Carlo Galli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Genealogia dello Stato e del moderno potere politico https://www.carmillaonline.com/2024/02/28/genealogia-dello-stato-moderno-e-del-suo-concreto-agire-politico/ Wed, 28 Feb 2024 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81195 di Sandro Moiso

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro

Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio ad essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione [...]]]> di Sandro Moiso

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro

Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio ad essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione dei meccanismi del Potere e dello Stato moderno nei loro elementi essenziali.

Inviso alla Chiesa il primo, le cui opere sono state per lunghissimo messe all’Indice, e al pensiero liberale e di sinistra il secondo, hanno avuto entrambi la capacità di mettere “scientificamente”, per quanto possa essere considerata scienza quella politica, a nudo gli snodi e le caratteristiche autentiche della gestione politica delle società organizzate intorno al modello statale.

Per Machiavelli, soprattutto nel Principe, l’elemento fondativo del poter, dello stato e della loro conquista e gestione è da ritrovarsi nella Forza ovvero nell’uso della violenza organizzata in funzione di tali fini. Per il secondo, a distanza di poco meno di cinquecento anni e dopo le rivoluzioni borghesi che hanno modificato l’assetto dinastico degli Stati moderni, si tratta, di definire gli stessi per mezzo delle categorie dell’eccezione e della decisione. O, per meglio dire ancora, dello stato di eccezione e della autorità basata sulla possibilità/necessità di decidere sullo e dello stato di eccezione. Così, nello svolgimento del discorso, chi scrive cercherà di cogliere il filo rosso che lega il ragionamento novecentesco di Schmitt a quello del cinquecentesco pensiero del teorico politico fiorentino.

Carl Schmitt (1888-1985) insegnò in varie università tedesche, prima di diventare professore all’Università di Berlino nel 1933, incarico che fu costretto ad abbandonare nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale a causa dei suoi discussi rapporti con il regime nazista. Ritiratosi a vita privata, dopo essere stato rilasciato nel 1946 alla fine di un periodo di internamento da parte degli alleati, continuò a lavorare e a pubblicare nel campo del diritto internazionale ed è ancora oggi considerato uno dei massimi filosofi del diritto e dello stato.

L’autore tedesco ha sempre ritenuto che La Dittatura fosse da considerare tra le sue opere migliori, se non tra i suoi capolavori, insieme alla Dottrina della Costituzione (Verfassungslehre-1927) e al Nomos della terra (Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum – 1950)1. In questo testo, pubblicato nel 1921, Carl Schmitt mette a punto l’aspetto decisionistico del suo pensiero affrontando il nesso fra politica e diritto, fra eccezione e norma.

La dittatura è infatti un istituto giuridico che mostra apertamente la sua origine politica, tanto come dittatura commissaria, in cui il dittatore ha come obiettivo la difesa extralegale di un ordinamento minacciato, quanto come dittatura sovrana, in cui il dittatore costruisce un ordine nuovo sulle macerie di un ordine distrutto. In questa seconda accezione, che equivale al potere costituente, si rivela il cuore del decisionismo. Muovendo dall’analisi della prassi dei commissari governativi fino al Settecento e della dittatura di Cromwell e del giacobinismo, Schmitt giunge in fine a prendere in esame la rivoluzione russa guidata da Lenin come una dittatura sovrana.

Le quattro prefazioni che ne accompagnano l’attuale edizione, rispettivamente del 1921, 1928, 1964 e 1978 confermano come tale opera sia da considerarsi centrale nell’evoluzione del suo pensiero, anche se, come ci ricorda Carlo Galli nella Presentazione della stessa « il libro non ha avuto particolare fortuna fra storici e politologi che, portati ad associare la dittatura al totalitarismo e all’antidemocrazia, lo hanno considerato di volta in volta “inaccettabile” (Neumann), “poco più che un libello” (Duverger), “insidioso” (Sartori) e “troppo tedesco” (Cobban) »2. Ciò che rende esecrabile il testo per alcuni suoi interpreti qui appena, e superficialmente, citati può essere, però, considerato proprio come l’aspetto originale che lo rende ancora utile e interessante per il lettore poco ammagliato o abbagliato dal pensiero liberal-democratico. Come afferma infatti ancora il curatore:

Lo scopo di Schmitt non è definire le caratteristiche tipologiche della dittatura, individuare i criteri per classificarla come forma di potere politico, determinarla come genere (distinguendola da tirannide, assolutismo, dispotismo) e come specie (romana, cesaristica, bonapartistica, rivoluzionaria, plebiscitaria, pedagogica, ecc.); né spiegarla contrapponendola a una qualche “normalità” – libertà, democrazia, Stato di diritto, costituzionalismo. In questo libro – che sarebbe stato destinato, secondo il ricordo incerto di uno Schmitt vecchio e ormai lontano dai fatti di cui parlava ad avere rapida fortuna in Italia, grazie a una traduzione in area socialista (anche se probabilmente si era trattato di una recensione) i cui piombi sarebbero scomparsi nell’agosto del 1922 tra le fiamme dell’«Avanti!» devastato dai fascisti3 – l’autore sviluppa la tematica [della realizzazione del diritto] non tanto per giungere a una teoria generale della dittatura come forma di governo quanto per fare della dittatura il nucleo della comprensione dell’origine della forma politica moderna dello Stato4.

La dittatura deve essere quindi considerata come un passaggio decisivo nello sviluppo del pensiero e nella riflessione sistematica del giurista tedesco sull’origine e la funzione dello Stato moderno, cosicché al suo interno

si percepisce lo sforzo di condurre un innovativo discorso scientifico davanti a una contingenza scandalosamente nuova, la rivoluzione russa, e al contempo, mentre argomenta dall’interno di una crisi, l’intento di ricostruire attraverso il nesso di crisi, dittatura, rivoluzione, la storia politica moderna, di trovarne il filo conduttore nell’arco che va dal giacobinismo al bolscevismo, da Sieyès a Lenin, e di individuare nella dittatura il nodo decisivo della politica, lo stare insieme – non neutralizzato – di contingenza e di necessità, di anomia e coazione ordinativa, di eccezione e di forma5.

Discorso che, nel 1922, nella Teologia politica (Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität)6, porterà l’autore a quella definitiva individuazione dell’”eccezione” come concetto cardine del diritto pubblico e della sovranità come “decisione sullo stato d’eccezione” non come attributi apicali dello Stato, ma come intima e fondamentale essenza dello stesso e del suo agire7.

Come sottolinea ancora il curatore, Schmitt « ha l’occhio alla dittatura moderna » e per questo può, e deve nel suo ragionamento, ignorare i modelli di dittatura antica, come quella romana del I secolo a. C., poiché i tratti fondamentali di quella che più gli interessa gli appaiono costituiti dal “razionalismo” e dalla “tecnicità” e da « un agire che si impone immediatamente, senza discussioni né resistenze legali e la interpreta come dipendente dalla contingenza, da una concreta situazione di fatto che deve essere risolta, portata all’ordine […] Una teoria congegnata in modo che è l’eccezione a spiegare la normalità »8.

Occorre qui introdurre ancora un altro discorso sull’opera generale di Schmitt e cioè quello sul fatto, in sé antitetico, che pur nella ricerca di un ordine stabile l’autore tedesco non rinuncia mai alla razionale analisi dello stesso, non potendo far altro che notare e sottolineare come, in realtà, nessun ordine dato possa esserlo “per sempre” e come, per tale motivo, sia, per intrinseche contraddizioni interne o manchevolezze di ordine politico e sociale, destinato ad essere superato e destituito.

Nel suo lavoro sulla Costituzione come fondamento dello Stato moderno9, capace di dare a questo la sua identità non soltanto giuridica, ha sempre sostenuto che, se da un lato, proprio per questo fatto la Costituzione data risulta “immodificabile”, dall’altro, ad ogni nuovo cambiamento o rovesciamento dell’ordine politico statale e sociale dato deve corrispondere una nuova ed “altra” Costituzione. In questo senso uno dei più autorevoli rappresentanti di quella che fu definita “rivoluzione conservatrice” finisce col fornire strumenti validissimi per la messa in discussione di un ordine, ad esempio quello liberal-borghese, che come tutti quelli precedenti, succedutisi nel tempo, si pretenderebbe invece stabile e continuo.

Da questo punto di vista Schmitt si avvicina, senza citarlo e probabilmente senza apprezzarlo, a quanto Marx afferma, fin dal Manifesto del Partito Comunista del 1848, sulla capacità e necessità della borghesia non soltanto di rovesciare e sostituire l’ordine politico, sociale ed economico che l’ha preceduta, ma anche di continuare a rompere tutti i limiti (economici, sociali, giuridici, tecnologici, politici) che si frappongono all’espansione del modo di produzione di cui, in sostanza, è soltanto l’agente.

Infatti Schmitt, nel rivolgere la sua attenzione alla frattura avvenuta in età moderna tra la forma politica dello Stato basata sulla rigida divisione tra gli ordini sociali previsto dal regime monarchico assolutista e quella inaugurata dalla Rivoluzione francese, ancor più che da quella inglese di Cromwell ancora in larga parte fondata sul pensiero religioso più che su quello razionale inaugurato dal pensiero politico illuminista, individua esplicitamente nel potere del popolo e nelle sue istituzioni rivoluzionarie, soprattutto nella Convenzione, l’origine di ciò che egli chiama dittatura sovrana, per distinguerla da quella commissaria.

Solo in tale senso, Schmitt rivaluta il pensiero controrivoluzionario cattolico, non in quanto tale o per ciò che afferma10, ma per il fatto di aver chiaramente individuato, nel rovesciamento del ruolo del monarca e di quello del popolo, la drammatica novità della rivoluzione. Da ciò deriva ancora per il pensatore tedesco « che il popolo si è posto come titolare di una potenza originaria e illimitata: appunto il potere costituente, che però non è un solido fondamento quanto piuttosto un potere oscuro: il lato nascosto, pur nella sua evidenza, dello Stato moderno »11. A questo punto, chi qui scrive pensa che si sia giunti al centro del problema e della funzione della dittatura, nelle sue due diverse forme possibili. Infatti se a Schmitt non interessa definire la dittatura come eccezione rispetto alla pretesa normalità della democrazia costituzionale, così non gli interessa metterla sullo stesso piano dell’assolutismo della prima modernità e del suo governo per il tramite dei commissari.

Il potere costituente, nella sua onnipotenza, è […] indifferente alla forma che pur deve assumere; la potenza originaria del popolo è infatti soggetta a una altrettanto originaria coazione all’ordine e alla forma: «un minimo di ordine deve sussistere». Così la dittatura sovrana è incondizionata commissione d’azione del potere costituente, non di un potere costituito come è invece la dittatura commissaria: per poter agire il potere costituente del popolo deve essere rappresentato da una dittatura sovrana, ovvero da una istituzione politica temporanea e rivoluzionaria, onnipotente (la Convenzione ne è il modello), che vede tutto il presente come un’eccezione perché ciò che attualmente esiste, il vecchio ordine, è da spazzare via, è un non-ordine, mentre al contempo è rivolta a edificare un ordine nuovo, un nuovo potere costituito […] Il passaggio dalla ragion di Stato allo Stato rivoluzionario è il passaggio dalla dittatura commissaria alla dittatura sovrana.
La differenza tra i due tipi di dittatura è, certo, che l’una crea l’ordine, e l’altra lo difende: la dittatura commissaria è fondata giuridicamente tanto nel proprio inizio (un potere costituito) quanto nel fine (gestire e portare a termine un’emergenza), mentre la dittatura sovrana rappresenta (ma non vi si fonda) un’origine e un’energia illimitata e sempre eccedente, quella del potere costituente del popolo, dalla cui indeterminatezza trae un compito indeterminato: determinare e formare un ordine giuridico nuovo. Ma la co-implicazione fra non-ordine e ordine, fra contingenza e necessità, attraverso la decisione, è la medesima. La sovranità sempre decide sul caso d’eccezione: come potere costituito, con l’affidarne a un dittatore commissario autorizzato la gestione, oppure, come potere costituente del popolo, con la dittatura sovrana che unisce la rappresentanza del popolo con l’azione diretta che decide sull’eccezione e le dà forma12.

La prima considerazione da trarre è che qualsiasi forma stato è sostanzialmente dittatoriale, qualunque siano le motivazioni indotte per giustificarne l’esistenza e le attività di governo delle emergenze e no.

Lo Stato moderno di popolo, lo Stato democratico, ma anche ogni Stato in generale, purché politicamente attivo, ha in sé la logica, e il problema, della dittatura […] La dittatura sovrana è l’Ersatz13 moderno dell’autorità tradizionale e del suo ruolo fondativo, ma con un profondo cambiamento: una volta che ha condotto a termine la propria opera, la dittatura sovrana si spegne, mentre al contrario l’autorità è sempre visibile e presente nel monarca: il potere costituente del popolo non è nemmeno nominabile in una Costituzione formale14, che attribuisce la sovranità a questo o quello soggetto istituzionale, limitandola con leggi. Ma ciò non significa che quel potere costituente, e quella dittatura sovrana, non permangano latenti come inquietanti possibilità. [Così] Se il potere costituente del popolo e la rivoluzione sono il fantasma che sempre si aggira dentro lo Stato, la cultura e le istituzioni liberali devono esorcizzarlo, perché troppo destabilizzante e tale da mettere in discussione quelli che per i liberali sono i fondamenti dell’ordine politico: i diritti individuali. E infatti negli ordini liberali il potere costituente del popolo non è previsto come sempre attivo: si spegne nella costituzione15.

La seconda è che qualsiasi rivoluzione, innanzitutto quella proletaria che nella forma bolscevica aleggia sullo sfondo delle riflessioni di Schmitt, costituisce e deve essere per forza un atto di autorità e decisione, qualsiasi sia la forma giuridica, politica e sociale a cui darà vita. Da qui lo scontro inevitabile tra autoritari e anti-autoritari che già si manifestò all’interno della Prima Internazionale ai tempi di Marx. Engels e Bakunin.

La terza considerazione è che lo stesso ordine liberal-democratico borghese nasce da un atto di forza, la rivoluzione francese, e da un potere costituente, riassumibile come fa Schmitt, in quello generico “del popolo”. Fatti tutti che rivelano come questo, come tutti gli altri, sia di fatto transeunte e tutt’altro che destinato a durare in eterno.

All’origine dello Stato moderno non vi è alcun patto sociale, come quello idealizzato da Rousseau per l’origine della società, ma soltanto un atto di forza, e qui chi scrive si ricollega a quanto detto in apertura, come quello previsto da Machiavelli nella sua opera tutt’altro che antitetica rispetto a quella di Schmitt. Perché è il tema della forza a scorrere, per via niente affatto sotterranea, nell’opera dei due pensatori politici. Uno, Schmitt, con lo sguardo rivolto ad Oriente e alla rivoluzione russa, destinata a sconvolgere gli assetti statali e imperiali, coloniali e nazionali sia in Europa che in Asia; l’altro, Machiavelli, appena uscito dall’esperienza “repubblicana” di Girolamo Savonarola e della cacciata dei Medici da Firenze. Esperienza cui fu politicamente contrario a causa del forte stampo religioso impostole da Savonarola, anche se ne condivise gli ideali democratici e popolari.

In fin dei conti, proprio la nascita delle ancor troppo localistiche signorie italiane aveva già rivelato la base autoritaria degli Stati moderni e l’uso della forza come strumento di superamento di un non-ordine allora costituito da una fasulla democrazie comunale in cui gli opposti interessi di Chiesa, mercanti, aristocrazie terriere, artigiani e nascente proletariato urbano di fatto servirono soltanto a sviluppare l’interesse “particulare” di cui si fece campione il Guicciardini e che, nei fatti concreti, limitò ogni rivoluzione borghese in Italia alla collaborazione con l’aristocrazia ancora guerriera e alle sue bande armate mercenarie, prima, e all’unica monarchia, quella dei Savoia, che avesse a disposizione un forza organizzata in un esercito degno di questo nome.

Un’ultima considerazione, valida ancora e forse soprattutto oggi, viene svolta a latere da Schmitt nel 1928, proprio nella sua Dottrina della costituzione:

Potrebbe immaginarsi che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa continuamente esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura. Ciò non sarebbe affatto una democrazia particolarmente intensa, ma una prova del fato che Stato e pubblicità sarebbero totalmente privatizzati. Non vi sarebbe nessuna pubblica opinione, giacché l’opinione così concorde di milioni di privati non dà nessuna pubblica opinione, il risultato è solo una somma di opinioni private. In questo modo non sorge nessuna volontà generale, nessuna volonté général, ma solo la somma di tutte le volontà individuali la volonté de tous.

Qui a colpire non è soltanto l’anticipazione di quanto si è realizzato a poco meno di cento anni di distanza con l’uso e l’abuso dei social media, ma anche la chiara indicazione, se si legge tra le righe, che un’opinione o una volontà non si può esprimere che per il tramite di un partito che, però, non può essere predestinato soltanto alla conservazione del presente all’interno di un meccanismo parlamentare già dato. In questo caso la volontà non può esprimersi che per mezzo di un partito rivoluzionario, autentico strumento bellico di rottura definitiva dell’ordine precedente e non di mediazione; grande, e fino ad ora insoddisfatto, quid di qualsiasi politica antagonista a venire.

Per ragioni di spazio occorre qui, obbligatoriamente, chiudere la recensione e la riflessione di e su un testo e un autore che, pur essendo considerato, spesso superficialmente, come appartenente al solo conservatorismo, all’interno di un pensare sempre “eretico” può rivelarsi ancora molto utili per chi voglia opporsi e ribellarsi al miserabile stato di cose presenti. Questo non per riproporre il superamento delle barriere tra destra e sinistra con cui un facile sovranismo sinistrorso vorrebbe risolvere le difficoltà politiche attuali, ma al fine di avere a disposizione validi e razionali strumenti analitici al fine di una più corretta verifica dei rapporti di forza intercorrenti tra Stato, società e movimenti (oggi ancor troppo deboli sia sul piano numerico che teorico e organizzativo). Soprattutto per superare le illusioni liberali e individualistiche ancor troppo radicate in questi ultimi.


  1. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984 e C. Schmitt, Il Nomos della terra. Nel diritto internazionale dello « jus publicum europaeum », Adelphi Edizioni, Milano 1991  

  2. C. Galli, Presentazione in C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Società editrice il Mulino, Bologna 2024, p. 9.  

  3. Cfr. la lettera del 1969 di Schmitt a Gianfranco Miglio, su cui C. Galli, Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica in «Materiali per una storia della cultura giuridica», n.1, 1979, pp. 81-160.  

  4. C. Galli, Presentazione in C. Schmitt, La dittatura, op. cit., p. 10.  

  5. C. Galli, op. cit., p. 12.  

  6. C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Società editrice il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86.  

  7. In proposito si veda qui  

  8. C. Galli,op. cit., p. 13.  

  9. Si vedano in proposito: C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, Giuffrè editore, Milano 1984 e C. Schmitt, Il custode della Costituzione (Der Hüter der Verfassung,1931), Giuffrè editore, Milano 1981.  

  10. Si veda: C. Schmitt, Donoso Cortés (Donoso Cortes in gesamteuropäischer Interpretation – 1950), Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 1996  

  11. C. Galli, op. cit., p. 16.  

  12. Ivi, pp. 16-17.  

  13. succedaneo, sostituto – NdR  

  14. Si pensi soltanto al dibattito avvenuto in Italia in sede di Assemblea Costituente intorno al diritto all’insorgenza dei cittadini nei confronti di un governo che non dovesse rispettare il patto costituzionale, in cui furono i rappresentanti del cattolicesimo di sinistra (La Pira, Dossetti e altri) a battersi in tal senso contro il fermo divieto imposto all’epoca dalla DC di De Gasperi e dal PCI di Togliatti.  

  15. C. Galli, op.cit., pp. 18-20.  

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Marx l’incompiuto https://www.carmillaonline.com/2018/12/27/marx-lincompiuto/ Wed, 26 Dec 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50311 di Fabio Ciabatti

Carlo Galli, Marx eretico, il Mulino 2018, pp. 168, € 13.

La socialdemocrazia occidentale e l’economia di comando sovietica sono state sconfitte dal neoliberismo. Quest’ultimo, benché in crisi strutturale, ha ancora oggi, rispetto al pensiero che a vario titolo si ispira a Marx, una superiore capacità di agire sui bisogni e sui desideri dei singoli enfatizzando non tanto la loro identità di produttori membri di un insieme collettivo (di una classe) quanto quella di consumatori e fruitori di godimento individuale. Il suo potere si nutre della capacità di produrre un [...]]]> di Fabio Ciabatti

Carlo Galli, Marx eretico, il Mulino 2018, pp. 168, € 13.

La socialdemocrazia occidentale e l’economia di comando sovietica sono state sconfitte dal neoliberismo. Quest’ultimo, benché in crisi strutturale, ha ancora oggi, rispetto al pensiero che a vario titolo si ispira a Marx, una superiore capacità di agire sui bisogni e sui desideri dei singoli enfatizzando non tanto la loro identità di produttori membri di un insieme collettivo (di una classe) quanto quella di consumatori e fruitori di godimento individuale. Il suo potere si nutre della capacità di produrre un immaginario più espansivo, una narrazione più pervasiva, una speranza più immediatamente comunicabile, nonostante la rapidità con cui gli sviluppi storici hanno smentito le sue promesse. Se questo è il panorama che ci presenta Carlo Galli nel suo ultimo libro Marx eretico, cosa mai ci potrà rimanere del pensiero del filosofo di Terviri e delle differenti tradizioni teorico-politiche che a lui si sono è ispirate? L’autore non aggiunge la sua firma a quella dei tanti sedicenti curatori fallimentari del lascito marxiano, ma sceglie una via più articolata: Marx è “un autore sul quale non tramonta il sole, e sul quale è tuttavia passata la storia”.1 E questa storia ci ha mostrato la “strutturale incompiutezza” del suo pensiero che “va di pari passo con la sua volontà di Verità e di Totalità”.2 Tutto sta a capire se questa incompiutezza sia il sintomo di un fatale errore che mina inevitabilmente l’edificio teorico marxiano o se, al contrario, possa rappresentare un segno della sua ricchezza, della sua possibile fecondità.

Seguiamo per prima cosa l’argomentazione di Galli. Marx, è il portatore di un pensiero forte, “l’ultima voce della filosofia tedesca che cerca di tenere insieme il movimento moderno della storia e della produzione globale – le loro contraddizioni, scissioni, parzialità – con la liberazione umana universale”.3 Per il filosofo tedesco la verità è possibile “almeno come processo intersoggettivo che ha un luogo topico (la società del capitale), un’origine strategica (il rapporto di produzione e la sua intrinseca conflittualità), un soggetto che la incarna (il proletariato), e un orizzonte logico e storico che le pertiene (il comunismo)”.4 La contraddizione è il modo in cui la critica dell’economia politica tiene insieme scienza e politica. Il conflitto, la scissione, l’antagonismo nascono infatti dall’interno del processo di valorizzazione capitalistica. “La politica sta nell’economia, nella produzione e non nella istituzione”.5
Da un punto di vista metodologico Marx, prosegue Galli, non si è concentrato sulle esagerazioni o sulle eccezioni ma sulla normalità, sull’ordinario metabolismo della società capitalistica che si presenta come un’immane raccolta di merci. A partire da questa normalità Marx porta avanti “una lotta che muove dall’interno di un sistema, che introduce squilibrio dove era stato messo ordine, che svela il peccato e il dominio là dove il potere e il sapere si ammantano di virtù”.6 Una lotta che vuole promuovere un nuovo universale, finalmente autentico. Il nostro filosofo, dunque, non si limita a seguire il reale in ogni sua piega, ma vuole aprirlo al futuro. Pertanto, “la filosofia non può annegare nel gran mare della dialettica, vedendo ovunque contraddizioni con cui conciliarsi: deve invece cogliere la negazione determinata, che è anche strategica e strutturale”.7 E deve comprendere che fra le contraddizioni c’è una gerarchia.
In breve “il suo impianto dialettico sposta la Verità nella dimensione pratica, affidandola allo svolgersi della storia reale e delle lotte concrete, dei conflitti”.8 Per Marx il sapere si produce attraverso le contraddizioni reali e le lotte sociali perché queste non sono cieche violenze. “La contraddizione produce il sapere e il soggetto che la sanno e che la tolgono”.9 La questione che evidenzia Galli sta tutta qui perché la prassi politica è necessariamente affetta dalla “apertura alla contingenza”: la teoria che vuole compiersi nella prassi trova il suo compimento minato dalla contingenza. La critica di Marx, “per quanto pregna del mondo, gravida della prassi, non può automaticamente partorire la rivoluzione, e anzi necessita di un taglio, di una decisione che si dà solo nel travaglio, in una lotta il cui andamento non è guidabile dalla ragione, mentre ne è prefissato il fine”.10 Tutto ciò assume ancora maggior rilievo se consideriamo che, secondo Galli, Marx conferisce alla politica rivoluzionaria “ruolo eroico”. La rivoluzione del proletariato, infatti, non ha solo l’obiettivo di conservare i rapporti economici esistenti inserendoli in un contesto politico più adeguato (come lo Stato borghese che ha preso il posto dello Stato tradizionale), ma di conquistare il potere politico per mutare radicalmente i rapporti di produzione. E c’è di più. Il proletariato deve alla fine di questo processo abolirsi come classe e affermarsi come umanità liberata.

Torniamo al quesito iniziale: come possiamo valutare l’incompiutezza del pensiero marxiano? Non credo si possa prescindere dal fatto che il marxismo, quando ha preteso di compiersi come sistema, è diventato fatalmente strumento di potere nelle mani dello Stato o del Partito. La pretesa di dedurre scientificamente la prassi ha corrisposto alla volontà di un soggetto politico di dominare i soggetti sociali che si trovava di fronte, scomunicando come eretiche tutte le insorgenze dal basso che non si conformavano alle direttive dettate dall’altro. Scomunica che poi, a ben vedere, finiva per riguardare tutte le insorgenze che superavano una certa soglia di conflittualità, mettendo a rischio l’essenza conciliatrice di una dialettica ridotta ideologia istituzionalizzata. Ben venga dunque l’incompletezza perché essa, come nota Galli, impedisce al pensiero di Marx di essere normativo e dunque, aggiungo, di sostituire l’autoemancipazione della classe operaia di cui parlava Marx con il primato della politica, sia esso incarnato da uno Stato o da un Partito. D’altra parte è vero, come sottolinea ancora Galli, che assumere l’incompletezza può portare a un “vuoto di pensiero e di direzione”, capace soltanto di assecondare uno sterile ribellismo. Bisogna perciò capire bene cosa si intende quando si afferma che l’incompletezza porta con se l’indeterminatezza nella prassi politica.
E’ bene notare, insieme a Galli, che siamo lontani dalla “grande decisione” priva di un qualsivoglia telos e di una qualsiasi giustificazione che non sia un puro atto di volontà. Siamo cioè distanti dal pensiero negativo di un Nietzsche o di uno Schmitt, dal regno del sospetto distruttivo che si esprime come negativo indeterminato, opposizione insuperabile, abisso dell’origine. Ci approssimiamo piuttosto alla terra della “speranza” che non a caso dà il titolo ad uno dei capitoli del libro. Una speranza che, storicamente, ha dato luogo, sostiene Galli, a una “profezia messianica di rango globale”, attraverso una lettura semplificata della dialettica, della storia e della rivoluzione, capace di dare espressione, per ampie masse, al bisogno di credere, alla pretesa di dignità, all’ansia di riscatto contro l’ingiustizia, all’empito verso il futuro. Che il marxismo sia stato anche questo è senz’altro vero, così come è vero che una simile connotazione porta con sé i rischi di una torsione autoritaria. Ciò nonostante, questa religione popolare sui generis andrebbe valutata in modo articolato a meno che non si voglia abbracciare un approccio piattamente positivistico e smaccatamente elitario.

Quello che sorprende è che in un capitolo dedicato a Marx intitolato “speranza” non si faccia alcun riferimento (come del resto in tutto il libro) a Ernest Bloch che sul tema ha scritto qualche pagina di un certo interesse. È stato proprio Bloch ad insistere sul fatto che il marxismo si caratterizza strutturalmente per la sua apertura sul futuro, inteso come ciò che è realmente possibile: la realtà è per lui un processo sempre aperto, dischiuso verso una molteplicità di esiti possibili. Questa potenziale molteplicità, però, non è illimitata, indefinita. L’analisi marxiana del modo di produzione capitalistico, infatti, mostra il futuro nella sua qualità di orizzonte del limitatamente possibile e delle potenzialità di liberazione innervate nel presente. La conoscenza di questo orizzonte non è però un affare che abbia a che fare con la mera razionalità. Solo attraverso la speranza il presente diventa intelligibile in quanto emotivamente sostenibile pur nella sua persistente negatività: è possibile sostenere il travaglio del negativo soltanto nel momento in cui intravediamo la speranza del suo superamento. Perciò solo presidiando il territorio dell’immaginario il marxismo può diventare forza effettiva e non pura contemplazione scientifica dei processi storici. Ciò non toglie che per Bloch occorre prendere di petto la “contraddizione contemporanea oggettiva”.
E questo ci riporta alla negazione determinata, alla gerarchia delle contraddizioni e alla capacità della contraddizione principale di generare una soggettività in grado di toglierla. Galli su questo è decisamente scettico. Per lui il marxismo difficilmente potrà ritornare egemone, potrà al massimo riacquisire diritto di parola. Dal canto mio rimango convinto che il rapporto di produzione con la sua intrinseca conflittualità continua a rappresentare il luogo strategico del nostro presente e perciò su questo piano occorre essere in grado di intervenire, ammesso che si voglia aprire a un futuro realmente differente. E mi sembra davvero difficile che ciò possa accadere senza che i soggetti inseriti in questo luogo strategico abbiano un qualche ruolo. Se come forza principale o soltanto come parte, comunque significativa, di una coalizione sociale più ampia, allo stato attuale è tutto da vedere. Quanto parte dell’autopercezione di un futuro soggetto collettivo potrà essere ascrivibile all’attività lavorativa e quanta, invece, si potrà attribuire ad altri tipi di appartenenze è un’altra questione che rimane aperta. Ma la politica, per quanto soggetta ad un significativo grado di indeterminatezza, non è il regno del mero arbitrio, se è vero che esiste una totalità capitalistica che ha le sue leggi di funzionamento. Come, a suo tempo, ci ha spiegato Marx.


  1. Carlo Galli, Marx eretico, il Mulino 2018, pag. 3. 

  2. Ivi, pag. 12. 

  3. Ivi, p. 160. 

  4. Ivi, p.22. 

  5. Ivi, p. 89. 

  6. Ivi p. 9. 

  7. Ivi, p. 34. 

  8. Ivi, p. 5. 

  9. Ivi, p. 44. 

  10. Ivi, p. 41. 

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Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/20/nemico-e-immaginario-il-ritorno-del-mostruoso-tra-cattiva-coscienza-coloniale-e-neocolonialismo/ Tue, 20 Sep 2016 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33294 di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) [...]]]> di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) immaginario” ripratendo da una scena del film La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1986) di George Romero in cui l’eroe nero viene scambiato per uno zombie ed ucciso dagli uomini bianchi. Si tratta di un errore “del tutto comprensibile”, visto che nella società bianca il nero è uno zombie, è una presenza priva di soggettività. Quello subito dal personaggio nero può dirsi dunque un processo di de-umanizzazione ed a ben guardare è il medesimo processo a cui sono sottoposti i migranti sugli schermi televisivi e fuori da essi.

Nel saggio di Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, 2016), meritoriamente recensito da Luca Cangianti nel suo “I mostri dell’accumulazione originaria”, l’autrice ha, tra le altre cose, particolarmente approfondito il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo. Il «nemico si manifesta come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l”umanità’ con la propria invadenza o con la propria incontrollabile ‘pazzia’ e/o sete di vendetta. Egli è l’Altro assoluto che ha attraversato le acque per venire a capovolgere una nave già piena, come nel caso dei sopravvissuti al disastro del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, o in quello dei pescatori di perle (migranti irregolari cinesi) che muoiono nel totale silenzio mediatico al largo delle coste britanniche […] È l’Altro-assoluto contro cui la società – quella fatta di ‘simili’ per cultura, religione, spirito democratico e, parrebbe conseguirne, appartenenza razziale – si rinsalda e si muove compatta» (pp. 10-11).

La studiosa ricorda come contemporaneamente all’appello alla solidarietà democratica, europea, occidentale, contro l’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” del gennaio 2015, in difesa della libertà d’espressione, nelle società occidentali è stata riadattata «la narrazione dello scontro di civiltà contro i ‘cattivi extraterrestri’ (gli stranieri simmeliani trasformati in potenziali criminali) e lungo il perimetro degli spazi nazionali e comunitari si rafforzano le misure di protezione delle frontiere contro l’immigrazione» (p. 11). Secondo Giuliani è esemplare l’intreccio francese tra “costruzione dell’Altro-assoluto” e “costruzione del Sé nazionale”: un paese dal violento passato coloniale plurisecolare contraddistinto da un’amnesia di Stato a proposito dello schiavismo e dal riprodursi di una narrazione istituzionale di stampo coloniale della “missione civilizzatrice” e del Progresso. Nel saggio, a tal proposito, si ricorda come la legge francese n.2005/158 del 23 febbraio 2005, nell’articolo 4, richieda espressamente che agli studenti della scuola dell’obbligo venga spiegato il «ruolo positivo della colonizzazione francese […] specialmente in Nord Africa».

Convinta dell’idea che il mostruoso rimandi, a maggior ragione oggigiorno, «alla mutazione interna dell’organismo umano e all’incapacità cartesiana di ristabilire il controllo su di essa» (p. 12), Giuliani definisce l’alterità (alieno/a, non-morto/a, mutante, cyborg ecc.) come post-umana. Inoltre, la studiosa definisce neocoloniale il tentativo di ristabilire il controllo su tutto ciò che è mutato, producendo alterità, trasgredendo alle regole della razionalità sovrana.

Nel saggio si ricorda come la narrazione distopica non abbia mancato di soffermarsi sull’ambivalenza della mutazione determinata dalla scienza e dalla tecnologia, a tal proposito si può far riferimento, ad esempio, alla produzione cinematografica di David Cronenberg degli anni Settanta ed Ottanta o, nel decennio successivo, a film come 12 Monkeis (1995) di Terry Gilliam od ancora, nel nuovo millennio, ad opere come I am Legend (2007) di Francis Lawrence, District 9 (2009) di Neill Blomkamp e World War Z (2013) di Marc Forster.

Esiste un’evidente continuità tra il “subumano” proprio del periodo coloniale e schiavista ed il “non-umano” o “post-umano” neocoloniale; in entrambi i casi la sua eliminazione solleva da responsabilità e lo sterminio diventa “naturale” nel suo essere presentato come la “soluzione finale” che permette il ritorno ad un’ontologia di un particolare tipo dell’umano di nuovo al centro dell’universo. Molte narrazioni recenti insistono sul fatto che il non-umano, o post-umano, conviva già con l’umano e tale convivenza, sostiene la studiosa, rimanda «alla codificazione della cosiddetta ‘società multirazziale’ del mondo reale, con le sue divisioni e contraddizioni sociali e culturali» (p. 16).

cover_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiRifacendosi ad «una prospettiva genealogica che tende a rintracciare la paura nella storia delle sue rappresentazioni e dei suoi significati a partire dalla modernità, dalla nascita dello Stato nazione e dagli albori del movimento coloniale delle potenze europee verso ovest» (p. 18), il saggio affronta tematiche che vanno dal “ritorno del mostruoso” al “rapporto tra modello multiculturale ed Alterità assoluta” (tra “normalizzazione della diversità” e costruzione di una “diversità inconciliabile”), dalle “fantasie di bianchezza” presenti nelle narrazioni della catastrofe (utopiche e distopiche) alla “cittadinanza emotiva” concentrata «sull’incontro con l’alterità da parte delle diverse incarnazioni (culturali, sociali istituzionali) della ‘norma bianca’ in Europa e nelle ex colonie di popolamento» (p. 19).

Da parte nostra, in questo scritto, ci limiteremo alla questione del “ritorno del mostruoso” – affrontato dall’autrice nel primo capitolo del volume – rimandando per le altre questioni trattate dal denso ed interessante saggio al quadro d’insieme ricostruito nella già citata recensione stesa da Luca Cangianti [su Carmilla].

Giuliani legge alcune figure del cinema di genere horror e dintorni come allegorie della violenza coloniale e del suo ripresentarsi attraverso narrazioni distopiche sotto le sembianze di morti viventi. In generale il mostruoso coincide con la rappresentazione della finis mundi e se tale funzione può essere intesa come componente importante nella costruzione della “comunità antropologica”, nel corso dei secoli, sostiene la studiosa, si è strutturata nei termini dei confini dell’Ecclesia cristiana e, nella modernità, nei termini della separazione cartesiana e rinascimentale tra conoscente e conosciuto. Il satanico, bestializzato dall’iconografica della Scolastica sino a metà del Trecento, viene incorporato nelle leggende dei viaggiatori cinquecenteschi che toccavano i lontani territori del Pacifico, africani, caraibici, amazzonici… fino al Calibano shakespeariano. Ancora a cavallo tra Otto e Novecento Cesare Lombroso colloca proprio a tali latitudini la “barbarie calcificata” inestirpabile, incline al cannibalismo ed in epoca ancora più recente, ricorda Giuliani, sopravvivano tracce di tali “storie antropologiche” utili all’auto-rappresentazione dell’occidente che si vuole civilizzato e civilizzatore, si pensi a tal proposito il film Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.

In età rinascimentale il cannibalismo (vero o presunto) dei nativi è inteso come prova evidente della loro “bestialità” o sottomissione all’anti-Cristo. La mostruosità del cannibalismo gioca un ruolo importante nella legittimazione del primo colonialismo divenendo “l’estremo male” da combattere in funzione dell’edificazione dell’Utopia. La bestia umana deve essere eliminata o sottomessa «alle leggi della Cristianità, dell’istituzione politica e, infine, del capitale […] La conquista e la realizzazione di nuove società abitate solo dagli elementi migliori (cristiani, bianchi e proprietari) necessitava di un’”accumulazione originaria” nel senso più marxiano del termine, ossia, da un lato, la cannibalizzazione della forza lavoro, il suo addomesticamento mediante lavoro servile o schiavo» (p. 27). Ed è proprio a questo secondo fine «che adempierà la costruzione di un nuovo mostruoso (lo/la schiavo/a ‘negro’, il coolie e il/la migrante ‘bruna’ del Mediterraneo, della Cina e dell’Asia meridionale sovente descritti mediante riferimenti a bestie ed insetti) utile a dividere e governare la forza lavoro mediante statuti (razziali) differenziali» (p. 27).

La donna sin dal Medioevo viene collocata tra le mostruosità per poi divenire nell’epoca del razionalismo settecentesco, dell’imperialismo e della moralità vittoriana, «la diversità assoluta all’interno degli spazi domestici dell’intimità borghese e della sua riproduzione. Diverrà non solo l’oggetto di violenze mediche, culturali e di polizia […] ma la sua diversità diverrà uno dei dispositivi di inferiorizzazione all’interno della comunità coloniale e imperiale della Modernità» (p. 27).

Dunque, continua Giuliani, il mostruoso è il prodotto della cattiva coscienza coloniale che si ripresenta a noi tramite la figura del non-morto, è il Calibano che si ripresenta per vendicarsi dello stigma e della violenza. È la “coscienza nera” che si incarna sottraendosi alla rimozione dell’esperienza coloniale e dello schiavismo, che si ripresenta prendendo a morsi chi ha massacrato in nome del progresso e chi oggi lucra erigendo “confini razzializzati” contro l’umanità migrante. «Questo cannibalismo in lettere e celluloide ribalta il cannibalismo fisico e simbolico dei conquistadores, dei padri pellegrini, degli schiavisti e di chi possedeva le piantagioni, ma anche quello dei ‘capitalisti’ descritti da Marx nel frammento dei Grundrisse del 1858, avidi di sangue – di denaro, di carne da lavoro – come ‘vampiri’» (p. 28).

Già in diversi scritti abbiamo fatto riferimento alla comparsa haitiana della figura dello zombi ed alla nascita di quella “Repubblica nera” incubo degli Stati Uniti segregazionisti. Abbiamo anche visto come le prime pellicole americane che affrontano gli zombie inevitabilmente abbiano a che fare tanto col senso di colpa nei confronti delle sofferenze inflitte agli schiavi, quanto col timore che infondono i neri nella società bianca. Abbiamo anche preso atto di come, tra gli anni ’30 e ’50, attraverso la figura dello zombie, l’immaginario cinematografico americano richiami la questione della “perdita di di volontà e controllo su se stessi”; l’epoca è quella della Depressione, dei conflitti mondiali, della Guerra fredda e della minaccia atomica. Nel corso degli anni ’60, con i movimenti di lotta per i diritti civili, il cannibalismo degli zombie portati sullo schermo da Romero pare legarsi al riscatto dei morti viventi contro la violenza razzista operata dal capitalismo.

I film di Romero «tematizzano il ritorno dei diseredati, dei subalterni e dei reietti della società statunitense sotto forma di zombie cannibali, i quali sono gli unici in grado di svelare […] come ricchezza e consumismo, fondati su violenza e marginalizzazione, non siano altro che realtà fragili, transeunti, ‘grondanti di sangue’» (p. 30). I linving dead romeriani vengono raffigurati come “moltitudine rivoluzionaria”, oscillando tra “massificazione” e “individuazione” e questi, pian piano smettono di essere massa indistinta per divenire “moltitudine di identità”. Se nella produzione romeriana si ricorre alla figura del morto vivente per riflettere sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze americane, nelle produzioni più recenti, sostiene Giuliani, non si tratta più tanto di fare i conti con il “lato mostruoso” della società umana ma di “invocare un nuovo inizio”, di fondare un nuovo mondo con ogni mezzo necessario. Il nemico venuto dal passato, “il nuovo Calibano” che ha voce ma non linguaggio, deve essere eliminato attraverso una “guerra fondativa” di esseri superiori. Come esempi di ciò la studiosa cita il film spagnolo REC (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ove l’origine satanista dell’epidemia legittima la “guerra giusta” contro il demone zombie, la saga Resident Evil (2002-2012) di Paul W. S. Anderson, ove la guerra è mossa contro zombie derivati da un’epidemia batteriologica determinata da esperimenti farmaceutici e World War Z (2013) di Marc Forster, ove l’apocalisse zombie porta ad uno “stato di guerra permanente”.

In questo ultimo caso la studiosa evidenzia come a tale “stato di eccezione permanente senza confini” non pare accompagnarsi alcuna critica alla società presente mentre circa la società a venire, il film, sembra indirizzarsi verso fantasie di supremazia eteronormativa di classe (borghese) e di razza (bianca). «Essa appare come lo spettro di quella guerra che il filosofo italiano Carlo Galli ha chiamato ‘globale’, all’alba della Guerra al Terrore di George Bush Jr. In questo quadro la guerra non è più quella tra Stati, come per tutta la Modernità e in particolare, su scala globale, sin dalla prima guerra mondiale: in esso riaffiora l’idea di guerra ‘giusta’ invocata da san Tommaso e dalla cristianità medievale, e successivamente dal colonialismo, contro vecchi e ‘nuovi barbari’» (p. 34).

Nell’età globale la legittimazione della guerra pare poggiarsi sul confronto tra morali decisamente semplificate e, nella visione occidentale, si stabilirebbe così, secondo Galli, una sorta di gerarchia di valore tra la guerra a difesa (o portatrice) di diritti e democrazia mossa da poteri legittimati dall’ordinamento internazionale ed il terrorismo fondato sugli istinti più bassi. A tal proposito Giuliani preferisce rifarsi alla tesi di Tasal Asad (Sull’attentato suicida) sulla linea di continuità che l’inferiorizzazione coloniale del nemico traccia tra modernità e post-modernità. Tale impostazione la si ritrova anche in Judith Butler (Sexual politics, torture and secular time) quando a proposito della “Guerra al Terrore”, soffermandosi sulle torture nei campi di detenzione americani, sostiene che tali pratiche coercitive, violente ed umilianti possono essere considerate l’esplicitazione di una logica già presente “a monte” nella stessa idea di “missione civilizzatrice”.

28daysÈ dunque in tale contesto culturale e geopolitico che si viene a dare una particolare mutazione dello zombie a partire dall’inizio del nuovo millennio: «il mutante è soprattutto un infettato che viene ad essere il pericolo numero uno, incontrollabile attentatore suicida che per contagio trasforma gli altri in terroristi. Di fronte a lui la sovranità statuale si manifesta come totalmente impotente» (p. 35). Il morto vivente di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle rappresenta un’umanità animalizzata regolata dalle leggi del branco e della forza che ha in sé tanto le caratteristiche dei mutanti che della bestia rabbiosa. Tali caratteristiche le ritroviamo nel francese La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, ove più che camminare gli zombie corrono velocemente: il walking dead si è mutato in un running dead.

La natura mutante risignifica la figura del morto vivente quale risultato del dilagare del virus e secondo Peter Dendle (The Zombie Movie Encyclopedia) i timori incarnati da questi nuovi zombie non sono espressione della perdita del sé ma di una sua sovraesposizione. Se le vecchie generazioni di zombi sono contraddistinte dalla mancanza di affettività, dall’irrazionalità, dalla semplificazione e dalla lentezza, ora palesano un’energia senza precedenti.

Secondo Giuliani il nuovo morto vivente incarna anche la figura del pericolo post-11 settembre 2001 e post-massacri vari da Columbine ad Utøya, fino agli episodi più recenti. Si tratta di un pericolo errante ed incontrollabile che proviene dal vicino di casa, dai propri compagni di scuola o di lavoro che improvvisamente palesa una forza ed una violenza inimmaginabili.

La studiosa sottolinea come in queste produzioni si evochi l’idea che a sopravvivere possano essere le figure più adattabili, più avvezze a difendersi, come i giovani, le donne ed i marginali, quasi a palesare «una speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia dell’Occidente» (p. 41). Non sfugge, però, continua la studiosa, come in diverse produzioni audiovisive recenti questi sopravvissuti, per fondare una nuova società, finiscano col piegarsi nuovamente a regole e consuetudini conservatrici: nel film di Boyle, «Selena smetterà di essere la guerriera autonoma e coraggiosa per divenire (o tornare ad essere) la femmina bisognosa di protezione […] e dispensatrice di cure materne» (p. 41).

Vi sono però alcune importanti differenze tra i due film citati tanto a proposito dell’estensione del contagio che delle cause scatenanti. Da una parte l’insularità britannica del film di Boyle può lasciar pensare che il contagio non si sia propagato “al di fuori” dell’isola mentre diverso è il rapporto tra la Parigi in fiamme di Yannick Dahan e Benjamin Rocher e le sue periferie postcoloniali prive di barriere al contagio. Circa le cause, in 28 giorni dopo l’origine dell’epidemia è palesata nella sperimentazione laboratoriale, mentre La horde sorvola totalmente sulle cause scatenati concentrandosi sulla vita degli umani di fronte alla possibile fine dell’umanità così come conosciuta. Inoltre, se nel film britannico l’umano-rabbioso è mortale, non è un non-morto, nel lungometraggio francese il linving dead rappresentata “l’intramontabilità della catastrofe”.

In comune i due film hanno l’ambientazione urbana e Londra e Parigi rappresentano la metropoli europea centro del potere coloniale in passato e luogo di attrazione per migranti, oltre che di sperimentazione di “pratiche di governabilità”. «La mobilitazione/dislocazione dei corpi secondo le regole del controllo biopolitico e del mercato salta all’arrivo del cannibale la cui corsa frenetica e in gruppo sembra non ammettere barriere di classe, razza e genere. È una marea distruttiva e fagocitante che annulla i dispositivi della segregazione spaziale e della produzione capitalistica incarnate dalle metropoli europee. Lo scenario urbano svuotato dei significati che fondano l’ordine sociale è così la massima espressione del sovvertimento delle regole alla base della società umana come polis» (p. 42).

Come abbiamo visto affrontando il saggio di Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano (Mimesis, 2016) [su Carmilla], l’ambientazione rurale è tipica del gotico americano, ad essa, sostiene Giuliani, si accompagna una vera e propria disumanizzazione cannibalistica rimandante al conflitto tra la costruzione nordista della nazione e dei suoi “altri-interni”. A tal proposito tra gli studi più interessanti occorre citare, anche se datato, il saggio di Sacvan Bercovitch, The american Jeremiad (1978).

Nella serie britannica Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, da noi affrontata nuovamente grazie a Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis, 2016) [su Carmilla], la ruralità rimanda all’isolamento, all’impossibilità di controllare e difendere il territorio e, più in generale, nelle produzioni europee, sostiene Giuliani, l’ambiente agreste rinvia alla «costruzione della barbarie-interna in conflitto con l’urbanità ‘civilizzata’» (p. 42). Vale la pena notare come anche in Dead Set, al pari di 28 giorni dopo e La horde, i cannibali corrano veloci ed in questo caso è evidente l’analogia con la velocità di trasmissione televisiva.

Il film 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle, si concentra sulla questione della “molteplicità” che caratterizza la società londinese, sulla difficoltà di definire una demarcazione netta volta ad escludere il nemico esterno ed a neutralizzare quello interno e sull’immunizzazione della popolazione attraverso la quarantena.

Giuliani segnala come analizzando in sequenza cronologica, i film affrontati – 28 giorni dopo (2002), 28 settimane dopo (2007), Dead Set (2008) e La horde (2009) – è possibile «affermare che la speranza di sopravvivenza infusa dal primo, e tematizzata dal secondo come olocausto del mostruoso, viene drammaticamente distrutta dal terzo e dal quarto, i quali sacrificano progressivamente ogni sogno di sopravvivenza dell’idea di umano – e del suo rapporto tra corpo e mente, vita e morte» (p. 47).

Se in diverse produzioni americane recenti, come World War Z (2013) di Marc Forster, si rintracciano alcune caratteristiche tipiche del cinema di guerra, come ad esempio il palesare una netta dicotomia spaziale, etica e politica tra i contendenti e la possibilità di ripristinare l’ordine internazionale modernamente inteso (meglio se entro la fine del film), nelle produzioni europee come 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set e La horde, secondo Giuliani, non abbiamo l’eroe unico e non vi è superamento definitivo della crisi.

In World War Z quella che inizialmente sembra una critica ad un uso scriteriato delle tecnologie e della scienza si risolve in un’esaltazione delle capacità del maschio bianco occidentale e della razionalità scientifica e militare. Se si confrontano World War Z e Land of the Dead di Romero, si vede come entrambi «pongono al centro la rottura della geometria spaziale umana – spazzata via da un take over zombie irresistibile, per Romero la rottura con la geometria/gerarchia significa una nuova idea di progresso che […] include il post-umano o ha nel post-umano il proprio attore principale. In WWZ la rottura è solo una sospensione di un ordine sociale e politico che viene subito ristabilito e che vede vincitori ‘i migliori, i più bianchi, i più ricchi, i più tecnologici abitanti dell’Occidente civilizzato’» (p. 48).

In una serie di recenti produzioni audiovisive il vivo si deve riconciliare col non-morto e, riprendendo Michel Foucault, si può dire che il potere di “uccidere” (lo zombie) da parte dello Stato lascia il posto al potere di “lasciarlo vivere” (recluso) ed, infine, al potere di “farlo vivere” riabilitandolo, governando il bios dei post-zombie. Dunque i walking dead subiscono un processo di individualizzazione e soggettivazione, divengono “oggetti governamentali” e «devono vivere, al fine di permettere ai vivi di riconciliarsi col trauma dell’apocalissi. E allo stesso tempo essi divengono nuda (post-)vita – un bios molto particolare – la cui ricodificazione sociale e biologica in quanto ‘membri della società’ dipende da medicine che prima i dottori, poi i famigliari, iniettano nella loro spina dorsale. Lo Stato governa sulla loro costruzione biologico-corticale e così facendo, permette alle persone di ricostruire le proprie comunità» (p. 36). I morti viventi si trasformano da minaccia a manifestazione della mutazione (da umana a post-umana) che ha investito le società contemporanee.

Giuliani vede nelle fantasie di vittoria sul contagio presenti in tanta narrazione distopica contemporanea una volontà di riscatto mossa dal senso di colpa «di chi è stato all’origine contagio di se stesso». Abbiamo visto in altri scritti della serie “Nemico (e) immaginario” come il contagio derivi spesso da interventi umani sulla natura. «È il senso di colpa che produce mostri, come lo era in quelle descrizioni dei tropici di fine Ottocento da parte dei medici australiani che sostenevano che l’uomo bianco là desiderava l’indesiderabile, aspirava a ciò che non sarebbe mai riuscito ad ottenere: la sopravvivenza in un ambiente già, o diventato, ostile. Con la differenza che là la natura non doveva essere violata, e nelle narrazioni distopiche contemporanee è la natura violata che si vendica» (p. 36).

revenants456Nel volume vengono passate in rassegna tre recenti realizzazioni audiovisive – Fido (2006) di Andrew Currie, Les revenantes (2012 – in produzione) ideata da Fabrice Gobert ed In the flesh (2013-1914) scritta da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell – che pur nella loro diversità, in un modo o nell’altro, risultano contraddistinte dal grado di precarietà in cui versa un’umanità ormai incapace di governare le conseguenza della guerra e/o della tecnica e del Progresso.

Il film Fido, di produzione americana/canadese, è un horror-comico in cui «la memoria incarnata dalla violenza a cui rimanda la figura dello zombie è quella della schiavitù» (p. 54). Alla fine di una cruenta guerra dell’umanità contro gli zombie una grande azienda realizza un collare in grado di neutralizzare gli istinti aggressivi degli zombie rendendoli mansueti servitori della comunità piccolo-borghese nordamericana. Il film è ambientato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 e questi “zombi addomesticati” sostituiscono quella componente sociale, razziale e di classe maggiormente sfruttata. La nuova figura di schiavo non deve essere riprodotta, non sporca, non mangia ed è ubbidiente al padrone. La tranquilla vita piccolo-borghese della cittadina viene interrotta dall’attacco omicida di cannibali in libertà e la storia «si conclude con il sovvertimento dell’ordine sociale (razziale e di genere) ma non di classe» (p. 56). Il nuovo mondo che pare far capolino a fine narrazione pare essere di quelle «donne per bene, pur sempre angeli del focolare ma ora anche capofamiglia, in cui l’uomo gioca la parte del ‘sottosviluppato’ addomesticato» (p. 56).

Il tema principale della serie Les revenantes è individuato da Giuliani nel “dono” del ritorno dei morti tra i loro cari. Il fatto che i morti tornino alla spicciolata per riprendere il loro posto tra i loro cari nella piccola comunità montana situata accanto ad un’enorme ed inquietante diga crea immediatamente problemi di comprensione e di convivenza a cui si aggiunge il riaffiorare del vecchio paesino dalle acque del bacino idrico che si abbassano misteriosamente. Il riemergere del passato, secondo la studiosa, potrebbe essere «simbolo del riscatto dalla violenza umana sulla natura e il sovrannaturale, la valle sembra utilizzare il ritorno degli oltrepassati come una sorta di vendetta contro chi in quell’area ha continuato a vivere» (pp. 56-57). Resta misterioso il motivo per cui alcuni personaggi tornino in vita più volte così come sono ignote le ragioni per cui questi revenants vengano reclamati da loro simili privando nuovamente le famiglie dei propri cari.

Nella serie In the flash, prodotta dalla BBC, si ha una narrazione molto intimista tra zombie e “scomparsi e poi ritornanti”. Giuliani sottolinea come qui si scavi nei conflitti famigliari di una piccola comunità ed il ritorno di Kieren Walker ha tutte le sembianze di un dono offerto alla famiglia per riparare agli errori commessi precedentemente. Il tutto pare ruotare attorno alla trasformazione dello zombie in una nuova possibilità d’amore e di riscatto. «La storia di Kieren e sua madre ci inducono alle ragioni della scelta, da parte del regista e narratore, del genere zombie e del post-umano per raccontare una storia di marginalità e sofferenza (cagionata da discriminazione di genere, classe e sessualità) all’interno di una piccola comunità inglese: il post-umano e l’Apocalisse, in particolare, sembrano permettere infatti, seguendo le teorie del femminismo materiale, di tematizzare la critica all’epistemologia maschile e bianca, all’antropocentrismo eterosessuale e illuminista e al patriarcato (etero) sessista che è sia matrice della secolarizzazione sia pilastro del potere spirituale della Chiesa» (p. 60). Il ruolo della chiesa è qui decisamente ambivalente; da una parte essa ha contribuito a mantenere unita la comunità nel corso dell’insurrezione ma ha basato tale coesione sull’odio nei confronti dei ritornanti.

Giuliani si sofferma anche sulla sovversione femminile dell’ordine costituto presente sia nel film Fido che nella serie In the flash. Nell’horror-comico Fido le donne americane intendono abbandonare il ruolo di «passive domestiche dedite alla riproduzione del maschio e della sua egemonia tipico dei primissimi anni Sessanta (si pensi alla rappresentazione della domesticità femminile nella serie americana Mad men): sono anche quelle che più nettamente infrangono i tabù sessuali legati alla linea del colore e di classe, e le regole sociali che stabiliscono il confine tra normalità e anormalità» (pp. 60-61). Nel caso di In the flash abbiamo donne che segretamente «costruiscono le reti affettive che sembrano garantire materialmente l’avvento di un futuro ‘migliore’: le madri e mogli dei ritornanti si incontrano in una stanza buia, separata, insieme all’infermiera e madre di Philip, il segretario del vicario (La ragazza madre del paesino), che ha deciso di insegnare loro come ‘medicare’ i propri famigliari PDS [Partially Deceased Syndrome, sindrome del parzialmente deceduto]. È sempre lei che ha creato questo gruppo di ‘autocoscienza’ e ‘autoaiuto’, perché le donne possano raccontare che cosa provano e come riescono a fare i conti con i PDS e la società attorno» (p. 61). Dunque, in qusto ultimo caso, le donne hanno un “ruolo ponte” tra umano e post-umano.

Nella serie la milizia, nonostante comprenda anche donne, secondo la studiosa rappresenta lo spazio semantico della virilità, del maschio, del soldato che custodisce la purezza della nazione e si fonda sulla convinzione che la minaccia è ancora presente pur certificando che la mutazione non è eliminabile. «La milizia si nutre dell’emergenza e, al contempo, la combatte: come per le polizie anti-terrorismo a cui è demandata parte della gestione governamentale del ‘nemico’ all’interno delle società reali, anche nella narrazione distopica il permanere del ‘mostruoso’ come parte integrante della società legittima il controllo di polizia su persone e relazioni. Come per le prassi e il discorso securitario e anti-terrorista posti in vigore dagli apparati di sicurezza britannici a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq e dagli attacchi suicidi del luglio 2005, così anche nel racconto horror di In the flash tutti sono chiamati a fare i delatori e a manifestare, anche dentro le proprie case, la presenza di un PDS. Ma non devono agire da soli contro ‘i ritornanti’: devono piuttosto affidarsi alla milizia, alla polizia, auto-dichiaratasi in charge dell’eliminazione del risorto, come in una ‘società totale’ che non ammette critica né diversità» (p. 61).

Dunque, conclude Giuliani, se guardiamo 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set, La horde, Fido, Les revenants ed In the flash «in continuità con le guerre ‘coloniali’ del secolo scorso […] queste produzioni insistono sul backlash, sugli effetti di ritorno, di una condotta che può, in queste distopie, essere definita coloniale: il nemico è divenuto ‘inestirpabile’, ed è una costante intrinseca all’Europa ‘sin da quando essa è uscita da se stessa per reinventarsi sugli altri continenti. Al suo pari, il mondo degli uomini, nelle narrazioni distopiche prese in considerazione, ha ‘superato i propri confini’. A meno di una guerra che come quella ‘atomica’ potrebbe cancellare l’umano, insieme al post-umano, dalla faccia della Terra, l’apertura ‘della porta coloniale’ ha permesso all’altro, persino al non-morto che viene dall’aldilà, di varcare l’uscio e restare» (p. 62).

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Eroi dello sport https://www.carmillaonline.com/2016/06/13/30867/ Mon, 13 Jun 2016 21:30:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30867 di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano [...]]]> di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Daniele Marchesini.

Marchesini ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma e da molti anni si dedica all’analisi dello sport come fenomeno sociale e culturale, indagando svariati temi (Coppi e Bartali, le Mille Miglia, il Giro d’Italia, il ruolo dello sport nella formazione di un’identità nazionale, la relazione tra sport e totalitarismi). Il saggio più recente di Marchesini è uscito in una collana del Mulino, diretta da Carlo Galli, dedicata al tema dell’eroe in diversi ambiti e discipline.

Nelle prime pagine del volume Eroi dello sport Marchesini definisce l’oggetto della sua ricerca distinguendo tra il campione e l’eroe. Entrambi si caratterizzano per l’assoluta eccellenza delle loro prestazioni che suscitano ammirazione, ma questo non basta per fare di un campione un eroe. Oltre alle numerose promesse mancate, anche grandi protagonisti dello sport – come Indurain nel ciclismo o Phelps nel nuoto – pur accumulando vittorie e medaglie si sono fermati prima della soglia che si apre sullo spazio dell’eroismo sportivo. A differenza dei campioni, gli eroi sportivi assumono una rilevanza che esula dall’originario ambito di appartenenza, entrano nella memoria collettiva, ispirano ideali, rispecchiano valori e attese, costituiscono riferimenti culturali.
D’altronde, si può diventare eroi senza essere vincitori, come nel caso di Dorando Pietri. Il maratoneta carpigiano nel 1908 taglia per primo il traguardo nella gara dei giochi olimpici di Londra ma “perde la vittoria” (sono parole dello stesso Pietri, squalificato a causa dell’aiuto di medici, giudici e assistenti che lo sostengono in prossimità dell’arrivo). Tuttavia mentre Hayes, il vincitore della maratona, cade nell’anonimato, lo sconfitto Pietri “vince” sul piano dell’immaginario collettivo grazie alla trasfigurazione mitica dell’evento. La dimensione dell’eroe è infatti quella del mito, cioè di un sistema di comunicazione «definito non tanto dal suo oggetto, quanto dal modo in cui lo si costruisce e lo si trasmette» (p. 230).

pietriDeterminante nella costruzione dell’eroe sportivo è anzitutto la presenza di un pubblico che segue con grande passione le prodezze del campione e instaura una relazione stabile e fiduciaria con lui, identificandosi con le vicende che, nel bene e nel male, in campo sportivo e extrasportivo, punteggiano la sua carriera e la sua vita. L’eroicizzazione implica inoltre la presenza di un “cantore” capace di narrare le imprese del campione. Nel caso di Pietri è Arthur Conan Doyle – appassionato di sport e presente all’evento come cronista del “Daily Mail” – a celebrare la vicenda in un articolo che rappresenta il corrispettivo scritto della celebre immagine del maratoneta barcollante e distrutto dalla fatica: «Avvenne allora una cosa meravigliosa. Col viso d’un morto, Dorando si rialza, barcolla, le gambe riprendono lo strano incedere automatico: ricadrà? No. Oscilla, tentenna un istante, ed eccolo tagliare il traguardo, raccolto da venti braccia amiche! E’ arrivato all’estremo limite delle forze umane! Mai alcun romano dei primi giorni gloriosi si comportò meglio di Dorando alle Olimpiadi del 1908» (p. 233). Con il suo articolo, il creatore di Scherlock Holmes perfeziona e universalizza l’eroicizzazione di Pietri, trasformandolo in una celebrità mondiale ingaggiata, e profumatamente pagata, per le sue esibizioni in Europa e in America. I maggiori giornali scrivono di lui, il personaggio è acclamato ovunque e il pubblico accorre per vederlo in azione.

Passando in rassegna numerose esperienze sportive, Marchesini analizza gli aspetti culturali, i registri espressivi e i codici comunicativi che alimentano le retoriche della mitografia sportiva, in relazione ai contesti politici e sociali, alle dinamiche specifiche degli sport, al loro carattere individuale o collettivo, alle modalità della loro narrazione.
Un capitolo del saggio è dedicato al mondo classico, nel quale lo sport assume già una dimensione strutturata e caratteri tipici dei fenomeni sportivi moderni (professionismo, tifo, ideologia atletica, celebrazione dei vincitori ecc.). L’attenzione è rivolta però prevalentemente alla contemporaneità in quanto è la società di massa a favorire il radicamento, la diffusione e la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo, in un processo di «familiarizzazione» (p. 8) che lo rende sempre più pervasivo e che si intreccia con la vita quotidiana, con la dimensione politica, le dinamiche sociali, la sfera economica.

Nel primo scorcio del Novecento, i temi che fondano la rappresentazione eroica di figure come Pietri, impegnate in corse di fondo che comportano grande sofferenza, e dell’epopea degli albori del ciclismo, lo sport allora più popolare, sono legati alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure, difficili, povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale. Al pubblico che segue il Giro d’Italia o la Grande Boucle, su strade sterrate in tappe impervie e interminabili, il ciclismo «appare come una variante della lotta per la vita che coinvolge la maggioranza dei lavoratori che, in quegli anni, faticano “da sole a sole” nelle campagne (cioè dall’alba al tramonto), 12-14 ore nelle fabbriche, sette giorni su sette la settimana, in attesa di un avvio di legislazione sociale che interviene solo al principio del Novecento a disciplinare i casi più clamorosi di sfruttamento selvaggio» (pp. 78-79).

coppi-bartaliNel secondo dopoguerra, sono Gino Bartali e Fausto Coppi ad incarnare nuovamente lo sport della fatica come metafora della ricostruzione dopo le tragedie del conflitto mondiale. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico e “razionalista” Coppi).
In un contesto profondamente mutato – quello di un’Europa che sembra «appagata dai risultati di un benessere in continua espansione, che rende la bicicletta un oggetto antiquato» (p. 126) – occorrono altri ingredienti per costruire il mito. Se la grandezza di Coppi veniva esaltata con toni epici e favolistici dai radiocronisti e giornalisti dell’epoca (nel linguaggio sportivo prevaleva il campo metaforico del “volo” o della “regalità”, con espressioni come “dominare”, “librarsi”, “aquila”), le immagini utilizzate per descrivere Eddy Merckx – il ciclista in assoluto più vincente nella storia del suo sport: 445 vittorie tra il 1966 e il 1978 – esaltano invece la potenza atletica pura, con iperboli quali “mostro”, “robot”, “marziano”, «tendenti a suscitare ammirazione e sorpresa nell’ordine dei valori “tecnico-avveniristici”» (p. 126).
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

Oltre al ciclismo, lo sport più popolare nella prima metà del Novecento è il pugilato. Progressivamente addomesticata nella sua originaria carica di violenza e caratterizzata da contenuti di grande raffinatezza tecnica, nell’immaginario collettivo la boxe rimane comunque prevalentemente legata alla «messinscena del corpo forte» (p. 95). Se nel ciclismo il corpo si espone senza nascondimenti sul “cavallo di ferro”, nella boxe il corpo dell’atleta viene portato in prima scena, in uno scontro da solo a solo. Definito da Albert Camus come «lo sport assolutamente manicheo», un rito che semplifica tutto, il bene e il male, il vincente e il perdente, il pugilato mantiene un seguito popolare sino agli anni Sessanta-Settanta, segnati in Italia dalle figure di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti. Come ricorda Marchesini, il 17 aprile 1967 la sfida mondiale tra Benvenuti e Griffith al Madison Square Garden, titolo dei pesi medi in palio, fu trasmessa dalla RAI in diretta solo radiofonica «per non compromettere, a causa dei fusi orari, il sonno degli italiani e le loro capacità lavorative dell’indomani. Il miracolo economico da un po’ di tempo scricchiola e bisogna evitare di incentivare l’assenteismo in fabbrica e negli uffici. Nonostante le preoccupazioni educative e moralizzatrici della RAI monopolista, in più di 15 milioni quella notte puntano la sveglia e si alzano per ascoltare la radiocronaca del trionfo dell’italiano condotta da Paolo Valenti» (p. 98).
L’autore dedica ampio spazio anche alla figura di Cassius Clay, dai primi successi, all’adesione alla fede islamica, al rifiuto di arruolarsi nell’esercito e di partire per la guerra in Vietnam, sino all’incontro con Foreman per il titolo mondiale dei massimi: il 30 ottobre 1974 il pubblico che segue il match (60 mila persone) è tutto con lui «così come i neri di tutto il mondo, in una diretta televisiva che per l’epoca riuniva una platea infinita: 700 milioni di persone». All’ottavo round Muhammad Ali atterra Foreman e si conferma l’eroe non solo di uno sport che quel giorno «tocca vertici mai prima e mai più in seguito raggiunti di partecipazione emotiva, ma anche di ideali di libertà e giustizia» (pp. 219-220).

Quarant’anni prima, era stato il fascismo a utilizzare politicamente le potenzialità del pugilato, sfruttando l’immagine eroica di un altro peso massimo, il friulano Primo Carnera, «capace di sedurre affascinare eccitare il pubblico come una star del sistema divistico» (p. 159). Un capitolo del saggio di Marchesini è dedicato al rapporto tra lo sport e i regimi totalitari, i primi a cogliere le opportunità di controllo delle masse offerte dalla loro passione per lo sport. Il fascismo dà forma all’ideologia dell’“atletismo politico”: il coraggio, la lotta, la forza, l’agonismo sono valori che vengono piegati alla logica del regime e riassunti in una rappresentazione del corpo che mira alla definizione dell’“uomo nuovo” fascista. Oltre a Carnera, che esemplifica in modo evidente l’uso dello sport a fini propagandistici e di ricerca del consenso, altre figure che corrispondono alle aspettative del regime acquisiscono profili eroici: ciclisti come Bottecchia e Binda; Beccali, che trionfa nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932; piloti come Nuvolari e Varzi; i calciatori guidati da Pozzo che conquistano il titolo mondiale nel 1934 e nel 1938.

jesse_owens_berlino_1936Anche la Germania nazista imbocca la strada della mistica sportiva. Ma all’esaltazione dello sport come arena nella quale dimostrare la potenza del regime e la superiorità della razza ariana, culminata nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, tocca una micidiale eterogenesi dei fini: come è noto, a Berlino Jesse Owens – con le sue quattro medaglie d’oro – si afferma come “contro mito”, il “lampo d’ebano” che contraddice col suo stesso corpo, il colore della pelle e una straordinaria forza atletica i principi dell’ideologia hitleriana. Qualche anno dopo, al tempo dell’occupazione della Francia, il nazismo andrà incontro ad un altro inatteso fallimento nel tentativo di umiliare i francesi, oltre che sul piano militare, su quello della simbologia sportiva. Marchesini dedica pagine dense e appassionate alla vicenda del pugile Marcel Cerdan, un francese figlio di pieds-noir. Il 20 settembre 1942 i nazisti organizzano un incontro tra Cerdan e lo spagnolo Josè Ferrer, campione in carica dei welter: «Ferrer sale sul ring avvolto in una bandiera nazista e i suoi secondi indossano l’uniforme della gioventù franchista», «mentre i 16 mila spettatori, quasi in un mormorio, intonano la marsigliese nonostante la presenza di molti alti ufficiali nazisti a bordo ring»; Cerdan domina l’incontro e viene «acclamato come un liberatore dalla folla in delirio» (p. 102).

Nel campo opposto, l’Unione Sovietica non esprime in quegli anni una significativa mitologia sportiva, anche per la diffidenza diffusa nel movimento socialista, sin dalle origini, verso lo sport, considerato un fenomeno borghese, destinato a “distrarre” le masse e a ostacolare la loro presa di coscienza politica. Negli anni dello stalinismo è il lavoro che assurge a mito nella esemplificazione estrema di Stachanov e Marchesini coglie giustamente il nesso tra lo stachanovismo e l’interesse per lo sport manifestato nel dopoguerra dall’Urss e dai paesi satelliti. Attraverso Stachanov «si fa strada nell’immaginario collettivo sovietico l’idea che il primato in quanto tale è possibile e accettabile, se inserito nel progetto di educazione e formazione dello spirito pubblico nazionale, e se obbedisce al ruolo di dimostrazione dei risultati che il socialismo reale rende concreti a vantaggio della comunità». Dopo Stachanov e attraverso la guerra, «nel pantheon d’oltrecortina» il testimone passa dal campione del lavoro al campione dello sport: «tramonta lo stachanovismo ma si afferma il culto dell’individualità straordinaria» (p. 164). Un culto tanto più importante nel momento in cui l’Urss viene ammessa alle Olimpiadi (per la prima volta a Helsinki nel 1952) e deve quindi dimostrare, anche sul piano sportivo, di saper competere con il capitalismo. Gli eroi sportivi sovietici o di altri paesi dell’Est (come Zatopek, Brumel, Bubka, Borzov e molti altri delle discipline olimpiche, nominati da Marchesini, ai quali si dovrebbero aggiungere alcuni calciatori come Jascin) vincendo e stabilendo primati difendono la causa del proprio paese, secondo quanto teorizzato dai dirigenti del movimento sovietico.

Tommie Smith John CarlosMolti altri esempi di “eroismo sportivo”, descritti in modo puntuale da Marchesini, mostrano le diverse sfaccettature del fenomeno e dei personaggi che lo hanno incarnato.
Le olimpiadi sono il palcoscenico di imprese che danno vita a nuovi eroi. A Roma nel 1960 Livio Berruti è un ragazzo “normale” che nulla ha dell’eroe, ma si trova vincere in una contingenza particolare (l’Italia del miracolo economico) che consente la trasfigurazione mitica; Abebe Bikila, primo africano a vincere un oro olimpico, diventa simbolo del «riscatto da condizioni di povertà e di emarginazione» di un continente «più di ogni altro brutalmente saccheggiato» dal colonialismo (p. 91). Nel 1968 a Città del Messico, in un contesto infiammato dai movimenti di contestazione, sul podio dei 200 metri Tommie Smith e John Carlos levano il braccio col pugno guantato del Black Power, un gesto che denuncia le intollerabili condizioni in cui vivono gli afroamericani. Tuttavia, secondo Marchesini, sono “eroi perdenti”: sanzionati pesantemente dai vertici olimpici, subiscono l’oblio istituzionale e l’emarginazione in una «società disposta a garantire rispetto solo in cambio di successi sportivi e sottomissione all’ideologia dominante» (p. 217).

In alcuni casi, la dimensione eroica non è connessa alla forza ma all’estro e alla fragilità. In Brasile, il paese che ha fatto del calcio una religione laica, al mito di Pelè (il calciatore «”apollineo”, cioè perfetto, esemplare, da manuale») si contrappone quello di Garrincha, soprannominato «torto» o «zoppo» a causa del «bacino visibilmente deviato» e della «deformità delle ginocchia»: il suo calcio è «”dionisiaco”, sovrabbondante, tutto genio e sregolatezza», basato sul dribbling con il quale irride l’avversario grazie a una finta che sembra quasi favorita dal suo difetto fisico. Dopo una lunga decadenza «fatta di depressione, alcol, ostinazione a giocare ancora in squadre sempre meno titolate», la sua morte «è annunciata come la scomparsa della “gioia del popolo” (a alegria do povo), secondo il titolo del film girato nel 1962 su di lui […] da Jaquin Pedro de Andrade, uno dei capofila del cinema novo» (pp. 187-188).

Oltre alle individualità, nel saggio di Marchesini spicca la dimensione eroica collettiva legata in particolare ad alcuni sport, come il rugby (è il caso ad esempio degli All Blacks neozelandesi, capaci di suscitare una forma di riconoscimento collettivo che supera le barriere razziali) e il calcio, dal “Grande Torino” che, all’apice delle vittorie, va incontro alla tragedia a Superga nella notte del 4 maggio 1949 (per la tifoseria granata Superga rimane il tempio di una sorta di culto civile) alla squadra del Manchester United che precipita in aereo il 6 febbraio 1958 (non a caso Bobby Charlton, miracolosamente sopravvissuto all’incidente, diventerà l’eroe non solo dell’Old Trafford, lo stadio della squadra, ma dell’intero paese, guidando la nazionale inglese alla vittoria nei mondiali del 1966).

oldtrafford113In diverse pagine del saggio l’autore ritorna sul tema della morte precoce che contribuisce ad eternizzare la grandezza dell’eroe, evidente negli sport motoristici, in cui il rischio è più presente (si pensi a Ayrton Senna, idolo nazionale in Brasile e pilota più amato dagli appassionati di automobilismo), o nelle vicende di campioni del ciclismo come Coppi e Pantani e del calcio come George Best (l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 in seguito a una cirrosi epatica per alcolismo, gli è intitolato l’aeroporto di Belfast e la sua immagine viene stampata su una serie limitata di banconote emessa dalla Ulster Bank). A non dimenticare i campioni morti servono stele, colonne votive, lapidi, busti che punteggiano le strade percorse o campeggiano nei luoghi che hanno conosciuto le loro vittorie. A questa “statuolatria”, come la definisce Marchesini, si accompagna la “stadiolatria” ovvero la rilevanza assunta nei contesti urbani del “monumentale sportivo”: stadi, piscine, palasport, villaggi degli atleti «sono i templi indispensabili all’eroicizzazione dell’atleta vincente, i luoghi sacri in cui celebrare i rituali del culto che ogni quattro anni trova nelle olimpiadi la sua massima espressione» (p. 8).

Attraverso queste ed altre storie si snoda il racconto di Marchesini che si apprezza per la qualità della scrittura, per i puntali ritratti di personaggi noti e di figure inconsuete (almeno per il lettore italiano, si veda tra l’altro il capitolo dedicato al cricket), per la ricchezza di riferimenti storici. Il taglio della ricerca, attenta agli intrecci tra la dimensione sportiva e quella sociale, tende a privilegiare figure assunte come modelli di identificazione collettiva con una funzione unificante di carattere nazionale. Si tratta di fenomeni di indubbia rilevanza, che lasciano però in ombra altri processi di “eroicizzazione” sportiva, costruiti e vissuti come modelli alternativi rispetto alle narrazioni condivise, o figure di “antieroi” riconducibili ad una dialettica con la dimensione epica dello sport, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Anche sul ruolo delle donne, che secondo Marchesini in ambito sportivo raramente innescano dinamiche di identificazione e mitografie (tema discusso nel capitolo dedicato all’“eroismo al femminile”) rimangono aperti percorsi di ricerca in una prospettiva di genere.

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