Carmelo Bene – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il registro barocco e l’istanza ascetica nell’ultimo libro di Marina Petrillo https://www.carmillaonline.com/2024/03/24/il-registro-barocco-e-listanza-ascetica-nellultimo-libro-di-marina-petrillo/ Sun, 24 Mar 2024 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81823 di Paolo Landi

Marina Petrillo, Indice di immortalità, Prometheus, Milano 2023, pp. 128, euro 18,00.

L’approccio filosofico-letterario di Marina Petrillo richiede in primo luogo di rendere conto dei procedimenti direttamente più visibili dell’opera. Sotto questo profilo, si deve tenere presente che il testo adotta la risorsa del prosimetro; e in questo modo, la dimensione nella quale il libro si inserisce, racchiudendo sia l’istanza filosofico-speculativa che quella lirico-letteraria, mette in gioco un requisito adeguato, che adempie l’esigenza di lasciare emergere un tessuto logico-categoriale articolato e complesso, e di rappresentare in modo costante l’impulso poetico che avvolge questo tessuto, e motiva gli ingredienti [...]]]> di Paolo Landi

Marina Petrillo, Indice di immortalità, Prometheus, Milano 2023, pp. 128, euro 18,00.

L’approccio filosofico-letterario di Marina Petrillo richiede in primo luogo di rendere conto dei procedimenti direttamente più visibili dell’opera. Sotto questo profilo, si deve tenere presente che il testo adotta la risorsa del prosimetro; e in questo modo, la dimensione nella quale il libro si inserisce, racchiudendo sia l’istanza filosofico-speculativa che quella lirico-letteraria, mette in gioco un requisito adeguato, che adempie l’esigenza di lasciare emergere un tessuto logico-categoriale articolato e complesso, e di rappresentare in modo costante l’impulso poetico che avvolge questo tessuto, e motiva gli ingredienti filosofici. E accade allora che le componenti in prosa rendano possibile l’immissione di una serie di nuclei concettuali, i quali richiedono il tipo di espansione e di movimento che solo la prosa può contenere; ma al contempo, questi nuclei vengono tracciati attraverso quella disposizione lirica che pervade il loro tessuto nel modo più capillare; e d’altra parte, i versi alternati alla prosa custodiscono il peso dovuto alla componente logico-categoriale, che è propria delle inflessioni speculative. E su queste basi abbiamo gli esiti seguenti: da un lato una prosa che lievita sotto il profilo lirico, e si inclina sul versante della poesia; da un altro lato, una sorta di poesia sottoposta al gravame dell’ambito concettuale, che pertanto converge in qualche misura nei confronti della prosa. Ma quest’ultimo aspetto non toglie che si tratti di poesia autentica, che contiene comunque un indice musicale; e così, abbiamo una sorta di poesia frenata, e scandita secondo un registro uniforme che si rifiuta alle onde melodiche, e sembra quasi mimare, insieme alla prosa, una movenza atonale.

Stabilito questo, si tratta di  vedere se siamo davanti a una sorta di poema stratificato in sezioni che si susseguono come ondate, secondo una linea di progressione, oppure davanti a una raccolta esibita secondo criteri di ordinamento che mimano un punto di vista unitario. Certamente l’inizio e la chiusa mettono in gioco una sorta di simmetria: si procede a partire dal “cosmo che non agita alcun gesto” e dal “silenzioso assioma balbettato” (p. 39), e si conclude con una sorta di lavacro, nel quale l’immagine del Puer accompagna con la sua evanescenza il culmine di una “Sempiterna rappresentazione di idiomi ri-volti all’Omnieteronimo, anima del potenziale creante”, per aprire lo scorcio di uno “svanire nel tepido mattino”, dove un “sogno divaricante i piani di realtà” (p. 112) rimanda infine al gioco della scrittura (“Gioco Trasformante di uno scritto impenetrabile”) (p. 113), a cospetto del quale il Puer “si stanca. Si rigira e cade, ridendo”; e in questa congiuntura per un verso dobbiamo affacciarci sul bianco della pagina ormai svuotata dopo l”excipit’ segnato in caratteri maiuscoli, e per un altro verso siamo proiettati verso l’inizio, che appunto incarna il gioco della scrittura. Ma il maggiore interesse è dovuto all’arco di una specie di antitesi sfolgorante, secondo la quale infine si raccoglie il massimo di quanto può essere assunto – che a sua volta abbraccia i poli opposti ma convergenti del “maschile-femminile, della “pianta-pietra” e della “sillaba-silenzio” -, per dissolverlo nel riposo di una visione che dismette la sua apertura, nel segno della innocenza che tutto consacra e assegna alla propria disposizione e al proprio luogo di origine, in una sorta di limbo beato che capovolge o sovverte l’idea della morte in un sogno di eternità – e al contempo rinvia all’operoso lavoro di una scrittura che può essere attraversata in una istanza ulteriore, e forse può essere custodita e sigillata attraverso il gioco di un movimento perpetuo. D’altra parte, questo rapporto simmetrico tra l’inizio e la fine non è sufficiente per stabilire una linea di sviluppo unitaria, che possa circoscrivere o designare una sorta di poema, rappresentato o inciso nella sua dimensione globale. E infatti, la tessitura magmatica del testo – che si evidenzia attraverso la comparazione con le esigenze dettate da un punto di vista rivolto all’orizzonte di un’opera unica – viene in qualche modo dichiarata, se appunto si dice che “Nascerà un’opera da questo silenzio e lava sarà, su animo lieve” (p. 39). Ma a questo punto, si deve chiarire che nella accezione più ampia, è un’opera unica anche quella che corrisponde nel modo più radicale ai canoni dell’apertura – che a loro volta in una certa misura sono ineludibili per ogni risultato estetico-artistico -; infatti, anche in questi casi sono riconoscibili una linea di sviluppo e un piano di coesistenza, che sono diversi da quelli richiesti secondo il criterio della silloge o della raccolta; e d’altra parte, risulta evidente come l’apertura peculiare di questo testo sia dovuta al fatto che si colloca su una specie di piano intermedio tra quello dell’opera unica e quello della riunione di una serie di opere che sono annodate mediante uno stesso ingrediente di ispirazione – od uno stesso impulso creativo. E ancora, a complicare il quadro, interviene il fatto per cui la dimensione unitaria e la questione dell’apertura sono messe a tema da questo scritto; ed è così che questa lava “Andrà a sconfiggersi tra piccoli anfratti e uscite secondarie”, e “Scaverà un letto di pietra solcando in battito lo spazio del non detto”; e parimenti, tornando al finale, si deve osservare come il Puer, iniziando il Gioco Trasformante dello scritto impenetrabile, tracci “una linea di demarcazione tra gli impossibili”. Ma questa apertura non si affida al tratto evanescente e irresponsabile di una espulsione dall’ambito del rigore, che solo rende possibile in prima istanza ogni forma di comprensione; infatti, l’autrice si spinge sino alla richiesta della maggiore coerenza che sia compatibile con lo spazio libero della coscienza – o se vogliamo, con l’istanza dovuta al singolo, e al punto di vista relativo alla sua possibilità di evocazione e di creazione. E riguardo a questo non vi sono dubbi, se consideriamo le seguenti parole: “Non sempre fragili, regnamo nell’interiore mondo. Ogni gesto risuona in armonia universale e nel grande affresco unico, si determinano legami, relazioni interagenti con il Tutto. Così il Tempo diviene quel Tutto. Spazio indescritto, delicata ma implacabile scissura nell’Eterno. E l’Eterno È, per sua stessa estensione. Presenza di cui non è dato sapere, se non nella mente di Colui che È” (p. 111). D’altra parte, la saldatura tra l’esigenza di mettere in gioco le parvenze antinomiche del reale e quella di stabilire una dimensione unitaria e assoluta, è assolta dai grandi maestri degli esercizi filosofico-speculativi che sono attraversati dal misticismo; e in questo modo, il richiamo alla dimensione filosofica più elevata che sia conciliabile con questo testo emerge nel fuori-testo dopo l’explicit, con il rimando a Dionigi Areopagita, e al gioco dei suoi paradossi, che ruotano attorno al rapporto tra conoscibile e inconoscibile – e all’inversione dei loro domini, che tuttavia, come osserva Francesco Solitario nella sua introduzione, si limita ad una disposizione allusiva, rivolta all’essere positivo riposto dietro le negazioni del nostro pensiero, ed alla sua luce avvolta dalla caligine che deve essere attraversata, per situarsi nel luogo di massima vicinanza possibile nei confronti dell’assoluto.

Ma per entrare adesso nel merito della posizione assunta da questa opera – nei limiti in cui possiamo parlare di un punto di vista che venga sostenuto, entro un contesto che ha una inconfondibile impronta poetica, la quale avvolge e giustifica le risonanze filosofiche -, occorre considerare ancora la lirica iniziale. In essa il “Silenzioso assioma” che pervade il cosmo e funge da cardine è congiunto al “tacito rullio del pensiero” il quale “intercetta la spiraliforme eclissi della parola”; al che, siamo di fronte a una dimensione indicibile, che può venire adombrata soltanto entro il dominio di una discordanza essenziale tra il pensiero e la parola medesima; infatti, a questo proposito il pensiero può esprimere la parola soltanto nel suo ritrarsi; o ancora, in un certo senso il pensiero rimane padrone, se appunto contempla o avverte questo gioco di ritrazione; e al contempo la parola, nel mentre che sfugge, irradia le spirali che emergono dalla sua fuga. E questa immagine non è dovuta soltanto alla necessità letteraria di dare un corpo alle proprie visioni, anche laddove puntano all’invisibile – o se vogliamo, all’evento sotteso che rende visibile l’evidenza dovuta al corpo sonoro e semantico della parola che si ritrae -; infatti, soltanto se la parola emette le risonanze che emergono dalla propria linea di fuga, è possibile che abbiano luogo la filosofia, la letteratura, la poesia, e in ultima analisi la stessa vita della coscienza. E queste risonanze, nel loro gioco spiraliforme, sembrano preannunciare il registro barocco di questo scritto – che in ultima analisi sembra mimare la traboccante ricchezza dovuta all’ordito del cosmo. Ma la tessitura barocca di questa opera letteraria – che già si evidenzia nel solco dell’incertezza inerente al suo status, ovvero al suo tratto sospeso tra il molteplice della raccolta e l’uno indicato dall’orizzonte dell’opera singola -, viene coniugata alla disposizione mistica e ascetica che attraversa nel modo più capillare la messe dei suoi risvolti; diciamo dunque – in un senso  elevato – che gli ingredienti barocchi di questo lavoro sono dovuti sia alla linea incerta del suo profilo globale, sia alla ricchezza delle immagini convocate – che abbracciano in modo spasmodico l’architettura del cosmo -, sia alla disposizione grandiosa di un tema così comprensivo, sia alla divaricazione tra il dono di questa ricchezza e il rimando a un momento ascetico il quale  richiama alla sua dissolvenza. E sotto questo profilo, si deve sottolineare come la linea del disaccordo tra questi due versanti metta in gioco quel tratto molteplice – e quindi barocco, a motivo della divaricazione medesima, e dell’estro giocato dal suo spettacolo -, che è fornito dal palpito sotteso di un’espansione e di una contrazione felicemente annodate tra loro. Così, un esempio della irruzione del punto di vista ascetico nel fasto barocco delle immagini convocate, può essere dato da questo scorcio di prosa: “Soli accecanti e luminescenze remote. Tardivi ricordi. Non essere più ciò che si è stati. Un buco nero, feroce, possiede l’ombra in anoressia del sentire. Digiuno. Grazia. Il raggio evocato giunge dal fasto, in necrologio della forma prossima al silenzio” (p. 58). E inoltre, è opportuno indicare i versi che seguono subito dopo: “Tutti i mondi si completano a vicenda. / Il raggio divino scende nelle coscienze a illuminare / le vette dello spirito. / Siamo nell’assente dormiveglia / sino a quando, toccati dalla tragedia, / non cediamo il campo all’indicibile / Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce / la costola dell’Assoluto Presente. / Inquietudine volge a paradosso / ogni gesto torna a lenta consapevolezza. / Si può morire nell’istante / Si muore nell’istante agognato perché inesistente / In nullità si procede, buio nel buio / per giungere all’assoluto”. Riguardo alla prosa, dobbiamo allora osservare quello che segue: in primo luogo risulta evidente una serie incalzante di percezioni e visioni, che si dipanano nella consueta calma alla quale è sottesa la turbolenza di un movimento intestino tenuto sotto controllo dall’ambito di un rigore sospeso tra l’istanza della prosa e quella del movimento lirico; in secondo luogo, emerge un procedimento di sottrazione o di negazione, nel quale l’accecamento, la condizione remota, l’impronta tardiva, il non essere più rispetto all’essere stati, l’oscurità del buco concepito come una specie di calco interiore di una voragine cosmica e l’anoressia del sentire mettono in gioco un accumulo barocco di negazioni, che sfocia in una immagine della Grazia, la quale ribalta lo spettacolo di un sacrificio – o addirittura di un martirio – nel dono improvviso ma fermo dell’assoluto; e ancora, al di là della Grazia, per sua concessione si distende il raggio evocato dal “fasto” relativo ai presupposti di questo gioco di privazioni – e in particolare, si potrebbe dire, inerente ai “soli accecanti” e alle “luminescenze remote”, e degradando ai “Tardivi ricordi” -; e infine, abbiamo il “necrologio della forma prossima del silenzio”. E accade allora che il silenzio suggelli la sottrazione, e al contempo confermi il plenum dovuto all’istanza dell’assoluto e della sua concessione; ed è attraverso questo passaggio finale che la valenza ascetica  si sovrappone allo strato barocco delle visioni; ma nello stesso tempo, sia il risalto plastico dovuto alle stesse negazioni, sia l’irruzione del raggio, sia la mole grandiosa del silenzio mantengono a loro modo l’istanza che precede, mentre l’ascesi riveste il sostrato delle immagini conclusive, e non rinnega il volume esorbitante delle visioni. Per quanto riguarda invece i versi, innanzitutto abbiamo l’ampiezza visionaria della totalità dei mondi che si completano – che a suo modo e con una cadenza molto diversa può ricordare alcune illuminazioni paniche di Pessoa -, in secondo luogo abbiamo ancora la presenza del raggio, questa volta esplicitamente divino, e accompagnato dalle immagini sontuose che riguardano le coscienze e le vette dello spirito, riverberando la suggestione panica, e inoltre abbiamo la fase calante della tragedia che apre all’indicibile – e nello stesso tempo si allinea alla impronta sconfinata dello scenario, sia pure attraverso un’istanza di negazione -; e procedendo, sulla base di una discesa che rimane scolpita nel suo risalto, e sulla base del paradosso instaurato sul solco delle tradizioni mistiche, che racchiude comunque un massimo di consistenza –  dovuto al volto dell’assoluto, il quale si cela e al contempo si annuncia –, emerge il regno dell’indicibile; ma poi, in un moto di risalita entra nel gioco l’”Assoluto presente”,  che risulta commisto al vuoto dal quale nasce, e al contempo funge da luogo di origine di quanto sussiste nel proprio insieme. E avanzando ancora, si definisce un movimento di ascesa rivolto all’assoluto; e tuttavia questo guadagno è sottoposto al giogo dell’esistenza, e al vano tormento della sua fuga nel tempo: “Si muore nell’istante agognato perché inesistente / In nullità si procede, buio nel buio / per giungere all’assoluto”. L’istante agognato perché inesistente rimanda ad uno scenario speculativo, sfuggendo a ogni richiamo erudito, nel modo più originario e autentico della poesia; ed è in questo istante che possiamo cogliere l’effetto di sottrazione più doloroso; e il movimento di istante in istante che volge verso l’assoluto racchiude l’impronta ascetica più definita – per cui abbiamo il punto di vista mistico, legato alle evidenze drammatiche della rinuncia. E ancora, nel caso di questi versi si definisce la dimensione  dell’umano e del suo limite, che è legata alla “lenta consapevolezza” insita in ogni gesto, e addirittura alla “nullità” del nostro procedere; e questo esito stabilisce uno scarto ben definito rispetto al finale della prosa, che contiene  il riverbero barocco  del raggio, del fasto,  del necrologio e della “forma prossima al silenzio”.

Stabilito questo, si può osservare che la congiuntura di una mescolanza tra l’istanza barocca e la dimensione ascetica – riguardo alla quale, sia sotto il profilo delle risorse espressive che sotto quello degli orizzonti tematici, prevale la prima di queste componenti, secondo una linea formale che si distingue nel modo maggiore rispetto, ad esempio, a un importo ascetico nel cinema come quello di Robert Bresson – mette in gioco un singolare equilibrio, che non può essere riscontrato in uno dei massimi vertici della scultura, come è quello impresso nelle opere del Bernini. Infatti, se consideriamo complessi come quelli dedicati alla Beata Ludovica Albertoni o a Santa Maria Teresa d’Avila, osserviamo il gioco prorompente di una torsione voluttuosa, che attraversa gli eventi ultimativi dell’estasi o della morte  – o di un loro sfolgorante scambio di senso -, mediante le volute contorte che predicano l’esuberanza delle vesti, del marmo, e delle figure straziate dal loro beato tormento e sottoposte a un dolce martirio al cospetto dall’invisibile; e in questi complessi non abbiamo in alcuna maniera l’istanza di sottrazione dovuta al punto di vista ascetico, e la linea di quella purezza che emerge nel lievito dell’ascesi risulta come travolta dall’impeto sensuale, dalla ricchezza dei suoi risvolti e da un macerazione che assorbe la morte oppure il contatto con il Divino nel segno di una eccedenza la quale dischiude, nel proprio fondo, l’esuberanza dovuta a un impulso vitale. E invece, nel libro di Marina Petrillo il risvolto barocco che ne attraversa la voce implacata e il timbro sofferto viene contenuto da un punto di vista metafisico e religioso a suo modo soave e quasi devoto – laddove la devozione non è delineata nei termini di un’angustia di fondo, e nemmeno di un punto di vista confessionale che sia professato nel testo, ma in quelli di un gesto di remissione, che non viene contaminato attraverso il gioco dei sensi, e il suo accento materico.

Ma infine, occorre osservare qualcosa riguardo allo sfondo più strettamente filosofico di questo volume. Il libro non ha la pretesa che può essere avanzata da un saggio teoretico, e a partire da questo presupposto i riferimenti o i rimandi devono essere concepiti dal punto di vista lirico-letterario, o devono essere assunti nei termini di una movenza a carattere evocativo. Così, il richiamo a Dionigi Areopagita risulta la strada maestra, che è in grado di illuminare gli scorci che invece rimandano ad altre figure. E a tale proposito, possiamo considerare una menzione fugace di Gilles Deleuze e di Carmelo Bene – che vengono come assorbiti nella temperie ludica di un delirio (cfr. p. 91). Da questo punto di vista, innanzitutto, per quanto riguarda la figura del Puer, Francesco Solitario rimanda a Carl Gustav Jung piuttosto che al filosofo, il quale si richiama sotto un altro profilo a questa figura; e il rimando risulta opportuno, perché la dottrina junghiana degli archetipi e la sua inflessione vagamente platonica si collocano su un versante contrapposto a quello dell’intento distruttivo di Deleuze – il quale, a differenza di questa dottrina, presenta dei tratti incompatibili con il senso espresso da un pervasivo rimando al principio immortale -; e potremmo dire che il pensiero di questo filosofo sia avverso nel modo più pronunciato a tale rimando. Ma è anche vero che gli approdi paradossali dei punti di vista mistici ed ascetici sono suscettibili di una serie di risonanze  disparate; ed è infatti nel gioco del paradosso secondo cui il massimo di affermazione può essere avvicinato soltanto attraverso la negazione, che è possibile stabilire un incontro fortuito con un pensiero il quale intende abolire questo orizzonte finale, ma affida ad esso una serie di suggestioni che possono essere consumate sotto il profilo di una inversione del loro senso di origine. E per quanto riguarda Carmelo Bene, il discorso risulta analogo; ma a questo proposito, possiamo sottolineare quello che segue. Il teatro, il cinema e soprattutto l’esercizio vocale di Carmelo Bene sono elementi che vengono piegati al punto di vista di un predominio assoluto del significante rispetto al significato o al senso – laddove l’autore di queste intraprese rifiuta non solo il gioco di superficie di ogni significato a carattere positivo, ma anche la dimensione profonda del senso medesimo, che invece è l’alimento e il fermento più sostanziale di questo Indice di immortalità. Ed anzi, potremmo dire che gli strali polemici e devastanti di Bene sono proprio rivolti alla dimensione del senso profondo; laddove, tuttavia, per ironia della sorte, questo gioco di opposizione è temperato dal fatto secondo cui lo scavo dentro i cunicoli vocali della phonè – o del nostro risuono -, nel momento nel quale assorbe una serie di referenti che rendono possibile il gioco attraverso il dominio del loro senso stravolto, acuisce i riverberi di una inedita significazione, che porta con sé, insieme alle scorie verbali ed alla loro resa impellente, quella penombra del senso nella cui sottrazione compiuta potremmo avere soltanto il decesso, privato appunto nel modo più assurdo di quanto intendiamo alludendo alla morte. E sembra che un libro come quello adesso in esame, con la sua singolare ricchezza, sia in grado di presentire l’istanza di una profonda significazione – e quindi di un senso -, quali ingredienti suscettibili di essere ritrovati, in quanto tali – e con una forma e una sostanza diverse che li rivestono -, attraverso il gioco che Bene ha disposto nei suoi scenari; e si deve osservare che tutto questo, del resto, non attenua l’impronta disperata dell’autore, ma la rende possibile. Ma a tale proposito, non è indispensabile condividere il pathos cosmico-religioso di Marina Petrillo, che nei suoi modi, al di là del proprio orizzonte, in ultima analisi offre il suo contributo a chiunque è disposto a mettere fuori gioco le derive più deboli e i risvolti inautentici di punti di vista contemporanei, che sono provvisti comunque del dono di una creazione – il  che non comporta alcuna riserva critica sulla resa artistica di Carmelo Bene, ma riguarda l’implicazione inerente al rapporto tra le sue dichiarazioni di poetica, e una serie di tratti speculativi che appartengono al mondo odierno. 

 

   

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Camerino 47. Attore morto che parla (3-fine) https://www.carmillaonline.com/2021/03/26/camerino-47-attore-morto-che-parla-3-fine/ Thu, 25 Mar 2021 23:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65409 di Alfredo Angelici

Per la prima e la seconda puntata vai qui e qui.

Gli pneumatici della Fiat Bravo d’ordinanza dei carabinieri urlando inchiodano davanti al Teatro Bellini. L’automobile viene parcheggiata come da coreografia tradizionale, in diagonale, rispetto al marciapiede, bloccando così l’intera carreggiata.

Tutti gli astanti vivono in quel momento un fenomeno di psicosi collettiva e pensano all’unisono: – “ma se tutti i parcheggi sono liberi, perché non parcheggiano per dritto senza bloccare la strada?”

I lampeggianti restano accesi. I gendarmi scendono. Uno è [...]]]> di Alfredo Angelici

Per la prima e la seconda puntata vai qui e qui.

Gli pneumatici della Fiat Bravo d’ordinanza dei carabinieri urlando inchiodano davanti al Teatro Bellini. L’automobile viene parcheggiata come da coreografia tradizionale, in diagonale, rispetto al marciapiede, bloccando così l’intera carreggiata.

Tutti gli astanti vivono in quel momento un fenomeno di psicosi collettiva e pensano all’unisono: – “ma se tutti i parcheggi sono liberi, perché non parcheggiano per dritto senza bloccare la strada?”

I lampeggianti restano accesi. I gendarmi scendono. Uno è basso e magro l’altro è alto e gigantesco. Comanda il piccoletto. Noi siamo sulla porta a parlare con amici che non vedevamo da tanto tempo. Spaventati ci rifugiamo nel foyer.  È una serata speciale, scostumata ed impertinente: il teatro è aperto nonostante il divieto e c’è il pubblico. Abbiamo commesso un reato!

Vvvvvvvrrrrrrrrrttt

Crono figlio di Urano finisce di sgranocchiare un figlio, ormai sazio risparmia Zeus che un giorno lo spodesterà, poi, per digerire, capovolge la clessidra del nostro tempo.

Flashback.

La pellicola del film che stiamo vivendo gira all’indietro, e ci riporta a qualche ora prima. Siamo ora nella sala del bar del teatro. Matilde dice che la nostra entropia risulta “invertita”, e che pertanto se ci muoviamo all’indietro viaggiamo nel futuro per mezzo dell’inversione del flusso temporale.

-“non ho capito che hai detto”- esclamiamo noi tutti in coro

Arriva a sorpresa Christopher Nolan, avido di concetti casual-fisico-filosofici e sceneggiature criptiche, ruba l’idea di Matilde, scrive il film Tenet, nessuno capirà mai di che parla, allora lui vince l’Oscar.

Dicevamo, siamo noi quattro, i superstiti…Matilde Federica Lorenzo ed Io. Pier Giuseppe ci ha abbandonato al 30° giorno, Licia ha resistito fino al 66°. Ha firmato la regia dello spettacolo e, sull’orlo di una crisi di nervi, ha deciso di lasciarci e tornare a far l’amore tra gli ulivi pugliesi col suo fidanzato.

Ho un’erezione isterica al pensiero

Sono le 13e30 e a noi, invece, ci potete guardare come sempre in streaming, siamo in pausa prove, mangiamo lenticchie e ci interroghiamo sul daffarsi.

Il morale è basso, un po’ perché abbiamo perso il conto dei giorni che non vediamo la luce del sole ed il calore degli affetti si è già raffreddato, un po’ perché al tg per l’ennesima volta non viene nominano lo spettacolo dal vivo come parte integrante del tessuto sociale italiano, ma soprattutto per via del fatto che lo sponsor che ci riforniva di vino ha chiuso i rubinetti dopo il primo mese. In questo momento ci ritroviamo a pasteggiare con un aglianico dolce e mosso, comprato alla mescita a uno e novantanove dai nostri angeli custodi: gli uomini e le donne del Difuori. Quelli che possono uscire e che pensano ai nostri viveri e ad i beni di prima necessità. Adorabili, preziosi, essenziali, ma evidentemente primordiali e basici conoscitori di vino.

Lorenzo travestito da Vinicius De Morales mette su Spotify un Fado portoghese dallo sconsolato fascino rilassante, uno di quei pezzi struggenti che fanno star bene, poi dice:

-“como sàimos daqui. Não aguento mais, estou morrendo, quero sair, quero que alguém nos observe”.

Poi gira la testa tre volte e si arrampica sui muri come un ragno. Padre Lankaster Merrin, detto l’esorcista, si affaccia e ci chiede se è tutto a posto.

-”si padre, ce lo scusi, è l’effetto della Sindrome da Prisonizzazione”

-”è tutto sotto controllo padre, è un semplice processo di erosione dell’individualità funziona che sviluppi nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, parlare, assumi ideologie di tipo malavitoso e criminale. Per il resto a casa tutti bene grazie!”

Padre Lankaster Merrin ci guarda con rispetto, poi per sicurezza spara due:

– “Exorcizámos te, ómnis immúnde spíritus, ómnis satánica potéstas”

poi torna nel film. Lorenzo scende dal muro e torna Lorenzoforme.

-“come facciamo ad uscire da qui?”

-“facciamo come avevamo detto, quando il dpcm riaprirà il teatri invitiamo il pubblico e ce ne andiamo”

-“non è previsto….la data del 27 marzo suona farlocca è una data slogan”

-“ma ti pare che un Ministro fa un annuncio tipo uno spot su Twitter, non si rende conto che in un momento di gigantesca fragilità del nostro settore ogni frase, ogni parola o sillaba che lui dice è fondamentale? Ha un peso enorme”.

-”Perché ci tratta come dei ragazzini? Un Ministro che si rispetti studia, riflette, ascolta, fa i conti, poi ragiona poi tace di nuovo”.

-“Tace”
“-Tace”
“-Tace”
-“Lavora”
-“Lavora”
-“Lavora”

-”…e alla fine parla ma solo quando ciò che dice è un fatto concreto, un valore che effettivamente può essere un programma”.

Silenzio

Matilde, colpita dal ragionamento si inquieta. Prende la scopa e comincia a spazzare nervosamente.

Pausa, poi dice:

-“Un Ministro che si definisca tale non sottintende, non sintetizza, non grida ai quattro venti la riapertura dei teatri. Lo fa solo quando diventa consapevole che la filiera della teatralità italiana è messa nelle condizioni vere e concrete di poter tornare a lavorare e creare e produrre. E ad incontrare il pubblico, il suo pubblico. Il governo o l’amministrazione non può non conoscerne la complessità. Perché bisogna conoscere la complessità teatrale perché si abbia davvero una ripartenza e non è un’accensione simbolica delle luci di sala”

Ascolto queste sagge parole e mi incendio m’infiammo e m’infuoco, mi infilo la zuppiera a mo’ di elmo, sfilo la cucchiarella come spada, rubo la scopa a Mati, ci salto su a cavalcioni.

Declamo eroico:

“vedo nei vostri occhi la stessa paura che potrebbe afferrare il mio cuore, ci sarà un giorno in cui il coraggio degli uomini cederà, in cui abbandoneremo gli amici e spezzeremo ogni legame di fratellanza, ci sarà l’ora dei lupi e degli scudi frantumati, quando l’era degli uomini arriverà al crollo, ma non è questo il giorno. Quest’oggi combattiamo! Per tutto ciò che ritenete caro su questa bella terra, v’invito a resistere. Uomini dell’Ovest!”

Gli altri mi guardano tra l’attonito, il meravigliato e il compassionevole.

Intanto Daniele, l’autore, che è passato a salutarci travestito da Frodo Baggings, per farmi rinsavire mi molla un calcio in culo e mi fa cadere l’elmo dalla testa e con lui tutti i miei sogni di gloria.

-“scusate” – dico – ”è il provino che ho portato al Teatro di Roma, credevo fosse adatto all’occasione”
– “ti hanno scelto?”
– “no”
– ”devi lavorare sui costumi”

-“allora, stavamo dicendo: apriamo senza il permesso, un atto di protesta e di rottura”
-“ha detto l’avvocato che è un reato penale, non solo per noi ma anche per il pubblico che verrebbe”
-“allora non possiamo”….

Pausa
Silenzio

Federica fa per versarsi un bicchiere di vino.
Smorfia di disgusto degli altri.
Cambia idea.

-“usciamo e buonanotte ai sognatori”
-“dichiariamo il nostro fallimento e tutti a casa”
Federica assume un colore in volto tendente al blu, posseduta dallo spirito di Edward Norton e mossa da Spike lee

Urla

-“vaffanculo, fanculo tutti, fanculo anche noi, fanculo questa merda di paese, fanculo al pubblico che non sa chi c’è dietro al mondo dello spettacolo, in culo agli attori che vogliono aprire i teatri, fanculo ai registi che credono di essere indispensabili, fanculo agli autori che non hanno più un cazzo da scrivere, fanculo ai disegnatori luci che nessuno ha capito mai come si fa a disegnare con la luce, e vaffanculo agli ingegneri del suono che tanto oramai ascoltiamo tutto con la qualità dell’audio di una radiolina a transistors, che se ne andassero a fanculo macchinisti, elettricisti, fonici, falegnami, microfonisti, camionisti, costruttori di scena, pittori di scena, scenografi, coreografi, arredatori, autisti di produzione, musicisti, compositori, librettisti, aiuto registi, aiuto sceneggiatori, attrezzisti, aiutoattrezzisti, costumisti, sarte di scena, aiutosarte di scena, sottotitolisti, grafici, bozzettisti, assistenti alla regia, uffici stampa, direttori artistici, truccatrici, parrucchieri, comparse, figuranti, accompagnatori di minori, siparisti, suggeritori, mimi, trovarobe, addetti al catering (un tempo cestinari), trasportatori, stunt man, addestratori di animali (un tempo animalari), maestri d’arme, maschere, addetti alla biglietteria, guardarobieri, custodi, addetti alla sicurezza, addetti alla pulizia e al facchinaggio, montatori, aiutomontatori, montatori della scena, mixer, acrobati, addetti agli effetti speciali, rumoristi, disc jockey, marionettisti, burattinai, direttori di produzione, ispettori di produzione, segretari di produzione, location manager, casting, fotografi di scena, autori del backstage, imballatori, amministratori di compagnia, orchestrali, coristi, bandisti, maestri di canto, vocalisti, ballerini, danzatori, direttori di scena, impiegati amministrativi, curatori di produzione, trainer, produttori e distributori .….”

-“…e le loro famiglie”

Che ora è?

La 25esima.

-“certo che siamo proprio tanti”

Riflettiamo in silenzio che nessuno valuta seriamente l’indotto di cinema e teatro. Non solo la spesa al botteghino, ma lo shopping, i trasporti e i pasti fuori: 5,3 miliardi di spese, un valore aggiunto annuale del settore di 4,7 miliardi di euro, una produzione aggiuntiva da 10,8 miliardi, oltre a 99 mila unità di lavoro.

-“io a cosa servo”
-“io a cosa servo”
-“Io a cosa servo”
-“Io a cosa servo”

In questo momento esce Edipo dalle pagine della tragedia di Sofocle, ci guarda sorridente e ci intima che

-“proteggere e liberare le città dai danni provocati da un’epidemia, significa innanzitutto conoscere se stessi, prima che un’intera comunità si ammali di tristezza non riuscendo più a immaginare un futuro”.

Lo cacciamo via, che noi adulti qui si sta parlando di soldi non di sogni. Qualcuno dice che poi Edipo, non avendo retto al dispiacere di quello che ha visto in noi, è tornato nel libro ed ha ucciso il padre, copulato con la madre e si è ciecato. Non poteva sopportare la vista di come abbiamo bruttato ’sto mestiere.

Per farla breve, alla fine decidiamo di aderire a “Facciamo luce sui teatri”, la protesta ideata da Unita – Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo – un’associazione di categoria che suona seria ed aderente al settore. Siamo uno dei 600 teatri italiani che per questa notte accenderà le luci, le insegne, aprirà i portoni, inviterà il pubblico a recarsi a teatro … mamma mia come suona antico sembra una cosa del tipo “vi ricordate quando ancora si poteva….”. Come quando una specie si estingue e la si commemora.

In quattro e quattr’otto organizziamo la serata. Posizioniamo un podio nel foyer modello “Hyde Park corner”. Un microfono e basta. Chiunque vorrà, potrà salire sul podio e leggere un brano selezionato da noi, un testo scelto da lei, un pensiero condiviso da tutti. Stiamo attenti alle misure di sicurezza: amuchina come se non ci fosse un domani, litri di amuchina, ettolitri di amuchina. Eppoi rossetti, sì, proprio il lipstick del trucco. Serve alle persone che verranno, per scrivere sui mille specchi del Teatro Bellini. Per rispondere con dei pensieri alle domande: “cos’è il teatro per te” – “cosa ti manca del teatro” – “come vorresti che il teatro cambiasse” – “cosa può fare il teatro per te” …e così via.

Andiamo nei camerini e ci facciamo carucci. Ci laviamo, ci vestiamo coi vestiti della festa, ci trucchiamo, uomini e donne indistintamente. Mi metto per sbaglio troppo gel in testa, si crea l’effetto “ciuffo in su”. Lo prendo come un omaggio a Tutti pazzi per Mary, quando Cameron Diaz inconsapevole si sistema i capelli con lo sperma di Ben Stiller.

Ci sorridiamo con pudore come quando i fanciulli si accostano per la prima volta al sacramento dell’Eucarestia.

Emozione
Emozione
Emozione
Emozione

È una serata importante. Simultaneamente Veronica, Lello e Margherita dell’ufficio comunicazione lanciano l’evento sui social, spediscono email invitano amici e nemici.

Siamo pronti sono le ore 19. Orario della convocazione. L’eccitazione dell’attesa è palpabile. Carlo il custode si avvicina e mi dice una cosa in napoletano stretto. Capisco solamente che anche lui è emozionato. Gli sorrido ma con le mascherine sembriamo tutti Actarus il pilota di Goldrake. Allora gli canto il simpatico motivetto:

“Si trasforma in un razzo missile con circuiti di mille valvole
fra le stelle sprinta e va…
Lui respira nell’aria cosmica
è un miracolo di elettronica ma un cuore umano ha…
Ma chi è? Ma chi è?”

Felicità, isteria, trepidazione. Arriva la gente, il pubblico ed è

-L’INCONTRO

che aspettiamo da 76 giorni.

Dopo un anno circa il teatro, il nostro teatro torna ad essere un rito collettivo, catartico e purificatorio, basato su

-L’INCONTRO.

Si riprende violentemente la sua funzione sociale che risponde da sempre all’innato bisogno degli uomini di desiderio mimetico, di gioco, della narrazione delle storie, anche feroci, senza il timore di riceverne una punizione. Ed infine al piacere che c’è nel vivere la trasformazione dell’attore.

Il foyer si riempie ma la folla non diventa follia di massa, è tutto moderato e possibile. Il podio si illumina. Daniele fa da padrone di casa e legge un testo di Petrolini sulla funzione del Teatro. Poi io leggo Gaber. Poi qualcuno legge Flaiano. Poi Shakespeare, immancabile poi…poi….poi….

Qualcuno si disinfetta le mani e sale e legge

Garcia Lorca

“Finché attori e autori resteranno in mano d’imprese assolutamente commerciali, senza valore letterario o controllo statale di nessuna specie, imprese digiune di ogni criterio e senza alcuna garanzia, attori, autori e il teatro intero sprofonderanno ogni giorno di più….”

Poi un altro rimpiazza l’oratore di prima e legge Galeano

“Lei sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi. L’ orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve L’utopia? A questo, serve: a camminare”.

Le persone sul podio si trasformano, arriva Kierkegaard in persona

“Accadde in un teatro che le quinte presero fuoco. Il Buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo”.

Ci raggiunge Goethe

“Vorrei che il palcoscenico fosse stretto quanto il filo di un funambolo, cosicché nessun incompetente oserebbe metterci piede”.

Non può mancare Carmelo Bene

“Qui non si tratta della crisi di un teatro, ma del fatto che tutto il teatro è in crisi. Finché si penserà al teatro come a un raduno mondano, per assistere alla recita di gente imparruccata”.

Vvvrrrrrrrmmmmmm

Crono assonnato e gonfio di cibo riporta la clessidra del tempo ad ora. La pellicola si riavvolge nel futuro ed il passato raggiunge il presente. Avevamo lasciato la Fiat Bravo dei carabinieri parcheggiata male coi lampeggianti accesi. I gendarmi scendono. Uno è basso e magro l’altro è alto e gigantesco. Comanda il piccoletto. Noi siamo sulla porta a parlare con amici che non vedevamo da tanto tempo. Spaventati ci rifugiamo nel foyer. I due militari ci seguono all’interno ed io mi ricordo che furono due gendarmi ad arrestare Pinocchio. Lui diceva bugie. Sosteneva che l’uomo può trasformare la propria condizione passando dalla vita istintiva, simile a quella animale, alla vera vita, cospargendosi così del profumo di umanità.

L’app “Fata Turchina” che ho appena scaricato lampeggia e mi ricorda che “Se del perdono non sarai degno tutta la vita sarai un legno”.

Entra il carabiniere piccoletto. Guarda gli affreschi dell’800 del teatro e ci dice in dialetto sardo “Carrino questo llocale, ha apperto da ppoco?”

Buio

Sipario

Saluti

…e visto che ci siamo

Baci

Appare una scritta creata espressamente a chiusura della storia

-il vento può spegnere una candela ed accendere un incendio-

 

La prima foto è di Michele Amoruso.

(Il 5 marzo, a un anno esatto dalla chiusura dei teatri, si è sciolto il progetto Zona Rossa, un’iniziativa che ha unito protesta e performance artistica per denunciare la situazione di abbandono in cui versano i teatri nel nostro Paese. Il gruppetto di attrici, attori e drammaturghi/registi che ha trascorso settantasei giorni di reclusione all’interno del teatro Bellini di Napoli senza mai uscire ha messo fine al suo confinamento volontario. Durante questo tempo i reclusi hanno fatto teatro, si sono interrogati sul senso di questo lavoro, sulla sua necessità, sulle ragioni della crisi dello spettacolo dal vivo, esasperata dalla pandemia, e hanno mostrato in streaming non uno spettacolo compiuto, ma le fasi creative che portano alla sua realizzazione. Tutto questo in attesa dell’annuncio della riapertura dei teatri, per debuttare davanti a un pubblico. Ma la data del 27 marzo, indicata dal Governo per la ripresa delle attività, è sembrata da subito uno specchietto per le allodole e certamente non ha mai rappresentato per i protagonisti del progetto Zona Rossa una risposta alle criticità e alla complessità del settore. Missione fallita dunque? Anche se così fosse, per gente di teatro non sarebbe un buon motivo per perdersi d’animo, stando almeno a quanto sosteneva Samuel Beckett: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. F.C.)

 

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La piazza carnevalizzata. Il cinema politico di Elio Petri https://www.carmillaonline.com/2016/12/29/28082/ Wed, 28 Dec 2016 23:01:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28082 di Gioacchino Toni

indagine11mtAlfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 228 pagine, € 20,00

«La mia visione del cinema di Petri è quella di un cineasta, di un intellettuale pervaso di un lucido pessimismo fondato sull’analisi delle contraddizioni sociali e politiche, che si muove all’interno di una visione tragica dei conflitti, e che si sforza di metterli in scena come tali. Senza rassegnazione ma senza credenza» Alfredo Rossi (p. 55)

Perché scrivere oggi un libro su Elio Petri? Non si tratta, ci tiene a sottolinearlo l’autore, di sconfessare oggi «una letteratura [...]]]> di Gioacchino Toni

indagine11mtAlfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 228 pagine, € 20,00

«La mia visione del cinema di Petri è quella di un cineasta, di un intellettuale pervaso di un lucido pessimismo fondato sull’analisi delle contraddizioni sociali e politiche, che si muove all’interno di una visione tragica dei conflitti, e che si sforza di metterli in scena come tali. Senza rassegnazione ma senza credenza» Alfredo Rossi (p. 55)

Perché scrivere oggi un libro su Elio Petri? Non si tratta, ci tiene a sottolinearlo l’autore, di sconfessare oggi «una letteratura pesantemente, a volte, ostile per forzare e chiudere un’azione risarcitoria nei riguardi di Petri. [il suo cinema] concerne oggi la scena critica per il suo lavorare in modo diretto sul problema del Potere e dell’Amore del Potere. Mai, infatti, come negli ultimi anni sono questi i nodi su cui si misura, in tutti gli ambiti del discorso, la cultura militante che non guardi in modo meccanicistico al tema del politico. Ecco perché il cinema di Elio Petri si fa dire oggi: perché lavora, nella sua major phase, in modo analitico attorno alla impossibile rappresentazione del Soggetto nel Politico se non in termini psicotici» (p. 27).

Elio Petri è sicuramente un autore dalla fortuna critica alterna. Tanti tra coloro che avevano supportato, seppur problematicamente, il cinema del “primo Petri”, hanno finito col contestarne, spesso drasticamente, l’ultima fase, segnata da un mutamento profondo; alcuni, secondo l’autore, «erano impossibilitati “per natura” a capire una nuova pratica della scrittura e della politica che troverà il momento più alto in Todo modo», altri, quelli che Rossi definisce «i rappresentanti del “terrorismo critico”, dell’avanguardia critica, “Cinema&Film” e “Ombre Rosse”», risultarono incapaci di «superare gli effetti di una supposta distanza politica, vittime loro malgrado delle proprie petizioni di principio e di lotta ideologica» (p. 21). Già all’uscita del film La classe operaia va in paradiso (1971) si alzarono pesanti critiche nei confronti dell’opera, accusata apertamente di essere reazionaria sia da parte dell’estrema sinistra che da parte degli esponenti dall’avanguardia del cinema militante, come il regista Jean Marie Straub.

la-classe-operaia-24Agli attacchi ed alle accuse Petri non mancò mai di rispondere con tono altrettanto polemico, a testimonianza di ciò si possono leggere alcuni passi, riportati dal saggio, tratti da Parla il cinema italiano vol. 2 (Il Formichiere, 1979 – p. 252-256), in cui il regista non risparmia stilettate sia alla critica marxista tradizionale che alla critica militante più recente, legata alle nuove riviste di cinema sorte negli anni ’60: «I marxisti dopo la scomparsa di Barbaro e Della Volpe, si sono ansiosamente ancorati ad un loro storicismo buono per tutte le occasioni. Marxisti, cattolici e idealisti si sono tutti trovati d’accordo in ciò, che la lettura di un testo è essenzialmente contenutistica […] Dal sessanta in poi vi sono state, inoltre, molte frettolose traduzioni dal francese di idee spesso tradotte dal tedesco e dal russo. Battaglioni di avventizi si sono gettati su queste idee, sbranandole, divorandole, in una gran confusione di fini. Molti si sono improvvisati formalisti, stilisti, semiologi, strutturalisti, lacaniani, o un po’ dell’uno un po’ dell’altro…» (p. 21-22). La polemica nei confronti di “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse” è palese, come è certo che tali riviste, sostiene Rossi, abbiano mantenuto un atteggiamento di «chiusura nei suoi riguardi in quella fase di passaggio radicale, gli anni settanta, vera sua fase di mutazione ideologica e stilistica da un cinema di narrazione, esistenzialista, ad un cinema volto al simbolico» (p.23).

Relativamente alla trasformazione imposta dal cineasta alle ultime opere, Rossi propone oggi una lettura differente da quella sostenuta a suo tempo, quando i film uscirono in un contesto culturale, politico e sociale diverso, in un periodo contraddistinto da ben altre urgenze: «Petri è un marxista e un materialista, lo psicologismo individualistico gli è estraneo o, nel tempo lo ha totalmente capovolto e ciò risulta chiarissimo nelle esperienze evolutive degli ultimi anni. È l’analisi della struttura capitalistica e psicotica che muove la sua riflessione sui fatti: gli attanti dei suoi film ultimi sono soggetti giocati dal reale e non individui – esistenze. L’oggetto del suo cinema sono soggetti equivocanti sul proprio supposto sé razionale, sociale e politico, sono maschere di una rappresentazione carnascialesca dominata dalla pulsione di morte. Elio legge con lenti marxiste e freudiane il mondo. Elabora all’interno della rappresentazione il gioco della pulsione di morte nelle dinamiche del reale della politica: è questa la genialità della sua scrittura. […] Il concetto di morte al lavoro è il rovello continuo della loro elaborazione: morte come processo di degrado del costume civile, decadimento dell’essere come insensatezza di soggetto lavorato dalla perdita identitaria. Pasolini parlava di corruttibilità della specie, delle facies, Elio la rappresentava, con genio registico a mio avviso assai superiore, radicalizzando la sua messa in scena grazie al gioco di maschere carnascialesche del potere, in una sfera di teatralità vicina al kabuki. È Elio il vero autore d’avanguardia del cinema italiano degli anni settanta, (assieme, come già detto al diversissimo Carmelo Bene e a qualche film di Ferreri, regista che amava) il vero padroneggiatore di un discorso sovversivo sul soggetto nel politico» (p. 26)

Nel corso degli anni ’60 si è sviluppata una profonda frattura tra i registi italiani “impegnati”, coinvolti nelle strutture produttive dell’industria del cinema, e la componente più radicale della critica cinematografica. Da allora, registi quali Petri, Rosi, Pontecorvo, Damiani e Montaldo rappresentano, secondo il saggio, «l’impensato della critica militante», tanto che ancora oggi risulta difficile «oltrepassare il limbo formalizzato della politica della rappresentazione per puntare all’analisi della rappresentazione del politico» (p. 40). Se si capiscono i motivi per cui i film di tali cineasti venivano, all’epoca, spesso attaccati da parte della critica politica (cinematografica e non) più radicale, oggi «tutto fa pensare che siano l’oggetto perturbante anche secondo i modesti criteri della comune pratica critica odierna che sono quelli della valorizzazione del cinema in quanto tale, come cosa cinematografica e prescindono da approcci analitici complessi. Oggi il massimo che ci si può attendere è l’assunzione impensata dei registi del cinema politico nell’empireo già affollatissimo del cinema italiano, quali esperti in un generone, come l’horror, il comico, la commedia, il peplum, il dramma popolare» (p. 40).

petri-cinema-politicoAlcune letture riducono il cinema politico italiano dell’epoca ad uno stereotipato catalogo di situazioni: «Le sceneggiature ruotano sempre infatti attorno a temi civili, variando esclusivamente l’economia della loro distribuzione. La polizia… italiana, la giustizia… italiana, la gestione… italiana del potere pubblico: si potrebbe dire che quel che è in questione è sempre l’apparato del Potere in Italia, distorto, mafioso, intrigato ed intrigante» (p. 42). Rossi evidenzia come gli ultimi due aggettivi non siano utilizzati casualmente; «poiché la politicità di tali film consiste nel contestare una realtà di potere, oggi, nel nostro Paese, inscenandola come “intrigo di potere” e, sottolineerei, intrigo “italiano” […] in quanto riconduce a modalità del dire, dell’immaginare, del rappresentare il Potere radicatesi nella notte della teatralità italiana. È dunque attraverso la griglia della doppia connotazione di “intrigo” ed “italianità” che il cinema italiano trova, a livello extracritico soprattutto, una sua riconoscibilità di massima che fa distinguere i film di registi quali Rosi, Montaldo, Pontecorvo, Petri da un altro cinema che pur esso si appella alle categorie del politico, quello dei Taviani, Bertolucci, Pasolini» (p. 42).

Se abbiamo un “intrigo”, continua lo studioso, «vi è qualcosa che va svelato, da parte di qualcuno di una certa “scena”» e si deve credere che esista una soluzione all’enigma, «ovvero che la Scena ricopra, celi, una Verità svelabile, dicibile. E che sussista la funzione catartica di strappare il velo della scena del “reale” in modo che esso possa dirsi nella sua verità» (p. 43). Il cinema politico italiano, secondo Rossi, intende mettere in scena l’enigma del sociale capitalista, sotto forma di intrigo politico al fine di denunciarne la natura di classe.

Circa la seconda connotazione, quella di “italianità”, il cinema politico italiano ha inevitabili rapporti con la commedia all’italiana (registi, attori, sceneggiatori, tecnici, produttori…) e tale legame ha la sua incidenza. Rossi indica come commedia all’italiana, commedia dell’arte e delle maschere borghesi siano segnate dell’immaginario politico di cui il cinema politico non ha di certo l’esclusiva. Nel saggio si sostiene che proprio a Petri si deve la più importante scoperta linguistica del cinema politico italiano, cioè «l’invenzione della necessità scritturale di attribuire all’ordine del politico la maschera di Gian Maria Volonté. Il che vuol dire strappare all’ordine simbolico della commedia all’italiana, tipicamente borghese, la pregnanza immaginaria della maschera spostandola sulla scena dell’agone del desiderio politico e restituendo alla maschera asservita e mercantile tutta la sua significanza» (p. 45). Non è dunque un caso che Petri si sia servito di un attore estraneo al firmamento del grottesco della commedia all’italiana. Il saggio evidenzia come esista una distanza netta tra le maschere degli attori della commedia all’italiana e la maschera di Volonté; in quest’ultimo caso l’attore riesce a «raggiungere la perfezione della maschera, la totalità della mimèsi e, di conseguenza, l’assoluta indifferenza rispetto al modello» (p. 46). Nel cinema di Petri prevale un’oscillazione permanente in un’alternanza di sublime/comico e ciò è dovuto alle capacità di alternanza della maschera di Volonté.

È nella ricostruzione del ruolo politico della maschera nella scena teatrale italiana che Rossi individua ciò che accomuna e ciò che differenzia la commedia all’italiana ed il cinema politico italiano, giungendo alla conclusione che, al fine di comprendere la peculiarità del cinema politico di Petri, si debba riflettere sulla maschera di Volonté e da qui sul ruolo della “festa” quale «avventura immaginaria del suddito ma anche la sua tragedia, il suo scacco radicale, la sua mancanza ad essere che si inscena nello stesso recinto spaziotemporale» (p. 48).

Ricorrendo ad una chiave di lettura psicanalitica, di matrice lacaniana, Rossi giunge alla conclusione che «anche il problema della maschera concerne il sintomo discorsivo dell’allegoria. Re Carnevale ne è la cifra, doppiamente, in quanto rappresenta il tentativo di incarnarsi nel tutto del desiderio facente capo al soggetto in ordine al Politico. E questo nella prefigurazione di natura isterica che quella totalità, quella assolutizzata verità sia inscenabile. Qui, precisamente, si situa il paradosso dell’allegoria: per dire il tutto, la verità del Potere, non si dice nulla del potere-reale. La scena festiva, quindi, dal punto di vista della politica-reale non è un fatto trasgressivo, o, peggio, rivoluzionario. Ché, anzi, è il gesto confermativo di una dipendenza fantasmatica. […] La dinamica pulsionale del soggetto e del collettivo disdicono il reale-politico rappresentandone il simulacro. Come tale l’allegoria festiva, dell’enunciato politico, ha per effetto di introdurre, nella scena, il Politico come fantasma del politico-reale. Ma quest’ultimo ricompare come effetto di ritorno nella rappresentazione. E il suo “effetto di ritorno”, o après coup, consiste precisamente nell’impraticabilità dell’allegoria, ovvero nell’impossibilità per Re Carnevale di trattenere le fattezze di maschera» (pp. 49-50). A Carnevale succede Quaresima, al desiderio subentra la sua negazione, alla festa che tenta di fare a meno del principio di realtà si sostituisce la cancellazione del principio di piacere.

La lunga disamina circa il ruolo della festa è ritenuta indispensabile al fine di affrontare il cinema politico italiano che, nella lettura proposta da Rossi, «rappresenta l’agone del collettivo, attuato, per il tramite dello spettacolo cinematografico, al fine di specchiarsi (“specchio” e “spettacolo” hanno lo stesso etimo) come Potere, di raffigurarsi tale al centro di un palcoscenico immaginario che ha per quinte le nostre città, i nostri palazzi del potere» (p. 51). Il cinema politico italiano sarebbe dunque caratterizzato dal conflitto che si instaura nella rappresentazione tra la festa carnevalesca ed il contraccolpo quaresimale, il «gioco di maschera che esso propone è sempre destinato alla tragedia, alla Quaresima, alla conferma fantasmatica del “sistema” contro cui si rivolta» (p. 53), così facendo l’enigma della società politica italiana tende a riconfermarsi come tale visto che l’assunto di credenza non è messo in questione. «Questa dialettica non risolvibile è invece il centro stesso del meccanismo scenico dei film di Petri. Laddove, in tutta la produzione che esaminiamo, permane come sintomo, come discorso in perdita. E di perdita» (p. 53).

Rossi ripropone, più di una volta, nel saggio una celebre citazione lacaniana: «L’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l’esperienza ha dato prova. Ciò cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. Lo avrete.» (J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, p 259). Tale citazione sintetizza bene la griglia di lettura attraverso cui Rossi analizza il cinema di Petri.

Nel cineasta la scena carnevalesca si fonda sull’attualità della politica-reale, il film affronta l’attualità del paese. «La messa in scena dell’impossibilità del desiderio, di dire il Politico-reale, il Potere-reale, fa si che Petri, in questa prospettiva, analizzi una fenomenologia del bisogno-politico quale si è prefigurata a partire dalla “festa sessantottesca”. Il ’68 come spazio festivo: le piazze le strade d’Italia battute da un’onda delirante, conclamatesi Potere» (p. 55). Secondo la lettura proposta dal saggio, mentre molti autori italiani del cinema politico «hanno letto l’invocazione ribellistica in termini di risposta, Petri l’ha letta in termini di domanda, quale disagio e pulsione di morte, di cui è intessuta» (p.55).

indagine su un cittadinoSecondo Rossi, nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), Petri inserisce la rappresentazione della politica italiana all’interno di canoni discorsivi carnevaleschi attraverso la maschera di Volonté. Dell’attore il cineasta esalta le qualità mimetico giocose della sua recitazione senza mai farle scivolare in quel che lo studioso definisce “mascherone”, tipico della cinematografia italiana del dopoguerra che, facilmente, avrebbe trasformato il personaggio dell’ispettore di polizia in semplice caricatura del funzionario dell’amministrazione centralistica e gerarchica dello Stato. Il film di Petri, sostiene Rossi, «persegue invece un altro effetto: il lazzo, il comico, il grottesco che alimentano la sua finzione hanno una significanza differente nel testo, avente a che vedere con il desiderio del Cittadino piuttosto che dell’“ispettore”» (pp. 101-102).

«L’ispettore-Volontè risucchia la scena, la dissangua, la riduce ad ossessivo rumore di fondo per lanciare alta la sua invocazione isterica d’amore del Potere» e, continua lo studioso, quegli studenti che fronteggia, oggi si ritroverebbero nei panni di «funzionari dello Stato assistenziale, che con gesto amoroso li ha raccolti dalle piazze d’Italia e li ha “incardinati” nell’Amministrazione. Oggi essi fanno cardine: un po’ dovunque desidereranno esser ricevuti e amati dai capuffici, dai capi sezione, dai direttori generali, oppure sono già loro il Potere» (p. 102). La festa carnevalesca del ’68 si conclude, lacaniamente, verrebbe da dire, in maniera quaresimalistica.

«Per l’ispettore compiere l’assassinio dell’amante significa portare una sfida al centro del meccanismo fideistico che fonda l’Autorità, e al suo effetto di credenza. Non è un caso che nel corso del film, parlando dell’“interrogatorio” e della sua metodologia così lui lo definisca: “È una messa in scena per toccare corde profonde, sentimenti segreti. Di fronte a me che rappresento il Potere l’indiziato diventa un po’ bambino ed io divento il Padre, il modello inattaccabile; la mia faccia diventa quella di Dio, della Coscienza”. Ecco Re Carnevale […] Ma il dirsi Dio è anche una bestemmia: è nel contempo la incoronazione e la scoronizzazione del Potere e del suo effetto di credenza nell’ambito del Collettivo […] Proprio l’imputarsi, il farsi vittima sacrificale è il movimento stesso della colpevolizzazione per la pronunzia della bestemmia. È qui che s’annida il tarlo comico che mina la sublimità, l’eroicità dell’agire. Questa altalenanza è propria di ogni enunciato attorno al Politico, traversato come esso è dal sintomo isterico, in questo senso l’ispettore è anzitutto Cittadino, membro del Collettivo desiderante attorno al Potere. Di questa desideranza sessantottesca, nella sua continua pronunzia della bestemmia, nel godimento precluso, il Cittadino è il fantoccio, la maschera sublime e comica» (p. 102).

Con riferimento alla tarda produzione di Petri, secondo l’analisi proposta dal saggio, non si può parlare propriamente di “ritorno al privato”, di “riflusso dal politico” e di “disinganno”. Di certo gli ultimi film, a partire da La proprietà non è più un furto (1973) sono caratterizzati da una gestazione contorta, contraddittorietà e sofferta, ben testimoniata da una mole di scritti del regista in cui si alternano momenti di eccitazione ed altri di delusione. L’impressione, suggerisce il saggio, è che da un certo punto in avanti il cineasta abbia preferito lavorare per dare immagine ai propri fantasmi che a lungo erano stati “coperti” dal fragore della piazza. Nel film Le buone notizie (1979), al posto di Giancarlo Giannini, avrebbe dovuto recitare Marcello Mastroianni, attore che rappresenta per certi versi l’altra faccia di Volonté: «se quest’ultimo è la maschera del politico, Mastroianni lo è del privato. Ma un privato legato a doppio filo con il politico: un privato appartenente al dominio del conflitto attorno ad un’idea di morale possibile nel reale e di chiusura del Soggetto nel reale. Dunque nulla a che fare con modelli di introversione piccolo borghese, ma un privato giocato dalle contraddizioni tra il principio di realtà e le istanze anarchiche, violente e luttuose, di cui Elio è attraversato» (pp. 58-59).

La ri-lettura di Petri proposta da Rossi, che, come tiene a sottolineare, non vuole venga intesa come risarcitoria sconfessione di una precedente lettura ostile, sicuramente risente di come sono andate le cose dopo la sbornia sessantottesca e, se anche non vuol essere risarcitoria nei confronti di Petri, sembra riconoscergli doti di preveggenza. Una visione tragica, quella di Petri, in cui, oggi, in contesto fortemente mutato, forse, tra le righe, pare riconoscersi lo stesso Alfredo Rossi.


Il saggio contiene lettere e scritti di Elio Petri ed interventi di Goffredo Fofi, Franco Ferrini e Oreste de Fornari

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Barricate di carta. La critica cinematografica conflittuale attorno al ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/11/20/barricate-di-carta-la-critica-cinematografica-conflittuale-attorno-al-68/ Thu, 19 Nov 2015 23:01:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25697 di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc. “Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. [...]]]> di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc.
“Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. Il primo numero della pubblicazione romana “Cinema&Film” è dell’autunno-inverno 1966 e, sin da subito, è palese come i giovani critici intendano: applicare al cinema un approccio linguistico strutturalista; analizzare soltanto i film che desiderano supportare; porsi a difesa di un “cinema altro” ed, in alcuni casi,  passare dall’atto della critica scritta a quello del “misurarsi con la realtà del costruire immagini e immaginario, del fare insomma cinema con e nei film”. La pubblicazione della rivista romana termina all’inizio degli anni ’70. “Ombre rosse” nasce, invece, a Torino nel 1967 con una forte connotazione politica che ha come riferimenti le lotte studentesche ed operaie del periodo. In questo caso il film viene esplicitamente concepito come “prodotto ideologico dell’industria culturale” ed oltre a trattate le opere supportate vengono affrontati anche i film che si intendono contestare da posizioni ideologiche ben precise. Ad inizio anni ’70 la rivista torinese si trasforma divenendo una testata politico-militante.

C&Fn1Secondo Alfredo Rossi risulta interessante confrontare le modalità contemporanee di “pensare il cinema” con “quell’assunzione di moralità leggendaria, talvolta derisoria ma tumultuosa e vera” di “Cinema&Film” e di “Ombre rosse” e, da tale confronto, emerge in tutta evidenza lo “scollamento tra il pensare-cinema, il dire-cinema” di allora e “l’odierno parlare-cinema e consumare-cinema”. Ad essere scomparsa, continua Rossi, è “l’urgenza del giudicare in un ambito dichiarato di posizionamento ideologico, selettivo, rabbioso, talvolta euforico, comunque innovativo, un fenomeno complesso come quello del cinema”. A tutto ciò sembra essersi sostituito “un appiattimento benevolente, in funzione accademica, neutra, di tipo storicistico o di gusto, nel render conto di un reale, vecchio e nuovo, di nessun interesse”. Non vi è traccia nell’attualità di quel voler “essere di parte” presente nelle due riviste degli anni ’60.
La critica cinematografica portata avanti dalle due testate, pur derivata dall’amore per il cinema ed i film, finisce spesso per parlare anche di altro, ricorrendo all’oggetto film “come segno o sintomo di altro”, studiandone “il meccanismo specifico di effetto di credenza, di prodotto industriale, in senso marxista e adorniano, per superare, appunto, la relazione acritica d’oggetto”. Ormai, sostiene Rossi, si è compiuto quel “tragitto di accreditamento culturale e artistico del cinema nel suo tutto, attraverso un processo di sussunzione estetica cui consegue che il film venga, comunque, sublimato in valore-cinema, appartenendo tecnicamente a quella universitas, e come tale speso nella catena di mercato delle idee, in un circuito che va dall’asseveratore dei valori, il critico, al consumatore finale, lo spettatore cinefilo, anello ultimo e debole del nuovo infantilismo del vedere”. Oggigiorno ha conquistato la scena “l’ideologia del film come valore per il solo fatto di essere, di esistere quale cosa cinematografica, e di poter esser catalogabile come tale in un tessuto ideologico e immaginario appagato”.

Emiliano Morreale, nel suo intervento, ricorda come le due riviste nascano quando è ormai finita la Nouvelle Vague francese, Hollywood mostra di patire la crisi economica e l’esordio in Italia di Bellocchio e Bertolucci, più che aprire un ciclo, sembra chiudere una stagione. Morreale invita i lettori più giovani, che non hanno vissuto il clima degli anni ’60 in cui si è data l’esperienza delle due testate, a notare quanto all’epoca si vedesse nel cinema davvero una possibilità di crescita umana ed uno strumento di miglioramento sociale.

Jacopo Chessa puntualizza come con l’espressione “critica militante”, in Italia, venga designato quell’ambito di critica “non accademica e nemmeno quotidianista” che, prestando particolare attenzione alla produzione contemporanea, privilegia l’approfondimento alla divulgazione. In generale il fatto di esercitare una critica militante non vuole per forza di cose dire essere militanti dal punto di vista politico ma, sostiene Chessa, a partire dalla fine degli anni ’60, la maggior parte della critica militante è militante anche politicamente. “Se il PCI aveva una sua cultura ufficiale, dei cineasti da sostenere, delle riviste dove farlo e una casa di produzione di riferimento, l’Unitelefilm, i militanti alla sua sinistra erano obbligati a inventare un nuovo approccio e un nuovo linguaggio che fossero, realmente, ‘rivoluzionari’”.
Le riviste “Ombre rosse” e “Cinema&Film” si trovano innanzitutto a dover individuare “quali film sostenere per il loro valore politico”, come vengano trattate le questioni politiche nei film, come affrontare, a livello di critica, tali opere ed, infine, come rapportarsi nei confronti del “cinema militante”. A proposito del rapporto tra critica e militanza, nel n.7-8 del 1969 la redazione di “Cinema&Film” così sintetizza le differenze con “Ombre rosse”: “Noi facciamo una rivista di cinema che, qualche volta, parla incautamente di politica e loro una rivista politica che, spesso, parla di cinema”. “Ombre rosse”, nell’articolo “Cultura al servizio della rivoluzione”, steso a diretto contatto con il movimento studentesco torinese, dichiara sulle sue pagine come il cinema che intende porsi al servizio della rivoluzione debba contribuire a cambiare il mondo.

C&Fn2Con tutte le sue contraddizioni, la cinematografia hollywoodiana è, in genere, supportata da entrambe le riviste. È pur vero che “Cinema&Film” dedica gli approfondimenti ai grandi autori come Rossellini, Godard e Straub o, in diverse occasioni, al “nuovo cinema italiano”, ma, sostiene Chessa, “avendo sempre negli occhi la lezione dei grandi maestri americani” come Hawks, Walsh, Ford, Chaplin, Welles ecc. “Cinema&Film” dedica molto spazio al “New American Cinema”, mentre “Ombre rosse”, pur occupandosi di questo fenomeno, opta, a partire dal quinto numero, per la cinematografia del Terzo mondo, soprattutto latinoamericana, individuando in essa “un modello da imitare nella definizione di un cinema d’intervento che non si rassegni alla piatta illustrazione dei fatti o alla propaganda, sia pure rivoluzionaria”.
“Ombre rosse” si pone come “avanguardia teorica di un cinema politico che si vorrebbe allo stesso tempo militante e rivolto alle masse, alla ricerca di una norma rivoluzionaria”. “Cinema&Film”, come cinema politico, privilegia, invece, “quello che si manifesta come tale sul piano del linguaggio”; ad essere enfatizzata è la rivoluzione formale che si manifesta in alcune pellicole, pertanto il discorso tende ad essere centrato su “eccezioni” al cinema tradizionale portate da autori come Godard, Rocha, Bene ed, in generale, dal “New American Cinema”. La “questione del linguaggio e del suo rapporto con il politico”, sul finire degli anni ’60, è fonte di riflessione e discussione; come conciliare una volontà contenutistica rivoluzionaria con il mantenimento della “lingua dei padroni”, e di “modalità comunicative, figurative, espressive imposte dal capitale”? La ricerca di un cinema diverso sia dal punto di vista linguistico che politico, finisce, inevitabilmente, con la critica del suo processo di produzione. “Cinema&Film”, sostiene Jacopo Chessa, pare più critica nei confronti “del cinema in mano agli ‘autodidatti’, ai collettivi studenteschi o politici che spesso si limitano a registrare delle situazioni”, “Ombre rosse” sembra, invece, aprirsi maggiormente a tali esperienze anche se il conseguimento di “un cinema veramente militante” pare restare più un’ambizione che non un’esperienza realmente conseguita.

L’intervento di Adriano Aprà ricostruisce la nascita della rivista romana a partire dall’uscita di un gruppo di giovani critici da “Filmcritica” e ricorda come il titolo della testata “Cinema&Film” (“C&F” come acronimo), nel suo legare i due termini senza spazi intermedi, corrisponde allo spirito del gruppo che ha dato vita alla rivista: “l’astratto (cinema) non disgiunto dal concreto (film), la teoria strettamente legata alla pratica”. Il comitato direttivo originario risulta composto, oltre che dallo stesso Adriano Aprà, in veste di direttore responsabile, da Luigi Faccini, Luigi Martelli, Maurizio Ponzi, Claudio Rispoli e Stefano Roncoroni. Nel corso della breve vita della rivista, alcuni dei critici della prima ora abbandonano e si aggiungono nuovi collaboratori come Franco Ferrini, Gianni Menon, Piero Spila, Enzo Ungari, Oreste De Fornari, Alfredo Rossi e Paquito Del Bosco.
Per farsi un’idea degli interessi di “Cinema&Film”, Aprà invita a passare in rassegna le immagini pubblicate in copertina e controcopertina: n. 1: Rossellini/Pasolini; n. 2: Chaplin/Godard; n. 3: Bertolucci/Bellocchio; n. 4: Welles/ Ferreri; n. 5-6: Straub-Huillet/Ponzi; n. 7-8: mosaico di nove giovani registi italiani/mosaico di foto tratte dai loro film; n. 9: Chaplin/Bene; n. 10: Hitchcock/Oshima; n. 11-12: Dreyer/Buñuel. Informazioni circa le preferenze dei critici di “C&F” si possono ricavare anche dall’elenco dei cineasti a cui viene chiesto di partecipare alla stesura delle classifiche dei migliori film: Amico, Bargellini, Bellocchio, Bertolucci, Brunatto, Cottafavi, Del Monte, Ferreri, Orsini, Pasolini, Rocha, i Taviani. Inoltre, tra gli altri autori amati dalla rivista romana, Aprà ricorda Ingmar Bergman, John Ford, Jerry Lewis, Michelangelo Antonioni, Eric Rohmer, Stanley Kubrick, Jacques Tati, Claude Chabrol e Glauber Rocha. Diverse anche le interviste pubblicate, tra le tante vale la pena citare quelle a: Dušan Makavejev, Robert Kramer, Ferreri, Jean Rouch, Straub, Bergman, Ponzi, Gianni Amico, Gian Vittorio Baldi, Bertolucci, Olmi, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, Glauber Rocha, Gustavo Dahl e Carmelo Bene. Se tali elenchi testimoniano la “tendenza cinefila” del gruppo, il racconto di Aprà prosegue nel ricostruire “la tendenza teorica” della rivista. In questo caso la semiologia ha un ruolo importante, sono infatti stati pubblicati testi di Pier Paolo Pasolini, Roland Barthes, Roman Jakobson e Christian Metz, oltre che scritti di (e su) Ejzenštejn, Dziga Vertov, Erwin Panofsky, Emilio Garroni, Theodor W. Adorno, Roger Munier. Adriano Aprà, a proposito della teoria, tiene a sottolineare che, per quanto lo riguarda, è stata intesa come “strumento per l’analisi dei film”, dunque “una teoria immediatamente da applicare alle opere”.
Nel suo intervento, Luigi Faccini, ricorda le riflessioni del gruppo di “C&F” a proposito del linguaggio e dello stile da utilizzare negli articoli al fine di indagare le scelte stilistiche dei cineasti. Ed è proprio a partire dall’analisi delle scelte stilistiche dagli autori che diversi critici iniziano a studiare regia.

ombre-rosse-nr.6Goffredo Fofi, invece, nel ricostruire il clima degli anni ’60, entro cui nascono le due riviste, si riferisce a quel periodo come “l’ultima epoca davvero vitale delle arti, quella della presa di parola di una generazione irrequieta che rifiutava i diktat delle ‘scuole’ consolidate ‘di destra’ o ‘di sinistra’ – in Italia, del corporativismo romano-centrico, dei bavosi residui zavattiniani, degli ottusi ideologismi aristarchiani (e togliattiani), delle tranquille degustazioni borghesi, di un angusto cattolicesimo non scosso, in cinema, dall’’aggiornamento’ conciliare. Una generazione che voleva dire la sua, mettersi in gioco, entrare in lizza. Non solo i registi, anche i critici. Ma mentre i primi si erano mossi per tempo, approfittando del boom e della funzione civile e di massa che il cinema continuava a svolgere, i secondi si dimostravano molto più lenti, i giovani imbarazzati da vecchi invadenti e ricattatori. Fu sulla scia di quel che accadeva a Parigi – e per opera di giovani italiani che la Parigi della Nouvelle Vague e dei ‘Cahiers’ oppure di ‘Positif’ (e di ‘Les Temps Modernes’, ‘Esprit’, ‘Le nouvel observateur’) frequentavano assiduamente, chi direttamente e chi semplicemente divorando le loro pagine – che nacquero ‘Cinema&Film’ e ‘Ombre rosse’”. Fofi sottolinea come entrambe le riviste possono essere definite militanti, seppur pur in maniera diversa: “Cinema&Film” “ancorata al cinema e nella speranza-illusione di creare un movimento di nuovi registi (ne vennero, ma assai deboli) e incidere dal centro del mini-impero cinematografico della capitale, della centralità romana”, mentre “Ombre rosse” la descrive come “inserita in una battaglia culturale di più ampio raggio”, all’interno di un dibattito che vede nell’intervento politico “lo sbocco delle ricerche e tensioni culturali”. Con il ’68 tutto si intensifica e tutto si trova a gravitare attorno ad un movimento che mette “la politica al primo posto”.

Gianni Volpi evidenzia come la visione del ruolo del cinema dei giovani critici di “Ombre rosse”, si trovi, sin da subito, a cercare punti fermi nei francofortesi, nelle avanguardie, in Brecht, nel surrealismo, in Majakovskij, ed in generale nel clima culturale degli anni ’30. L’aspetto critico che sicuramente contraddistingue “Ombre rosse”, non deve sminuire l’attenzione rivolta dalla rivista “ai valori di linguaggio (e ad altri linguaggi: vedi il fumetto con le tavole-recensione disegnate appositamente da Buonfino o Crepax o Ballesta, o il romanzesco dei generi bassi)”.

ombre-rosse-nr.7 Volpi sostiene che le due testate nascono dall’insoddisfazione per la cultura cinematografica dominante e che, in entrambi i casi, il tentativo è quello “di porsi come interlocutori reali di alcuni autori, seppure diversi per ciascuna delle due riviste”, cioè di confrontarsi con chi praticamente realizza film. Tra gli autori amati da “Ombre rosse” ricorda Welles, Buñuel, Lang e Losey, definiti all’epoca come “i grandi della negazione”, capaci di “negare il mondo così com’è” e di “proporre forme e visioni in grado di scavare oltre la superficie”. Poi, ancora, la rivista indaga il cinema di Bresson, “espressione di un cattolicesimo come linguaggio e non come posizione”, alcuni autori della Nouvelle Vague, Rocha, Guerra, Solanas, il “Cinema nôvo” brasiliano, quello latino-americano, il cinema cubano, vietnamita ecc., senza dimenticare l’interesse per il “cinema militante”. Ad essere amati sono anche gli autori della “crisi del sogno americano” come Penn, Cassavetes, Jerry Lewis, poi, più tardi, Kazan e Robert Kramer. A parte i casi di Bellocchio e Ferreri, il cinema italiano, a causa di quella che Volpi definisce la sua “medietà”, viene invece sostanzialmente rifiutato dal gruppo di “Ombre rosse”.

La sezione antologica di Barricate di carta, per quanto concerne gli scritti di “C&F”, riproduce, in maniera parziale o integrale: “Editoriale” n. 1 Testo redazionale – “Godard à part, la bande des autres…” di Luigi Faccini – “Editoriale” n. 2 Testo redazionale – “Riflessione prima sui metalinguaggi critici” di Luigi Faccini; “Due o tre cose su Roberto Rossellini” di Maurizio Ponzi – “Immagine autoritaria e immagine trascendente” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 4 Testo redazionale – “Verso un cinema di risposte?” – “Editoriale” n. 5-6 Testo redazionale – “Cinema con le mani sporche” di Adriano Aprà – “Un totale equilibrio incarnato” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 7-8 Testo redazionale – “Nosferatu ’70: una sinfonia del disordine”di Enzo Ungari – “Appunti su una teoria del film permanente” di Piero Spila – Jack e il principe Hal poi Henry V” di Maurizio Ponzi – “I migliori rivoluzionari del 1968” di Maurizio Ponzi – “Le cadavre exquis del cinema rivoluzionario”di Piero Spila – “Sogni rubati” di Alfredo Rossi – “West by Northwest” di Franco Ferrini – “Introduzione all’arcipelago Hitchcock” di Enzo Ungari – “Editoriale” n. 11-12 Testo redazionale – “Dreyer: artificio, spazio, luce” di Adriano Aprà.
Per quanto concerne, invece, gli scritti di “Ombre rosse”, sono riprodotti, in maniera parziale o integrale: “Way Down East” di Goffredo Fofi – “A film politico giudizio politico” a cura di Paolo Bertetto, Goffredo Fofi, Massimo Negarville, Vittorio Rieser, Gianfranco Torri, Gianni Volpi – “Per una veridica filmografia del verace” di Saverio Esposito – Marco Bellocchio: Vento dell’est. Intervista su La Cina è vicina” a cura di Goffredo Fofi – “La negazione assoluta di Bresson” di Gianni Volpi – “Autunno senza Cheyenne. Ford e Missione in Manciuria” di Piero Arlorio – “Segni di riscontro su una vecchiaia felice” di Goffredo Fofi – “I verdi prati di Oxbridge. ‘incidente di Joseph Losey” di Gianni Volpi – “Ganster Story” di Juan Ballesta – “Cul de sac” di Guido Crepax – “Cultura al servizio della rivoluzione” Testo redazionale – “Godard uno e due. Masculin Féminin, Week-end” di Gianni Volpi e Paolo Bertetto – “Il cinema e il movimento studentesco” di Massimo Negarville – “Il cinema come fucile. Intervista a Fernando Solanas” a cura di Gianni Volpi, Piero Arlorio, Goffredo Fofi e Gianfranco Torri – “La prigione cristiana. Nazarin, La via lattea” si Goffredo Fofi – “Andremo a Thaiti. Dillinger è morto” di Gianni Volpi – “Alla ricerca del positivo” di Goffredo Fofi – “Cronaca del Cronopio: critica e intervento” di Goffredo Fofi.

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Quando l’immagine è politica https://www.carmillaonline.com/2015/09/21/quando-limmagine-e-politica/ Mon, 21 Sep 2015 21:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25110 di Massimiliano Coviello

cinema-uva-immagine-politicaChristian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 210 pagine, € 24,00

Il volume di Christian Uva prende avvio dalla riflessione sul politico, inteso come dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere, svolta dallo storico e teorico del cinema Maurizio Grande in Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci P e V. Taviani (1995). A partire dalle pellicole girate negli anni Settanta da Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci e dai Taviani, [...]]]> di Massimiliano Coviello

cinema-uva-immagine-politicaChristian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 210 pagine, € 24,00

Il volume di Christian Uva prende avvio dalla riflessione sul politico, inteso come dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere, svolta dallo storico e teorico del cinema Maurizio Grande in Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci P e V. Taviani (1995). A partire dalle pellicole girate negli anni Settanta da Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci e dai Taviani, Grande, che per diversi anni intrattenne un dialogo vivace con Gilles Deleuze e Carmelo Bene, utilizza l’aggettivo politico non tanto per quei film che sviluppano il loro intreccio a partire dalla rappresentazione di un particolare contesto politico (è il caso della politica messa in scena nei film legati alla cronaca o in quelli di propaganda), quanto piuttosto per individuare le opere che possiedono un senso politico e suscitano interrogativi politici.
L’immagine politica si appropria del paradigma inaugurato da Grande. Pertanto il volume di Uva non è una storia per immagini degli anni Settanta e delle lotte che li hanno segnati ma un’analisi che, a partire da un accurato studio storico e critico delle riviste cinematografiche e di quelle dei gruppi extraparlamentari, del cinema, del video e della fotografia militante, offre al lettore un’analisi del contropotere delle immagini, delle sue forme e della sua efficacia sociale, politica, nonché della sua capacità di imprimersi nell’immaginario collettivo.

Il contropotere, ossia «contestazione, rivoluzione, resistenza, antagonismo» (p. 10), messo in atto dalle e per il tramite delle immagini configura queste ultime come armi capaci di enunciare un discorso e di sprigionare un senso politico di natura antagonista ma anche di denunciare, ossia di offrire una risposta, quella della controinformazione, al malcontento crescente nei confronti degli organi di stampa e dei mass media in varia misura conniventi con il discorso istituzionale.

L’immagine politica ha una scansione cronologica che intreccia gli eventi alle trasformazioni tecnologiche, stilistiche e contenutistiche connesse alle immagini e ai loro medium di propagazione e diffusione sociale. Il volume prende avvio dalle lotte studentesche e operaie della seconda metà degli anni Sessanta, un periodo in cui si afferma il “cinema militante”, una fase «nella quale fiorisce una nutrita produzione di materiali di “servizio alla causa” di matrice fondamentalmente documentaria» (p. 15). Al centro della seconda sezione, dedicata agli anni Settanta, vi sono i linguaggi elettronici del video: la tecnologia elettronica esce dagli studi televisivi e diventa un strumento accessibili ai molti per supportare, sovvertendo i mezzi di produzione, l’attivismo politico e le istanze trasformatrici del periodo. L’ultima parte di questo percorso sul contropotere delle immagini negli anni Settanta è dedicata alla fotografia, un apparato di cattura che in quel periodo è al servizio di scopi e regimi discorsivi molto diversi, dalle Polaroid delle Brigate Rosse alle “immagini del movimento” di Tano D’amico.

Andiamo per gradi e proviamo a offrire una panoramica su ciascuna delle sezione di cui si compone L’immagine politica.

Fotogramma tratto da Ipotesi su Giuseppe PinelliA cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il dibattito sullo specifico ideologico e linguistico del cinema politico imperversa su riviste come «Cinema&Film» «Ombre Rosse» e «Cinema Nuovo». A confrontarsi sono posizioni contrastanti a proposito della dimensione didattica del film, dell’accesso democratico al mezzo e alla grammatica cinematografica, della militanza e della rivoluzione culturale condotta attraverso il cinema. D’altra, parte anche la pratica del cinema militante si presenta come un coacervo di istanze produttive: dai gruppi extraparlamentari alle riviste come «Lotta Continua», dai collettivi studenteschi come il “Collettivo cinema militante Milano” a quelli operai e femministi, come il “Collettivo di Cinema femminista”, sino ai gruppi e ai comitati che riunivano registi e cineasti come il “Comitato cineasti italiani contro la repressione”, formatosi all’indomani della strage di piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969. Uno dei gruppi del comitato dei cineasti, realizza, con il coordinamento di Elio Petri, Ipotesi su Giuseppe Pinelli (o Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli). Le tre versioni sul presunto suicidio dell’anarchico milanese sono restituite allo spettatore grazie alla capacità attoriale di Gian Maria Volonté «nella funzione di persona/personaggio interna/esterna alle tre “narrazioni” che ricostruiscono, sfruttando le diverse e contraddittorie indicazioni fornite dalla Questura, i vari scenari dai quali emerge in definitiva l’impossibilità materiale della caduta volontaria o accidentale dell’anarchico dalla finestra» (p. 70).
A livello delle tecnologie usate dal cinema militante dell’epoca, tematiche e rivendicazioni vengono documentate e raccontate attraverso quei formati ridotti come l’8mm e il 16mm che consentivano l’alleggerimento dell’apparecchiatura e davano al cineoperatore, professionista o amatoriale, la possibilità di cogliere sul fatto le manifestazioni e le proteste, le assemblee e gli scioperi.
Tra le esperienze più fertili e riuscite di questa stagione si può ricordare la serie dei Cinegiornali Liberi realizzati da Cesare Zavattini a partire dal 1967, nei quali l’utilizzo del piano sequenza “adegua” l’estetica del pedinamento di matrice neorealista ad un cinema di analisi e di intervento, militante e di azione, «un cinema di tanti per tanti» (p. 42) che però prevede la presenza e il supporto di intellettuali e registi.
In pieno Sessantotto il Movimento Studentesco dell’Università “La Sapienza”, con il coordinamento del regista Silvano Agosti, realizza quattro cinegiornali sulle manifestazioni romane. Ben presto alcune immagini di questi cinegiornali (il ferimento di Oreste Scalzone, allora leader del Movimento Studentesco, le cariche violente della polizia contro i manifestanti che protestano per l’arresto di Piperno e Russo) vengono «fagocitate e reiterate in più momenti dalla televisione, diventando tout court il simbolo di quella stagione» (p. 49).
Matti da slegareCon l’arrivo degli anni Settanta il cinema militante inizia a produrre immagini e discorsi su due nuove direttrici che possono essere definite a partire da alcune parole chiave la prima è sintetizzata dalle rivendicazioni sociali delle minoranze, la seconda, sulla scorta dell’ascesa del terrorismo di destra e la strage di piazza Fontana, fonde le lotte studentesche e operaie al passato della Resistenza. Nella prima direttrice rientrano opere importanti come il documentario, girato nel 1975, tre anni prima della legge Basaglia, Matti da slegare di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Gli autori di Matti da slegare mostrano gli spazi interni dell’ospedale psichiatrico di Colorno (Parma) e le strutture esterne di recupero in cui venivano impiegati alcuni dei ricoverati dismessi e soprattutto deliberatamente rifiutano «un ruolo puramente documentaristico o di informazione, optando piuttosto per un intervento diretto sulla realtà politica e sociale di uno spazio fisico che, nel frangente, è quello dell’emarginazione dei malati di mente» (p. 58).

Fotogramma da Pagherete caro Pagherete tutto, la morte di ZibecchiLa seconda direttrice intrapresa dal cinema militante, a fianco di quella a vocazione sociale e femminista, è quella ideologica e militante. All’interno di questa direttrice, oltre al lavoro di Volonté e al già menzionato Ipotesi su Giuseppe Pinelli, rientrano operazioni di controinformazione militante che si impegna a offrire immagini e punti di vista sulle manifestazioni, sulle violenze della polizia e sul terrorismo nero opposti a quelli forniti dalla stampa e dalla televisione. Due titoli. Il primo è Pagherete caro pagherete tutto (1975) del Collettivo cinema militante Milano, «vero e proprio manifesto dell’antifascismo militante […], realizzato durante le “calde” giornate dell’aprile 1975» (p. 78). Pagherete caro pagherete tutto è il resoconto delle uccisioni compiute dall’estremismo di destra (l’omicidio di Carlo Varalli) e dalla polizia (Giannino Zibecchi, investito da una camionetta della polizia durante le manifestazioni per la morte di Varalli). Il secondo film è Filmando in città – Roma 1977, realizzato da Lotta Continua per documentare, con immagini fisse e in movimento, spesso a bassa definizione, la repressione di stato e le violenze della polizia. Uva, che nella sezione dedicata alla fotografia, analizzerà gli scatti realizzati da Tano d’Amico su quegli stessi eventi, in particolare l’arresto e il ferimento di Paolo Tommasini (Paolo) e di Leonardo Fortuna (Daddo), attribuisce alle immagini di Filmando in città la «funzione di inoppugnabili prove, tracce, indici di una violenza e di una criminalità di cui si intende responsabilizzare lo Stato» (p. 85).

Le tecnologie di ripresa e registrazione elettronica vengono impiegate per la prima volta al di fuori degli studi televisivi a metà degli anni Sessanta grazie a tre noti artisti, precursori della video arte: Andy Warhol, Les Levine e Nam June Paik. È soprattutto quest’ultimo a pensare e adoperare il video come strumento antagonista rispetto alla televisione e a sostenere la nascita di una controcultura fondata su questa tecnologia. Dal punto di vista tecnico, il video può essere considerata l’“arma” ideale per la militanza e la guerriglia urbana. Esso è in grado, seguendo la teoria e la pratica vertoviana, di cogliere e restituire la vita colta sul fatto, inoltre permette di produrre immagini facilmente rielaborabili in fase di post produzione, infine, come già accennato, l’utilizzo del video da parte delle controculture è in opposizione alla produzione televisiva con la quale condivide la stessa matrice tecnologica.
Nel 1964 il padre degli studi sui media, Marshall McLuhan, dà alle stampe Understanding Media: The Extensions of Man (Gli strumenti del comunicare). Nel volume McLuhan classifica come freddi i medium che hanno una bassa definizione e che quindi richiedono un’alta partecipazione dell’utente, in modo che egli possa riempire e completare le informazioni non trasmesse; i media caldi sono invece quelli caratterizzati da un’alta definizione e da una scarsa partecipazione. Leggerezza del dispositivo, bassa definizione dell’immagine e alto livello di partecipazione e coinvolgimento: il videoattivismo, cinquant’anni prima dell’avvento dei social media e del giornalismo partecipativo, sembra possedere, in misura maggiore rispetto al medium televisivo, tutte le caratteristiche per essere una di quelle pratiche mediali che McLuhan avrebbe definito come fredda.
Rispetto all’utilizzo coevo del mezzo televisivo e del cinema, la politicità dell’immagine video si esprime, in primo luogo a livello temporale. Il video, a differenza del cinema, non riproduce il tempo ma lo produce: l’immagine si genera e si trasforma mentre l’evento ha luogo. Inoltre, Uva rileva la centralità del flusso video che risponde a «quell’urgenza […] di porsi in presa diretta con la realtà» (p. 97). La registrazione in tempo reale e il long take ben si adeguano alle necessità di processualità, trasformazione e immediatezza che sono racchiuse nell’idea di rivoluzione permanente ritornata in auge negli anni Settanta.
In Italia, il termine “videoteppisti” compare in quello che potrebbe essere definito il manifesto del video militante: Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, un volume a cura di Roberto Faenza, edito da Feltrinelli nel 1975. Accanto ad alcune importanti proposte programmatiche ed estetiche sull’uso del video per una comunicazione partecipata e paritetica, Senza chiedere il permesso istruisce i suoi lettori sulla tecnica e la pratica del mezzo che, a differenze delle compatte fotocamere digitali, era ancora un sistema composto da due dispositivi separati, la telecamera con il microfono e il videoregistratore, e aveva dei costi elevati. Pertanto Faenza, che è ben consapevole della valenza politica dei media e della necessità per il proletariato di conoscere e controllare i propri mezzi di comunicazione, promuove un uso collettivo del videotape per «controllare e non di farsi controllare dalla tecnologia» (p. 95). All’esaltazione, tipica del periodo, di una produzione partecipata dal basso spesso fondata sullo spontaneismo, Faenza accosta la riflessione sulla dimensione processuale che la tecnologia video garantisce sia in fase di registrazione (la vita colta sul fatto) sia in fase di fruizione (il flusso di immagini che può restituire l’evento nel suo farsi) e che si oppone e nasce per contrastare l’idea di ricezione passiva del prodotto televisivo.
Come per il cinema militante, anche nel caso delle esperienze video i temi delle lotte sociali si affiancano all’antagonismo politico. è il caso di Processo per stupro (1979) di Loredana Rotondo, prodotto dal movimento femminista per denunciare l’arretratezza della legislazione italiana in materia. Trasmesso dalla Rai e presentato in diversi festival del cinema, Uva definisce Processo per stupro un oggetto narrativo non identificato per il suo carattere ibrido, «a cavallo tra prodotto televisivo di servizio pubblico e video militante» (p. 111).
Tra le esperienze di video attivismo più importanti, sia dal punto di vista della militanza sia per la consapevolezza tecnica e teorica del mezzo, c’è quella di Videobase. Il collettivo nasce nel 1971 e comprende Anna Lajolo, Guido Lombardi e Alfredo Leo. Lottando la vita (1975), girato tra i lavoratori italiani a Berlino, e Il lavoro contro la vita (1979), un’inchiesta sul petrolchimico di Porto Marghera realizzato per Rai Tre, condensano, già a partire dai titoli, la proposta teorica, estetica e politica di Videobase. Se il video è in grado di catturare il flusso vitale degli eventi e degli esistenti, allora esso è anche capace di “dirottare” questo flusso al di fuori delle processi di irreggimentazione a cui la politica ha sottoposto la vita. Ad una società disciplinare, fondata sull’esercizio della violenza e della repressione poliziesca delle manifestazioni, Videobase contrappone una biopolitica affermativa che, pur non potendo prescindere dalle lotte, è «intesa come politica condotta in nome e a difesa delle forme di vita» (p. 130). Per Videobase non esiste un confine tra osservatore e osservatore: nella loro pratica, in cui è evidente il debito nei confronti del documentario etno-antropologico, vige una tendenza “immersiva” nei confronti dell’ambiente, spesso i testimoni e gli intervistati vengono inquadrati mentre guardano e dibattono su ciò che è stato girato in precedenza. Tali strategie permettono a Videobase di rafforzare la dimensione performativa e partecipativa del video.
Le strategie del controllo, le forme della sorveglianza, le pratiche dell’irreggimentazione: al centro della produzione di Alberto Grifi ci sono molte delle tematiche studiate da Michel Foucault (Surveiller et punir viene pubblicato nel 1975; due anni prima, Gilles Deleuze e Félix Guattari avevano scritto L’Anti-Edipo, incentrato sulla contrapposizione tra desiderio e capitalismo). Ne Il festival del proletariato giovani al Parco Lambro (1976) Grifi coordina la regia di quattro troupe di “videoteppisti” catturando, contro il parere degli organizzatori, tutte le contraddizioni e le proteste emerse durante il festival milanese. In Lia (1977), un piano sequenza di oltre venti minuti serve a raccogliere le parole dell’omonima studentessa che, durante un’assemblea sull’antipsichiatria, smonta la retorica dei collettivi di sinistra. Fotogramma tratto da Anna di GrifiMa è soprattutto in Anna (1972-1975) che le tematiche sopra elencate incontrano le immagini più intense, immagini capaci di articolare un complesso discorso sulla follia e la sessualità. Anna è un progetto talmente sperimentale che la forma di vita che esso tenta di raccontare – la cronaca di una minorenne sarda, ospitata dall’attore Massimo Sarchielli, che sul proprio corpo gravido reca i segni della contenzione e della tossicodipendenza– impone continue trasformazioni alle forme della rappresentazione: dalla pellicola al video, dalla creazione di una traccia di lavoro per il film alla scelta di registrare tutto ciò che accade prima e dopo e le scene, sino allo scavalcamento dello spazio che separa la troupe e il profilmico per mezzo del gesto compiuto dall’elettricista Vincenzo Marra che entra in campo per dichiarare, di fronte all’obiettivo, il suo amore per Anna.

I primi congegni di ripresa foto-cinematografica sono costruiti e lessicalizzati sul modello dell’arma da fuoco: uno degli esempi più noti è il fucile cronofotografico di Étienne Jules Marey, fabbricato alla fine dell’Ottocento, con cui era possibile mirare e fotografare un oggetto in movimento nello spazio. Mettiamo tutto a fuoco! Manuale eversivo di fotografia (1978) di Fabio Augugliaro, Daniela Guidi, Andrea Jemolo e Armando Manni, una sintesi delle buone pratiche per realizzare immagini della e per la lotta, è in perfetta continuità con la semantica e la pragmatica che legano le capacità scopiche, mediate dall’apparato fotografico, e la potenza di fuoco in ambito militare. Naturalmente, il manuale edito da Savelli compie un’operazione di parziale inversione, spostando “il fuoco” dal contesto bellico a quello delle lotte di piazza: «la messa a fuoco del soggetto su cui gioca il titolo del manuale si fa così lo strumento attraverso il quale l’atto fotografico diventa un vero e proprio atto politico» (p. 196). Come accade per altri volumi coevi – oltre al testo di Faenza già menzionato si può ricordare anche L’arma dell’immagine. Esperimenti di animazione sulla comunicazione, realizzato dal Laboratorio di Comunicazione Militante per fornire strumenti di analisi dell’immagine giornalistica capaci di svelarne il portato sensazionalistico e repressivo – l’educazione alla tecnica non è scindibile da quella politica.

giuseppe-memeoLa fine degli anni Settanta è caratterizzata dalla convivenza delle istanze vitali e desideranti che hanno animati i movimenti e la loro produzione audiovisiva, con una pulsione distruttiva e mortifera che trova nel terrorismo e nelle sue immagini fotografiche la fonte principale. Per questo Uva sottopone ad attenta analisi la nota istantanea dell’ “uomo che spara” (Giuseppe Memeo, esponente di Autonomia Operaia), scattata in via De Amicis a Milano il 14 maggio 1977, mostrandone le manipolazioni e gli ingrandimenti adoperati dai quotidiani dell’epoca, comparandola con le altre foto scattata durante quella giornata (Carmilla), rinvenendo le somiglianze e i rimandi tra questo corpus fotografico e i generi cinematografici all’epoca in voga, dal western al poliziottesco italiano, riportando il dibattito tra intellettuali che quella foto, fin da subito un simbolo (lavoroculturale), aveva scatenato. Pur ribadendo che con quella foto il terrorismo fa il suo ingresso nella cultura visuale italiana dell’epoca, Uva riconduce l’immagine dell’uomo che spara all’interno di una costellazione discorsiva più ampia, capace di individuare le molteplici ragioni che hanno trasformato via De Amicis nel set in cui si è consumato un momento importante per la capitolazione dei movimenti e l’esplosione della violenza terroristica.
Con l’arrivo del Settantotto l’immaginario è invaso dalle polaroid scattate dalle Brigate Rosse ad Aldo Moro. Nel formato scelto, che elimina le fasi di sviluppo e stampa della fotografia, e nelle modalità della messa in scena, la “prigione del popolo” nella quale campeggia la stella a cinque punte, il volto in primo piano del ministro che guarda in macchina, l’elemento metalinguistico e probatorio della prima pagina di Repubblica con il titolo cubitale del sequestro che compare in una delle polaroid, il modello «indiziario fondato sui canoni della fotografia segnaletica (denotante) e quello prettamente comunicativo-propagandisco (connotante) trovano una perfetta sintesi» (p. 205). Istantaneità dello scatto, efficacia indiziaria e persuasiva (il mezzo busto di Moro interpella lo spettatore alla stregua dello Zio Sam con suo il dito puntato e la didascalia “I want you”): la disfatta del corpo del potere immortalato nelle polaroid delle BR costruiscono un “canone” estetico per gran parte dell’iconografia terroristica coeva e di quella futura, sino a video diffusi su YouTube dall’IS (doppiozero).
Il poliziotto Giovanni Santone fotografato da DamicoChiude l’ultima sezione del volume il capitolo dedicato alla produzione di Tano D’amico (lavoroculturale) nella quale ritornano le istanze vitalistiche di cattura del flusso della vita e delle trasformazioni dei movimenti si legano alla necessità di denunciare le ingerenze del potere politico nelle sue bieche derive poliziesche. è il caso della fotografia che immortala l’agente di polizia Giovanni Santone infiltrato tra i disordini successivi al sit-in del maggio 1972, indetto a Roma dal Partito Radicale, in cui rimane uccisa Giorgiana Masi. Con gli scatti del fotografo siciliano si chiude il percorso intrapreso da L’immagine politica e il lettore può rivolgere il suo sguardo verso delle immagini disposte a raccogliere i volti e i sentimenti della storia dei movimenti. E D’Amico, seppur dietro l’obiettivo, si sente con fierezza parte in causa di questa storia.

Fotogramma da solo limoniLe immagini politiche analizzate da Uva custodiscono e sono ancora capaci di spigionare la loro efficacia? Queste immagini sanno offrire allo spettatore contemporaneo una risposta alla domanda di contropotere e di controinformazione? Queste domande sembrano emergere in filigrana in diverse parti de L’immagine politica e le risposte non risiedono esclusivamente nell’elevata accessibilità dei dispositivi di cattura e riproduzione digitale, quanto piuttosto nella volontà degli spettatori contemporanei di saper esporre e montare le immagini del presente assieme e a partire da quelle del passato, strappando queste ultime al fenomeno di fagocitazione degli immaginari legati alle contestazioni politiche spesso attuato dai media. Si tratta quindi di un processo di analisi, critica e storica, condotto attraverso le immagini che, per esempio, viene messo in evidenza dallo stesso Uva quando compara la frontalità del cadavere del militante antifascista Zibecchi, investito da una camionetta dei carabinieri durante le proteste milanesi dell’aprile del 1975, congelata in una delle inquadratura di Pagherete caro pagherete tutto con una delle tante immagini digitali del cadavere di Carlo Giuliani in Piazza Alimonda durante le manifestazioni contro il G8 di Genova del 2011. Un’altra risposta giunge nelle conclusioni di Uva dove, ancora una volta, sono le “immagini povere” che ancora oggi si rendono disponibili a un’apertura delle potenzialità autenticative e rielaborative rese possibili dalla bassa definizione. È il caso della produzione poetica e militante di Pippo del Bono, condotta attraverso lo smartphone, in opere come Amore Carne (2011), Sangue (2013) e La paura (2009) o di Giacomo Verde che Solo limoni (2001) (vimeo.com), rimonta le immagini del G8 per rivelare come lo schieramento antisommossa adoperato dalla polizia in seguito alla morte di Giuliani abbia principalmente un obiettivo scopico, quella di occludere la visione del cadavere.

 

 

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 60 https://www.carmillaonline.com/2014/06/13/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-60/ Thu, 12 Jun 2014 22:01:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15193 di Dziga Cacace

Se non sei ancora estinto, batti le mani! (Syd in L’era glaciale 2)

ddv6001 Deep Throat598 – La pornografia di Inside Deep Throat, di due noiosi, USA 2005 Come movimentare il week end? Come agitare il bacino con coerente giustificazione intellettuale? Ma con un bel documentario che allenti i sensi e disinibisca la mia prorompente sensualità! Con astuta mossa cinefila produco questo Inside Deep Throat dal buon viatico critico: ci sbattiamo sul divano e… ogni desiderio è castrato con un secco colpo di machete. Se qualcosa dimostra questo documentario è come il sesso – seppure con un brutto [...]]]> di Dziga Cacace

Se non sei ancora estinto, batti le mani!
(Syd in L’era glaciale 2)

ddv6001 Deep Throat598 – La pornografia di Inside Deep Throat, di due noiosi, USA 2005
Come movimentare il week end? Come agitare il bacino con coerente giustificazione intellettuale? Ma con un bel documentario che allenti i sensi e disinibisca la mia prorompente sensualità! Con astuta mossa cinefila produco questo Inside Deep Throat dal buon viatico critico: ci sbattiamo sul divano e… ogni desiderio è castrato con un secco colpo di machete. Se qualcosa dimostra questo documentario è come il sesso – seppure con un brutto film come Gola profonda, diventato “importante” per una botta di culo, o di altre parti anatomiche – fosse nei primissimi anni Settanta vissuto con leggerezza e avventura, cercando veramente una liberazione (interessata, nel caso della pornografia, nessuno lo nega), combattendo contro una morale corrente ipocrita e bacchettona. Che ha stravinto. E quella che all’epoca era una scommessa per fare qualche soldo oggi è diventata un’industria globale che macina soldi e macella carne a getto continuo e non ha liberato un bel cazzo, se non quello di qualche superdotato. Inside Deep Throat è la dimostrazione del clima odierno: un documentario freddo firmato da tali Fenton Bailey e Randy Barbato, con una ricostruzione storica da cinegiornale Luce, senza entusiasmo e con – e qui non ci si poteva far nulla – l’attore Harry Reems, l’attrice Linda Lovelace (in immagini di repertorio) e il regista Gerard Damiano appassiti, con problemi di ogni tipo ma soprattutto senza una storia da raccontare attivamente perché tutti vittime e mai veri consapevoli protagonisti: non scatta affezione o partecipazione, semmai pena. La Lovelace è morta nel 2002, avendo più volte denunciato la sua condizione di sfruttata, cosa che getta un’ulteriore luce ambigua sulla celebrazione del film. Ragazzi: Gola profonda (in Italia La vera gola profonda) era una fetecchia senza grandi pretese, in linea con certa produzione coeva, e che per le imperscrutabili coincidenze della storia è diventato un cult. Ma non c’era un pensiero dietro e non possiamo pretendere adesso che ci fosse, anche se puoi attribuire al film tutti i significati che vuoi (vedi le testimonianze di Gore Vidal, Erika Jong, pure John Waters). L’operazione del documentario mi risulta falsa e fragile, viziata oltretutto da un linguaggio paratelevisivo. Zero invenzioni, nessun rischio, nessun guizzo, e alla fine altro che eccitazione, ti viene il membro interno. E guai a vedere un porno, adesso, senza complessi di colpa. Film inerte sponsorizzato da critici che sbagliano. (Dvd; 23/9/06)

ddv6002Capturing599 – Che botta, Capturing the Friedmans di Andrew Jarecki, USA 2003
Fastidio, fastidio, fastidio. Perché questo è un gran bel documentario, tremendo e spietato, dove si parla di abusi su minori. Giusto per chiarire: vera famiglia americana (agghiacciante), i Friedman appunto, con padre accusato di pedofilia e uno dei figli presto coinvolto (l’altro fa l’intrattenitore e il clown a feste di compleanno di bambini…). Lo scandalo travolge tutto e tutti, in un clima delirante da caccia alle streghe, con giudici e avvocati che mettono genitori e figli l’uno contro l’altro. Ammissioni e denunce sono chiaramente finalizzate a guadagnare sconti processuali o evitare altre condanne, non per appurare la verità che rimane infatti vaga, lasciandoci un’insopportabile senso di ingiustizia e disagio. E noi sappiamo tutto ciò perché in famiglia c’è pure il vizietto di filmare morbosamente ogni cosa, discussioni comprese. Per cui Jarecki s’è trovato tra le mani una vicenda incredibile da non dover ricostruire, ma da raccontare col conforto delle immagini autentiche. Devastante. Se uno sceneggiatore concepisse una storia così tutti gli direbbero: ma non ci crederà mai nessuno, ‘a scemmu! Ah: e se qualcuno pensa che la giustizia americana abbia un senso, questo è il suo film. (Dvd; 23/9/06)

ddv6003Three Burials600 – Le tre sepolture di Tommy Lee Jones, USA 2005
Chissà perché, ma mi ricorda Peckinpah. La sofferenza che nasce lungo il border, la fatica della vita, la stessa voglia di farla finita alla grande. Tommy Lee Jones dirige in modo classico, elegiaco, senza tempo, una vicenda per nulla glamour: Melquiades Estrada è un immigrato messicano illegale e una guardia di frontiera lo secca per errore. Un ranchero texano amico di Estrada (lo stesso attore e regista) lo scopre e vuole dargli la promessa degna sepoltura in Messico. Non vi dico come va a finire, ma il percorso alla ricerca di un po’ di giustizia e di redenzione è imprevedibile e commovente. Film coraggioso, premiato a Cannes e per niente attuale per cui doveroso e attualissimo. Bravi gli attori e pure i paesaggi. (Dvd; 24/9/06)

DDV6004 Grand Illusion601 – La grande illusione di Jean Renoir, Francia 1937
Buttare via una vhs è doloroso. Se contiene un Renoir, un abominio. Ma lo spazio latita anche in questa nuova casa che pagherò fino al 2730. E allora mi costringo a rivedere questo classico, come se fosse una terapia per disincrostare lo sguardo dalle troppe brutture che subisco in tivù. Ed è un film così bello che non riesco neanche a esprimerlo. Comodo, eh? Capolavoro di poesia, eroismo, fratellanza, libertà e voglia di futuro e pace: può bastare? (Vhs da RaiTre; 29/9/06)

ddv6005 Joey TempestJoey Tempest, per dire
Era il momento della festa del liceo che aspettavamo tutti: quando sulla consolle passava il vinile degli Europe, il gruppo svedese che aveva conquistato il mondo con un’aberrazione musicale, il pop metal. Prima arrivava The Final Countdown, pezzo zarro come pochi che però si cantava tutti assieme con consapevolezza autoironica, e poi Carrie, il lentazzo smielato per far capire che in fondo avevamo un cuore d’oro anche noi. Il risultato era che comunque le ragazze non ci filavano, ma nella nostra beata innocenza aspettare quei momenti era già qualcosa. Ecco, tra le tante cose che avrebbero potuto capitarmi nella vita a venire, mai avrei pensato di incontrare vent’anni dopo, in carne e boccoli, Joey Tempest. Quello che allora, all’epoca della festa del liceo, si agitava sui palchi di tutto il mondo immerso in una nube di lacca. Con jeans strappati ad arte e foulard, esibiva su un faccino da Barbie un testone di capelli degno del Cugino di campagna afro. Al punto che, confesso, la prima volta che vidi un videoclip degli Europe rimasi col conturbante dubbio se il cantante fosse una donna. Vabbeh, ho già detto che di ragazze (per mancanza di interscambio microbiotico) si capiva poco. Ad ogni modo oggi il gruppo s’è riformato e l’ultimo album Secret Agent non è malaccio, anche se l’ho ascoltato per meri motivi professionali e mai più mi capiterà. L’intervista allo svedese è nella suite imperiale dello Scandinavia Hotel (ovvio, no?) e Tempest, con la faccia da ragazzino e il capello mosso ma di media lunghezza, è un bell’ometto di quarant’anni che ne dimostra meno, felice, realizzato e ansioso di sapere, lui, un sacco di cose. Per esempio che colazione ho fatto. Caffè, dico. E come lo fate qui? E allora gli spiego la differenza tra moka, espresso e all’americana, giocandomi il termine “percolazione”, cosa che mi deve avere accreditato professionalmente. Nero vestito, asciutto, risponde felice sull’ultima fatica della band: finito il suo periodo solista country rock, ha solo voglia di musica potente che, per risultare ottimale, presenti anche qualche bel chorus cantabile dal pubblico. Ovviamente Secret Agent, il settimo disco come Europe, è il migliore della loro carriera (mai trovato un artista che dicesse una cosa diversa), ma il buon Joey auspica ulteriori novità, magari svolte inaspettate: del resto gli piacerebbe collaborare con David Bowie. Oggi nel suo iPod ci sono Audioslave, Hellacopters, Hives e (giacché è il migliore etc. etc.) l’ultimo Europe, ma nel cuore porta Rainbow, Deep Purple e Whitesnake e quando faccio il ganassa dichiarando che ho intervistato Blackmore comincia il controinterrogatorio. Vuole sapere tutto e allora racconto io. Poi contrattacco e gli chiedo degli italiani che conosce. Ammira la Nannini e gli è rimasto impresso un pezzo di Ramazzotti: Se bastasse una canzone. Son passati quasi vent’anni e canta perfettamente la frase melodica. Poi però chiarisce che non ama il pop: guai a deludere i fan che potranno vederlo in concerto in Italia a fine gennaio. Magari viene anche Eros, chissà. (Live, 5/10/06)

Ddv6006 Alice602 – Ha i suoi annetti Alice’s Restaurant di Arthur Penn, USA 1969
Film epocale, per la musica e i significati, ma che visto oggi fa simpatia perché è un brutto anatroccolo che mai diverrà cigno. Esaltante come vedere crescere un rampicante, dialogato (e tradotto) in maniera ingenua, sconclusionato negli avvenimenti e con poco mordente, è un’opera di alcun cinismo che nel bene e nel male rappresenta le speranze di un’epoca e l’impossibilità a buttare via (metaforicamente e non solo) tutta la spazzatura fisica e morale che produciamo. Barbara si è inesorabilmente addormentata, io ho resistito fino in fondo perché sono un romantico cazzone facile all’intenerimento, ma l’ho visto più per dovere che per piacere. (Vhs da Tele+, 12/10/06)

ddv6007 Kinski603 – Lo splendido Mein liebster Feind – Kinski di Werner Herzog, Germania/Gran Bretagna 1999
Klaus Kinski, da paura. Folle, spiritato, dolcissimo, violento: questo singolare atto d’amore in pellicola ci mostra come si possa amare una persona nonostante la persona stessa sia insopportabile e ripugnante. Si parte con l’attore tedesco a teatro che litiga ferocemente col pubblico, facendo passare Carmelo Bene per un lord. E poi lo vediamo sui diversi set di Werner, talmente nella parte da sfasciare con un colpo di spada l’elmo di metallo di una comparsa india durante Aguirre. Tutti fuori controllo, come sempre nel cinema di Herzog, tutto che alla fine ha una sua sbalestrata coerenza. E per questo Kinski era l’attore perfetto. Per-fet-to. Negli extra del dvd prestato da Roberto (visto perché nella mia vhs mancavano gli ultimi 5 minuti) c’è anche un grandioso corto di Les Blank in cui Herzog si mangia (realmente, giuro) una scarpa per aver perso una scommessa col regista Errol Morris, quello del futuro Fog of War. E ditemi voi se non poteva essere uno come Werner Herzog ad eleggere il demoniaco Klaus a suo feticcio. (Vhs da RaiTre; 18/10/06)

ddv6008 Springtime604 – Buddhistico Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera di Kim Ki-Duk, Corea del Sud, 2003
Immoto (il film e io), ma i sentimenti girano a mille. La semplicità ha del miracoloso, la messa in scena è di una purezza abbacinante. Kim Ki-Duk asserisce di non avere mai visto film prima di farne lui. Forse è vero, sicuramente questa narrazione compassionevole e fuori dal tempo è veramente fuori dal tempo e commuove. Moooolto bello. (Dvd; 22/10/06)

ddv6009 Ice Age 2605 – Freddino con Ice Age 2 di Carlos Saldanha, USA 2006
Mi mancavano Syd & company, al punto che vedo il nuovo episodio senza neanche avere obblighi paterni, ma proprio per infantile piacere mio. E il film è caruccio ma meno riuscito del primo episodio, molto meno. Stavolta alla ghenga formata da mammut, tigre dai denti a sciabola e bradipo si unisce una mammutona, ma la storia d’amore tra i due pachidermi non è ‘sta gran cosa, con lei un po’ sciacchella e che si crede sorella di due opossum odiosi. Intanto Scrat continua imperterrito a inseguire la sua ghianda, mentre Syd affronta lo scioglimento dei ghiacci con stolida saggezza e speranza. Però, però… Sufficienza abbondante, dài, ma non il capolavoro che avrei voluto e di cui parlano i critici che si erano evidentemente persi il primo L’era glaciale e ora fanno i gggiovani, perché tra nuovi Pixar, Miyazaki e il resto bisogna far finta di conoscere anche il mondo dei cartoni. Di cui vi rullerei. (Dvd; 29/10/06)

ddv6010 DevilsRejects606 – Sbaglierò, ma per me The Devil’s Rejects di Rob Zombie è un capolavoro, USA 2005
Premessa: La casa del diavolo è semplicemente grandioso e questo pezzullo contiene più spoiler, vi ho avvertito. Dunque, questo è un horror (dissimulato, ma costruito citando a più non posso per esegeti e cultori) che parla del presente, delle follie dell’America, del culto delle armi, delle ossessioni pop (musicali e non solo), della divisione capitalistica in classi, coi gendarmi delle forze dell’ordine a tenere tutti al loro posto. Non dite a Zombie che è marxista (non ci crederebbe) ma qui – meglio che in tanti altri film perbene, sanificati e moralmente accettabili – abbiamo i buoni veramente cattivi e i cattivi in fin dei conti umanamente comprensibili (perdonabili no, ma nessuno lo è). E alla fine, piuttosto che schiavi, meglio morti, come Peckinpah ci ha insegnato tanto tempo fa. Colonna sonora southern da orgasmo, fotografia seventies abbacinante, facce perfette, regia abilissima capace di qualche momento di autentico genio (l’esecuzione del poliziotto col colpo alla testa, col silenzio dilatato e quella detonazione che ti fa fare il classico salto sulla sedia). E quando nella sequenza finale parte la Freebird dei Lynyrd Skynyrd, ho pensato: come in Forrest Gump adesso ci sarà un atroce taglio e amen. Invece il pezzo c’è tutto, nella gloria dei suoi 9 minuti, allungando epicamente all’inverosimile questa magnifica scena, con le chitarre che si inseguono in uno stampede solistico. E un’idea così, da sola, farebbe già del film un’opera unica. Capolavoro. (Dvd; 1/11/06)

ddv6011 V for Vendetta607 – L’equivoco di V for Vendetta di James McTeigue, UK/USA 2005
Cercavo il coreano Vendetta e basta ma sono totalmente rincoglionito che affitto per errore un film forse più adatto ancora a svoltare la serata da divano, copertona di flanella e rutto libero. Trovo qualche scompenso narrativo, ma come opera ludica V fa il suo sporco mestiere e diverte, alimentando tensioni anti Sistema nel momento adatto, con rimandi neanche troppo occulti al G8 e a Seattle. Ideologicamente, non provo neanche ad affrontare la vicenda, però: non ne sarei stato capace anni fa, figuriamoci adesso che ho ancora l’ormone sballato per la paternità. Il fumetto di Alan Moore da cui è tratto il film, invece, m’ha fatto schifo ma è colpa mia che vorrei di nuovo leggere Manara sceneggiato da Pratt, non so voi. (Dvd; 2/11/06)

ddv6012 the-departed-608 – The Departed – Il bene e il male di Martin Scorsese, USA 2006
Ci concediamo un cinema e becchiamo un Martin cattivello, che ci trascina in una storia di malavita irlandese dove bene e male si confondono fino a un finale che non ti aspetti. Ma è anche l’unica cosa che mi piace veramente del film. Gli attori sono azzeccati (Mark Wahlberg, Peppino DiCaprio, un Baldwin ciccio, pure il bambolo Matt Damon) e il cast funziona nonostante un Jack Nicholson gigione da farsa e una comprimaria donna (tale Vera Farmiga, vera cagna) che mi pare un inno funebre alla chirurgia plastica e che immagino non rivedrete mai più sul grande schermo da quanto è scarsa. Musica discreta, montaggio anonimo e fotografia lattiginosa orrenda. Alla fine, che dire di ‘sto Departed? Mah, sono un po’ deluso, ma non posso prendere a pugni un uomo solo perché stato un po’ Scorsese, eh. (Cinema Orfeo, Milano; 3/11/06)

ddv6013 Heimat 2609 – Uno dei film della (mia) vita: Heimat 2 di Edgar Reitz, Germania 1993
Servirebbe una recensione vera, coi controcazzi, per manifestare la mia commozione e felicità nell’aver rivisto, dodici anni dopo, una delle opere cinematografiche più belle e complete mai realizzate. Qui dentro ci sono la giovinezza, la speranza, la musica, l’arte, la scoperta, l’amore, il tradimento, l’illusione… c’è la vita, come poche volte può capitare di esperire al cinema (l’angelo custode mi suggerisce: “Capirai: dura anche 26 ore, eh…”). Più riuscito del già splendido Heimat 1 (questo è più fluviale, meno ostico linguisticamente, più vicino come argomenti), Heimat 2 è un capolavoro – credo – inarrivabile. Dopo il primo episodio ho passato i giorni seguenti a tre metri da terra, raggiante: è un film che parla di studenti universitari che scoprono il loro ruolo nel mondo e io ho avuto la fortuna di vederlo mentre credevo di essere uno studente universitario che scopriva il suo ruolo nel mondo. Ambientato lungo tutti gli anni Sessanta fino all’alba dei Settanta, c’è tutto quello che ti aspetteresti, ma con una prospettiva intima e personale che riesce a essere universale senza mai scadere nella ricostruzione nostalgica: Kennedy, i Beatles, la rivoluzione sessuale, la lotta armata, la musica sperimentale, l’assunzione di responsabilità, Venezia come non l’avete vista mai, i campi di sterminio, il passato nazista e la sua riemersione sotto altre forme, il velleitarismo politico, la chiacchiere artistoidi, l’aria fritta e la vita concreta… Sono un cialtrone, è evidente, ma su questo film ho ragione da vendere: è unico e imprescindibile e comunica con straordinaria semplicità il senso della vita: imparare ad aspettare (dalle mie parti, più volgarmente: ghe voe tanta pasiensa). E poi, perdonatemi lo spoilerino, ma anche adesso – come dodici anni fa – continuo a pensare che alla fine Ansgar non sia veramente morto: accadrà come nei telefilm americani e si scoprirà che invece è vivo ma nascosto da qualche parte… Ridatemi Ansgar, per piacere! (Dvd; da novembre 2006 ad aprile 2007)

ddv6014 devil-wears-prada610 – L’immondo Il diavolo veste Prada di un delinquente, USA 2006
Una solenne cazzata: siamo andati al cinema di sabato e ben ci sta. I film decenti hanno le sale piccole strapiene per cui – una volta usciti, parcheggiato, preso pure la pioggia – si è costretti a vedere una schifezza come questa che ha un pubblico fittizio, costretto da martellamento pubblicitario e critici comprati con un cocktail blandamente alcolico al buffet dell’anteprima. L’immondo film è un Eva contro Eva dei giorni nostri, dove la cattiveria è tramutata in farsa e tutto sommato le porcate lavorative sono accettate con una strizzatina d’occhi perché così va il mondo. Salvo giusto Meryl Streep per antica fedeltà e  gli occhioni da cerbiatto della pettoruta Anne Hathaway – a tanto son ridotto – e rilevo che il finale orrendo è l’adeguato coronamento di questa gigantesca stronzata commessa da tale David Frankel, una di quelle che ti arrecano dolore al momento dell’espulsione, scusate il francesismo. (Cinema Ducale, Milano; 11/11/06)

ddv6016 lost625 – Lost – Seconda serie di J.J. AbramsDamon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2005
Barbara mi ha fatto questo esatto sintetico suntino: “C’è della gente su un’isola”. Ah beh, come Selvaggi, dei Vanzina, quindi. “No: io non so e loro non sanno che cosa stia succedendo”. Punto. Per quanto la traduzione italica sia fastidiosa lo vedo godendomelo abbastanza fino a che (cfr. il parere #630, nella prossima puntata di questo sciagurato cinediario) non mi guardo la prima serie al confronto della quale questa seconda risulta decisamente inferiore, specialmente verso il finale quando l’apparizione di un enorme piede litico a sei dita mi getta nella più totale costernazione: gli sceneggiatori ci stanno mica a coglionare? Comunque, dài, anche Lost 2 è un bel prodottino che esalta la potenza del flashback, dà dipendenza e fa lavorare gli emisferi per capire cosa stia accadendo su ‘sta cazzo di isoletta. (Vhs da RaiDue; da febbraio a maggio ‘07)

ddv6017 Freddie Mercury628 – Queen Live at Wembley Stadium di Gavin Taylor, GB 1986
Visto (innumerevoli volte) non solo per ottusa passione musicale ma anche perché la piccola Sofia è rimasta folgorata dalla performance di Freddie Mercury, subito ribattezzato “omo nudo” a causa delle sue esibizioni a torace scoperto. La hit preferita è Bohemien Rhapsody che contiene il memorabile verso “oh mama mia”. Grande cornice di pubblico, cori a go-go, assolazzi come si deve, fumi e Freddie incontenibile: si straccia la maglietta, si fa incoronare con tanto di mantello d’ermellino e non risparmia una stilla di sudore per un pubblico che tiene in pugno (da cui anche l’accusa un po’ confusa di fascismo di Dave Marsh, su Rolling Stone…). Certo, i Queen sono stata l’ultima grande band edonistica degli anni Settanta, uber-cafona, sicuramente kitsch, senza menate e falsi moralismi (erano a Live Aid per gli etiopi? Ma va’!), ma capaci di scrivere grandissimi canzoni, spaziando dall’hard più terremotante al funk, al pop, al gospel e al vaudeville. È una mia debolezza e ho l’incubo dei Take That: Sofia non ha neanche due anni e va tirata su come si deve, eh. (Dvd; febbraio e marzo ‘07)

(Continua – 60)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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