Caporetto – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 20 Aug 2025 18:30:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il feticcio del Fronte Unico, la concretezza della Rivoluzione (e della controrivoluzione) https://www.carmillaonline.com/2024/01/03/il-feticcio-del-fronte-unico-la-concretezza-della-rivoluzione/ Wed, 03 Jan 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80441 di Sandro Moiso

Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro

Come si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – ed anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente [...]]]> di Sandro Moiso

Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro

Come si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – ed anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente al contrattacco».

Pertanto il Fronte Unico di cui si parla, come è possibile espungere dalle date, è quello intorno a cui si svolse un acceso e combattuto dibattito, sia a livello internazionale che nazionale, negli anni immediatamente successivi a due degli avvenimenti fondativi per le strategie politiche del XX secolo: la prima carneficina mondiale e la rivoluzione russa.

Dibattito aperto dalla convinzione, diffusa nella Terza Internazionale appena fondata, che tale strategia fosse la migliore o la più adatta per togliere dall’impasse l’iniziativa dei partiti comunisti appena formati o in via di formazione. Una tattica che, senza dichiararlo apertamente, andava nella direzione di accelerare la Rivoluzione in Occidente. Sia per liberare dalla schiavitù capitalistica milioni di proletari e lavoratori, che per superare l’isolamento in cui la neonata Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche era venuta a trovarsi durante la Guerra civile, inizialmente foraggiata dalle potenze occidentali tra il 1918 e il 1919.

A questo andava ad aggiungersi la controffensiva della parte avversa che, soprattutto in Italia e in Germania, iniziava ad affidare le sue sorti alle milizie del Fascismo italiano e dei Freikorps tedeschi, in cui avrebbero poi affondato le loro radici le formazioni paramilitari naziste.

Purtroppo, però, l’iniziativa “rivoluzionaria” aveva raggiunto il suo apice proprio durante gli ultimi anni della guerra mondiale, manifestandosi sia con la Rivoluzione russa che con gli ammutinamenti di soldati1 e, talvolta, degli operai e dei contadini, tra il 1917 e il 1919. Anno in cui le armate bianche persero l’appoggio delle armi occidentali su tutti i fronti interni alla Russia, dal Baltico alla Siberia, proprio per lo spirito di rivolta che percorreva ormai le fila dei quindici eserciti occidentali impegnati nella guerra civile russa2.

Tali discussioni e battaglie intorno al Fronte Unico hanno attraversato quella generazione di rivoluzionari, ma costituiscono ancora utile materiale di approfondimento e di riflessione per i militanti di oggi. La tattica all’epoca proposta si proponeva, infatti, di raccogliere le forze, di strappare ai rinunciatari partiti socialisti ed ai sindacati da essi diretti la maggioranza del proletariato in vista di un rilancio dell’”offensiva di classe”.

Dibattito che fu particolarmente vivace in Italia, dove il Biennio rosso aveva riacceso la speranza di ripresa delle lotte, dopo un 1917 che aveva visto il rifiuto dei soldati di continuare a combattere nei giorni di Caporetto3 e l’insurrezione operaia di Torino qualche mese prima. Esperienze tradite entrambe da un Partito socialista che mai immaginò, nemmeno lontanamente, di porsi alla testa o alla direzione di un’insurrezione e, tanto meno, di una rivoluzione.

Motivo per cui i giovani socialisti dissidenti erano giunti alla conclusione, alimentata anche dalle richieste di Lenin e dell’Internazionale Comunista, di dover dar vita al Partito comunista d’Italia a partire da una scissione nel Partito socialista, poi realizzatasi a Livorno nel 19214. Scissione avvenuta comunque in ritardo rispetto ai sommovimenti di classe che, ancora nel 1919, avevano scosso la stabilità sociale e politica del paese, senza giungere però ad un ribaltamento dei rapporti di forza, anche grazie all’incapacità di quegli stessi giovani socialisti di andare oltre un operaismo un po’ troppo rigidamente inteso5.

Il testo di Graziano Giusti si divide in due parti ben distinte, anche se coese nel contenuto: la prima dedicata agli anni del primo dopoguerra (1918-1920) e, sostanzialmente, agli avvenimenti e ai dibattiti intorno al Biennio Rosso e una seconda rivolta agli anni in cui il tema del Fronte Unico esplose nel dibattito (1920-1924). In entrambi i casi, però, rimangono “centrali” le opinioni espresse già allora da Amadeo Bordiga e le critiche all’operato dello stesso, soprattutto alla sua ferma opposizione al coinvolgimento dei gruppi “sportivi” del PCd’I con il movimento degli Arditi del popolo e le loro azioni militari rivolte contro le squadracce fasciste. Opposizione derivante, secondo l’autore, anche da una sottovalutazione dello stesso Bordiga del ruolo e dell’autonomia del Fascismo mussoliniano rispetto sia alla repressione di classe che nei confronti dello Stato borghese e liberale dell’epoca.

Ma, tralasciando il gran numero di argomenti e dibattiti riportati dall’autore all’interno di una ricerca molto ampia e approfondita, ciò che conta sottolineare, almeno per l’estensore di questa recensione, è che ciò che ancora si rischia di non cogliere oggi, ma che forse colse Bordiga all’epoca, è che la fase involutiva del movimento rivoluzionario era iniziata proprio col fallimento delle iniziative autonome di classe sia nell’esercito che nelle fabbriche e nelle campagne di quegli anni e che il dibattito sul Fronte Unico giunse in ritardo rispetto alla reale esplosione rivoluzionaria avvenuta in Europa tra il 1917 e il 1919.

Se, infatti, le condizioni materiali e politiche per una rivoluzione possono covare sotto le ceneri e svilupparsi nel corso di anni, se non di decenni, il momento in cui queste possono effettivamente concretizzarsi è estremamente breve. Proprio nell’aver compreso ciò sta il genio politico e militare di Lenin nel 1917, che pur dovette già muoversi in ritardo a causa dei ritardi e delle incomprensioni del suo stesso partito prima del suo arrivo alla stazione di Finlandia.

Come ha affermato, in anni più recenti, un teorico distante dalle posizioni dell’ortodossia comunista, ma attento lettore di Lenin: «Basta aver vissuto una fase rivoluzionaria, una sola, per capire la complessità degli elementi che entrano in gioco: ma non la complessità fatta per confondere, quella di cui parlano i postmoderni, ma quella invece degli elementi che convergono, che si attraversano e che certe volte bisogna recidere, dove la dose di caso e la dose di volontà restano sempre»6.

La tattica del Fronte Unico, che in seguito si sarebbe trasformata, sotto l’influenza dell’Internazionale stalinizzata, in quella ben più perniciosa dei Fronti popolari, cercava dunque di porre tardivamente rimedio a ciò che non era stato fatto, o si era stati impossibilitati a promuovere, non solo per inadeguatezza politica, negli anni precedenti.

Quello che giustamente sottolinea Giusti, fin dalle prime pagine, è come tutto il “comunismo rivoluzionario” dell’epoca fosse comunque affetto da una ferrea fiducia nel fatto che “la crisi del capitalismo fosse irreversibile” e che “la rivoluzione fosse alle porte”, nonostante si parlasse anche di “fase di ritirata del movimento operaio”. Forzature e giravolte analitiche che finivano col fossilizzare l’azione politica o, perlomeno, con l’indirizzarla su strade difficilmente percorribili.

Anche i dati che il testo riporta a proposito degli scioperi di quel periodo non confortano l’idea della possibilità, all’epoca, di un effettivo rivolgimento sociale, visto che in una parte significativa del mondo occidentale, soprattutto in due paesi usciti comunque vincitori dalla guerra (Gran Bretagna e Stati Uniti), non si elevavano al di là di richieste di miglioramenti salariali e lavorativi che rimanevano pienamente nella tradizione tradunionista senza mai spiccare il volo verso richieste più politiche e radicali.

D’altra parte, anche consultando altri testi più ricchi di dati sul movimento degli scioperi nel corso del XX secolo7, si può cogliere come, quasi sempre, il movimento rivendicativo organizzato più forte nel seno delle fabbriche e della classe operaia sia sgorgato. in maniera impetuosa, più in fasi di crescita economica che non di debolezza o riflusso dell’economia capitalistica.

In tale situazione, infatti, sia la socialdemocrazia che i sindacati ufficiali non potevano ottenere molto e si sono trovati davanti ad una risposta dell’imprenditoria che, seppur diversamente articolata, ha quasi sempre teso a mostrare il suo volto più aspro e deciso nel tentativo di salvaguardare i propri profitti e interessi di classe. Come si può cogliere ancora oggi nelle strategie liberiste e repressive messe in atto dal capitale occidentale, ma non solo.

Strategie che non possono far altro che preludere a nuove guerre piuttosto che a un’intensa ripresa della lotta di classe in chiave rivoluzionaria. Questa, infatti, se verrà in Occidente, esattamente come nel biennio compreso tra il 1917 e il 1919, sarà sulla base di devastanti contraccolpi sociali, economici e militari che metteranno in pericolo la stessa sopravvivenza delle classi subalterne e medie impoverite.

Proprio per questo, ieri come oggi, il tentativo di costruire “fronti” tra forze politiche diverse per indirizzo, tattica e strategia e sindacati egualmente diversi tra di loro, a causa del loro posizionamento “politico”, può risultare un escamotage inutile e, soprattutto, dannoso, indirizzando il movimento di classe verso tattiche e strategie subalterne alle logiche di compromesso che, da sempre, hanno limitato e limitano nei fatti tutti i tentativi di dare vita a quegli stessi fronti.

Lasciando ai lettori la scoperta del ricco dibattito dell’epoca raccolto e, talvolta, riassunto nelle quasi seicento pagine del libro, val ancora la pena di sottolineare come, in fin dei conti, anche l’azione degli Arditi del popolo non potesse consistere in altro che in una difesa di diritti e condizioni di vita e lavoro, acquisite precedentemente, dall’assalto militare, politico ed economico fascista. Mentre, proprio per questo, non avrebbe mai potuto costituire, nemmeno in nuce, il possibile prologo alla formazione di un’armata rivoluzionaria impegnata ad aggredire l’esistente, più che a difenderlo.

Quindi, anche se è giusto cogliere, come fa l’autore della ricerca, le contraddizioni e i limiti teorici e politici di chi all’epoca lottò contro una teorizzazione tattica di cui denunciava i limiti e i compromessi, è anche vero che ciò che circondava davvero quelle scelte e quell’azione politica, talvolta avventate e per altre troppo limitate, era il fatto che la controrivoluzione, in tutte le sue forme, aveva già vinto, essendo venuta meno l’iniziativa di classe dal basso, e che, con l’affermazione di Stalin ai vertici del partito sovietico, avrebbe vinto definitivamente anche nel cuore degli organismi politici che avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia della rivoluzione mondiale.


  1. Sugli ammutinamenti e le diserzioni nelle armate zariste nell’inverno tra il 1916 e il 1917, rimane insuperato: China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti, Roma 2017. Mentre sugli ammutinamenti in Francia si può consultare P. Caporilli, Francia – Anno 1917. Gli ammutinamenti nelle trincee, I Dioscuri, Genova 1989.  

  2. Si veda in proposito, e solo per la parte del fronte Nord, Liudmila G. Novikova, La “controrivoluzione” in provincia. Movimento bianco e Guerra civile nella Russia del nord, 1917-1920, Viella libreria editrice, Roma 2015, in particolare alle pp. 326-331: La campagna militare dell’estate 1919 e la fine dell’intervento alleato.  

  3. Sul clima nell’esercito italiano, prima e dopo Caporetto si vedano: M. Isnenghi, I vinti di Caporetto, Marsilio Editori, Vicenza 1967; E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, Casa editrice Gius. Laterza & Figli, Bari 1968; Q. Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte, Donzelli editore, Roma 2014 e C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti (prima edizione 1921), Vallecchi Editore, Firenze 1995.  

  4. Sullo scontro tra i giovani militanti socialisti e la dirigenza del PSI dell’epoca si vedano: M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine Marxiste, Milano 2022 e L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019.  

  5. In proposito si veda: R. Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek Edizioni, Roma 2006.  

  6. Toni Negri in un’ intervista rilasciata il 13 luglio 2000.  

  7. Si veda, ad esempio, G. P. Cella, Il movimento degli scioperi nel XX secolo, casa editrice Il Mulino, Bologna 1979.  

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La guerra: una questione divisiva, ma dirimente https://www.carmillaonline.com/2022/07/20/la-guerra-una-questione-divisiva-ma-dirimente/ Wed, 20 Jul 2022 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72976 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini… Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini…
Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano fermarsi, a meno di non risalire alle cannonate del 1898 e a Bava Beccaris, saltando a piè pari, o quasi, una stagione straordinaria di lotte e contraddizioni di classe e nella classe: quella intercorsa nel secondo decennio del ‘900, tra l’avvento di Mussolini alla direzione dell’«Avanti», la Prima guerra mondiale e la formazione del nucleo giovane e intransigente che avrebbe costituito una delle componenti più radicali della Sinistra socialista.

Bene hanno dunque fatto i compagni di «pagine marxiste» a ripubblicare in un unico volume due testi di Mirella Mingardo già precedentemente apparsi in altra edizione (Mussolini, Turati e Fortichiari. La formazione della sinistra socialista a Milano 1912-1918, edizioni Graphos, 1992 e 1919-1923. Comunisti a Milano. La Sinistra comunista milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi dalla formazione del Pcd’I all’ascesa del fascismo, pagine marxiste, 2011) rivolti a sottolineare l’importanza che la componente milanese di sinistra del Partito Socialista ebbe nelle lotte e nelle riflessioni che precedettero e accompagnarono lo sviluppo della frazione rivoluzionaria all’interno dello stesso. Fino e oltre la scissione di Livorno nel 1921 che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Entrambi i testi erano da tempo esauriti e vengono oggi riproposti in un’edizione riveduta, ampliata, corretta e corredata da un vasto apparato di note biografiche cui hanno contribuito i redattori dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà.

La lettura si rivela immediatamente stimolante non soltanto dal punto di vista storico, ma anche propriamente politico, poiché quelle battaglie e quei fatti, soltanto apparentemente lontani nel tempo, servono ancora a mettere in evidenza carenze, errori e contraddizioni del nostro tempo. Così, anche se in precedenza non sono mancante le opere storiografiche destinate a ricostruire il travaglio politico e i conflitti sociali di quegli anni, i due testi di Mirella Mingardo permettono di ricostruire e collocare gli stessi temi ed avvenimenti in maniera tale da costituire ancora un termine di paragone per quelli attuali.

Prima di procedere nell’analisi dei contenuti, quello che occorre forse sottolineare è che la narrazione dei passaggi che portarono alla scissione del PSI e alla fondazione di un partito comunista rivoluzionario spesso ha privilegiato tre località “forti” per lo sviluppo della corrente più radicale del socialismo italiano di inizio ‘900 mettendo in risalto Torino, Napoli e Milano spesso nell’ordine qui appena esposto.

Se Napoli, descritta fin dall’Ottocento come la “polveriera d’Italia”1 e successivamente come uno dei principali centri di origine del Comunismo e del Fascismo2, aveva visto la presenza determinante di Amadeo Bordiga tra i giovani militanti che avrebbero intrapreso e guidato la lotta per la rivoluzione e il comunismo, curandone in particolare l’impostazione teorica, Torino, definita in un classico della storiografia del movimento operaio italiano come “operaia e socialista”3, ha fondato il suo primato, oltre che sulla combattività della sua classe operaia e del suo proletariato, sulla presenza di Antonio Gramsci, nonostante i tentennamenti che questi ebbe (insieme a Togliatti, all’epoca decisamente “interventista”) nei riguardi dell’opposizione ferma e radicale nei confronti del primo conflitto imperialista.

In entrambi i casi, però, le sezioni locali del partito socialista erano rimaste in mano alle posizioni riformistiche, mentre soltanto a Milano la sezione, fin da prima della guerra era stata diretta dalla frazione di Sinistra dello stesso partito. Il dubbio a cui si perviene, quindi, è che tale spostamento del baricentro della ricostruzione storiografica a favore di Torino sia stato dovuto, in un ambito di ricerca a lungo dominato dalla storiografia e dagli storici legati a doppio filo al PCI, alla necessità di far crescere a dismisura, dopo la sua morte, la figura e il ruolo svolta da Gramsci, e dall’«Ordine Nuovo», nella nascita e nella formazione del Pcd’I: sia per fornire a Togliatti una copertura autorevole per giustificare le sue infinite giravolte e tradimenti all’ombra della (tutt’altro che amichevole) figura di Gramsci4, sia per sminuire, se non proprio denigrare o rimuovere, le figure di Amadeo Bordiga e dell’ancor più odiato, se possibile, Bruno Fortichiari.

Bruno Fortichiari che si rivela essere, nell’ambito della ricerca di Mirella Mingardo, un autentico e intransigente promotore dell’organizzazione non soltanto del lavoro politico della sezione socialista milanese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma anche dell’opposizione internazionalista alla stessa, una volta scoppiata. Insieme alla sua figura brilla, nell’ambito dell’ organizzazione e dell’agitazione svolta in senso internazionalista e antimilitarista, quella di Abigaille Zanetta (1875-1945), maestra socialista e agitatrice temutissima dalla prefettura milanese e dai vertici moderati e parlamentari socialisti dell’epoca.

Non a caso una donna, in una città e in un’epoca in cui, dall’Italia dei campi e delle fabbriche fino agli scioperi delle giovani operaie di Pietroburgo che diedero inizio alla rivoluzione di febbraio in Russia nel 1917, le donne lavoratrici di ogni età, con o senza famiglia, svilupparono azioni di lotta collettiva che pesarono enormemente sulle politiche dei partiti e le scelte, spesso repressive, degli Stati. Soprattutto prima e durante il primo vero macello imperialista che, oltre tutto, qui in Italia era stato già anticipata dalla guerra di Libia e dall’opposizione che nei confronti di questa si sviluppò in ambito socialista e anarchico.

Se tutta la ricerca sulla Sinistra socialista milanese è profondamente interessante nelle due parti che la compongono, per ragion di brevità, in questo contesto, si è valutato di soffermare maggiormente l’attenzione sulla prima parte, quella che si ferma al 1918 con la fine della guerra.
Periodo burrascoso che vedrà l’ascesa di Benito Mussolini e il suo conseguente allontanamento dal partito, l’affermazione di Fortichiari e dei compagni a lui più vicini alla guida della sezione socialista di Milano e, infine, anche il progressivo attestarsi della componente riformista, guidata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, su posizioni sempre più collaborazioniste con gli interessi del governo e del capitalismo italiano.

Il fatto veramente interessante, nella ricostruzione e analisi di quegli eventi e personaggi, è dato dal fatto che fino a quando la battaglia interna e sulle piazze sarà condotta sul piano della lotta economica e dei diritti dei lavoratori oppure della validità del suffragio universale o, ancora, della corruzione dei quadri parlamentari socialisti più orientati alla collaborazione filo-governativa o la loro appartenenza alla Massoneria, tutte le componenti riusciranno comunque a trovare un equilibrio, per quanto conflittuale, che permetterà alla struttura partito di procedere nel suo cammino. Anche se, come afferma l’autrice:

Sin dai primi mesi del 1912 la divisione già presente nell’ala destra del partito si rivelò insanabile, sia nel convegno nazionale contro la guerra organizzato a Milano dai riformisti di sinistra, che nel dibattito avvenuto alla Camera per ratificare il decreto reale di annessione della Libia. In questa sede i contrapposti interventi di Bissolati (che pur criticando l’impresa libica manteneva il suo appoggio al Ministero Giolitti) e di Turati (che espresse l’opposizione della sinistra alla politica governativa) sancirono pubblicamente la scissione fra i due riformismi5.

Di tale situazione poterono approfittare da una parte la Frazione rivoluzionaria, che nel giro di poco tempo riuscì a conquistare la maggioranza delle sezioni di un certo rilievo, anche se, come si afferma ancora nel testo, «l’ascesa dei rivoluzionari fu soprattutto “il frutto di uno sforzo di carattere organizzativo” che non corrispondeva ad un radicale rinnovamento “di idee e di programmi”»6. Dall’altra lo stesso Mussolini che, dopo esser da poco rientrato nelle fila del partito, al successivo XIII congresso del Partito Socialista, tenutosi a Reggio Emilia il 7 luglio del 1912, riuscì ad ottenere l’espulsione dal partito dei deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, individuati come rappresentanti della destra riformista.

Episodio che, dopo il tentativo fatto da Bonomi di presentare le scelte parlamentari della destra come sforzo di riconciliazione con lo Stato per «imbeverlo della forza operaia e popolare» in attesa di porre fine al «divorzio tra capitale e lavoro», sancì la prima significativa scissione nella storia del Partito Socialista7.
In tale contesto occorre cogliere l’affermazione delle forze più giovani e intransigenti del partito raccolte in buona parte nella federazione giovanile, ma anche «lo sviluppo di nuove forze sociali che la lunga depressione e la guerra libica avevano contribuito a creare»8.

Mentre già il primo conflitto mondiale andava accumulandosi a livello economico, militare e politico, fu possibile un breve periodo in cui le forze radicali interne al Partito socialista, il sindacalismo rivoluzionario e quello della Confederazione Generale del Lavoro poterono convivere, anche se in maniera spesso conflittuale, con l’ala riformistica del partito stesso.
Ma il colpo di pistola di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe significato non solo l’avvio di un conflitto tra imperi non più procrastinabile, ma anche il processo che avrebbe dato inizio al disfacimento della Seconda Internazionale e dello stesso partito socialista italiano.

Ed è proprio nel corso dell’anno che separò l’inizio delle ostilità tra le forze della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, che tutti i nodi vennero al pettine, dimostrando come la questione dell’atteggiamento da tenersi nei confronti della guerra imperialista sia sicuramente estremamente divisiva ma, anche, dirimente più di qualsiasi altra sul piano delle politiche riformistiche, nazionaliste oppure rivoluzionarie.

Fa bene la Mingardo a sottolineare come Mussolini, indicato sempre come unico e vero traditore delle posizioni neutraliste del partito italiano, fosse in realtà in buona compagnia sia all’estero, dove i partiti socialisti tedesco e francese furono prontissimi ad approvare i crediti di guerra, sia in Italia dove sia all’interno del Partito che tra le altre forze di opposizione, sindacali e finanche anarchiche, furono tantissime le “conversioni” alla causa della guerra.

La prime contraddizioni inizieranno a manifestarsi proprio durante la cosiddetta “settimana rossa”, quando nel giugno del 1914, preceduta dagli scioperi dei ferrovieri e delle sigaraie, si sviluppò a partire da Ancora un movimento insurrezionale, che si estese in breve tempo ad altre regioni e che metteva insieme l’antimilitarismo con la protesta sociale per le condizioni salariali e di vita. Come annota la Mingardo:

Gli scontri sanguinosi della città marchigiana e la protesta spontanea che a macchia d’olio si estese in tutta la penisola non furono soltanto la reazione alla lunga serie di eccidi che distinsero l’Italia post-unitaria, ma rappresentarono nuovamente l’esplosione di una latente e disordinata carica rivoluzionaria delle forze proletarie.
Se sorprendente è l’assenza del partito, colto alla sprovvista dalla vastità del moto, ancor più sorprendente è l’assenza di Mussolini […] Il paese si rivolge al partito e al giornale, invoca una parola d’ordine, più volte preannunciata, “ma dietro la carta stampata dell’«Avanti!» non c’è niente”9

Citando Bozzetti, autore di Mussolini direttore dell’«Avanti!», aggiunge poi ancora: «Dopo aver predicato per anni la guerra, dopo aver identificato nel militarismo il nemico numero uno, dopo aver seminato l’odio contro le istituzioni militari […] quando scocca l’ora X Mussolini non è al suo posto»10.
L’ex-rodomonte socialista iniziava così a mostrare di che pasta fossero fatte le sue “radicali” affermazioni e a scivolare lungo il pendio che ben presto lo avrebbe portato tra le braccia dell’interventismo, del nazionalismo patriottardo e del militarismo stesso.

Il contesto in cui finirono col confrontarsi le differenti e irriducibili posizioni sulla guerra si rivela, attraverso le pagine del libro, non molto diverso da quello odierno, soprattutto per quanto riguarda il malessere che ben presto iniziò ad esplodere tra le classi popolari oltre che per il lento scivolamento verso la stessa proprio di quelle posizioni che pur volendosi “neutraliste” iniziarono a manifestare un atteggiamento decisamente anti-teutonico, pur dichiarandosi ancora non favorevoli ad un’entrata in guerra. Insomma un neutralismo che manifestava, nella sostanza una particolare avversione per uno dei contendenti del conflitto: quello austro-ungarico.

Posizione che iniziò a rivelare come le dichiarazioni indipendentiste e patriottiche di irredentisti come Cesare Battisti spingevano, inequivocabilmente, alla guerra nei confronti degli usurpatori delle “terre italiane”. Come afferma in un suo testo Luigi Cortesi, citato dall’autrice:

Questi atteggiamenti (anti-teutonici-NdR) ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filio-intesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti11

Mussolini nel frattempo, infiammando l’«Avanti!» con titoli come L’orda teutonica scatenata in tutta Europa, spingeva nella stessa direzione, oltre tutto rendendo ancora più evidente la sua tendenziosità nella cronaca bellica in cui, nonostante l’agosto del 1914 si fosse rivelato un mese di disfatte per gli eserciti dell’Intesa, i titoli del giornale socialista davano l’impressione che in realtà stessero vincendo. L’antitriplicismo però non era patrimonio del solo Mussolini poiché

da destra a sinistra il disorientamento percorreva il partito. Accanto alle dichiarazioni di alcuni riformisti (quali Treves12, Turati, Mondolfo, Graziadei) favorevoli alla “neutralità relativa”, emergevano le conversioni dei sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Decio Becchi, Livio Ciardi; dell’anarchica Maria Rygier13.

Mentre i partiti della cosiddetta sinistra finivano con lo schierarsi per un aiuto reale alle democrazie occidentali, l’unica voce a levarsi chiaramente contro la guerra fu quella di Amadeo Bordiga che, in un articolo pubblicato sull’«Avanti!»14, denunciava «le simpatie di “molti compagni” verso l’Intesa e demoliva le artificiose distinzioni tra guerra di offesa e guerra di difesa. La borghesia di tutti i paesi era la vera responsabile del conflitto o, meglio, lo era “il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica” aveva “ingenerato il sistema dei grandi armamenti”»15.

Bruno Fortichiari, collocandosi su altrettanto chiare posizioni intransigentemente antimilitariste e anti-imperialiste, poneva sullo stesso piano i blocchi contendenti, poiché l’Italia non doveva assolutamente lasciarsi «sedurre dalle sirene della Duplice Alleanza e della Triplice Intesa che indubbiamente prevedeva e attendeva l’aggressione per soffocare la Germania militarista e imperialista sì, ma anche forte concorrente nel campo industriale e coloniale»16.

Ma il testo edito da «pagine marxiste» ci rinvia al presente non soltanto dal punto di vista delle contrapposizioni ideologiche e politiche.

I paesi del vecchio continente non poterono sfuggire alla crisi generale che investì l’Europa allo scoppio della grande guerra. Sin dall’estate del 1914 l’economia italiana si trovò a fare i conti con il blocco navale inglese che impediva l’accesso nel Mediterraneo alla flotta della Triplice. Il provvedimento comportò l’aumento vertiginoso dei noli marittimi e “l’interruzione totale del traffico via mare da e per la Germania e l’Austria-Ungheria, e la più stretta dipendenza dall’Inghilterra per i rifornimenti”.
La mancanza di materie prime o il rallentamento nella loro fornitura, i provvedimenti governativi sulle restrizioni del credito e del commercio con l’estero, ebbero un’immediata ripercussione nell’economia: alle gravi carenze del mercato corrisposero il rialzo del costo della vita e l’aumento preoccupante della disoccupazione […] A peggiorare le condizioni di vita della sempre più numerosa popolazione disoccupata, contribuì la lievitazione del prezzo del pane. L’aumento incontrollato dell’alimento base fece scoppiare ovunque il grido di rivolta17.

Tumulti si ebbero a Bari, Caltanisetta, Napoli, Palermo, Catania, Pisa, Molfetta, Bitonto, Faenza con una forte presenza femminile all’interno delle stesse, spesso violente, manifestazioni affrontate con violenza superiore da parte dello Stato e con la dichiarazione dello stato d’assedio in alcune città coinvolte. Mentre, allo stesso tempo, il Governo e le forze di polizia permettevano e giustificavano le manifestazioni interventiste, spesso gonfiate artificialmente nei numeri ad uso della propaganda a favore della guerra.

Milano sia nel 1914 che nell’opposizione alle “radiose giornate di maggio” del 1915 fu spesso in prima linea con i suoi proletari, le lavoratrici e anche le donne della campagna circostante che protestavano sia per il peggioramento delle condizioni di vita che per il fatto che mariti e figli fossero stati richiamati o chiamati per la prima volta alle armi, aggravando così le già difficili condizioni economiche famigliari.

Di fronte all’inevitabile, la direzione del partito indirizzò al proletariato l’ultimo e drammatico manifesto inteso a separare le proprie responsabilità da quella delle correnti che avevano voluto la guerra. La lotta veniva rimandata al dopo, alla fine del conflitto. Il partito intanto si poneva “in disparte” – come scrisse l’«Avanti!» del 24 maggio 1915 – lasciando che la borghesia facesse la sua guerra18.

Fingendo una patina di nobiltà morale, la dirigenza socialista nazionale abbandonava definitivamente al suo destino un proletariato ancora combattivo che, però, avrebbe potuto essere indirizzato soltanto da un’organizzazione totalmente dedita al rovesciamento rivoluzionario dell’esistente, cosa che, certamente, il PSI non era e non voleva essere nella maggioranza della sua rappresentanza parlamentare e intellettuale.

Ma a gettare ancora benzina sul fuoco mai spento delle braci insurrezionali e rivoluzionarie giunsero nel 1917 le notizie provenienti dalla Russia e dalla rivoluzione che si era andata sviluppando colà. Fu così che nel maggio dello steso anno a Milano e poi ad agosto a Torino tornarono a svilupparsi violente azioni di massa contro la guerra, in cui la classe operaia, ancor prima dei militanti del partito fu in prima linea e sulle barricate.

E proprio a Milano, durante quelle manifestazioni portate avanti in maniera estremamente dura proprio dalle donne, Turati ebbe modo di osservare quaanta fosse la distanza che ormai separava l’ala riformista dalle masse che pretendeva di rappresentare in parlamento.
«Vogliono far la pelle ai signori – scrisse infatti ad Anna Kuliscioff – fra i quali, beninteso, siamo anche noi»19.

Prima della spesso e oggi fin troppo bistratta scissione del 1921 a Livorno, a rompere con il riformismo del PSI fu prima di tutto il proletariato delle grandi città industriali oppure trasferito al fronte e in divisa nel 1917.
Poi, nel novembre dello stesso anno, arrivò anche la risposta di migliaia di soldati italiani che autonomamente, e ancora una volta lasciati soli e privi di qualsiasi indicazione politica, abbandonarono il fronte e le trincee a Caporetto. Mettendo in pratica, senza magari neppure conoscerla, la parola d’ordine che era corsa lungo i fronti di guerra a partire dalla Francia: Facciamo come in Russia!

Ma la direzione nazionale del partito e Turati in particolare avrebbero continuato a procedere sulla linea di una sempre più stretta collaborazione col Governo in carica, sventolando la bandiera della “necessaria solidarietà” nei confronti dei profughi in fuga dal territorio profondo 70 chilometri in cui erano penetrate le truppe della Duplice, occupandolo. Un vero record nello sfondamento delle linee, visto che all’epoca la guerra permetteva di avanzare al massimo di qualche centinaio di metri al giorno.

La mobilitazione governativa e poliziesca affinché lo scontento interno non raggiungesse i soldati delle trincee si era già manifestata precedentemente, mentre i ferrovieri trasportavano verso le truppe al fronte i volantini inneggianti alla protesta e alla rivolta che la Sinistra intransigente cercava di diffondere a tutti i livelli. Nelle fabbriche, d’altra parte, il clima era diventato irrespirabile per le maestranze, poiché anche i lavoratori dovevano ormai rispondere ad un’autentica mobilitazione e militarizzazione del lavoro, in cui anche gli scioperi avrebbero potuto esser trattati come tradimento e diserzione.

Michele Fatica, citato dalla Mingardo, ha scritto in proposito:

Niente poteva essere più ben accetto alla borghesia industriale quanto la riduzione dell’operaio salariato alla condizione di lavoratore forzato. I dipendenti delle aziende dichiarate ausiliarie passano sotto la giurisdizione militare, quindi gli scioperi e le assenze ingiustificate vengono configurati come reati di ammutinamento o di diserzione20.

Dopo Caporetto alla vigilanza poliziesca e militare si aggiunse l’appello dei riformisti e di Turati alla collaborazione per un “governo di unità nazionale” per superare il ”difficile momento”. In antitesi con le affermazioni di Abigaille Zanetta, che aveva sostenuto che i socialisti dovevano «guardare a tutto ciò che si agita e si muove nelle masse, col proposito di assisterle, solidarizzare con esse, per averle collaboratrici al raggiungimento dei nostri ideali», Turati aveva già precedentemente affermato che «”solo l’isterismo e l’impulsività” potevano consigliare movimenti di folle, mentre l’azione del partito socialista doveva esser guidata “dalla riflessione e dalla ragione”»21.

Nell’estate precedente Caporetto, Lazzari (segretario del PSI dal 1912 al 1919) aveva rivendicato al partito “una tradizione di miglioramento sociale e di bontà” che non permetteva di contestare “il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese natio”, mentre dal fronte della futura frazione comunista la Zanetta

si soffermò sull’annoso dibattito riguardante il rapporto tra socialismo e patria e, negando a quest’ultima la propria “essenza”, sostenne “la necessità di demolirla”. L’oratrice inoltre affermò che la pace non doveva essere il fine ultimo del partito, anzi, a guerra conclusa, questo doveva “approfittare dei momenti di debolezza della classe capitalista per abbatterla” e facilitare l’avvento del socialismo22.

Bordiga già in precedenza aveva negato che compito del partito fosse quello di risolvere i problemi creati dal capitalismo stesso e che questo era impossibilitato, per proprie dinamiche, a risolvere.
Tutte queste affermazioni dimostrano che l’opposizione di sinistra era ormai passata ad una «matura scelta di classe che la guerra aveva contribuito a far emergere»23.

Lo spazio concesso da un articolo e da una recensione impediscono di approfondire maggiormente l’analisi di un testo che si rende indispensabile per chiunque voglia non solo approfondire la storia del movimento operaio e della Sinistra Comunista, ma anche per tutti coloro che, nella confusione oggi imperante sul tema della guerra, vogliano trovare un modello comportamentale e di analisi che superi con un subitaneo colpo d’ala tutte le inutili discussioni su guerra di aggressione o di difesa “dei patri confini”, diritti “umani” e tutte le altre infingardaggini liberal-democratiche che offuscano la reale funzione della guerra nella stagione, non ancora finita, degli imperialismi che già avevano infiammato i fronti europei di inizio ‘900, ottenendo però allora una ben diversa risposta politica e di classe. A Zimmerwald, Kienthal, Pietrogrado, Milano e Caporetto.

Poiché oggi come allora, la guerra tra stati e imperi, a differenza di quanto troppo spesso si afferma o si crede, non costituisce affatto un’eccezionalità in regime capitalistico, l’azione contro la stessa non può essere guidata ad un’impossibile unità di intenti tra forze agite da interessi diversi tra di loro, ma soltanto da una chiara visione del suo divenire e del necessario superamento delle contraddizioni insite nel modo di produzione che l’ha generata come inevitabile conseguenza della sua sfrenata ricerca di controllo delle ricchezze, dei mercati e delle risorse disponibili a livello planetario (lavoro umano compreso).


  1. Si veda: Giulio De Martino, Vincenza Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori Editore, Napoli 2004  

  2. Si veda ancora: Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971  

  3. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1958  

  4. Si vedano: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, (a cura di Chiara Daniele), Einaudi, Torino 1999 e Giancarlo Lehner, La famiglia Gramsci in Russia, Mondadori, 2008  

  5. M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 25-26  

  6. M. Mingardo, op. cit., p. 26  

  7. op. cit., p. 27  

  8. Ibidem, p. 26  

  9. Ibid., p.99  

  10. G. Bozzetti, Mussolini direttore dell’«Avanti!», Feltrinelli 1979, pp. 160-163 cit. in Mingardo, op.cit., p. 99  

  11. L. Cortesi, Le origini del PCI. Vol. I Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza 1977, pp. 86-87, cit. in Mingardo, op. cit., p. 108  

  12. Che avrebbe dichiarato che la neutralità non era “un dogma, un imperativo categorico” e che “il vantaggio che oggi si conclama domani può non ravvisarsi più”. Non neutralità “passiva” dunque, ma “attiva ed energica” in La nostra neutralità, «Critica Sociale» (rivista teorica del partito diretta da Filippo Turati), 15-31 agosto 1914  

  13. M. Mingardo,op. Cit., p.109  

  14. A Bordiga, In tema di neutralità. Al nostro posto!, «Avanti!», 13 agosto 1914  

  15. M. Mingardo, op. cit., p. 111  

  16. B. Fortichiari, Abbasso la guerra!, «La Battaglia Socialista», 12 settembre 1914 cit. in Mingardo, op. cit., p.115  

  17. ibidem, pp140-141  

  18. ibid., p. 166  

  19. F. Turati-a. Kuliscioff, Carteggio, vol.IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, p. 501, lettera del 3 maggio 1917, cit. in Mingardo, op.cit., p. 206  

  20. M. Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, p.428 cit. in Mingardo, op. cit, p.210  

  21. Mingardo, op. cit., p.213  

  22. ibidem, p.225  

  23. ibid., p.226  

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Armi letali /2: Aggressione militare, difesa della Patria e disfattismo rivoluzionario in un articolo di Amadeo Bordiga del 1949 https://www.carmillaonline.com/2022/06/27/armi-letali-2-aggressione-e-difesa-della-patria-e-della-nazione-in-un-articolo-di-amadeo-bordiga-del-1949/ Mon, 27 Jun 2022 20:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72465 [In tempi in cui pretesi filosofi “marxisti” come Slavoj Zizek dichiarano che non è di sinistra chi non appoggia l’invio di armi all’Ucraina, potrebbe rivelarsi estremamente utile la rilettura di un testo, apparso per la prima volta sul n° 13 del 1949 della rivista «Prometeo» del Partito Comunista Internazionalista, in cui si dimostra come tanta parte del dibattito contemporaneo, spesso confuso e sconclusionato (soprattutto nel caso in cui si parli di Patria, diritti, aggressione, diritto alla difesa, Nazione e guerra) sia stato ampiamente anticipato e superato da riflessioni che soltanto la solerte [...]]]> [In tempi in cui pretesi filosofi “marxisti” come Slavoj Zizek dichiarano che non è di sinistra chi non appoggia l’invio di armi all’Ucraina, potrebbe rivelarsi estremamente utile la rilettura di un testo, apparso per la prima volta sul n° 13 del 1949 della rivista «Prometeo» del Partito Comunista Internazionalista, in cui si dimostra come tanta parte del dibattito contemporaneo, spesso confuso e sconclusionato (soprattutto nel caso in cui si parli di Patria, diritti, aggressione, diritto alla difesa, Nazione e guerra) sia stato ampiamente anticipato e superato da riflessioni che soltanto la solerte opera di rimozione e censura preventiva esercitata dallo stalinismo togliattiano e dai suoi epigoni (rispetto ai quali Gabrielli e Urso sembrano soltanto dei principianti) ha potuto tener lontano da un pubblico antagonista e antisistemico desideroso di trovar risposte alle necessità di lotta e opposizione poste all’ordine del giorno dalle sempre più pressanti contraddizioni socio-economiche e interimperialiste. Il testo è stato lasciato nella sua integrità, evidenziandone in grassetto le parti più significative, anche per mantenerne intatte l’ironia e lo stile di Bordiga, che mai si era definito filosofo e mai aveva dimenticato l’undicesima tesi di Karl Marx su Feuerbach. Unico nel suo tempo e ancora in quello attuale e per questo ancora ben confacentesi a ciò che contraddistingue generalmente i testi pubblicati su Carmilla. Sandro Moiso]

Aggressione all’Europa

Guerre di difesa e di aggressione, grossa polemica allo scoppio del conflitto europeo nel 1914 su questa distinzione, nei riguardi dell’atteggiamento dei socialisti.
Per i benpensanti è un quesito semplice, al solito. Governo, Stato, Patria, Nazione, Razza, senza andare troppo per il sottile, sono assimilati ad un unico soggetto con ragione torto diritto e dovere, come tutto si riduce alla Persona Umana, e alla dottrinetta sul suo comportamento, pigliala vuoi dalla morale cristiana, vuoi dal diritto naturale, vuoi dall’innato senso della giustizia e dell’equità, e quando si parla più difficile dalla eticità dell’imperativo categorico. E allora come l’uomo giusto e alieno dal male, se assalito, si difende dall’aggressore – lasciando per un momento da parte l’affare dell’altra guancia – così il Popolo assalito ha diritto di difendersi, la guerra è cosa barbara ma la difesa della patria è sacra, ogni cittadino deve democraticamente pronunziarsi per la pace e contro le guerre, ma dall’attimo in cui il suo Paese è aggredito deve correre alla difesa contro l’invasore! Questo vale per il singolo, vale per tutta la Nazione fatta Persona, vale dunque anche per i partiti a loro volta mossi e trattati come soggetti personificati nei loro obblighi, vale per le classi.
Ne venne fuori il tradimento generale del socialismo, il guerrafondaismo su tutti i fronti, il trionfo in tutte le lingue del militarismo. E non meno ovviamente non ci fu guerra che lo Stato e il Governo che la conducevano non qualificassero di difesa.

La polemica marxista naturalmente fu impostata sgombrando il campo di tutte quelle fantomatiche persone ad una testa, a più teste, o senza testa, o senza testa e colla testa altrui sul collo, riponendo al loro posto il carattere e la funzione di quegli organismi che sono le classi, i partiti, gli Stati, aventi una propria dinamica storica per indagare la quale a nulla servono i buoni principii morali.

Si rispose ai borghesi che i proletari non hanno patria e che il partito proletario persegue i suoi fini colla rottura dei fronti interni, cui le guerre possono offrire ottime occasioni; che non vede lo sviluppo storico nella grandezza o nella salvezza delle nazioni; che nei congressi internazionali era già impegnato a spezzare tutti i fronti di guerra cominciando ove meglio si poteva.

Si dispersero in una lunga lotta non solo verbale i falsificatori del marxismo, i quali in vari modi e in varie lingue si provarono a smantellare la teoria che il proletariato può costituirsi in classe nazionale, in primo tempo, solo con l’attuare contro la schiacciata borghesia la sua dittatura, come Marx insegnò, e vi sostituirono l’altra, spudorata, che esso e il suo partito assumono carattere nazionale sol che la democrazia politica e il liberalismo siano stati attuati.

Si chiarì lungamente come siano diversi i problemi delle conseguenze che le guerre, il loro procedere e il loro scioglimento hanno sulle vicende interne e mondiali della lotta di classe socialista e, del comportamento del partito socialista nei paesi in guerra, essendo condizione di ogni sfruttamento di condizioni nuove o di nuove fragilità di regimi, la continuità, la autonomia, la fiera opposizione classista, la disposizione teorica e materiale alla guerra sociale interna, del partito rivoluzionario.

Negata ogni adesione alla guerra degli Stati o dei governi, cadeva ogni discriminazione sulla guerra di difesa o di offesa, ogni scusante che da tali oblique distinzioni potesse sorgere per giustificare il passaggio dei socialisti nei fronti di unione nazionale.
D’altra parte la vacuità dei confronti colla zuffa di due persone sta nella diversa portata dei concetti di aggressione e di invasione. Anche i due mocciosi in rissa badano a berciare che il primo è stato lui, ma quando si invoca la integrità del territorio il caso è molto diverso. Nelle guerre di una volta, e in larga misura nella Prima Guerra Mondiale, la guerra pesava sull’incolumità dell’individuo in quanto soldato spedito a combattere, ma il rischio di morte per il civile lontano dal fronte era praticamente nullo. Se invece un territorio veniva invaso dall’esercito avversario, ecco sorgere il solito quadro della distruzione dei beni delle case dei focolari della famiglia, la violenza sulle donne e sugli indifesi e così via, tutto materiale di propaganda cui si fece largo ricorso per trarre i partiti socialisti nell’agguato. Anche il lavoratore nullatenente, si disse, maturo a lottare per i fini di classe, ha qualcosa da perdere e vede minacciati vitali suoi interessi in senso materiale ed immediato, se un esercito nemico invade la città o la campagna in cui vive e lavora. Deve dunque correre a ributtare l’invasore. Tesi letterariamente robusta. Siamo alla difesa organizzata nel castello dell’Innominato contro i Lanzichenecchi predoni, siamo al ritmo della Marsigliese: ils viennent jusque dans nos bras égorger nos fils et nos compagnes…

In risposta a tante piacevolezze i marxisti stabilirono cento volte che senza affatto rinunziare alla valutazione, critica e storica, dei caratteri distintivi tra guerra e guerra nella loro ripercussione sugli sviluppi delle lotte sociali e sulle crisi rivoluzionarie, tutti questi motivi di giustificazione della guerra, usati al fine di trovare carne da cannone e disperdere i movimenti e i partiti che traversano la strada al militarismo, sono inconsistenti e si distruggono tra di loro. Il motivo abusatissimo dell’aggressione e quello non meno sfruttato dell’invasione possono stare in contrasto. Uno Stato può prendere l’iniziativa della guerra ma, se ha dei rovesci militari, la sconfitta può esporre in breve i suoi territori all’invasore, come dalla già ricordata togliattiana teoria dell’inseguimento dell’aggressore.

Non meno contraddittori sono gli altri famosi motivi tratti dalle rivendicazioni nazionali e irredentiste, e quelli che molti marxisti di bocca buona allinearono per giustificare l’appoggio a guerre coloniali, che valevano a diffondere in paesi “barbari” i caratteri della moderna economia capitalistica. La guerra anglo-boera del 1899-900 fu una palese aggressione, i coloni boeri di razza olandese difesero la patria la libertà nazionale e il territorio violato, ma i laburisti riuscirono a giustificare come progressiva la impresa britannica. Nel maggio 1915 quella dell’Italia all’Austria ex-alleata fu palese aggressione, ma la giustificarono – i vari socialtraditori – col motivo della liberazione di Trento e Trieste e con l’altro della “guerra per la democrazia”, senza imbarazzarsi del fatto che dall’altro lato l’Austria-Ungheria era alle prese con gli eserciti dello Zar.

Un caso classico è riportato nel libro interessantissimo di Bertram D. Wolfe Three made a revolution1, vera miniera di dati storici, con ogni riserva sulla linea propria dell’autore.
Il 6 febbraio 1904 i giapponesi, alla Pearl Harbour, attaccano e liquidano la flotta russa davanti a Port Arthur senza dichiarazione di guerra. Palese aggressione. Dopo il lungo assedio da terra e da mare la cittadella cade nel gennaio del 1905. Lutto nero per il patriottismo russo. Nel Vperiòd del 4 gennaio 1905 Lenin scrive frasi come le seguenti: “Il proletariato ha ogni motivo di rallegrarsi… Non il popolo russo ma l’assolutismo ha subito una disfatta vergognosa: la capitolazione di Port Arthur è il prologo della capitolazione dello zarismo. La guerra è lontana dalla fine ma la sua continuazione solleva ad ogni passo l’inarrestabile fermento ed indignazione delle masse russe, ci porta più vicini al momento di una nuova grande guerra, la guerra del popolo contro l’assolutismo”.

Tutta la questione merita maggiori analisi se si vuol chiarire l’insieme dei problemi sui rapporti storici tra assolutismo borghesia e proletariato, sciogliendo mediante la dialettica marxista la pretesa contraddizione che il citato autore vede tra i tempi storici della dottrina e dell’opera leninista – ci basti ora notare che lo scritto dell’esule isolato vive dello stesso contenuto della gigantesca battaglia rivoluzionaria russa del 1905, sorta dalla disfatta nazionale pochi mesi oltre.

Passano quarant’anni e il 2 settembre del 1945 il Giappone battuto dagli Americani colle atomiche di Hiroshima e Nagasaki capitola senza condizioni. Benché la Russia non abbia dichiarata la guerra ai nipponici che nelle ultime ore, il Maresciallo Stalin dirama un Indirizzo di Vittoria, che testualmente dice: “La disfatta delle truppe russe nel periodo della guerra russo-giapponese lasciò un ricordo doloroso nelle menti dei nostri popoli. Fu una oscura macchia sul nostro paese. Il nostro popolo ebbe fede ed attese il giorno in cui il Giappone sarebbe stato disfatto e la macchia cancellata. Noi della vecchia generazione abbiamo atteso questo giorno per quarant’anni. Ed ora questo giorno è venuto!”.

La suggestiva storia delle adesioni alle guerre fornisce dunque argomenti decisivi in sostegno del disfattismo rivoluzionario di Lenin, della norma tattica che i partiti proletari non possono in questo campo entrare nella via della minima concessione, senza porre la classe operaia alla mercé delle mosse degli Stati militari. Basterà che questi creino con un breve telegramma la mossa irreparabile, perché il pericolo per la nazione il suo suolo e il suo onore sia determinato, ed ogni sensibilità a tali argomenti sarà la rovina del movimento di classe nazionale e internazionale.
Quando l’aggressione italiana del 1915 condusse col rovescio di Caporetto alla invasione, si fece vacillare la meritoria opposizione dei socialisti italiani, nel grido di Turati: “La patria è sul Grappa!” malgrado che il suo fratello intellettuale Treves avesse osato ammonire: “Un altro inverno non più in trincea!”.

Più ancora, gli Stati borghesi e i partiti di governo coniarono la teoria degli spazi vitali, della invasione preventiva, della guerra preventiva, motivandola con argomenti di salute nazionale. Motivi tutti non privi di reale consistenza storica, ma che non devono smuovere i rivoluzionari, come non devono smuoverli i motivi di difesa e di libertà del più candido e innocentino – se ci fosse – dei governi capitalisti. La stessa guerra del 1914, strombazzata aggressione teutonica, fu una guerra preventiva inglese. Ogni governo vede dove vuole i suoi interessi e i suoi spazi vitali; è un gioco di secoli quello inglese di avere le proprie frontiere sul Reno e sul Po, e questo gioco avrebbe salvato tante volte la Libertà, mentre la avrebbe offesa a morte la pretesa di Hitler di avere le frontiere vitali oltre i Sudeti e a Danzica… pochi chilometri fuori o anche pochi chilometri dentro casa, nell’ineffabile democratico capolavoro versagliese del corridoio polacco.

Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento rivoluzionario di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati Maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari.

Nel numero precedente di questa rivista abbiamo del resto chiarito che questo proclamato disfattismo non è grande scandalo, avendolo tutti i nostri avversari, sia sedicenti rivoluzionari che borghesi autentici, in vari casi e luoghi decantato e applicato. Solo che in tutti questi casi il contenuto dialettico del disfattismo non è la conquista rivoluzionaria di un nuovo regime di classe, ma un semplice mutamento di stati maggiori politici nel quadro dell’ordine borghese vigente, e i disfattisti di tal tipo rischiano molte parole e poca pelle per il solo incentivo che un dato regime cadrà solo se sconfitto in guerra, e solo se cadrà si aprirà per essi uno spiraglio al successo personale ed a cariche di potere. Basta loro tanto poco – e sono poi gli stessi gentiluomini dei motivi patriottici nazionali liberi e democratici – per approvare che il paese e la sua popolazione nel senso materiale, e giusta la tecnica moderna di guerra, siano schiacciati da bombardamenti distruttivi e dilaniati da tutte le manifestazioni irreparabili dell’azione bellica e dell’occupazione militare.

Ciò ribadito una ennesima volta, vediamo che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell’America per cui si votano crediti militari immensi, si fanno riunioni di Stati Maggiori e si danno ordini di preparazione e dettami strategici a paesi stranieri e lontani. Potrebbe risultare la più nobile delle guerre sotto il profilo dei lodati argomenti letterari, potrebbe riuscire ad avere di contro figure più nere dei Cecco Beppe, dei Guglielmone, dei Beniti, degli Adolfi, dei Tojo, di un rinato con essi Nicola dalle mani goccianti sangue, essa non indurrebbe i marxisti rivoluzionari a dare parole di attenuazione della lotta antiborghese e antistatale, ovunque.

Ciò non toglie diritto ad analizzare questa guerra e a definirla come la più clamorosa impresa di aggressione di invasione di oppressione e di schiavizzamento di tutta la storia. Non si tratta solo di una guerra eventuale ed ipotetica poiché essa è già in atto, essendo tale impresa legata da stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del 1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa dell’attuale regime di classe, quello capitalistico, la costruzione dell’optimum delle condizioni atte a soffocare la rivoluzione dei lavoratori in qualunque paese.

Tale processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato, anziché con mezzi militari e una vera e propria campagna di distruzione e di occupazione, con la pressione delle forze economiche preponderanti della massima organazione capitalistica nel mondo – forse domani lo Stato unico Anglo-Americano di cui già si parla – con un compromesso attraverso il quale la organizzazione dirigente russa si farebbe comprare ad alte condizioni; e Stalin avrebbe già precisata la cifra in due miliardi di dollari.

Sta di fatto che le prepotenze di quei citati aggressori storici europei che si dannavano per una provincia o una città a tiro di cannone, fanno ridere di fronte alla improntitudine con cui si discute in pubblico – ed è facile arguire di che tipo saranno i piani segreti – se la incolumità di Nuova York e di San Francisco si difenderà sul Reno o sull’Elba, sulle Alpi o sui Pirenei. Lo spazio vitale dei conquistatori statunitensi è una fascia che fa il giro della terra; è il punto di arrivo di un metodo cominciato con Esopo quando il lupo disse all’agnello che gli intorbidiva l’acqua pur bevendo a valle. Bianco nero e giallo, nessuno di noi può ingollare un sorso d’acqua senza intorbidire i cocktails serviti ai re della camorra plutocratica nei night-clubs degli Stati.

Quando i reggimenti americani sbarcarono la prima volta in Francia i tecnici militari risero e gli Stati Maggiori anglo-francesi pregarono di ridar loro subito i pochi tratti di fronte occidentale consegnati, se non si voleva vedere subito Guglielmo a Parigi. I boys, ubriachi allora ed oggi, avrebbero però ben potuto rispondere che c’era poco da sfottere, e vediamo oggi i sorci verdi di un militarismo che surclassa quelli della nostra storia plurimillenaria. Sono i soldi i capitali gli impianti produttivi che contano per fare la guerra; l’abilità militare e il coraggio sono merci in vendita sul mercato mondiale, ricchissimo di superfurbi e di superfessi.

Si vantarono fin da allora di una prima vittoria, arricciarono il naso per aver dovuto uscire, sulla scia degli inglesi, dal loro isolazionismo, si ritrassero dopo aver disegnata una Europa più assurda di quella che, se ce l’avessero fatta, avrebbero disegnata Tamerlano o Omar Pascià. Venti anni di pace erano quello che ci voleva per la preparazione, e la consacrazione alla Libertà super-statuata, di una superflotta una superaviazione e un superesercito. Al servizio della superaggressione.

Nell’intervallo i coloni del Far West si sono anche ripuliti in fatto di alfabeto e hanno perfino studiata la storia, senza rinunziare alla ineffabile comodità di essere senza storia. Al secondo sbarco in Normandia non si sa se Clark o un altro graduato, giunto alla tomba del generale francese che lottò per l’indipendenza americana, ha trovato la frase sensazionale: “Nous voici, Lafayette!”. Ossia siamo venuti per ricambiare la finezza e liberare la Francia.

Ed infatti come a Mosca insegnano nei manuali di storia che Vladimiro Ulianoff detto Lenin chiese ed ottenne dallo Zar Nicola di poter formare un corpo di volontari per correre alla difesa della Manciuria contro i giapponesi, così insegneranno a Washington come il francese Lafayette, nella alleanza di tutte le forze democratiche mondiali capitanata dalla libera Inghilterra, combatté per liberare l’America del Nord, fino ad allora colonia oppressa dei tedeschi, che da allora in tutte le guerre mirano ad attaccarla e riconquistarla. Ed in una prossima edizione può darsi che i manuali yankee parlino addirittura di una lotta di emancipazione coloniale contro il conquistatore moscovita, le cui esose intenzioni di rivincita sono evidenti da quando cominciò col vendersi l’Alaska per poche libbre di oro.

Neanche nella seconda impresa le gesta militari sono state di prim’ordine, ma anche in fatto di bravura di guerra la quantità si trasforma in qualità. A proposito di Clark dicono che proprio in America gli negano la gloria della battaglia di Cassino. Avranno forse scoperto che non vi è mai stata una battaglia a Cassino, e non vi è mai stata una linea Gustavo, come possono attestare poche decine di soldati tedeschi rimasti incolumi e varie centinaia di migliaia di italiani civili bombardati sanguinosamente per cinque mesi, fino a che non si trovarono da fare avanzare alcuni reparti di polacchi, di italiani e, nella direttrice Sessa-Ausonia, di marocchini che si occuparono di violare tutte le donne dai dieci ai settanta anni e qualche altro ancora, agganciando meno deutsche grenadiere di quanti banditi di Giuliano aggancino le forze romane di polizia.

Tra le grandi decisioni del sinedrio americano militare per i fatti di Europa c’è dunque il riarmo italiano. Strana la parte dell’Italia in tutto questo muoversi di colossi, dopo che negli ultimi decenni la potenza demografica non è più il primo fattore di forza militare.
Dopo essere stata nella Prima Guerra sulle soglie di almeno un grande tentativo di disfattismo rivoluzionario, nella Seconda il nostro paese ne ha vissuto in pieno uno di disfattismo borghese.
In sostanza nessuno ha scalzato alle spalle la guerra dei fascisti nel periodo delle fortunate imprese di guerra tedesche. Molti hanno disfattisticamente sperato, ma per fatto personale. Mussolini era tra loro e la voluttà del potere. Qui tutto. Non potevano scalzare alle spalle l’esercito di Benito e di Hitler, standosene alle spalle degli eserciti avversari.
Nell’autunno del 1942 si diffuse la notizia che le forze di sbarco americane, dopo le lunghe discussioni, e reciproche insidie, cogli alleati russi che giorno per giorno si svenavano senza misura sul secondo fronte, erano sulle coste del Marocco, con un chiaro itinerario: il Mediterraneo, la penisola italiana.

Erano tappe di una unica invasione, passata da Versailles nel 1917-18, diretta a Berlino. Solo a Berlino? No, insensati allora plaudenti, diretta anche a Mosca. Per grandi specialisti della sensibilità al mutarsi della storia, siete in ritardo oggi nel gridare alla minaccia imperiale e all’aggressione. Sarebbe poco essere in ritardo, siete senza più fiato nella strozza, non potete più risuscitare e mandare in senso opposto i milioni di caduti di Stalingrado. Nessuno vi risponderà.

Quella notizia doveva bastare a prevedere il calvario che avrebbe traversato il paese italiano. A fini di classe, a fini di rivoluzione, il marxista attira sulla zona dove opera anche maggiori cataclismi. Ma qui si trattava di pura cecità. Aveva più senso storico la radio fascista che cantava una canzonetta di propaganda, per trarre acqua al proprio mulino sia pure, ma adatta oggi a passare nelle bocche degli alleati di ieri dell’America strapotente, dei tripudianti per il fallimento della classica contromossa militare italo-tedesca nella Tunisia, garantita in primo tempo alla Francia neutralizzata, contromossa giocata bene tecnicamente dall’ultimo esercito italiano da Scipione in poi (godiamo del fatto che non vi saranno più eserciti italiani senza altri aggettivi, più godremo quando eserciti non ve ne saranno con nessun aggettivo), ma che per lo strapotere dei mezzi accumulati sull’altra riva atlantica in tutta calma, mentre i cadaveri europei si ammonticchiavano davanti al Volga, non evitò la sanguinosa farsa del bagnasciuga.
Godevano del roseo futuro i patrioti, i nazionali, i popolari italiani.

Ma quale era la canzonetta, fascista ma non tanto scema? Ricordava che Colombo era italiano e diceva nel ritornello: “Colombo, Colombo, Colombo, chi te l’ha fatto fa’?”.
Secondo una moda già invalsa, temo forte che Stalin dovrà far scoprire dagli storici di Mosca che Colombo era russo.


  1. traduzione italiana: Bertram D. Wolfe, I tre artefici della Rivoluzione (Lenin, Trozki, Stalin), La Nuova Italia, Firenze 1953, nella collana Documenti della crisi contemporanea  

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Sull’epidemia delle emergenze e sulla catastrofe come campo del possibile https://www.carmillaonline.com/2020/03/04/sullepidemia-delle-emergenze-e-sulla-catastrofe-come-campo-del-possibile/ Wed, 04 Mar 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58473 di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e [...]]]> di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e di vita capitalistico.

Il Coronavirus ha avuto un tempismo perfetto, cascando nel bel mezzo di una congiuntura che vedeva già intrecciarsi l’inizio di una nuova macroscopica crisi finanziaria ed economica, con una profonda crisi politica delle istituzioni locali, nazionali e globali e con una tensione crescente alla guerra, che solo in questi giorni prende una nuova accelerata, con masse di profughi che premono ai confini d’Europa e la Turchia che tenta di mangiarsi la Siria e conquistarsi un primato che non sarebbe più solo regionale.

Una grande situazione di possibilità, in fondo, che però trova pronta ad accoglierla una parte delle associazioni imprenditoriali1, ma non trova nessuno a raccoglierla tra le fila del “partito rivoluzionario”, sempre ammesso che ne esista ancora uno. Questo perché ci sembra che, dalle nostre parti, smarrite le bussole del conflitto, ci si adagi nella denuncia dell’emergenza accodandosi alla sua narrazione mediatica, senza coglierne le complessità né i margini di azione che ci offre.

La discussione sviluppata negli ambiti di movimento ci sembra in questo caso paradigmatica: un’oscillazione tra i poli dello scientismo e del politicismo, condito una tantum dal complottismo anti-americano vecchio stile. Insomma, un immancabile guardarsi la lanugine nell’ombelico mentre attorno tutto brucia.

Ai seguaci della scienza accordiamo, ad esempio, il fatto che non è possibile non tenere conto della dimensione molto concreta di un’epidemia reale con effetti reali e che, a meno che non si sia studiato medicina, non si hanno le competenze minime per dire quanto siano o meno reali certe minacce. Il problema di questo ragionamento però è che rischia di sfociare nell’abdicazione della propria posizione in virtù della ragion di Stato e del buonsenso: in ogni caso non possiamo dimenticare che compito dell’antagonismo è sempre cercare quegli spazi di conflittualità e inimicizia dati dalle contraddizioni del reale, forzarli fin dove è possibile, fino a farli esplodere possibilmente, invece di aspettare il ritorno ad una normalità che ci è sempre stata ostile.

C’è qui da porsi, poi, qualche altra domanda sulla questione Scienza.
Oggi in questo ambito si fa una gran confusione: tolti gli scettici e gli opinionisti, da una parte c’è chi finge che questa sia una branca asettica, immacolata e intoccabile della conoscenza umana e dall’altra chi, scientemente, ne condanna ogni aspetto negandone la validità in assoluto. D’altra parte, pur senza svilire l’attendibilità di medici e scienziati, come possiamo fidarci totalmente della scienza medica prodotta nei laboratori dei colossi dell’industria farmaceutica, delle loro invenzioni interessate, dei loro affari nei sistemi sanitari di tutto il pianeta2?

Occorre denunciare gli stretti legami tra ricerca, organismi sanitari, taglio della spesa pubblica e investimenti in ricerche finalizzate soltanto al profitto. Ma la denuncia non basta, occorre andare oltre, assumendoci responsabilità che troppo spesso sembrano andare al di là della capacità reale dei movimenti di pensare, organizzare e agire.
E’ anche questo un lavoro enorme. Bisogna rifondare la conoscenza e liberarne le possibilità, scientifiche e non, che in quella attuale sono state limitate o rimosse per il puro interesse finanziario e politico. Quello della riappropriazione della conoscenza, non solo scientifica, è un lavoro che occorre sviluppare durante la lotta, proprio come uno dei suoi motori.

Anche perché il trionfalismo scientista e tecnologico di cui l’attuale modo di produzione ha fatto sfoggio negli ultimi decenni oggi mostra tutta la sua debolezza. Il famoso “progresso” con cui i portavoce del capitale hanno giustificato qualsiasi impresa, dalla gara spaziale all’obbligo per qualsiasi tipo di vaccinazione, fino all’estrattivismo e alla devastazione ambientale, così come tutti i trionfalismi a proposito di sistemi 4.0, 5.0 o n.0 oggi mostrano tutta la loro fragilità e la vacuità delle loro certezze. Anche per questo non denunciarne la sistematica opera di rimozione di tutto quanto poteva essere d’ostacolo all’iniziativa privata significherebbe rischiare di vedere vanificate in blocco anche le conquiste reali della scienza con la S maiuscola. Quella che si è sempre mossa senza nascondere le proprie incertezze e i propri dubbi sui risultati raggiunti, facendo in realtà di questi ultimi, sempre momentanei e incompleti, il vero motore dell’avanzamento della ricerca e della conoscenza disinteressata.

Cosa ribattere a chi invece ignora o sottovaluta le dimensioni del fenomeno Coronavirus prendendolo per mera tecnica di governo? L’analisi della situazione solo da un punto di vista politico, senza tener conto dei fenomeni reali fa sì che, spesso, si perdano i contorni della realtà e si finisca per applicare concetti teorici in maniera meccanica e produrre così i fatti a partire dalle proprie opinioni.

A ragionar così, si prende il nemico per una sorta di monolite in cui non c’è differenza o contraddizione tra gli attori in campo: media, Stati, grandi capitali, organismi internazionali, tutti sfumati fino a diventare un unico Moloch per cui ogni emergenza è pura propaganda, ogni provvedimento preso è volto direttamente alla soppressione di libertà e di dissenso organizzato quando la prima si può reprimere facilmente in ogni momento emergenziale e il secondo, banalmente, non si sa dove sia finito. A continuare su questo sentiero, ci si troverebbe presto a difendere le borghesissime virtù del lavorare e consumare.

Paradossalmente, non affrontando il tema reale dell’epidemia e riducendolo a escamotage politico, si perdono completamente i termini dell’operazione, ci si scolla dalla realtà e ci si rinchiude nel vicolo cieco della retorica, perdendo di vista anche il campo delle possibilità.
Ai complottisti geopolitici abbiamo poco da dire. Uscite di casa, respirate aria fresca e chiedetevi se esistano capitalismi buoni, prima di ricondurre una malattia sorta in Cina ad un malefico piano statunitense3.

Ora, questo è il tenore della discussione sul Virus, ma crediamo valga su ogni altra Emergenza ed è invece proprio sul senso profondo di queste perenni emergenze che occorre indagare piuttosto che sulle loro forme contingenti.
C’è uno stretto rapporto che intercorre tra dichiarazione delle emergenze nazionali, o di altro tipo, e il controllo politico-militare, da parte dello Stato e dei suoi apparati repressivi, di territori e opinione pubblica.
Praticamente ogni emergenza corrisponde, nei fatti, ad una sorta di stato di guerra cui i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione sociale, politica o di età, dovrebbero rispondere uniti per amor di Patria e di unità nazionale di fronte a un pericolo esterno.
Non varia questo significato in presenza di guerre, epidemie o di catastrofi più o meno naturali.
Accettare la collaborazione con gli apparati dello Stato significa sempre inchinarsi alla volontà del nostro più feroce nemico4.

E’ come se di fronte ad una guerra dichiarata dal “nostro” Stato fossimo obbligati per default ad essere accondiscendenti con le misure prese per contrastarne i rischi. L’avevano compreso fin dal primo conflitto mondiale i giovani della Federazione giovanile socialista che diedero vita alla frazione intransigente del PSI poi divenuta, di fatto, la frazione comunista di Livorno. Fu il disfattismo rivoluzionario a guidare i giovani socialisti nella loro lotta alla guerra e al collaborazionismo, anche quando questa si travestì da “collaborazione nell’ora del pericolo” e dei soccorsi umanitari, dopo Caporetto, nei confronti dei profughi veneti investiti dalle armate austro-tedesche5.

Roba vecchia per qualcuno, ma estremamente attuale per chi voglia opporsi a tutte le strategie messe in atto per far rientrare le dissidenze nel “dolce” alveo della compatibilità sistemica.
Ma allora, qualcuno penserà, non dovremo più aiutare le popolazioni colpite da disastri e calamità? Dovremmo rifiutare la solidarietà attiva ai migranti in fuga? Certo che no, ma questo andrà fatto, e questa è un’altra assunzione di responsabilità oggi troppo spesso ignorata, non dimenticando mai di denunciare gli artefici dei disastri (militari o naturali), le cause intimamente legate al profitto e all’interesse privato oppure alla concorrenza imperialistica e, soprattutto, attraverso una propria organizzazione ovunque questo sarà possibile.

Non ci interessa scimmiottare la Croce Rossa, i boy-scouts o la Chiesa; ci interessa, sempre e comunque, tenere aperto ed allargare il conflitto sociale.
Allora, l’analisi che deve interessare il militante rivoluzionario non è quella che cerca il pelo nell’uovo della teoria o si piega alla ragion di stato per evitare di far danno dove non è competente. L’unica analisi che ci deve interessare è quella che parte dalla situazione data per coglierne le fragilità e agire su esse; il nostro unico cruccio deve essere sempre quello di spezzare le maglie del dominio; siamo gli irriducibili nemici di questo mondo, ogni sua debolezza deve essere sfruttata.

Quindi, il campo di battaglia che ci si dà è quello dell’Emergenza in quanto attore imprevisto che nell’arco di poco tempo ed alle soglie di una crisi finanziaria, politica e militare macroscopica, è in grado di gettare nel panico la classe dirigente mettendola in crisi sulla sua capacità di gestione della catastrofe. Vero che il rischio fa parte del capitalismo, vero anche che il rischio e il capitalismo non escludano il fallimento.

L’allarmismo emergenziale serve spesso per giustificare tutto e per “sorprendere” il pubblico6. Ma il perenne e catastrofico accumularsi di emergenza su emergenza ci parla anche dell’impossibilità di mantenere in piedi questo modo di produzione, anzitutto, nel momento in cui il suo primato sulla vita mette in pericolo anche sé stesso e disvela tutta la sua fragilità: il colosso cinese che rischia di andare in pezzi per una brutta influenza è un’immagine abbastanza rivelatrice.
Nella necessità di trovare una soluzione alle emergenze, si finisce sì per sperimentare tecniche assolute di controllo della vita ma anche per minare lo stesso modo di produzione capitalistico che si vuole proteggere. Ed ecco allora gli attori finanziari strepitare, le borse colare a picco, i capi di Stato rassicurare i mercati. La prima emergenza è in casa del nemico.

Da qui vediamo come di giorno in giorno la situazione di caos istituzionale, retto quasi soltanto dall’autoritarismo e dalla militarizzazione dimostra ben più di quanto si è detto a proposito del contenimento sociale. Da tempo, non a caso, si parla di guerra civile come unica risposta degli Stati alle richieste dei movimenti e dei cittadini, intesa come pacificazione, repressione e militarizzazione dei territori e delle risposte istituzionali: questo perché sono stati svuotati di qualsiasi funzione parlamentare, politica, economica autonoma e affidati soltanto alle decisioni prese in altri consessi7.
Motivo per cui di fronte ad ogni imprevisto e al conflitto rimangono in piedi soltanto grazie al collante dell’autoritarismo e dei provvedimenti eccezionali come la militarizzazione dei territori.

La figura dello Stato fa quindi, per ora, da parafulmine al capitale, e questo “stato d’emergenza” ci parla del suo agire in campo come attore obbligato a governare la catastrofe, ma la crisi di cui è vittima ormai da tempo si rende fortemente visibile nel momento in cui il controllo del territorio e la compressione delle libertà sono gli unici strumenti di cui dispone mentre non riesce a garantirsi una via d’uscita dal problema; le necessarie misure di contenimento finiscono per frammentare il consesso delle grandi potenze e così indebolire anche le indicazioni di quegli organismi sovranazionali che si trovano in condizione di difficoltà nel trasmetterlo attraverso una catena del comando fattasi, velocemente, assai ingarbugliata. Inoltre, la difficoltà gestionale dell’emergenza a cui non si era preparati, il suo inserirsi in una sequenza accelerata e perenne di emergenze, fa sì che si aprano delle falle nel dispositivo in cui è possibile far filtrare il bacillo della sovversione.
Ecco un compito per noi, quello del disfattismo anticapitalistico.

Qui entriamo su di un piano molto materiale e vediamo che il terreno del conflitto risiede in quell’insubordinazione spontanea che parte dalle necessità di vita. Sta anche qui, e non solo nell’azione statale, il disvelamento della guerra civile in atto, la lotta per le risorse e le possibilità di vita: non è la paura del controllo o di un golpe biopolitico a scatenare l’inimicizia, è il fatto che ci chiudono in casa e ci vietano di uscire ma non sono in grado di fornirci, fino ad ora, assistenza medica né approvvigionamenti; è il fatto che hanno massacrato il SSN fino a trovarsi incapaci di fare dei banali tamponi agli infermieri8; è il fatto che ci chiudono le scuole, le università, i cinema, i musei, vietano gli spostamenti ma comunque ci costringono a lavorare ed esporci al rischio senza niente di più in cambio; è il fatto che nell’emergenza ne approfitti il vampiro del mercato alzando i prezzi dei beni necessari senza che tra le misure ritenute draconiane ci sia un calmiere dei prezzi.
Questa risposta non può che generare scontento, conflitto e necessità di auto-organizzazione, ed qui che si deve inserire l’antagonista militante per coltivare l’ostilità e il malcontento, organizzare la deflagrazione sociale. Ad esempio, denunciando le condizioni e appoggiando oggi le richieste di coloro che sono in prima linea; come quelle espresse dai medici che denunciano apertamente gli scarsi mezzi messi a disposizione di chi col coronavirus deve fare i conti in ambulatorio e negli ospedali. Attaccando quella sanità privata che nell’emergenza si è rivelata fino ad oggi totalmente inutile e latitante.

Oppure rivendicando la salvaguardia del salario e del posto di lavoro per tutti i lavoratori dipendenti delle aziende toccate dalla crisi epidemica, denunciando il tentativo di abbassare il primo e di modificare le condizioni di lavoro, magari attraverso una ulteriore parcellizzazione e precarizzazione dello stesso per mezzo della diffusione del telelavoro, anche per la fase successiva all’epidemia. Contrastando ogni tentativo di ridurre gli spazi di lotta come, di fatto, impone la richiesta della Commissione di garanzia per una moratoria degli scioperi fino al 31 marzo (qui). Oppure, ancora, organizzando il blocco dei flussi e la ridistribuzione autonoma delle merci e dei beni su cui speculano gli sciacalli, i centri commerciali lasciati aperti quando si è fatto divieto di manifestare e, in genere, il mercato dove lo Stato ha preferito tutelare l’accumulazione di capitale.

Indagando, per esempio, quanto l’azione incrociata di Erdogan e Unione Europea (insuperabile nella sua ipocrisia) stia portando alla formazione di una nuova coscienza comune tra gli emigranti di diverse, e spesso ostili, nazionalità9. Sedimentata nei lager in cui per troppo tempo sono stati rinchiusi e saldata dall’azione comune concreta più che dalle vuote promesse di solidarietà provenienti da chi li sfrutta e imprigiona o li respinge e dalla reazione alla violenza degli apparati e delle ronde fasciste di Alba Dorata. Una coscienza, che si muove a prescindere dalla solidarietà dei movimenti europei ma che ci parla di forte conflittualità spontanea e autodeterminazione e ci impone, una volta per tutte, a ripensare un approccio politico rivoluzionario al fenomeno delle migrazioni e del loro soggetto cardine.

Al di là di tutti gli altri esempi che si potrebbero fare, ciò che occorre sottolineare è proprio questo: di fronte allo sgretolarsi degli Stati e dei loro rappresentanti partitici l’unica alternativa ragionevole, se non unica, è quella dell’auto-organizzazione politica dei territori e dei movimenti che li abitano, la costruzione delle sue articolazioni su scala globale. Purtroppo oggi molti, che stanno nei movimenti e sui territori, si abbandonano ancora a riflessioni riduttive, quasi mai di carattere generale ma, al massimo, massimaliste. Sembra che per troppo tempo il movimento antagonista si sia abituato a non assumersi le piene responsabilità che l’attuale situazione dei rapporti sociali dovrebbe imporre.

È nelle pieghe della quotidianità del dominio che stanno le possibilità da cogliere e da organizzare; lo stato d’emergenza, in questo senso, non fa che esasperare e mettere a nudo un dispositivo che è in atto quotidianamente in maniera sibillina, mentre la catastrofe, per quanto discorso governamentale che richiama a ubbidienza e unità, lascia intravedere tutta la debolezza dei sovrani, è il canto del cigno che ne precede la morte e apre possibilità di collasso che, a chi tiene ferma la bussola dell’abbattimento della modernità capitalista, sono un tesoro da saccheggiare rapidamente.
Tutto il resto sono sciocchezze dettate dal timore di affrontare il nemico vero su scala globale e nella maniera più adatta. Che non può più essere quella del parlamentarismo, della democrazia rappresentativa borghese o del pianto sulle vittime, né tanto meno della difesa debole degli ultimi ridotti rimasti a quello che un tempo chiamavamo Movimento.

Dobbiamo uscire una volta per tutte da questa psicosi dell’emergenza continua che ci fa rincorrere, come novelli giornalisti d’accatto, le notizie delle prime pagine che fanno più rumore. Il nostro pensiero strategico deve tagliare e attraversare di netto questa coltre di emergenze e colpire il nemico in profondità, nella sua intima catastrofe10 .

Il parto della civiltà capitalistica, in prossimità del XVI secolo, fu anticipato da doglie che agitarono un plurisecolare periodo di guerre, rivolte, saccheggi di nuovi continenti, cambiamenti climatici11 ed epidemie12 che Albrecht Dürer seppe cogliere nelle xilografie realizzate per illustrare l’Apocalisse di Giovanni nel 1498.
Sapremo fare altrettanto incidendo nelle lotte e nelle coscienze l’immagine della società futura di cui già da tempo avvertiamo i dolori delle doglie e i movimenti tellurici che l’annunciano?

Abbiamo di nuovo bisogno di eroismo collettivo, di determinazione infrangibile e instancabile, di intelligenza strategica, di lucidità e presa di distanza da tutto ciò che ancora rappresenta la miserabile eredità del modo di produzione attuale. Se è vero che viviamo nel tempo degli stati d’eccezione e delle emergenze permanenti, allora la regola di fondo che ci guida è una sola: uscire dall’emergenza e saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità.


  1. Si pensi soltanto al presidente di Confindustria, Boccia, che continua in questi giorni a soffiare sul fuoco delle Grandi Opere Inutili e Dannose (ma ritenute necessarie per il rilancio dell’economia), confermando il discorso sviluppato, già a partire dagli anni ’50, da Amadeo Bordiga sulla stretta interconnessione tra dinamica capitalistica, sciacallaggio economico e catastrofi “naturali”- A. Bordiga, Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra editore, Milano 1978  

  2. Sulla possibile “creazione” del Covid-19 in laboratorio si veda qui  

  3. Qui invece due recenti articoli tratti da «Repubblica» e dal «Corriere» sulle paure americane  

  4. Si veda, ad esempio, lo strappo istituzionale voluto da Macron e dal premier, Edouard Philippe per far passare all’Assemblea nazionale, il 1° marzo, la legge sulle pensioni, approfittando del divieto di manifestare indetto per “fronteggiare” il Coronavirus  

  5. Si veda in proposito: L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno editrice, Roma 2019  

  6. È di queste ore la “sorpresa” per la vittoria di Biden nel Super-tuesday elettorale americano, come se già non si sapesse che Biden è l’unico candidato ammissibile per l’establishment americano, sia democratico che non  

  7. Di cui, per altro, anche gli europeisti più convinti cominciano a dubitare:
    “Oggi l’Unione Europea rischia di essere travolta da due emergenze globali […] La prima è l’epidemia di coronavirus. La seconda la nuova crisi dei migranti riaperta dalla Turchia, che usa i profughi siriani come arma di ricatto […] Entrambe le crisi sono figlie del fallimento degli stati nazionali nell’affrontare emergenze che sarebbero di loro competenza. Le politiche sanitarie non prevedono una gestione comune, così come la sorveglianza delle frontiere esterne e dei flussi migratori rientra nella sovranità delle capitali, che da tempo non riescono a intendersi su una linea di condotta unica. Ma le emergenze non rispettano i trattati europei. Così, dopo che ogni governo della Ue ha cercato di fermare l’epidemia per conto proprio, tutti si devono tardivamente arrendere al fatto che il contagio è un problema comune. Ma questo non basta a decidere di centralizzare la lotta al virus a livello europeo, proprio a causa dell’incertezza su come agire. Qual’è il punto di equilibrio tra la tutela della salute difesa dell’economia e della vita sociale delle nostre comunità? Poiché nessuno conosce la risposta, ognuno pensa di avere la propria verità in tasca e vuole applicarla a modo suo” (Andrea Bonanni, Due crisi, stesso fallimento, la Repubblica 2 marzo 2020)  

  8. Si vedano qui le conseguenze del taglio della spesa sanitaria proprio nel Lodigiano e qui più in generale su quello lombardo  

  9. “Arrampicata sul ramo più alto, nella campagna tra la turca Edirne e la regione greca dell’antica Tracia, la vedetta afghana sa che dipende tutto dal suo segnale. Non si va più in solitaria. La coalizione dei respinti si è data una strategia. Per una volta i contrasti etnici, le scazzottate negli accampamenti tra pachistani e indiani, le gelosie tra afghani e iraniani, la diffidenza dei somali, la malinconia dei siriani, lasciano il posto ad un’alleanza inedita […] si sono dispiegati lungo chilometri e chilometri di frontiera. Impossibile per le guardie greche sigillare il confine” Nello Scavo, Bastonate e spari sui migranti in fuga dalla Turchia alla Grecia, Avvenire 3 marzo 2020  

  10. L’etimologia della parola catastrofe è da ricondurre al verbo greco καταστρέϕω (katastrepho) = io capovolgo. Da tale verbo, il sostantivo καταστροϕή (katastrophé) = capovolgimento, ribaltamento, stravolgimento…
    Il termine fu utilizzato dagli scrittori greci per indicare un esito spesso imprevisto, ma sempre disastroso, doloroso e luttuoso del dramma o di una qualche impresa, fatto o accadimento umano o naturale. Così, la parola catastrofe, che di per sé sarebbe stata di valenza neutra, indicando semplicemente un radicale e spesso repentino cambiamento della situazione, fu utilizzata, sin dall’antichità come sinonimo di sciagura, disastro, rovina, distruzione… A noi il compito di reinterpretarlo nel suo genuino significato di cambiamento radicale  

  11. Si veda, per il clima del XVI secolo e la cosiddetta “piccola glaciazione”, Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi, Torino 1982  

  12. Per il peso che cambiamento climatico ed epidemie ebbero invece nel contesto della fine dell’impero romano, si veda il recentissimo Kyle Harper, Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019  

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O tutto o nulla. I vecchi, i giovani, la guerra e la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2020/02/19/o-tutto-o-nulla-i-vecchi-i-giovani-la-guerra-e-la-rivoluzione/ Wed, 19 Feb 2020 20:46:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58053 di Sandro Moiso

Luca Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 290, 22,00 euro

“O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico “ (Vecchiezze in «Avanti», 13 luglio 1916 )

Il testo di Luca Gorgolini, nel ricostruire le vicende della gioventù socialista italiana dall’inizio del XX secolo fino alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, ha certamente [...]]]> di Sandro Moiso

Luca Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 290, 22,00 euro

“O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico “ (Vecchiezze in «Avanti», 13 luglio 1916 )

Il testo di Luca Gorgolini, nel ricostruire le vicende della gioventù socialista italiana dall’inizio del XX secolo fino alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, ha certamente più di un merito.
E non soltanto nell’ambito della storiografia politica.
Riesce infatti a ricostruire il clima sociale e politico di un ventennio in cui, all’interno di uno stesso ceppo socialista o socialisteggiante, si vennero a creare le condizioni sia per la formazione di una nuova formazione politica rivoluzionaria che di un movimento politico e sociale di estrema destra.
Entrambe le esperienze infatti, sia dal punto di vista organizzativo che ideologico, rappresentavano sicuramente un approccio alla politica di massa impensabile soltanto qualche decennio prima.

Entrambe le correnti, sia quella destinata a dar vita nel 1921 al Pcd’I che quella destinata ad animare le origini del fascismo mussoliniano, presero vita in un contesto in cui le contraddizioni sociali ed economiche, oltre che imperialistiche, sviluppatesi a partire dal tumultuoso sviluppo del moderno capitalismo industriale e finanziario in Europa e in America, sarebbero sfociate da un lato in forme di lotta di classe e reazioni politiche di parte proletaria difficilmente esperite in precedenza (anche solo per il crescente numero di lavoratori coinvolti) e dall’altro nella prima e violentissima carneficina mondiale, definita poi, in seguito e disgraziatamente, come Grande Guerra.

Ma un elemento di importanza capitale che l’autore sottolinea e risottolinea continuamente, a ragione, è sicuramente quello dello scontro generazionale che si sviluppò all’interno della compagine socialista, non solo a livello nazionale.
Elemento fondamentale di uno scontro che vide protagonisti, all’interno del movimento socialista internazionale e nel Partito Socialista nato in Italia nel 1892, da una parte i fondatori di tali esperienze, rinchiusi sempre più all’interno di un’azione parlamentare che, spesso, non rispettava certo il mandato della base sociale che avrebbero dovuto rappresentare e che faceva del riformismo l’orizzonte ultimo della propria azione, e dall’altra una generazione più giovane e sensibile dal punto di vista politico e sociale che chiedeva un radicale stravolgimento di quell’impostazione, ormai destinata a rinviare all’infinito qualsiasi reale mutamento all’interno dell’ordina sociale ed economico esistente.

Giovani contro adulti e rivoluzione contro riformismo e parlamentarismo: questi furono i due binari lungo cui si svilupparono le battaglie interne alla compagine socialista. Battaglie cui lo sviluppo delle politiche imperialistiche e coloniali avrebbero poi aggiunto un fattore determinante: quello dell’antimilitarismo di classe contrapposto ad un più blando pacifismo, destinato sempre e solo a sfociare nell’appoggio alle politiche dei governi liberali e nella comune difesa (tra forze borghesi e pretese proletarie) dell’interesse della Nazione e della Patria.

Per quanto riguarda le vicende italiane, che sono al centro della ricerca di Gorgolini ma senza dimenticare le dinamiche internazionali sugli stessi temi, certamente sia la guerra di Libia che la susseguente partecipazione, o meno, al primo conflitto mondiale furono determinati e dirimenti per definire i soggetti impegnati nella lotta e i programmi che questi avrebbero portato nell’agone politico.

Non c’è certo da stupirsi se a lottare contro il servizio militare, le compagnie di disciplina, le condizioni di vita in caserma e il massacro prevedibile, e poi di fatto avvenuto, sui campi di battaglia fossero di fatto i militanti più giovani, i proletari, i contadini e le donne: erano infatti questi soggetti a cogliere con certezza il fatto di essere destinati in prima persona, sia al fronte che a casa, ad essere toccati pesantemente dalle politiche e dalle scelte militariste e imperialiste messe in atto dalla borghesia italiana.

I parlamentari socialisti non nutrivano eccessivi timori personali in questi termini e potevano quindi crogiolarsi in un’insipida posizione neutralista che, nel corso del primo conflitto mondiale, sarebbe poi sfociato in quel né aderire né sabotare che li avrebbe condotti in seguito a bloccare l’azione rivoluzionaria messa in atto dai proletari e dai soldati italiani nell’anno più buio della guerra, il 1917, sia nelle città che al fronte (Torino, agosto 1917 – Caporetto nell’autunno dello stesso anno) e richiesta a gran voce dai rappresentanti più attivi della Federazione Giovanile Socialista.

Una contrapposizione generazionale che, nei fatti, diventava autentica contrapposizione di classe e che vide la formazione di una frazione intransigente, anche all’interno del Partito, che da un lato avrebbe dato vita, in nome dell’unità dello stesso, alla corrente poi detta massimalista e dall’altro a quella frazione che avrebbe poi dato vita alla scissione di Livorno nel 1921. Anche in questo caso, il testo affronta la questione della differenza di età tra le due frazioni e sottolinea come fossero i giovani e i giovanissimi, tranne quelli appartenenti sostanzialmente alla federazione di Reggio Emilia, a spingere in direzione di un’azione autonoma e rivoluzionaria, libera da qualsiasi fardello parlamentare e da alleanze con le forze moderate, sia che si definissero queste ultime repubblicane o radicali quando non addirittura liberali.

Il testo ha grandi meriti: quello di chiarire come inevitabilmente il Partito nato dalla scissione livornese non avrebbe potuto essere altro che astensionista in campo parlamentare e per questo fosse destinato a scontrarsi, nel 1922 (anche se quella data non rientra nel periodo preso in esame) con le indicazioni dell’Internazionale Comunista. Il percorso parlamentare era stato esperito del tutto nella storia del socialismo italiano e si era rivelato per quell’enorme bugia e bagno di opportunismo panciafichista (termine coniato dagli interventisti mussoliniani e nazionalisti, ma ben adatto a cogliere l’essenza dei comportamenti dei parlamentari socialisti) che avrebbero soltanto continuato ad illudere una parte del proletariato italiano (specialmente quello operaio del Nord) e a rimandare all’infinito qualsiasi ipotesi di trasformazione radicale della società, anzi opponendosi a quest’ultima come ad un nemico mortale.

L’altro è quello di cogliere nella svolta mussoliniana, dall’opposizione anti-militarista all’interventismo, non la causa agita da un deus ex-machina (lo stesso Mussolini) in grado di determinare, quasi da solo, una grave frattura nel movimento socialista e un tradimento “sicuramente” maturato all’esterno del Partito Socialista, ma la conseguenza di un’incoerenza politica, nata all’interno degli stessi partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale, che aveva portato quelli più importanti (ad esempio quello tedesco e quello francese) a votare per i crediti di guerra fin dal 1914.

Confusione e tradimento che nel non avere abbandonato i concetti di Patria e Nazione in nome di un più severo e radicale internazionalismo fece sì che nell’ora dell’intervento anche numerosi “giovani”, non ultimi Gramsci e Togliatti, sposassero per un più che lungo momento la causa dell’azione militare a favore o in difesa della Patria. E’ proprio in tale contesto che l’autore sa dipingere la figura di Amadeo Bordiga come strenuo difensore di un’intransigenza non fine a se stessa, come troppo spesso è stata dipinta dai successivi e stalinizzati detrattori, ma assolutamente necessaria per salvare l’azione politica antagonista al capitale e rivoluzionaria dalla palude del nazionalismo e del collaborazionismo interclassista. Spesso travestito, come capita ancora oggi, da missione di soccorso o da raccolta di fondi per i presunti aiuti umanitari (all’epoca messi in atto nei confronti dei profughi che avevano dovuto lasciare i territori italian dopo Caporetto e che la frazione dei giovani intransigenti si rifiutò di appoggiare e sostenere).

L’azione repressiva del governo, soprattutto dopo Caporetto, che colpì duramente i rappresentanti della frazione intransigente e soprattutto della sua ala giovanile (carcere, compagnie di disciplina o della morte, ripetuti richiami alle armi, morte al fronte), non fu sufficiente a vincerne la spinta rivoluzionaria, così come i precedenti tentativi di eliminare la Federazione giovanile come se si trattasse di una serpe in seno non servì al gruppo parlamentare socialista per distruggere la corrente rivoluzionaria che in essa si rifocillava ed animava.

Certamente l’azione del gruppo parlamentare e l’inanità “unionista” della corrente massimalista impedirono, nel biennio rosso, una più radicale azione politica a guida degli operai, dei reduci, dei contadini e di giovani in rivolta, ma non impedì che alla fondazione del Partito Comunista d’Italia l’età media dei cinque membri dell’Esecutivo del nuovo partito, nato dalle basi poste dalla nuova Internazionale, fosse di 31 anni: Bordiga (n.1889), Fortichiari (1892), Terracini (1895), Grieco (1893) e Repossi (1882).

Un libro importante, pur nella sua sintesi, quello di Gorgolini; utile non soltanto dal punto di vista storiografico, ma anche da quello di chi oggi si interroghi seriamente sulle prospettive di un movimento estremamente variegato come quello che, sia a livello internazionale che nazionale, oggi si va riformando e agitando ad ogni latitudine. In vista di una guerra civile già messa in atto dai differenti governi dell’esistente, ma tutti uniti dall’istanza repressiva anti-popolare e anti-proletaria, che molti ancora non vedono appellandosi ad inutili istanze umanitarie, riformistiche, parlamentari e nazionali.
Che, oggi come allora, appannano lo sguardo antagonista e l’azione di contrasto alle politiche del capitale, finanziario e non. Purtroppo, anche tra i giovani.

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Cent’anni fa a Caporetto https://www.carmillaonline.com/2017/11/12/centanni-fa-a-caporetto/ Sat, 11 Nov 2017 23:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41468 di Armando Lancellotti

Nicola Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 239, € 19,00

L’ultimo libro dello storico Nicola Labanca, recentemente uscito presso il Mulino, tratta di una delle numerose ricorrenze storiche centenarie di questo 2017 e più precisamente di quell’avvenimento che sul piano internazionale e della storia mondiale ebbe sicuramente un impatto minore di altri contemporanei eventi epocali, quali le rivoluzioni russe di febbraio (marzo) e ottobre (novembre) o l’entrata degli Stati Uniti nella Grande Guerra (aprile), ma che per la storia italiana rappresentò un punto di non ritorno ed un trauma nazionale profondo [...]]]> di Armando Lancellotti

Nicola Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 239, € 19,00

L’ultimo libro dello storico Nicola Labanca, recentemente uscito presso il Mulino, tratta di una delle numerose ricorrenze storiche centenarie di questo 2017 e più precisamente di quell’avvenimento che sul piano internazionale e della storia mondiale ebbe sicuramente un impatto minore di altri contemporanei eventi epocali, quali le rivoluzioni russe di febbraio (marzo) e ottobre (novembre) o l’entrata degli Stati Uniti nella Grande Guerra (aprile), ma che per la storia italiana rappresentò un punto di non ritorno ed un trauma nazionale profondo che fece sentire i suoi effetti per un lungo periodo di tempo successivo alla sua conclusione: la battaglia, la disfatta e la rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917.

Lo studio di questa pagina così determinante della storia italiana del ‘900 viene affrontato dallo storico e docente dell’Università di Siena in un saggio volutamente più “agile” e “snello” delle ponderose monografie già disponibili sull’argomento e/o di recente e quasi contemporanea uscita ed attingendo cospicuamente ad un materiale di archivio tanto ricco quanto spesso poco considerato dagli studiosi nei cento anni che ci separano dai giorni dell’attacco austro-ungarico e tedesco alle linee italiane sull’alto Isonzo: i verbali di centinaia di interrogatori di semplici soldati, sottufficiali, ufficiali ed alti ufficiali compiuti dopo la guerra da una apposita Commissione di inchiesta, di cui sono stati spesso esaminati – ricorda Labanca – i due volumi della Relazione finale, ma non tutte le carte e tutto il materiale dalla Commissione raccolti.

Come già nel libro scritto e curato qualche anno fa insieme a Oswald Überegger sulla guerra italo-austriaca [su Carmilla], Labanca intraprende strade di ricerca più originali e meno praticate di altre, riuscendo a ricomporre in sole duecento pagine un quadro della disfatta di Caporetto completo, ricco di spunti per successivi approfondimenti e scritto con una prosa efficace e piacevole.

Labanca prende a prestito dallo storico militare inglese John Keegan il concetto di “nebbia di guerra”, che efficacemente spiega come per il soldato che combatte la percezione di ciò che accade in battaglia sia qualcosa di confuso, di caotico ed impreciso, essendo il combattente totalmente preso dalla preoccupazione per la propria sopravvivenza, dallo scompiglio della battaglia, dall’impressione provocata dal sangue e dalla morte che lo circondano e lo incalzano. La sua visione delle cose è come quella di chi osserva la realtà a sé circostante avvolta da una fitta nebbia o di chi fissa un oggetto da una prospettiva troppo ravvicinata. Trascende, quindi, le possibilità del soldato direttamente coinvolto nello scontro la comprensione d’insieme della battaglia e a maggior ragione della guerra nel suo complesso; ma l’effetto della “nebbia di guerra” si produce anche per chi comanda la truppa e pure per gli alti ufficiali, che, anche se non partecipano direttamente alla battaglia armi in pugno e la osservano da una diversa prospettiva, spesso non ne colgono però il senso complessivo; anche la loro è una prospettiva “annebbiata” e parziale.

Questo concetto, sostiene Labanca, si può certamente applicare ai soldati italiani coinvolti nella battaglia e nella rotta di Caporetto, dal 24 ottobre fino al 9 novembre 1917, quando l’esercito riuscì a riorganizzare una linea difensiva lungo il Piave, «di essa i combattenti, e spesso i comandanti, conoscevano quello che vedevano, ma avevano difficoltà a raffigurarsi l’insieme» (p. 9).

Per diradare questa nebbia occorre – come sempre richiede il lavoro storiografico – la presa di distanza dall’oggetto, la ricostruzione del quadro complessivo, la composizione delle differenti prospettive, l’accumulo di riflessioni, analisi e studi e la considerazione delle loro diversificazioni e stratificazioni nel corso del tempo. L’idea dell’autore è allora quella di pensare Caporetto a cent’anni di distanza, prima considerando l’infittirsi di quella coltre di “nebbia di guerra” che calò sul tratto di fronte dell’alto Isonzo tra Plezzo e Tolmino e non solo nei giorni della sconfitta, della rotta e della ricostituzione della linea difensiva sul Piave, ma anche per molto tempo ancora dopo la battaglia, per poi procedere al diradamento di quelle brume, reso possibile dal lavoro di un secolo di storiografia.

La prima interessante parte del volume è dedicata proprio alla lettura, all’ascolto, delle tante voci dei protagonisti della battaglia e della rotta di Caporetto – i militari – attraverso il materiale della Commissione di inchiesta. Ne esce un quadro estremamente ricco e diversificato di punti di vista, percezioni e giudizi sull’accaduto, articolato per differenze di grado gerarchico, per estrazione sociale, per istruzione e cultura, per orientamento politico e per livelli di consapevolezza molto eterogenei, sia della battaglia di Caporetto in particolare, sia della guerra italiana ed internazionale nel suo complesso.

L’unico che in quelle convulse giornate sembrò non avere dubbi sulle ragioni dell’accaduto fu Luigi Cadorna, il Comandante supremo delle forze armate italiane, che già il 28 ottobre divulgò un comunicato a tal punto sconcertante che il governo cercò di correggerlo e di edulcorarlo in una seconda versione ufficiale, anche se nel frattempo quella originale era già circolata all’estero e da lì rientrò in Italia. In essa si parlava di soldati “vilmente ritiratisi” ed “ignominiosamente arresisi” al nemico.

Ciò che colpisce – scrive Labanca – del comunicato del 28 ottobre è che «Cadorna sembrava volere dare l’impressione di aver capito e saputo tutto. E di aver trovato subito i colpevoli: non lui stesso, in primo luogo, né il Comando supremo o l’esercito, ma i soldati (di “taluni” reparti, che avevano ceduto, ma in fondo anche delle altre truppe i cui sforzi “non erano riusciti a impedire” la disfatta) e per certi versi il governo (se solo all’esercito, e non a quello, in guerra “sono affidati l’onore e la salvezza della Patria”)» (p. 11). In realtà, come le analisi e le attente ricostruzioni del libro di Labanca dimostrano nei capitoli centrali, le cose non stavano in questi termini e le responsabilità principali della disfatta sono da ricercarsi proprio negli errori e nelle gravissime deficienze dei comandi e quindi di Cadorna in primis. Le ragioni militari, in sostanza, vengono prima di quelle “politiche” (il presunto tradimento e il disfattismo) che, non disinteressatamente, Cadorna lasciava intendere.

Caporetto, seppur quantitativamente non paragonabile alle catastrofiche ecatombi di Verdun o della Somme sul fronte occidentale, per l’Italia fu davvero qualcosa di sconvolgente e pauroso: «Da sole la rottura del fronte e poi la rotta a essa seguita […] portarono all’invasione austrotedesca di più di 20.000 kmq del territorio nazionale e […] arretrarono di 150 km il fronte dal Carso, dall’Isonzo e dalle Alpi Carniche sin giù al Piave. L’Italia lasciò sul campo 11.000 morti e 29.000 feriti. In mano agli avversari restarono 300.000 prigionieri. Forse altri 300.000 uomini rimasero sbandati nella rotta. Dopo l’ottobre del 1917, con Caporetto, la guerra italiana combattuta fin dal maggio 1915 all’offensiva per Trieste e Trento diventò strettamente difensiva» (pp. 86-87).

Anche se «l’immagine che diede origine al più resistente mito di Caporetto: lo “sciopero militare” dei soldati italiani» (p.92), ovverosia la rappresentazione che più si impresse nell’immaginario collettivo fu quella dello sbandamento di una fiumana di soldati che precipitosamente arretravano, spesso gettando il fucile o abbandonando l’uniforme, in realtà le ragioni decisive della disfatta sono da ricercare sul piano strategico-militare, tanto in relazione alla situazione del fronte dell’alto Isonzo nell’autunno del 1917, quanto in relazione all’intera conduzione della guerra da parte dell’alto comando italiano.

È noto che il tratto tra Tolmino e Plezzo era considerato una parte relativamente tranquilla del fronte e che i comandi italiani non sospettavano che gli austro-tedeschi potessero attaccare lì, nonostante che tra settembre ed ottobre fossero arrivate sempre più informazioni circa i preparativi nemici di truppe per un attacco proprio in quel punto. La sottovalutazione del caso particolare si inseriva poi in un quadro strategico generale che considerava il fronte giulio, ma nella sua parte meridionale, come quello centrale e decisivo per le sorti del conflitto italiano e che concepiva ostinatamente la conduzione della guerra sull’Isonzo in un solo modo possibile, che presto trasformò la guerra sul fronte italiano in una assurda carneficina non dissimile a quelle che si consumavano su tutti gli altri fronti: l’offensiva continua, per infliggere al nemico le cosiddette “spallate” (le dodici battaglie dell’Isonzo, l’ultima della quali fu proprio quella di Caporetto). Ma la guerra di trincea dava maggiore «forza alla difesa rispetto ai piani dell’offesa» (p. 99).

Tra gli “errori di valutazione” non vanno certo dimenticati – spiega Labanca – anche la sopravvalutazione delle potenzialità e della forza dell’esercito italiano e la sottovalutazione del fatto che il paese era entrato in guerra tra mille divisioni e contraddizioni politiche. Ancor più nello specifico poi, la ricerca ossessiva della “spallata” offensiva aveva indotto i comandi a concentrare troppe forze sulle prime linee, senza che venissero predisposte truppe di riserva nelle retrovie, linee arretrate ben attrezzate e pronte all’utilizzo in caso di ripiegamento, o che fossero concepiti piani precisi per comandi preparati ad attuarli. Anche gli ordini, tardivi indecisi ed inadeguati, impartiti da Cadorna subito dopo la rottura del fronte lasciano intendere come l’incomprensione della nuova tattica d’attacco degli austro-tedeschi (l’infiltrazione) e l’impreparazione fossero massime. Una inadeguatezza complessiva dell’alto comando italiano che secondo Labanca trovava una spiegazione non secondaria anche nella impostazione data allo Stato Maggiore dal Comandante supremo. «La centralizzazione sulla figura di Cadorna […] della politica di ricompense e promozioni […] contribuiva a creare passività ed induceva al conformismo e al servilismo una parte della più alta ufficialità italiana» (p. 64). Insomma, una scarsa capacità di prendere iniziative indipendenti le cui conseguenze si sarebbero rivelate fatali anche a Caporetto.

Se dal vertice dell’esercito italiano passiamo alla considerazione dei punti di vista e delle prospettive della base del medesimo, il quadro cambia completamente. Dalle testimonianze rilasciate alla Commissione di inchiesta dai soldati semplici si evince come le trincee italiane fossero «rudimentali, da tracciare, da rafforzare» (p.25) e come fosse di conseguenza forte il malessere patito dalle truppe del Regio Esercito al fronte, che forse anche per questo – osserva ed ipotizza Labanca – nel momento dell’improvviso attacco nemico «cedettero, o non resistettero quanto forse essi stessi avrebbero potuto pensare di saper fare» (p. 25). Nonostante gli sforzi economici, produttivi, industriali per armare adeguatamente l’esercito dopo l’entrata in guerra del ’15, le distanze fra l’esercito italiano e gli eserciti di molte delle altre potenze belligeranti si erano sì ridotte, ma non completamente colmate e di fronte al massiccio, improvviso ed inaspettato attacco nemico, un attacco molto ben preparato e progettato, le truppe italiane si trovarono in grande difficoltà.

Oltre agli aspetti tecnico-militari ci sono poi quelli politici che emergono dalle parole pronunciate dai soldati semplici davanti alla Commissione. Non si trattò tanto di uno “sciopero militare” effettivamente e consapevolmente concepito e realizzato (cosa che Labanca tende decisamente ad escludere che sia accaduto), quello “sciopero militare” cioè che rappresentò lo spauracchio principale per lo Stato maggiore dell’esercito, per la classe politica e dirigente italiana, e non solo quella interventista in senso stretto, ma che in realtà – nonostante Cadorna nel suo comunicato del 28 ottobre lasciasse proprio intendere che la rotta fosse dovuta a questo – non si verificò mai, quanto piuttosto si trattò della “stanchezza” dei soldati, del loro scoramento e della loro sostanziale sfiducia o «presa di distanze dall’esercito, dal governo e dallo Stato liberale che li avevano trascinati in quel conflitto» (p. 27).
Al momento della ritirata e del ripiegamento molti soldati erano sbandati, spesso anche per l’impreparazione dei comandi che non seppero come comportarsi nel momento della rottura del fronte e della rotta, in altri casi per scelta spontanea e personale, in altri ancora forse anche con la speranza che questo significasse finalmente la fine della guerra. Di fatto, molti erano arretrati gettando l’uniforme e il fucile lungo i cigli delle strade o dentro ai fossi. «Quei soldati, almeno in quel momento, fra l’Isonzo e il Piave, non volevano più fare la guerra» (p. 29), nonostante che il “pugno di ferro” della più inflessibile disciplina militare, a cui Cadorna aveva da subito fatto ricorso dopo l’entrata in guerra, colpisse implacabile con soppressioni e fucilazioni sommarie, nel tentativo di arginare lo sfaldamento delle truppe.

La Commissione di inchiesta, scrive Labanca, riservò «qualche attenzione […] anche al comportamento degli ufficiali inferiori, tenenti e capitani, perché si voleva essere rassicurati che aveva tenuto la borghesia italiana, la quale aveva riempito i gradi dell’ufficialità di complemento» (p. 34). Dalle testimonianze raccolte – conclude lo storico – risulta chiaro che anche per i sottufficiali di complemento le ragioni della rotta fossero sostanzialmente militari, anche se poi certi aspetti della reazione e del comportamento dei soldati avrebbero potuto anche fare supporre o temere ci fosse dell’altro.

Salendo i gradi della gerarchia militare, Labanca considera le testimonianze rese alla Commissione dagli ufficiali subalterni (sottotenenti, tenenti) e da quelli superiori. In questo caso si trattava di uomini con un sufficiente livello di istruzione e di cultura, che consentiva loro di avere, rispetto alla truppa, una visione d’insieme ben più articolata di quanto accaduto a Caporetto e della guerra in generale, una guerra di cui condividevano le ragioni e di cui sostenevano la necessità, avendo sposato le ragioni dell’interventismo italiano. Nonostante questo, fa notare Labanca, è necessario distinguere tra le posizioni dei subalterni, solitamente più vicine a quelle dei semplici soldati, nonostante qualche accusa “cadornista” di disfattismo o di codardia, e quelle degli ufficiali superiori, nelle quali l’addossamento delle responsabilità ai combattenti ritenuti imbelli e vigliacchi è decisamente più frequente, anche se non mancano lucide analisi tecnico-militari sull’efficacia della nuova strategia dell’infiltrazione messa in atto dagli austro-tedeschi e sulle carenze delle linee difensive italiane. Insomma, mano a mano che si sale di grado nella catena di comando militare, la spiegazione “militare” (cioè innanzi tutto la responsabilità dei comandi) lascia il posto alla spiegazione “politica” (cioè la responsabilità dei soldati disfattisti e di chi ne avrebbe traviato lo spirito patriottico).

La Commissione di inchiesta coinvolse infine anche i generali e gli alti comandi dell’esercito italiano, che direttamente (Cadorna, Capello, Cavaciocchi, ecc) o indirettamente erano stati investiti dalla disfatta e dalla rotta di Caporetto.
Innanzi tutto, fa notare Labanca, i generali facevano parte (e così si consideravano) della élite del paese ed inoltre la loro prospettiva sull’accaduto era di molto diversa e “distante” da quella non solo dei semplici soldati, ma anche da quella degli ufficiali inferiori. In linea di massima, osserva Labanca, nelle dichiarazioni degli alti ufficiali emergono la tendenza alla spiegazione giustificazionista della disfatta di Caporetto, che viene spesso derubricata a livello di una delle tante pesanti sconfitte subite da tutti gli eserciti combattenti, o il ridimensionamento dell’impatto politico della rotta. A questi argomenti si aggiunge poi il tentativo degli alti comandi di “scaricare” verso il basso le responsabilità dell’accaduto, non solo in direzione della truppa, ma anche degli ufficiali di complemento o comunque subordinati.
«È in questo quadro, di una élite militare che, nel segreto della deposizione a una commissione d’inchiesta, prova a scaricare su altri responsabilità anche proprie, che vanno lette le ripetute accuse ai soldati. Qui, il cadornismo si rivela più diffuso di quanto si potesse pensare” (pp. 54-55).

Certo non mancarono anche le voci che registrarono e denunciarono tanto l’efficacia delle strategie nemiche quanto l’insufficienza e le carenze delle forze e delle difese italiane, ma la propensione alla spiegazione cadornista era prevalente. Forse, fa notare Labanca, solo pochi avrebbero sottoscritto le esatte parole dello sconcertante comunicato del Comandante supremo del 28 ottobre, ma l’idea che la disfatta fosse stata facilitata, se non proprio causata, dalla propaganda neutralista o disfattista e da uno strisciante pacifismo, che poteva aver portato se non proprio allo “sciopero militare” quanto meno all’arrendevolezza dei soldati, al crollo morale delle truppe, fino addirittura alla vigliaccheria, emerge dalle parole degli alti ufficiali e dei generali del nostro esercito.

Per quanto riguarda le accuse di ignominia e di viltà di fronte al nemico, gli alti comandi poi divergevano al momento di individuarne la causa scatenante ed il fattore determinante: chi accusava i “rossi”, chi i “neri”, chi cioè i socialisti e chi i cattolici, chi il Psi, che aveva adottato la linea del “né aderire né sabotare” senza mai sposare quella dell’”unione sacra”, chi la Chiesa cattolica, su posizioni di ostruzione verso lo Stato liberale sin dall’unità e neutraliste e critiche verso la guerra, come quelle espresse dal discorso del Papa sull’”inutile strage”. Gli scioperi operai di Torino e la rivoluzione in Russia non facilitavano certo le cose, dal punto di vista dello Stato maggiore.

«Insomma», conclude Labanca, «non si può dire che tutti i generali fossero chiusi in un cieco antisocialismo (o anticlericalismo). Vi erano posizioni differenziate, o quanto meno sfumature importanti, nei loro ragionamenti sulle ragioni della rotta. Qualunque fosse la graduatoria dei sospetti e delle analisi, però, forse tutti questi generali avrebbero condiviso […] la stessa sensazione: “Nell’autunno del 1917 l’esercito era maturo per la disfatta”» (p. 73). Infine, su tutte queste analisi e conseguenti valutazioni sulle cause dell’accaduto «svettavano soltanto i portatori di un giudizio, o meglio di un pregiudizio, convinti di sapere cosa era successo: erano gli interventisti più accesi, i sostenitori della tesi dello “sciopero generale”, Cadorna con il suo comunicato del 28 ottobre. Tra gli alti ufficiali interrogati dalla Commissione a distanza di mesi da quando era stato emesso, e pur consapevoli che Cadorna era stato di fatto ormai destituito e accantonato, non pochi si dimostrarono ancora pienamente convinti della giustezza di quel comunicato» (p. 78).

Il quadro che emerge dalla lettura delle testimonianze rilasciate alla Commissione di inchiesta è quindi quanto mai composito e complesso, come complessa e difficile era la situazione del paese e non solo della sua parte combattente, ma anche della società civile; Caporetto risvegliò ed acuì contrasti e criticità che attraversavano trasversalmente il paese. Senza pretendere di riassumere in poche righe le ricche argomentazioni e le accurate ricostruzioni del libro di Labanca, ricordiamo che Caporetto, oltre a trasformare la guerra italiana da offensiva in difensiva e a lasciare nelle mani del nemico una quantità ingente di territorio nazionale, di armi e materiale bellico di ogni tipo, col pericolo concreto di perdere definitivamente la guerra qualora gli austro-tedeschi fossero riusciti a sfondare anche sul Piave e a penetrare in Pianura Padana, causò, tra le tante cose, anche la caduta del governo, la sostituzione di Cadorna con Diaz, l’adozione di una nuova strategia militare, la predisposizione di un moderno apparato di propaganda, la radicalizzazione delle contrapposizioni politiche che poi avrebbero contribuito, dopo la guerra, all’avvio del processo che condusse alla crisi e al crollo dello stato liberale.

La disfatta e la rotta di Caporetto toccarono i nervi scoperti di un paese che nella Grande Guerra era entrato tra mille contraddizioni: quelle di uno stato che inviava milioni di uomini, ed in particolare contadini, a combattere per una nazione dalla quale nei precedenti cinquant’anni di vita unitaria quelle medesime masse popolari erano rimaste escluse e non integrate; quelle di un governo e di un capo dello stato che guidavano il paese in guerra attraverso una “forzatura” politica che riusciva a scavalcare l’ostacolo di un parlamento e di una società civile in maggioranza neutralisti. Ovvero quelle di due fronti, neutralisti ed interventisti, non solo tra loro contrapposti, ma estremamente eterogenei al proprio interno, cosicché l’interventismo rivoluzionario, quello irredentista e quello nazionalista, a ben guardare, non potevano aver molto in comune tra loro, come, sull’opposto fronte, il neutralismo cattolico, quello socialista e quello giolittiano. E così poco avevano in comune che alla fine giolittiani e cattolici ad una sorta di molto incompleta “unione sacra” italiana parteciparono (a maggior ragione dopo Caporetto), ma mai i socialisti; mentre nell’altro campo, chi pensava di combattere per Trento e Trieste rischiava la vita e moriva per gli obiettivi imperialistici segretamente fissati dal governo con il Patto di Londra. Lacerazioni che sarebbero riemerse poi nel clima del dopoguerra, infuocato anche dalla questione della “vittoria mutilata”, la cui “mutilazione” – osserva Labanca – fu in buona parte dovuta anche alla pesante disfatta di Caporetto, che poneva l’Italia, agli occhi dei suoi alleati, nella posizione dell’ultima delle potenze vincitrici. E tutto questo, a cui si aggiungevano speranze e delusioni, illusioni e frustrazioni sociali e politiche prodotte dalla guerra, fu un carburante potente ed abbondante per il motore del fascismo che in pochi anni prese in mano il paese.

Insomma se il 1917, come si è soliti affermare, fu un cruciale anno di svolta all’interno di quell’evento, la Grande Guerra, che viene assunto come punto di inizio del “secolo breve”, allora il 1917 italiano il suo punto di non ritorno lo conobbe sull’alto Isonzo, tra Tolmino e Plezzo, ed è forse corretto dire che il “secolo breve” italiano sia iniziato con Caporetto.

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