centauri, così come da quella nordica o degli amerindi. Come avviene nel ciclo dei Fabbricanti di universi (sette romanzi pubblicati tra il 1965 e il 1993).

Infatuato fin dall’infanzia dai dirigibili e dai veicoli più leggeri dell’aria, avrebbe poi “riscritto” Moby Dick, ambientandolo su un pianeta dove le balene galleggiano nell’aria e gli equivalenti del capitano Achab e degli altri personaggi descritti da Melville danno loro la caccia a bordo di strane mongolfiere (Pianeta d’ariaThe Wind Whales of Ishmael, 1971), mentre nel 1973 avrebbe reinventato un classico di Verne, letto nell’infanzia: Il giro del mondo in ottanta giorni (Il diario segreto di Phileas FoggThe Other Log of Phileas Fogg, 1973). Come ha affermato Diego Gabutti, in Fantascienza e comunismo:

Farmer è sempre stato, prima che uno scrittore, un riscrittore: tali sono anche, del resto, i padri fondatori della letteratura moderna. Vivendo come una sorta di vampiro emozionale i romanzi degli altri, impossessandosi di trame e personaggi non suoi […] Farmer è un grande lettore se non immediatamente un grande scrittore.

Così, se egli non ha mai veramente scritto romanzi propri, è solo perché nessuno l’ha mai veramente fatto: il romanzo è ripetizione infinita, nel senso in cui Bordiga definiva se stesso un «ripetitore» […] Meglio vecchi libri che cadaveri freschi. Tuttavia, la professione del bibliotecario non è soltanto il collaudato male minore: è una scelta di campo intransigente, fredda e determinata […] Se Farmer, ad esempio, ha riscritto Il giro del mondo in ottanta giorni è solo perché neppure Verne, lui in particolare, aveva evidentemente saputo o potuto dire tutto. Con la riscrittura del Voyage, in cui ci è svelata l’identità extraterrestre di Phileas Fogg, di Passepartout e della principessa Auda, viene soprattutto ad affermarsi in un corpo già consegnato alla classicità un po’ sudicia dei musei di scienze naturali della letteratura, un movimento che il divenire, compiacendone i tic, aveva radicalmente negato.

Statue di marmo non parlano più. Ma proprio perciò Farmer torna a quel che la statua era prima che divenisse un marmo, prima che s’indurisse nell’impotenza dei suoi tratti scolpiti per sempre […] D’altra parte, il filologo non si preoccupa tanto del suo oggetto quanto della propria salute: vuole sbarazzarsi dei fantasmi ululanti nelle sue ossessioni, ed è allora un fantasma ulteriore che egli prepara per gli altri. Tanto peggio per l’oggetto se ne risulterà massacrato […] Lo sforzo filologico ha un carattere insurrezionalista: quando, come ora, tutti i tempi tattici sono stati consumati e chi non è con noi è contro di noi, non c’è altro modello che non sia nuovamente quello che ha dato il là nei tempi moderni alla leggenda del filologo, la saga stessa di Nietzsche. Il filologo è senza paura, è stato terrorizzato a sangue. La sua è la parete che rimanda, inalterabile, l’eco dell’opera; chi, per averne accusato in pieno l’onda d’urto, ora si lamenta perché è stato ferito, perché non ci capisce niente, ha solo quel che si merita; la prossima volta si leverà di mezzo2.

Farmer “filologo insurrezionalista”, terrorista dell’ordine costituito dalla letteratura che finisce, non importa se inavvertitamente o volontariamente, anche per sabotare strutture sociali e religiose, oltre che appartenenti all’immaginario, date per scontate. Come la figura dell’Eroe o dell’individuo di eccezione.

Sono costruzioni reali apparse nella storia, e che hanno avuto materiali effetti di ogni natura e di massima portata, e ciò vale tanto per le varie forme e tipi di Stati di tutti i tempi, che per i grandi Capi e Maestri di tutti i popoli e di tutte le epoche.
Quel che vogliamo stabilire è che, come la teoria marxista dello Stato, dopo aver sciolto l’enigma della dinamica di questo formidabile fattore, chiude col suo invio in pensione, un processo analogo avviene per l’Io, inteso come finora l’hanno inteso i filosofi, ossia non solo come il soggetto che si troverebbe eterno ed assoluto in ogni animale-uomo, ma come l’entità immateriale e imponderabile che anima l’Uomo con la lettera maiuscola, il grande duce, il grande condottiero, l’innovatore che appare ad ogni tratto della storia ufficiale. Come lo Stato, anche questa “forma” del capo, ha una base materiale e manifesta l’azione di forze fisiche, ma noi neghiamo che abbia funzione assoluta ed eterna: stabilimmo che è un prodotto storico, che in un dato periodo manca; nacque sotto date condizioni, e sotto date altre scomparirà. Marx annunziò allo Stato moderno la sorte di essere fracassato e ridotto in frantumi. Engels e lui stesso definirono la sorte dello Stato rivoluzionario, che gli seguirà, come una lenta sparizione. All’Io di eccezione spetta la stessa sorte; deperire, svuotarsi, sgonfiarsi, dissolversi (sich auflosen), estinguersi, spegnersi (sich aufloeschen) come in Engels. Lenin ebbe un altro termine espressivo: assopirsi3.

Un’educazione come quella che l’autore americano aveva ricevuto doveva aver lasciato fantasmi e ossessioni piuttosto ingombranti per la sua psiche. E’ evidente che è proprio contro quei fantasmi che si levano prima di tutto la sua rivolta e il rigetto delle verità date, siano esse di carattere razziale, religioso, sessuale, politico o letterario.

Entrano, dunque, quei fantasmi nella sua scrittura e, in particolare, in tutta la sua azione di demistificazione degli eroi e degli dei. In particolare nel romanzo in cui più spavaldamente e provocatoriamente porta a segno la sua ristrutturazione, più che destrutturazione, filologica dell’eroe, riportandolo a ciò che è nella sua essenza.

Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia sudista con una tradizione protestante e puritana. Per di più, la sua mammy negra, che l’aveva allevata fin da quando aveva sei anni, era una battista del Sud di stretta osservanza. Nonostante ciò, Clio riuscì ad evolversi in una giovane donna appassionata e non particolarmente pudica, con una tendenza a quel che gli umani chiamano “sperimentazione sessuale”. E riuscì anche a liberarsi da quegli aberranti riflessi condizionati che gli umani chiamano pregiudizi razziali. Per lo meno, per quanto è possibile per un bianco nordamericano4.

Sono alcuni degli aspetti della compagna di Tarzan, Clio, alla quale l’autore americano attribuisce caratteristiche educative tratte dalla propria personale esperienza. In tali considerazioni è implicito il fatto che una volta superati i tabù del sesso, anche tutti gli altri di carattere religioso, politico e razziale possono essere, almeno in parte, superati. Una sorta di manifesto dei movimenti, soprattutto americani, di quegli anni, ma che Farmer aveva già anticipato nei racconti e romanzi che lo avevano fatto conoscere al pubblico.

Nel 1951 aveva infatti proposto il racconto breve Un amore a Siddo (The Lovers) ad «Astounding Science Fiction» e a «Galaxy» che lo rifiutarono per il tema, in esso contenuto, della relazione amorosa tra un umano e un’aliena, ritenuto troppo scabroso per l’America puritana e razzista degli anni cinquanta. Il racconto fu poi pubblicato sul numero di agosto del1952 di «Startling Stories», facendogli ottenere per la prima volta, nel 1953, il Premio Hugo.

Ma per Farmer il sesso, spesso esplicito e privo di infingardaggini e romanticherie, non è, come affermato da Charles Bukowski, qualcosa da aggiungere ai racconti per vendere di più. Costituisce il filo rosso che percorre gran parte della sua opera sia in chiave liberatoria che demistificatoria.
Insieme alla violenza, alla crudeltà, al sangue versato con indifferenza, che “filologicamente” restituiscono ad eroi e miti il loro originario e più veridico volto.

In particolare questo proposito è portato avanti, con singolare crudezza, proprio nel romanzo appena citato, Festa di morte, che si presenta, sia nel sottotitolo che nell’introduzione dello stesso Farmer, come l’ultimo volume dei nove che costituirebbero l’autobiografia di Lord Grandrith, meglio conosciuto come Lord Greystoke o Tarzan delle scimmie. Affermazione che, rispetto all’opera complessiva dello scrittore nordamericano, non è affatto una boutade, visto che almeno sei o sette dei suoi libri, non tutti tradotti in italiano, sono dedicati alla figura creata da Edgar Rice Burroughs. Senza contare quelli dedicati al ciclo della città di Opar che, di fatto, proseguono il ciclo avventuroso creato già da Burroughs.

Ossessione per l’”eroe della giungla” o altro?
Sicuramente nelle diverse opere dedicate, direttamente o indirettamente da Farmer alla figura di Tarzan, o consimili5, tutte pubblicate nell’arco di un quinquenni tra il 1969 e il 1974, non c’è soltanto la volontà di sperimentare tutte le possibili variazioni sullo stesso “tema”, ma, in primo luogo, quello di riportare l’”eroe” alla sua essenza e “reale” forma di esistenza. Quella bestiale, poiché, non per nulla, l’eroe sembra appartenere a ciò che Marx definiva la “preistoria” da cui l’umanità non sarebbe ancora uscita.

Sono le parole del magnate pazzo deus ex-machina di Lord Tyger a rivelarci, attraverso la scrittura di Farmer, l’intima essenza dell’eroe, del suo operato e di chi lo crea o rilancia nell’immaginario collettivo: «Io non sono malvagio! Non sono malvagio! Ma non si può avverare un sogno senza dolore!»6.

Ma se questo è il mandato dell’eroe, realizzare i sogni attraverso il dolore, in Festa di morte Farmer mette ancora più a nudo l’eroe, la bestia in quanto tale, lasciandogli solo la violenza, il sangue, la brutalità, la paura7, l’istinto primario e irrazionale. Scopo reso ancor più evidente dal fatto che l’eroe si aggira totalmente nudo per gran parte delle pagine del romanzo. Un ritorno allo stato di natura che non costituisce, nemmeno lontanamente, un ipotetico ritorno a uno stato di grazia. L’eroe, soprattutto se “bianco” e ancora ispirato dall’immaginario coloniale, può soltanto cadere, sempre più in basso e senza nemmeno poter avere la pretesa di trasformarsi in un anti-eroe.

E non solo poiché, per rafforzare il suo discorso, l’autore pluripremiato per le sue opere inserisce nelle vicende un altro classico protagonista della letteratura seriale statunitense degli anni Trenta: Doc Savage (nel romanzo Doc Caliban). Supereroe dalla pelle color bronzo che, simile a un bronzo di Riace dell’immaginario capitalistico americano, combatte il male, oltre che con dosi estreme di violenza, anche adottando radicali terapie psichiatriche correttive della personalità in funzione del ristabilimento dell’ordine sociale borghese8.

Ma ancora non basta. Tra ironia e immaginario trash l’”eroe” rivela le conseguenze, sul piano psichico e comportamentale, della sua educazione tra il popolo delle scimmie, che era costata al giovane Tarzan esperienze non sempre piacevoli nei primi anni di vita. Stimolando così in lui una tendenza alla violenza nei rapporti sessuali, in cui talvolta appare come dominatore e altre come dominato, che dipende però, e soprattutto, da un altro suo e più grande segreto: essere figlio, come Doc Caliban, di Jack lo squartatore.

Buon sangue non mente e per tutto il romanzo sia Tarzan che Doc Savage, alias Doc Caliban, raggiungeranno spesso l’orgasmo mentre uccidono o cercano di uccidersi a vicenda. Magari penetrando le ferite già inferte all’avversario. In un’autentica orgia di sangue. La ricerca del piacere e dell’immortalità trionfano attraverso l’egoismo più sfrenato, anche se l’eroe “mortale” defeca, piscia, si corica per dormire tra i propri o altrui escrementi o uccide con modalità che solo più tardi sarebbero state riprese dal cinema di Robert Rodriguez9.

Lo scagliai lontano con la sola forza del braccio, imprimendogli una parziale rotazione. Volò per la sala urlando. Ogni goccia di adrenalina di cui il mio corpo poteva disporre doveva essere stata chiamata a raccolta. I suoi intestini, lunghi pressapoco sette metri, fuoruscirono e caddero strappati dal suo corpo. Noli atterrò sulla faccia, le braccia spalancate, Era ancora vivo, per quanto livido per il trauma. I suoi intestini erano distesi come una scia sanguinosa sul pavimento dietro di lui. Ebbe un sussulto e morì10.

Dopo aver devastato religioni e dei, le forme della sessualità consentite e no, Farmer più che portare a fondo la filologia dell’essenza dell’”eroe”, finisce col distruggerlo o, meglio, devastarlo attraverso l’uso di una filologia degna di Rabelais e del suo Pantagruele che usava i pulcini per pulirsi il culo. Oppure raccogliendo la sfida di Céline a non scrivere come se si stesse “ricamando merletti”.

In Farmer, il machismo implicito nella figura dell’eroe viene portato alle estreme conseguenze in una giostra di attributi maschili fuori misura e sempre in erezione, pronti sempre alla bisogna e al richiamo della foresta. Il tutto in una girandola di cattivo gusto, violento e sadico, sarcastico e canzonatorio allo stesso tempo, che più che mettere alla prova il lettore, testa le probabilità che può avere l’eroe di sopravvivere ad un simile trattamento. In effetti, non lasciandogliene molte.

Vediamo dunque un poco la dottrina della fine e dell’origine del Battilocchio.
[…] vogliamo con questo stabilire e meglio chiarire, con motivi strettamente deterministici, come la funzione del Battilocchio (abbiamo così definito il Superuomo, l’Io extra misura, l’individuo “fuori classe”) che ha fin qui avuta una meccanica effettiva, debba eliminarsi insieme agli altri caratteri delle società di classe con la rivoluzione comunista. […] non nascondiamo una larga simpatia per i tempi del matriarcato. […] In questa società è la donna che trasmette il nome alla gens ed alla prole, ed è la donna che può fondare sola una gens nuova. Qui non incontriamo dunque ancora in circolazione la specie battilocchius clarissimus. Qui non viene ancora tra i piedi il Superuomo. […] La serie dei Battilocchi comincia da quando una complessa rete di possessi fondiari, di schiere di schiavi, di eserciti in armi, rovinato il comunismo primitivo e il matriarcato, deve tradurre il suo meccanismo da una generazione all’altra, e per tanto fare abbisogna di un centro, di un vertice, di una passerella di comando, di sinedri in cui si faccia la consegna delle chiavi e dei segreti di dominio. Qui l’uomo di eccezione viene sulla scena e comincia a rappresentare la sua parte […] Fin che funzione preminente è la difesa e la lotta materiale contro pericoli ed aggressioni, è chiaro che basta per capo quello più alto, dai muscoli solidissimi e dal cuore a battito formidabile; e basta a questi scegliere un giovane successore cui trasmetterà l’arte della lotta, del tiro dell’arco e della scherma. Al cospetto dei battilocchiali delusi Proci, Ulisse prova sprezzante e senza favellare la sua identità flettendo come fuscello il suo colossale arco. Stessa prova darà il figlio Telemaco, e quelli volgeranno le terga senza tentare la zuffa11.

Lontano dal comparativismo di Joseph Campbell12, tutto teso alla definizione di un eterno modus operandi della figura dell’eroe, o dalle edulcorate critiche di Umberto Eco13, Farmer, considerato in ambito fantascientifico un comparativista del mito più vicino al James Frazer del Ramo d’oro, sembra porre invece la necessità e l’urgenza di rivedere in profondità, se non distruggere, l’eroe, manifestazione suprema, arbitraria e anche un po’ ridicola del meschino Io borghese in età contemporanea.

Motivo per cui, nei confronti dei tentativi di rinnovare e riciclare l’eroe, occorre, parafrasando l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach, riaffermare che, mentre si è sempre cercato di interpretarlo variamente, è ora giunto il momento di abolirlo. Definitivamente, poiché non è altro che un fantasma o il rimasuglio di una vecchia ossessione e di un immaginario destinato a estinguersi, il cui viaggio è giunto, forse da tempo, al suo capolinea.

Le rivoluzioni a venire, per essere tali, difficilmente potranno proporre le gesta dei singoli, poiché, come scrive Emilio Quadrelli, in un suo testo di prossima pubblicazione, a proposito di uno dei più famosi “eroi proletari”:

Kamo è un uomo senza fama assai prossimo alla moltitudine dei sanculotti e, al pari di questi, degno di citazione storica solo in quanto massa. Impossibile trovare in Kamo quella dimensione individuale la quale, a conti fatti può appartenere ai politici, agli intellettuali, ma mai agli operai i quali, quando occupano la scena storica lo fanno in quanto massa, mai come individui. Lo aveva colto bene Rosa Luxemburg quando coniò, a proposito del protagonismo delle masse, quell’io collettivo della classe operaia che al lessico borghese dava più di qualche problema anche sul piano grammaticale14 .

Pur ammettendone la funzione simbolica, archetipica e mitica presso i popoli e le società antiche, oggi, sia che si tratti dell’eroe dotato di superpoteri (Superman, Super Mario o Super Zelensky) oppure destinato al martirio (Gesù Cristo, Beowulf o Che Guevara), a transitare soltanto tra i vivi oppure anche nel regno dei morti, sempre egli finirà con lo sconfinare nella negazione del sogno rivoluzionario, trasformandosi nel misero soldatino sacrificabile o sacerdote sacrificante dell’esistente immodificabile o della Patria, anche se “socialista”.

Forse non a caso, in una recente intervista, Yaryna Grusha Possamai, docente di Lingua e letteratura ucraina all’Università Statale di Milano, ha potuto affermare che in Ucraina «sta nascendo una nuova letteratura eroica»15. Infatti, anche se questo si è rivelato troppo spesso difficile da comprendere per molti compagni, il superamento del capitalismo e del suo immaginario non potrà avvenire cambiando di segno i suoi apparati politici, economici e culturali, ma soltanto rovesciandoli e negandoli totalmente.

Non fu il manifesto di Carlo Marx, o di lui e Federico Engels, fu il Manifesto del partito comunista. Di lì, e senza battilocchi, muovemmo. Purtroppo ne piovvero da ogni lato, e al loro effetto, antiproducente in partenza, si devono i ripetuti rovesci; tuttavia inevitabili, perché ogni forma ha la sua inerzia storica, e quella dei battilocchi resiste più che le cimici al D.D.T., si acclimata con disperata virulenza ai più drastici disinfettanti.
[…] Torniamo ai capi di Stato, uomini politici, condottieri, e se volete ai capi rivoluzionari. Fino ad oggi hanno avuto una parte negli eventi, se pure sempre riferita in modo più che distorto ed iperbolico. Tale parte non è quella di una causa primaria, di un primo motore; e non costituisce condizione necessaria, […] Alcune volte tuttavia la storia mostra di avere un protagonista, e alcune volte ancora il suo nome diviene noto all’universo mondo, benché tale identificazione non cambi nulla, e in dati casi sia un ulteriore impaccio ed un guaio nero, come per i movimenti rivoluzionari mostrammo16.


  1. Valerio Evangelisti, Farmer: Venere sulla conchiglia, Introduzione a «Urania collezione», n° 15, aprile 2004 ora in V. Evangelisti, Distruggere Alphaville, Edizioni l’ancora del mediterraneo, 2006, pp. 90-91  

  2. Diego Gabutti, Fantascienza e comunismo, La Salamandra. Milano 1979, pp. 159-163  

  3. Amadeo Bordiga, Superuomo, ammosciati!, “Il programma comunista” n. 8 del 1953  

  4. Philip José Farmer, Festa di morte, Ennio Ciscato Editore, Milano 1972 (titolo e edizione originale: A Feast Unknown, 1969), p.135  

  5. Si tratta, oltre che dell’opera già citata di: Lord of the Trees, Ace, 1970. (inedito in italiano); The Mad Goblin, Ace, 1970. (inedito in italiano); Lord Tyger (Lord Tyger, Doubleday, 1970) in I Massimi della Fantascienza n. 29, Arnoldo Mondadori Editore, 1992; Tarzan Alive: A Definitive Biography of Lord Greystoke, Doubleday, 1972. (inedito in italiano); L’ultimo dono del tempo (Time’s Last Gift, Ballantine, 1972) traduzione di Ugo Malaguti, Slan. Il Meglio della Fantascienza n. 22, Libra Editrice, 1974; Opar, la città immortale (Hadon of Ancient Opar, DAW n. 100, 1974), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 2, Arnoldo Mondadori Editore 1989; Fuga a Opar (Flight to Opar, DAW n. 197, 1976), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 8, Arnoldo Mondadori Editore 1990  

  6. P. J. Farmer, Lord Tyger, Delta fantascienza, 1970, p. 251  

  7. Farmer, in Festa di morte, fa dire a Tarzan: «Personalmente non ho paura della morte, però le mie cellule non sono razionali quanto me», op. cit., p.25  

  8. Personaggio cui Farmer dedicherà un’altra opera, inedita in italiano: Doc Savage, His Apocalyptic Life, Doubleday, 1973  

  9. Ad esempio in Machete, nel 2010  

  10. P. J. Farmer, Festa di morte, op. cit., p. 232  

  11. A. Bordiga, Superuomo, ammosciati!, cit.  

  12. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli 1958 – Lindau 2016  

  13. Si veda: Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, Milano 1978/2015, IV edizione Tascabili, pp. 135-139, in cui l’autore propone una lettura a dir poco esilarante, superficiale e perbenista proprio di Tarzan, oltre che della letteratura di genere nel suo insieme  

  14. Emilio Quadrelli, L’altro movimento operaio, introduzione alla ristampa integrale di La classe, giornale delle lotte operaie e studentesche (maggio-agosto 1969)  

  15. Jessica Chia, Il tabù è caduto, in Ucraina l’epos vive, «Corriere della sera», supplemento «La lettura» del 17 luglio 2022, p. 40  

  16. A. Bordiga, op. cit.  

]]>
Il desiderio, l’immaginario e i fantasmi rimossi della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/05/06/il-desiderio-limmaginario-e-i-fantasmi-rimossi-della-lotta-di-classe/ Wed, 06 May 2020 21:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59659 di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma [...]]]> di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma privilegiata. Questi ultimi, infatti, potevano inquadrare e colpire con sufficiente precisione singoli obiettivi, talvolta causando gravi perdite al nemico, ma chi puntò maggiormente sulle prime, potendo spaziare più lontano con lo sguardo, ebbe modo di colpire a distanza e in maggiore profondità.

La metafora della guerra sul mare potrebbe anche non piacere all’autrice, anarchica e antimilitarista, del libro qui recensito, ma può rivelarsi utile per guardare a due differenti approcci al problema del rovesciamento dei rapporti sociali e di produzione ancora vigenti.
Uno si accontenta di singoli, momentanei obiettivi (talvolta raggiunti, talvolta no), attraverso cui arrivare ad un cambiamento graduale, un passo dopo l’altro, destinato in realtà a non aver mai fine; mentre l’altro cerca uno scontro a tutto campo che allarghi la sua azione ad un orizzonte il più vasto possibile, per poter giungere ad una distruzione totale e definitiva dell’avversario. Questo secondo metodo può avere un margine momentaneo di errore un po’ più ampio, ma è sicuramente destinato a rivelarsi come l’unico possibile per una strategia di successo.

Anche la vita dei due equipaggi è in/comparabile: tristi, rinchiusi in un ambiente asfittico e buio i sommergibilisti, più baldanzosi e vivaci coloro che all’aria aperta su una tolda spazzata dal vento e dalle onde, ma illuminata dal sole, possono osservare l’orizzonte. Cogliendo con largo anticipo, anche ad occhio nudo, i mutamenti climatici e le mosse che potrebbero avvantaggiarli nella lotta contro il nemico. Senza parlare poi di quelli che possono librarsi in volo e spingersi a guardare con i loro occhi oltre l’orizzonte stesso. Anche al di là di quello temporale.

Annie Le Brun appartiene senza ombra di dubbio ai secondi, anzi ai terzi, in grado di volare oltre le miserie e le banalità del presente per provare a cogliere la gioia di vivere futura già in ogni istante del vissuto quotidiano. Nata nel 1942 a Rennes, è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria. Dopo aver incontrato André Breton a ventuno anni, prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 fino all’autodissoluzione del gruppo. E’ autrice di numerosi testi di cui soltanto due sono stati tradotti in italiano: Disertate! (il femminismo è morto), pubblicato da Arcana nel 1978 e quello qui recensito. Inoltre, nel 1996, ha curato la prefazione all’edizione francese del Manifesto di Unabomber, L’avvenire della società industriale.

Con il testo edito in Italia nel 1978, Annie aveva già suscitato un certo scalpore, proprio contrapponendo la vita all’ideologia, l’azione alla ripetizione formale di concetti provenienti da un esistenzialismo filosofico virato al femminile da Simone De Beauvoir, che del maggior rappresentante di quella corrente di pensiero (Jean-Paul Sartre) era stata compagna nella vita.

Qui, dove la perseveranza sta al posto dello slancio, e la ripetizione al posto della convinzione, eccoci ben lontani da tutte quelle lavandaie, battilana, brunitrici, calzolaie… della Comune di Parigi che ci hanno svelato le radici della rivolta femminile nel cuore stesso della vita, nel momento stesso in cui essa era più minacciata. Non che io voglia qui opporre l’azione alla riflessione. Voglio piuttosto opporre l’incontenibile esplosione di un’idea, alle ardite speculazioni più o meno interessate di cui essa diviene poco a poco il bersaglio e di cui non mancano mai di ridurre la portata. Quando si tenga bene a mente la tensione di queste donne della Comune prese nella invenzione appassionata del loro destino particolare e collettivo, la falsa obiettività universitaria del Secondo sesso diviene insopportabile, per il suo non essere altro che un artificio capace di ingannare le inquietudini di una personale devozione filosofica1.

Secondo l’autrice, infatti, mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare l’illusoria differenza che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, il neo-femminismo si affannava e si affanna a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio, che spesso ha portato il movimento a sfociare nel carrierismo, nello psicanalismo più grossolano oppure in un prolisso rivendicazionismo. Nel denunciare tale impasse l’autrice fonde il suo stile con quello dei surrealisti e dei situazionisti, cui sarà sempre fedele, come anche nel testo recentemente curato da Martina Guerrini. Che, nell’Introduzione, può affermare:

Il mio incontro con il pensiero di Annie Le Brun è stato un lampo capace di aprire un orizzonte da troppo tempo oscurato. Il suo unico lavoro tradotto in italiano mi aspettava su una bancarella di libri, e mai come in quel momento è stato comprensibile quanto l’imprevisto fosse benvenuto. Da allora è stata una corsa forsennata ad approfondire, un’immersione in ampi spazi e in abissi profondi, accompagnati da una scrittura sensuale e ruvida allo stesso tempo, difficile, carica di negativo.
Questo testo non fa eccezione, né fa sconti alle sicurezze e ai rituali – teorici, politici, filosofici, artistici – e soprattutto evita accuratamente di dare indirizzi o soluzioni.
È la bellezza sconvolgente dell’autrice, che non si nasconde mai pur chiedendo ai lettori e alle lettrici di abbandonare i propri sentieri perché tutto sia chiaro, […] Vale la pena, certamente, faticare e scalare letteralmente la prima parte dell’Eccesso di realtà, per capire cosa è realmente un testo di critica radicale.
D’altra parte, inerpicarsi su alte vette e raggiungere orizzonti a pochi consentiti è infinitamente più affascinante che cercare e trovare ciò che nutre la noia dei pensieri battuti2.

E’ un percorso di analisi e riflessione ben preciso quello che il testo della Le Brun ci propone. Percorso che va dall’impoverimento del linguaggio contemporaneo, dovuto principalmente ad un abuso di tecnicismi e di vocaboli tratti da una terminologia che si vorrebbe scientifica e specialistica, all’inaridimento della poesia (e più in generale della letteratura), costretta ormai a ripetere soltanto cliché stilistici ed emozionali destinati a fare trionfare il principio di realtà all’interno di ogni discorso e di ogni riflessione. Si badi bene però, l’unica realtà possibile deve essere quella dell’esistente e non quella della sua negazione. Il principio di realtà dominante, derivato ed esaltato da quello degli specialisti, degli intellettuali e dei promotori del pensiero asservito può essere soltanto quello che nega la negazione del mondo che ci è imposto.

E’ questo l’eccesso di realtà di cui ci parla l’autrice. Una realtà che si confonde con il virtuale e che, attraverso la distorsione del linguaggio e della poesia, giunge a delimitare l’immaginario per mezzo della finzione di un certo grado di tolleranza e, ancora, a sradicare il desiderio, incanalandolo lungo una sorta di sistema binario in cui lo 0 e l’1 sono sempre definiti secondo le logiche della assuefazione sistemica al principio di massima soddisfazione possibile all’interno di ciò che già esiste, senza mai superarne i limiti.

Un processo di spersonalizzazione collettiva ottenuta per il tramite di moduli adeguati a soddisfare le più svariate formule identitarie, in cui il politically correct ha la funzione fondamentale di rimuovere l’individuo e le sue passioni, i suoi lati oscuri, la sua sessualità, veri motori di ogni rivolta. Che non può scaturire altrimenti che dall’incontro delle contraddizioni del reale con l’immaginario, non ancora massificato, prodotto da una psiche che affonda le sue radici nella carne e non nella realtà prodotta dal web e dai suoi master.

Ecco allora che «le parole di Shakespeare, Charles Bukowski o Emily Dickinson si trovano poste sullo stesso piano di quelle di Neruda e altri cantori stipendiati»3. Una poesia che non può e non deve contenere già il seme della rivolta, ma funzionare da antidepressivo in funzione della conservazione dell’esistente.

Bisogna forse ricordare che i totalitarismi del xx secolo si sono tutti distinti per un medesimo gusto inveterato per una cultura raggiante di felicità? Stalin e Hitler erano degli allegri buontemponi in materia culturale e su fino a Tito che, alla fine della sua vita, ha condannato tutto ciò che gli sembrava troppo tetro, per promuovere se non ordinare una letteratura e una musica “rosa”. Certo, le cose sono cambiate: la poesia è diventata l’antidepressivo che ci obbligano in ogni momento a ingurgitare…4

Per raggiunger l’obiettivo desiderato occorre far circolare “dizionari della contestazione” in cui:

in buona posizione troviamo premi Nobel, dal “molto politicamente corretto” Dario Fo allo sbirro stalinista Pablo Neruda, mentre non vi figurano, per esempio, i nomi di René Crevel e del poeta Benjamin Péret, disertore francese, condannato in tre paesi diversi, solo menzionato qua e là, in una frase, per la sua partecipazione a Dada, al surrealismo, o ancora per un poema “istericamente anticlericale” […] Ma ci si domanda se non sia meglio essere stati dimenticati piuttosto che figurare in una simile antologia, dove se Georges Bataille è citato come “scrittore francese”, Antonin Artaud è citato,proprio lui, come “scrittore dei limiti”.5

Scriveva Sigmund Freud in una lettera a Eric Jones del 17 maggio 1914: «Colui che permetterà all’umanità di liberarsi dall’imbarazzante sottomissione sessuale, qualsiasi stupidaggine scelga di dire, sarà considerato come un eroe»6.
Perché è proprio al punto di incontro tra impedimenti del reale, immaginario e sessualità che scaturisce il desiderio. Quel desiderio senza il quale non può esistere nemmeno il rovesciamento dell’esistente ovvero la rivoluzione. Perché solo dal desiderio più profondo può scaturire la passione.

Passione e possibilità di rivoluzione viaggiano l’una accanto all’altra. Minare la prima attraverso i percorsi di imposizione dell’unica realtà possibile significa, nella sostanza, minare e impedire la seconda. Impedendone anche soltanto il desiderio. Desiderio che per essere tale, vivo e provocatorio, può soltanto essere individuale, nato nel profondo di ognuno, ma che è destinato ad appassire e a morire ogni volta in cui è canonizzato in formule destinate a risistemarlo e impoverirlo. Per trasformarlo in una merce vendibile ad una maggioranza di consumatori passivi.

L’erotismo mercificato e fintamente liberato dalla cultura dominante odierna, si tratti della pruderie contenuta nelle pagine di noti scrittori invitati a scrivere racconti erotici per le riviste femminili o del voyeurismo mascherato nel discorso di tanti intellettuali e filosofi alla moda, oppure rimosso dal discorso neo-femminista, risponde in fin dei conti alla necessità di deerotizzare l’insorgenza, la ribellione spontanea, la rivoluzione. La fossilizzazione della quale avviene con un percorso lastricato da buone intenzioni, schemi e formule ripetute come mantra, buone per tutte le occasioni. Inutili e riduttive sempre, poiché destinate a rivitalizzare il conformismo dell’esistente.

Affinché la rivoluzione non sia patrimonio dei grigi burocrati e degli insoddisfatti petulanti, di ogni genere e convinzione, deve vivere di pulsioni e di passioni che non possono essere ridotte a formule, pena l’estinguersi ancora prima di essere entrata in scena. Come separarla infatti dalle giovani operaie pietroburghesi senza obblighi famigliari della rivoluzione del febbraio 1917? Come separarlo dalle donne della Comune e, infine, come separarla dall’irrefrenabile pulsione desiderante che animò la rivolta giovanile e operaia del ’68 e del ’77?

Oggi i linguaggi, i corpi, i desideri, le pulsioni devono essere codificati in una finzione di liberazione i cui promotori sono ben lontani, e non potrebbe essere altrimenti, da quella indicata, senza inutili pedagogismi, da Sade, Baudelaire, Rimbaud e dai surrealisti (cui oggi occorrerebbe anche aggiungere almeno un autore come James Ballard). Riscoprire tutto ciò, attraverso lo sguardo d’aquila e il cammino talvolta tortuoso della Le Brun, significa tornare alle origini della rivolta.

Quella che muove sempre da un moto individuale di rifiuto dell’esistente e delle sue leggi. Ciò che spesso non si sa come spiegare, ma che è immancabilmente destinato a diventare collettivo. Si tratti pure del manifesto di Unabomber o degli atti vandalici messi in atto dai giovani teppisti delle banlieue.
Farlo, significa tornare alla radici della negazione radicale, senza la quale non vi è cambiamento reale possibile. Liberando i fantasmi rimossi della lotta di classe dalle loro catene.


  1. A. Le Brun, Disertate!, Arcana 1978, pp. 10-11  

  2. M. Guerrini, Introduzione, A. Le Brun, L’eccesso di realtà, BFS Edizioni 2020, pp. 5-6  

  3. A. Le Brun, L’eccesso di realtà, op. cit. p.86  

  4. A. Le Brun, cit. p.86  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ivi, p.186  

]]>
Due passi avanti nell’Underground e uno indietro nell’oblio. https://www.carmillaonline.com/2019/10/02/due-passi-avanti-nellunderground-e-uno-indietro-nelloblio/ Wed, 02 Oct 2019 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54843 di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, [...]]]> di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, ma anche per lanciarsi nel mondo dell’underground e della controcultura attraverso la sua parallela Zapple: “Apple è stata una manifestazione di ingenuità beatlesiana, di ingenuità collettiva: dicevamo che avremmo fatto questo e quello, che avremmo aiutato chiunque e via dicendo: E siamo rimasti fregati alla grande, proprio alla grande. Non si sono fatti vivi gli artisti migliori, nessuno che valesse la pena di registrare – ci siamo beccati tutti gli scarti, gente a cui tutti gli altri avevano chiuso la porta in faccia. E gli altri, quelli che ci stavano veramente dentro, sono rimasti alla larga perché erano troppo orgogliosi”.
Un’efficace descrizione di un fallimento forse annunciato ma che, allo stesso tempo, descrive e sintetizza le speranze, le ingenuità, le gelosie e l’inettitudine che caratterizzarono la breve stagione della controcultura, al di qua e al di là dell’Atlantico, sul finire degli anni Sessanta.

Barry Miles (classe 1943), autentico cronista di quella cultura a cavallo degli anni Sessanta e Settanta cui ha dedicato decine di testi, fu indubbiamente tra i protagonisti di quella stagione: fondatore di International Times, meglio nota come IT, la prima rivista underground inglese ed europea, gestore di librerie e gallerie d’avanguardia (tutte destinate a chiudere quasi sempre rapidamente i battenti), amico e sodale di musicisti, poeti e artisti sui due lati dell’Atlantico, oltre ad essere anche tra gli organizzatori del 14 Hour Technicolor Dream, il concerto tenutosi il 29 aprile 1967 presso la Great Hall dell’Alexandra Palace di Londra, che avrebbe lanciato definitivamente gruppi come i Pink Floyd e i Soft Machine.

Nel testo, uscito in lingua originale nel 2014 per la Elephant Book Company Limited e corredato da un apparato iconografico piuttosto ricco ed interessante nell’attuale edizione, con ironia molto british e molta partecipazione, con qualche tracci di antipatia nei confronti di John Lennon e Yoko Ono e di ammirazione per il giovane Pul McCartney, narra appunto le vicissitudini di un esperimento creativo ed imprenditoriale, quello della Zapple Records, destinato all’insuccesso probabilmente fin dai primi vagiti che ne accompagnarono la nascita, di cui ci rimangono soltanto due opere, criptiche ed insolute: The Unfinished Music no.2. Life with Lions di John Lennon e Yoko Ono, assistiti da due musicisti jazz d’avanguardia come John Tchicai al sax e John Stevens alle percussioni, e Electronic Sounds di George Harrison, destinate a vedere la luce entrambe il 9 maggio 1969.

Come afferma nella sua prefazione Enzo Gentile:

I solchi del primo vinile rilasciano rumori, feroci feedback chitarristici, singhiozzi, strepiti: in parte le registrazioni provengono dall’ospedale in cui Yoko era stata ricoverata per una minaccia d’aborto.
Sono macchie di vita, emozioni e virus potentissimi, da sprigionare tra lo stupore dei media e la sostanziale incomprensione dei fans dei Beatles: i quali contemporaneamente lanciavano sul mercato il singolo Get Back, seguito dopo qualche settimana da The Ballad of John and Yoko, mentre correvano a pieni giri anche i motori delle session di Abbey Road, previsto per fine settembre.
Uno tsunami continuo, inafferrabile, il precipizio e l’estasi dentro il perimetro beatlesiano che oggi pare irreale, quasi una sfida al buon senso comune…

Un’esperienza crepuscolare, sul finire della storia del quartetto che più ha segnato la musica pop degli anni Sessanta in termini di successo, creatività e innovazione, che non vide coinvolti soltanto altri musicisti ma, soprattutto, anche poeti e scrittori del calibro di William Buttoughs, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Richard Brautigan, Charles Bukowski, Ken Weaver (membro dei Fugs) e Charles Olson.

Sì, poiché mentre gli artisti che furono prodotti e raggiunsero il successo con l’etichetta Apple, o anche soltanto lo sfiorarono, furono piuttosto insulsi come Mary Hopkins oppure i Grapefruit, il piano della Zapple prevedeva la pubblicazione di dischi contenenti le registrazioni di tali altri poeti mentre recitavano o leggevano le loro opere. Pare oggi incredibile, quando anche le letture di Patti Smith sembrano stentare a raccogliere un minimo di successo, ma all’epoca la poesia registrata poteva raggiungere buoni livelli di vendita e i festival di poesia potevano essere affollati anche da migliaia di persone.

Barry Miles avrebbe dovuto essere il responsabile di tali registrazioni e di tale settore della Zapple ed effettivamente ne realizzò diverse, sia in patria che negli Stati Uniti. Ma quell’esperienza doveva essere fatta, shakespearianamente, della sostanza dei sogni e quelle che furono realizzate effettivamente furono pubblicate solo successivamente, alla chiusura dell’esperienza Zapple, su altre etichette (EMI-Harvest, Folkways, Fantasy), mentre quelle di Charles Bukowski uscirono soltanto nel 1988 come album doppio per la King Mob: At Terror Street and Agony Way.
La parte più consistente di questi diari è proprio quella dedicata a questi incontri e all’influenza che alcuni di questi poeti, principalmente Burroughs con la sua tecnica di cut-up e Ginsberg con le sue stravaganze, ebbero sui Beatles e su John e Paul in particolare.

Un libro sicuramente da leggere per conoscere e approfondire la storia, e non il mito, di un’epoca e di un gruppo fondamentali per l’evoluzione della musica popolare e della cultura contemporanea, attraverso la breve vita di un’etichetta e di un progetto (febbraio 1969 – giugno dello stesso anno) destinati all’oblio nei fatti e al culto nella memoria di chiunque li abbia conosciuti e apprezzati.

]]>
“Culla nuova mai usata, neonato morto”: Lucia Berlin https://www.carmillaonline.com/2016/07/20/culla-nuova-mai-usata-neonato-morto-lucia-berlin/ Wed, 20 Jul 2016 21:06:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32055 di Sandro Moiso

berlin Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Bollati Boringhieri 2016, pp. 460, € 18,50

Immaginate una scossa di terremoto, seguita da uno sciame sismico. Di intensità sempre più forte. Questo è l’effetto che provoca sul lettore il progressivo addentrarsi nelle storie di Lucia Berlin. Poiché questi racconti ruotano implacabilmente intorno alla vita dell’autrice americana, l’altro paragone che si può fare è quello di un’operazione a cuore aperto. Drammatica e chirurgicamente impeccabile allo stesso tempo.

L’opera narrativa di Lucia Berlin, nata in Alaska nel 1936 e morta nel 2004 in California, rappresenterà per molti un’incredibile sorpresa, in cui [...]]]> di Sandro Moiso

berlin Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Bollati Boringhieri 2016, pp. 460, € 18,50

Immaginate una scossa di terremoto, seguita da uno sciame sismico. Di intensità sempre più forte.
Questo è l’effetto che provoca sul lettore il progressivo addentrarsi nelle storie di Lucia Berlin. Poiché questi racconti ruotano implacabilmente intorno alla vita dell’autrice americana, l’altro paragone che si può fare è quello di un’operazione a cuore aperto. Drammatica e chirurgicamente impeccabile allo stesso tempo.

L’opera narrativa di Lucia Berlin, nata in Alaska nel 1936 e morta nel 2004 in California, rappresenterà per molti un’incredibile sorpresa, in cui il costante elemento autobiografico si sviluppa in un dramma personale e collettivo in cui il lavoro (quasi sempre umile e mal pagato), l’alcolismo e la dipendenza, la condizione femminile, i sentieri tortuosi e complessi dei legami affettivi e famigliari, l’emarginazione degli immigrati, il ricordo di un’infanzia segnata dalle violenze verbali e fisiche ma anche da momenti di incredibile ilarità danno vita ad uno degli affreschi più vivaci della vita negli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale alla fine del XX secolo.

Paragonabile, per molti versi, ad autori ed autrici come Raymond Carver, Flannery O’Connor, Charles Bukowski, Annie Proulx, cui si aggiungono gli echi di Mary McCarthy, Joan Didion e Susan Minot, l’autrice statunitense ha saputo ricavarsi uno spazio e definire uno stile unici e personali sulla scena letteraria nordamericana, in cui il disincanto e l’ironia dello sguardo sembrano stemperare i drammi dell’esistenza, salvo poi cogliere il lettore di sorpresa con autentici pugni nello stomaco. Spietati e incontrollabili come l’alcolismo e tutte le altre dipendenze.

Si potrebbe parlare, per molti dei suoi racconti, di una “disincantata pietà” che si manifesta in alcuni luoghi cardine della vita quotidiana di un universo femminile quasi sempre proletario o sotto proletario: la famiglia, le lavanderie automatiche, il pronto soccorso in cui si lavora o presso il quale si accompagnano i figli o le vittime di incidenti più o meno gravi. Dove “la paura, la povertà, l’alcolismo, la solitudine sono malattie mortali. Emergenze a tutti gli effetti.” (Taccuino del pronto soccorso, 1977, pag. 112)

Oppure sugli autobus su cui viaggiano le donne delle pulizie che lavorano per pochi dollari presso le famiglie di una “middle upper class” dalla vita allo stesso tempo agiata e miserabile.
Amo le case, le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie. E’ proprio come leggere un libro.” (Lutto, pag. 272)

Forse è anche per questo motivo che l’edizione originale di questa antologia, che raccoglie quarantatre dei settantasette racconti pubblicati in vita dalla Berlin, si intitola “A Manual for Cleaning Women. Selected Stories”, un manuale per donne delle pulizie. Un titolo perfetto, preso proprio da uno dei racconti contenuti nell’antologia, in grado di riassumere pienamente il punto di vista e l’ironia dell’autrice, che l’editore italiano ha sostituito con uno forse più indirizzato ad un pubblico femminile. Sbagliando.

C’è il lavoro con tutte le sue contraddizioni e difficoltà in queste storie. E c’è il Messico come luogo di luce e di desolazione. E c’è il rancore per una famiglia di pazzi alcolisti texani (quella della madre), rovinata dalla Grande Depressione. E c’è una sorella più giovane malata terminale di cancro, odiata nell’infanzia poiché protetta dalla nonna materna e abbracciata, fisicamente e mentalmente, negli ultimi anni di vita. Ci sono i figli (quattro, frutto di differenti matrimoni) e i nipoti. E c’è il padre, un ingegnere minerario che si sposta con la famiglia attraverso tutti i possibili campi di estrazione dell’America del Sud e del Nord per il suo lavoro, con una moglie (la madre di Lucia) sempre più dedita all’alcol e alla cinica osservazione del mondo e delle figlie.

E allora la scrittura diventa davvero un modo di far pulizia (attenzione: non di rimettere ordine) in una vita al limite, in cui ogni istante si dilata in un’infinità di storie, di ricordi, di osservazioni che permettono all’autrice di tornare e ritornare ripetutamente sugli stessi temi e momenti per renderli sempre più chiari, puliti, lucidi. Fino a giungere a rivelazioni abbaglianti e, quasi sempre, dolorose.
Un metodo che richiede spesso a chi scrive di sdoppiarsi, per poter narrare in prima persona ma da due differenti punti di vista la stessa storia.

Una sorta di personalissima Recherche du temps perdu in cui, come nella migliore letteratura americana, i fatti e le azioni precedono le parole contribuendo a dar vita ad un’analisi dell’Io e della personalità che non ha nulla di astratto. “B.F. si reggeva alla parete e alla ringhiera, tossiva ed era senza fiato dopo tre i gradini. Era un uomo enorme, alto, grassissimo e molto vecchio. Mentre era ancora fuori a riprendere fiato, sentivo già il suo odore. Tabacco e lana sporca, sudore marcio da alcolizzato. Aveva occhi celesti e sorridenti iniettati di sangue. Mi è piaciuto subito […] Sentivo ancora la sua puzza. Quel fetore era una madeleine per me, mi ha riportato alla memoria il nonno e lo zio John, tanto per cominciare” (Io e B.F., pag.435)

Io esagero molto, e confondo la finzione con la realtà, ma non dico mai bugie” afferma la Berlin in uno dei suoi racconti1 e già questo potrebbe costituire uno degli elementi della sua poetica disvelata . Ma tutti i suoi testi sono disseminati qua e là di elementi utili a comprenderne personalità, poetica e stile.

berlin 1Quanto a me…io non ho pietà.” (Mamma, pag. 358)
Non me ne frega un tubo dei vostri sentimenti. Sono qui per insegnarvi a scrivere. In realtà si può mentire e allo stesso tempo dire la verità” (Qui è sabato, pag. 425)
La mia natura è tenebrosa. Ho conosciuto la morte, la violenza. Il più delle volte non faccio nemmeno caso a quel momento del giorno in cui il sole entra nella stanza” (Panteón de dolores, pag.286)
Non mi dispiace dire cose orribili se riesco a renderle divertenti” (Silenzio, pag. 370)

E di cose orribili ce ne sono tante da raccontare nella vita di Lucia: dalle cliniche clandestine per gli aborti in Messico (dove in realtà negli anni ’50 si recavano un sacco di donne americane di tutte le età)2 allo studio dentistico del nonno, in Texas, dove assistiamo ad una vicenda degna del migliore Landsdale.3

Ma ciò che salta sempre, immediatamente agli occhi è che, nonostante tutto, esiste sempre una fondamentale differenza tra la condizione dell’uomo e quella della donna e tra quella dello scrittore e quella della scrittrice. Anche nell’alcolismo.
Bukowski, per esempio, può narrare le sue disgraziate avventure alcoliche e le risse connesse e poi permettersi di piombare addormentato dove capita e con chi capita.

I personaggi femminili della Berlin anche quando sono affetti, come lo fu lei per anni, dall’alcolismo cronico, devono badare ai figli, alla famiglia o a ciò che ne resta.
Finito di bere, si sentì meglio, andò in lavanderia e caricò una lavatrice. Poi in bagno, portandosi dietro la bottiglia. Si fece la doccia, si pettinò, indossò dei vestiti puliti. Ancora dieci minuti. Controllò che la porta fosse chiusa a chiave, si sedette sul water e scolò il resto della vodka. Quell’ultimo sorso non solo la fece sentire bene, ma anche un po’ brilla. Spostò i panni dalla lavatrice all’asciugatrice. Stava mescolando il succo d’arancia scongelato quando Joel entrò in cucina strofinandosi gli occhi. «Non ho calzini, e neanche camicie». «Ciao, tesoro. Mangia un po’ di cereali. Finisci la colazione, fai la doccia e i vestiti saranno asciutti». Gli versò un po’ di succo, un altro bicchiere per Nicholas, fermo in silenzio sulla soglia. «Come diavolo sei riuscita a procurarti da bere?» La scansò e si versò una scodella di cerali. Tredici anni. Era più alto di lei […] I suoi figli presero i libri e gli zaini, la salutarono con un bacio e uscirono di casa. Lei rimase ferma davanti alla finestra e li guardò andare verso la fermata. Aspettò finché non li vide salire sull’autobus, che poi ripartì alla volta di Telegraph Avenue. A quel punto uscì di casa, diretta al negozio di alcolici all’angolo. A quell’ora era aperto.” (Incontrollabile, pag. 180)

Specialista della sintesi, di cui “Il mio fantino” un racconto di soli cinque paragrafi costituisce un ottimo esempio, Lucia Berlin probabilmente non solo ha costituito uno dei segreti meglio custoditi della letteratura americana, ma anche un esempio di rimozione di una donna troppo forte nella sua determinazione a ripulire letteratura e realtà, soprattutto femminile, dagli orpelli tesi a mascherarle per riempirli di significati e contenuti che spesso non hanno. Soprattutto quando fingendosi realtà la letteratura finisce solo col mentire.

Rappresentante del “Dirty Realism” degli anni ’80, l’autrice sembra averlo voluto portare oltre i suoi stessi limiti toccando anche temi inerenti gli aspetti più scomodi della realtà americana quali le brutalità poliziesche e del sistema carcerario, gli abusi consumati in famiglia sul corpo delle bambine, la repressione degli esponenti della Sinistra e l’emarginazione degli immigrati messicani. Sempre, comunque, eliminando ogni traccia di sentimentalismo e di epica dalle sue narrazioni. Sia in quelle più intime che in quelle più corali.
Tanto che gli avvisi che compaiono nelle lavanderie automatiche che così spesso fanno da sfondo ai suoi racconti (come quello riportato nel titolo di questa recensione), potrebbero rappresentare l’estrema sintesi della sua poetica.

In questo senso i racconti della Berlin potrebbero costituire un autentico manuale di scrittura, soprattutto per tutti quegli scrittori che della prolissità e dell’eccesso di intrighi sembrano aver fatto oggi la loro bandiera, per imparare a tagliare il superfluo e concentrarsi su ciò che conta. Con onestà, coerenza, gusto e disincanto. E un tantino di umiltà, ma mica toppa perché se no diventa un vezzo.

Ora sarebbe bello veder tradotti in italiano anche gli altri racconti di Lucia Berlin, magari in un’altra antologia che riprenda però il titolo originale qui tralasciato…


  1. Silenzio, pag. 375  

  2. Il silenzio era tale che mi sorprese scoprire che nella mia stanza c’erano venti donne, tutte americane. Tre di loro erano ragazze, quasi bambine, accompagnate dalle rispettive madri. Le altre erano enfaticamente sole, sedute, leggevano riviste. Quattro donne avevano più di quarant’anni, forse più di cinquanta…gravidanze in meno pausa, immaginai, e infatti così era. Le altre sembravano avere poco meno o poco più di vent’anni. Tutte apparivano spaventate, imbarazzate, ma soprattutto sembravano vergognarsi. Come se avessero fatto qualcosa di terribile. Vergogna. Fra loro non sembrava esserci nessun legame di solidarietà; il mio ingresso venne a malapena notato. Una donna messicana incinta passava in terra uno straccio sporco e ci guardava con palese curiosità e disprezzo. Provai una rabbia irragionevole nei suoi confronti. Cosa racconti al tuo prete, stronza? Che non hai un marito e ti ritrovi con sette figli… Che devi lavorare in questo brutto posto perché altrimenti muori di fame? Oddio, probabilmente era vero. Provai stanchezza, un’immensa tristezza, per lei, per tutte noi in quella stanza” (Morsi di tigre, pag.93)  

  3. Il Dottor H.A. Moynihan  

]]>
Fate fuori il vostro capo: Licenziatevi! https://www.carmillaonline.com/2015/07/01/fate-fuori-il-vostro-capo-licenziatevi/ Tue, 30 Jun 2015 22:01:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23592 1di Simone Scaffidi L.

Vivian Abenshushan, Fate fuori il vostro capo: Licenziatevi!, trad. Francesca Bianchi, Eris Edizioni, Torino, 2015, pp. 304, € 18.00

Quanto è facile criticare con le parole il lavoro e quanto è difficile metterlo radicalmente in discussione nella pratica? Chi di voi, magari con famiglia da mantenere, si licenzierebbe dal proprio posto di lavoro per dedicare la sua vita a ciò che più le piace o gli piace. Pochi, pochissime, lascerebbero le certezze di uno stipendio mensile per l’incertezza di [...]]]> 1di Simone Scaffidi L.

Vivian Abenshushan, Fate fuori il vostro capo: Licenziatevi!, trad. Francesca Bianchi, Eris Edizioni, Torino, 2015, pp. 304, € 18.00

Quanto è facile criticare con le parole il lavoro e quanto è difficile metterlo radicalmente in discussione nella pratica? Chi di voi, magari con famiglia da mantenere, si licenzierebbe dal proprio posto di lavoro per dedicare la sua vita a ciò che più le piace o gli piace. Pochi, pochissime, lascerebbero le certezze di uno stipendio mensile per l’incertezza di un reddito e la speranza di un po’ di felicità. «In qualche modo bisogna pur vivere» risponderebbero i più davanti a una simile provocazione. Ma è vivere passare otto ore al giorno della propria esistenza a fare cose che ci disgustano, che non ci interessano, che ci rendono indifferenti? Quando – se siamo fortunati – non ci intossicano, non ci deformano le carni o ci uccidono?

Siamo a un punto di non ritorno. Il lavoro come lo intendiamo oggi è un’autentica privazione delle libertà personali. L’arciusata espressione “tempo libero” dovrebbe farci riflettere. Il lavoro è il tempo dell’imposizione, della non scelta, della costrizione. Non sappiamo neppure più cosa sia il “tempo libero”. Forse è il tempo delle vacanze estive, della pausa pranzo, della cena, dell’accompagnare le figlie a scuola, del sonno e del sogno: la «lunga attesa del fine settimana eterno». Solo pochissime, i più fortunati, le eccezioni, possono permettersi di far coincidere il tempo del piacere con il tempo del lavoro.

Vivian Abenshushan, scrittrice ed editrice messicana, a 33 anni si licenzia da caporedattrice di una rivista e rinuncia alle prospettive di una possibile carriera accademica, fonda Tumbona Ediciones («una cooperativa senza capo, senza orari, senza ufficio e presumibilmente senza soldi») e inizia a dedicare gran parte del suo lavoro culturale alla sistematica messa in discussione di un’etica del lavoro sfruttatrice e ingannevole. Fate fuori il vostro capo: Licenziatevi! è il tentativo fieramente incompleto di scalpellare con le armi della cultura un immaginario in cui il lavoro occupa lo spazio della vita, determinando l’identità degli individui stessi. Un libro ibrido ed espanso – come il Laboratorio de Escritura Espandida da lei creato, multidisciplinare e transmediale –, sviluppatosi sul web e in continuo aggiornamento. Grazie a Sur+ e Eris questo progetto ha trovato nella carta stampata uno degli spazi di espressività per decolonizzare l’immaginario gerarchico e mortifero che permea il mondo del lavoro.

Blissett_Milan_83-84L’autrice definisce a più riprese quest’opera un controsaggio, ma se vi aspettate di imbattervi in un testo che usa gli strumenti accademici tradizionali per criticare la quotidianità del lavoro rimarrete delusi. Sia nella forma che nei contenuti questo libro aspira ad «unire ciò che è stato fallacemente diviso e allontanato e disgiungere ciò che è stato fallacemente avvicinato». Sosteneva questo bisogno anche Luther Blissett, a cui è dedicato un paragrafo del libro, riprendendo una frase di Bachtin. Lo stile narrativo, l’anarchia come organizzazione, l’eccentrismo nel senso letterale del termine che pervadono questo testo permettono al lettore di entrare nella narrazione in prima persona: non c’è una fruizione passiva o frontale dell’opera ma partecipata e inclusiva. Ci siamo dentro tutti al meccanismo, nessuno può chiamarsi fuori.

La rielaborazione di numerosissime citazioni (Basho, Baudelaire, Chuang-Tzu, Fourier, Russel, J. K. Jerome, Stevenson, Wilde, Unamuno, Marx, Larbaud, Woodcock, Yutang, Bukowski, Kerouac, Huizinga, Marcuse, Hakib Bey, Dada, Tiqqun, Villon, Diogene, Seneca, Epicuro, Lafargue, Adorno, Arlt, Cage, i fratelli Cohen, Debord, Vaneigem, Onfray, Barthes, Thoreau, Walser, l’Internazionale Situazionista, il Comitato Invisibile, San Precario, Russel, Cioran, Luther Blissett, Wu Ming e molti altri) si alterna al frammento o all’elogio della digressione. L’impaginazione tradizionale a tratti salta per lasciar spazio a una nota a margine che dura un intero sottocapitolo, in cui segni grafici a forma di bicicletta e mouse si alternano tra i frammenti; o all’apertura improvvisa di spazi nelle righe di testo, come a suggerirci di prendere tempo, riflettere tra una frase e l’altra, tra una parola e l’altra. Non siamo più giustificati – né noi, né il testo – a correre nella lettura e divorare freneticamente il nostro ozio, ma invitati a godere con la calma necessaria della nostra libera lettura.

escritos-para-desocupados-3Appassionate accuse all’orologio («Che cos’è l’orologio? Un modo per frazionare l’esistenza in frammenti delimitati e attività regolamentate. Un oggetto d’arredamento con funzioni poliziesche») e all’aspirina («L’aspirina inibisce i momenti di ozio e non solo crea dipendenza ma il suo uso è consigliabile come fare aerobica senza sottrarre ore all’ufficio») convivono poi, in feconda coabitazione, con critiche incisive al turbocapitalismo e alle logiche di mercato che fagocitano il mondo del lavoro e i suoi abitanti. Tra di loro c’è chi si ribella, ribaltando con creatività paradigmi consolidati e proponendo nuove forme di esistenza e convivenza. È così che un intero capitolo è dedicato a quella che può essere definita la Confraternita dei Fratelli della Costa dei giorni nostri, coloro che disobbediscono: hackers, agitatori, blissettiani, ostinati osteggiatori del copyright, freegans, devoti di San Precario e della Church of Life After Shopping, fedeli al Grande Lebowski e tanti altri. Tutta gente che lotta per un cambiamento radicale della realtà, che affondi le sue radici in un mutamento dell’immaginario e delle pratiche collettive. Le 8 ore lavorative al giorno, non sono solo un diritto calpestato, ma oggi non possono più essere considerate una conquista dei lavoratori e delle lavoratrici, dal momento che sono a tutti gli effetti ore defraudate alla vita e alle libertà personali degli individui.

Bukowski non aveva dubbi in questione: «Come diavolo può un uomo [o una donna] essere contento di farsi svegliare alle 6:30 di mattina da una sveglia, saltar giù dal letto, vestirsi, mangiare in fretta, cacare, pisciare, lavarsi i denti e pettinarsi, e combattere contro il traffico per arrivare in un posto in cui essenzialmente fai un sacco di soldi per qualcun altro e ti chiedono pure di essere grato per averne l’opportunità?».

]]>
Memento mori https://www.carmillaonline.com/2014/02/12/memento-mori/ Tue, 11 Feb 2014 23:20:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12612 di Sandro Moiso

counselor book Un libro

Se c’è un’ossessione ricorrente nella maggior parte della grande letteratura americana certo è quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna. Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra [...]]]> di Sandro Moiso

counselor book Un libro

Se c’è un’ossessione ricorrente nella maggior parte della grande letteratura americana certo è quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna.
Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra costante.

Così come non avrebbe senso quel senso di ottimismo, quasi infantile, che traspare spesso in alcuni autori, e che ha spesso infastidito i critici e letterati europei più restii ad accettarla, se accanto ad esso non fosse possibile intuire, quasi sempre, la presenza del male. Di solito assoluto e privo di qualsiasi luce.
“Barbara” fu definita questa letteratura dai critici che le si opponevano, qui in Italia, negli anni in cui Cesare Pavese, Elio Vittorini e Beppe Fenoglio cercavano di rinnovare la letteratura nazionale alla luce dell’esperienza americana.

Eppure quanta profondità, quanto nichilismo, quanta disperata solitudine, quanta assenza di qualsiasi forma di salvezza contengono quelle pagine. Dai racconti western di Bret Harte a Mark Twain e da Howard P.Lovecraft a Larry McMurtry, solo per citarne alcuni e di epoche diverse.
L’umorismo della frontiera nascondeva quasi sempre la solitudine dell’uomo sulle Grandi Pianure e, per default, la sua eterna solitudine davanti all’universo e alla morte. Mentre l’orrore cosmico non costituiva altro che il suo logico corollario.

Morte mai consolatoria, come il cattolicesimo, inavvertitamente, ha invece spesso suggerito anche ai romantici più agguerriti della letteratura italiana. Male privo di salvezza che, nella migliore tradizione luterana, non poteva e non potrà mai trovare consolazione in alcunché.
Vite e vicende senza speranza, senza significato, senza via d’uscita o possibilità di redenzione. Da Jim Thompson a David Goodis, dal Charles Bukowski di “Pulp” alla grandissima, eppur cattolicissima, Flannery O’Connor di “Un brav’uomo è difficile da trovare”.

Se questi sono i due caratteri dominanti nella letteratura d’oltre oceano, anche se mischiati in maniera diversa da autore ad autore e da opera ad opera, certo Cormac McCarthy ne costituisce attualmente la summa. Non solo epocale o generazionale ma, forse, definitiva.
Con buona pace di quel critico letterario di “Libero” che salutò “La strada”, alla sua uscita in edizione italiana nel 2007, come un nuovo e rovente maccartismo anti-islamico e anti-comunista. Naturalmente non aveva capito un cazzo.

Se nella seconda di copertina di “American Tabloid”, James Ellroy ci avvertiva che “L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio”, McCarthy ha semplicemente tracciato, romanzo dopo romanzo, la storia della morte americana. Che naturalmente non è solo qualità di una nazione o di una società, ma dell’umanità suo insieme.

Sì, ho scritto “morte” e non “vita”, soprattutto degli ultimi centosessanta anni. Quelli di solito più celebrati dalla cinematografia di Hollywood e dalla letteratura mainstream.
Quelli che hanno visto liberarsi al massimo le forze produttive degli Stati Uniti e, contemporaneamente, anche la loro più violenta forza distruttiva e la più determinata volontà di dominio e rapina. La morte e il male appunto.

Che in Cormac McCarthy sono tutt’altro che metafisici. Sono ben radicati negli individui e nei loro talvolta diabolici oppure talvolta stupidi o, ancora, talvolta soltanto raffazzonati progetti.
Vendicarsi, sopravvivere, arricchirsi, levarsi al di sopra degli altri uomini oppure semplicemente cercare di essere giusti: tutto porta alla morte e con sé, inevitabilmente, il male e il dolore.

Da coloro che cercano di usare a proprio vantaggio lo spietato killer di “Non è un paese per vecchi”, fino allo sceriffo che rinuncia ad inseguirlo, perché sarebbe soltanto inutile, pericoloso e fallimentare, al killer stesso che sopravvive solo in attesa di portare ancora morte e dolore. Al padre che cerca di proteggere il figlio dai pericoli di un mondo già morto nel romanzo “La strada”; da “Meridiano di sangue“, ambientato alla metà dell’ottocento, in poi tutto traccia soltanto il declino, privo di qualsiasi ascesa precedente, del sogno americano. Che, in sostanza, finisce per rivelarsi soltanto per quello che è: un lungo incubo e nient’altro.

The Counselor1, l’ultima fatica dello scrittore ottantenne, è una sceneggiatura appositamente scritta per il cinema che porta alle estreme conseguenze la weltanschauung dell’autore.
Un giovane avvocato, avido di denaro, sesso e normalità si imbarca in un traffico di droga con il cartello dei narcos messicani. Pensa di avere le conoscenze giuste, di essere abbastanza furbo e, soprattutto, di poter controllare tutto. Forse fin troppo facilmente abituato, la storia è ambientata ai nostri giorni, alle rapide risalite in borsa di titoli spazzatura già precedentemente crollati. La fortuna degli scemi. O dei raccomandati, il che potrebbe essere lo stesso. “L’avidità non ti spinge. L’avidità è il limite” (pag. 71).

Soprattutto non capisce nemmeno lontanamente a cosa può andare incontro, in termini di dolore. E di male. “Il punto è che uno potrebbe dirsi che ci sono cose che questa gente non è in grado di fare. Non è così” (pag. 69). E anche se tutto è destinato a finire con la morte, che non ha alcun significato e che non è possibile esorcizzare con alcun trattato del “buon morire“, la strada per arrivarci può essere molto, troppo, indicibilmente dolorosa. Anche per le persone che si amano e che pur non dovrebbero essere coinvolte.

Come le ragazze che continuano a scomparire lungo il confine tra Texas e Messico. Vite senza speranza, senza significato ma, sicuramente piene di dolore negli istanti finali.
Ma il male non ha riguardi neanche per la classe sociale di appartenenza, per le lauree o per i sogni da yuppie. E della paura della crisi che anche i fortunati hanno. Mentre solo chi non ha nulla ha imparato quanta sofferenza può esserci al mondo, che soltanto chi viene dal nulla può sfidare, aumentandone il dosaggio.

I riferimenti alla crisi attuale del capitalismo finanziario, alle atrocità commesse nei pressi di Ciudad Juarez e all’inutilità di una classe “dirigente” sempre più inconsapevole ed inutile sono tanti e continui. La morte, il male e il dolore sono portati alle estreme conseguenze e solo chi ha già molto sofferto può tentare di sopravvivere. “Non li ho mai conosciuti i miei genitori. Li hanno buttati giù da un elicottero nell’Oceano Atlantico quando avevo tre anni” (pag. 51) può affermare Malkina, la dark lady di origine argentina che si staglia al centro della vicenda, mentre cerca di confessare provocatoriamente i suoi impulsi sessuali irrefrenabili ad un parroco vile e spaurito.

E tocca a lei trarre le conclusioni di quanto accade nel corso della narrazione, esaltando la grazia e la bellezza e la ferocia dei grandi felini: ”Vedere la selvaggina ammazzata con eleganza mi tocca profondamente […] Una cosa del genere è sempre sessuale. Ma la grazia . La libertà. Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessuna altra parte. Credo che a definirlo non sia tanto quello che è diventato quanto tutto quello che è riuscito a non essere. Non puoi assolutamente distinguere quello che è da quello che fa. E quello che fa è uccidere. Noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Inadatti e impreparati. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Che ci hanno portati qui. La nostra debolezza di cuore rischia di chiuderci gli occhi su tutto questo, ma facendo ciò fa il nostro destino. Forse non sarai d’accordo. Non so. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione” (pp. 114 – 115).

Un film

Il film di Ridley Scott, basato sulla sceneggiatura originale, rispetta la stessa nelle parole (le battute sono quasi sempre identiche a quelle del testo), ma non nello spirito. Troppi volti famosi: Cameron Diaz, Brad Pitt (che ormai sembra esser diventato il prezzemolo del cinema americano contemporaneo), Penélope Cruz, Michael Fassbender, Javier Bardem e anche, in due ruoli minori, Bruno Ganz e Dean Norris. Troppo patinata la fotografia, fino a farla assomigliare più a quella di un film del fratello Tony, recentemente scomparso, che a quella delle opere migliori di Ridley. Eliminando, a tratti, dal dialogo i passaggi più crudi e provocatori, il film sembra voler nascondere l’abisso che la trama nasconde.

Come se il regista e la produzione avessero voluto evitare di inquietare troppo il pubblico. Come se avessero voluto riposarne lo sguardo, invece di renderlo più acuto. Sostanzialmente, nonostante alcuni momenti pregevoli, un’occasione mancata. Peccato.
Forse John McNaughton, regista di “Henry pioggia di sangue”, sarebbe stato più adatto e avrebbe saputo far di meglio, ma il problema reale sta tutto in una società che dopo aver artificialmente rimosso il “Ricordati che devi morire” della tradizione latina, muore giorno dopo giorno nel dolore di cui, troppo spesso, è essa stessa causa e di cui non vuole sentir nemmeno parlare.


  1. Cormac McCarthy, The Counselor. Il Procuratore, Einaudi 2013, pp. 116, euro 14,50  

]]>