caporalato – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Si chiamava Satnam Singh https://www.carmillaonline.com/2024/08/16/si-chiamava-satnam-singh/ Fri, 16 Aug 2024 05:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83612 di Marco Sommariva

“Si chiamava Satnam Singh. Aveva trentuno anni, un bel pezzo di vita davanti. Per dare dignità a quella vita, dall’India, aveva scelto di venire a vivere e lavorare in Italia tre anni fa con sua moglie. E come tanti altri suoi connazionali si era stabilito nell’Agro Pontino, nella provincia di Latina, dove vivono migliaia di altri braccianti indiani di origine sikh che lavorano per lo più con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento, assicurando frutta e verdura ai mercati di mezza Italia.”, così iniziava l’articolo pubblicato il 20 giugno scorso, su AvvenireNon riesco ad andare avanti perché, [...]]]> di Marco Sommariva

“Si chiamava Satnam Singh. Aveva trentuno anni, un bel pezzo di vita davanti. Per dare dignità a quella vita, dall’India, aveva scelto di venire a vivere e lavorare in Italia tre anni fa con sua moglie. E come tanti altri suoi connazionali si era stabilito nell’Agro Pontino, nella provincia di Latina, dove vivono migliaia di altri braccianti indiani di origine sikh che lavorano per lo più con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento, assicurando frutta e verdura ai mercati di mezza Italia.”, così iniziava l’articolo pubblicato il 20 giugno scorso, su AvvenireNon riesco ad andare avanti perché, subito, il cervello mi riporta ad alcune mie vecchie letture per ricordarmi che è la “solita” storia, è tutto già visto.

Il primo libro che mi viene in mente è I nomadi, una raccolta di articoli di John Steinbeck. I pezzi vengono scritti quando – nel 1936, nel pieno della Grande depressione – il San Francisco News gli commissiona una serie di articoli sulla condizione dei braccianti agricoli immigrati in California: statunitensi del Midwest colpiti dalla crisi e costretti a fuggire dalle tempeste di sabbia della Dust Bowl. Steinbeck salirà su un furgone da panettiere e inizierà il suo viaggio fra le vallate della California, dove s’imbatterà in un’umanità sfinita dal lavoro, umiliata, in un popolo di senza terra, schiacciato dall’economia e dalla natura infuriata.

Braccianti con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento che assicurano frutta e verdura ai mercati di mezza Italia, braccianti agricoli immigrati in California sfiniti dal lavoro schiacciati dall’economia: “I migranti sono necessari, e sono odiati. Quando arrivano in una regione, incontrano l’avversione che i residenti dispensano da sempre al forestiero, all’estraneo. L’odio per lo straniero è presente lungo tutto la storia umana, dai villaggi primitivi fino al nostro sistema agricolo industriale altamente organizzato. I migranti sono odiati per diversi motivi: sono persone sporche e ignoranti, portano malattie, richiedono una maggiore presenza delle forze dell’ordine […]. Non vengono mai accolti in una comunità o nella vita comunitaria. Vagabondi di fatto, non è mai concesso loro di sentirsi a casa dove sono richiesti i loro servizi.” Ma, come osserva Avvenire nel prosiego dell’articolo, sono fatti noti e denunciati da anni e che sono contrassegnati da da quattordici ore e più di lavoro al giorno, ma più spesso di notte, con page che si aggirano sui tre euro all’ora, meno di un terzo di quanto prevede il contratto collettivo.

Non sarà che noi “occidentali” ci stiamo garantendo la sicurezza economica annientando i diritti umani di “altri”, facendo uso di violenza? Scriveva Steinbeck nel ‘36: “Se […] la nostra agricoltura richiede che sia creata e mantenuta a ogni costo una classe di bassa manovalanza, allora si dà per scontato che l’agricoltura californiana non sia economicamente sostenibile in un regime democratico. E se per garantirci la sicurezza economica sono necessari la violenza e l’annientamento dei diritti umani, le fustigazioni, gli omicidi commessi dagli agenti, i rapimenti e il rifiuto di tenere processi davanti a una giuria, si dà anche per scontato il rapido declino della democrazia in California. I metodi fascisti sono più diffusi, vengono applicati con maggior forza e più apertamente in California che in qualsiasi altra parte degli Stati Uniti.”

Nello stesso articolo di Avvenire leggo: “Satnam è arrivato all’ospedale San Camillo di Roma […] trasportato d’urgenza da un elicottero. Mentre lavorava nei campi è stato agganciato da un macchinario avvolgi-plastica a rullo trainato da un trattore, che gli ha tranciato il braccio e schiacciato le gambe. O almeno, questo hanno raccontato gli altri braccianti che erano con lui visto che i suoi datori di lavoro, alla vista della scena, se la sono data a gambe: l’hanno semplicemente caricato sul pullmino (con lui la moglie, anche lei dipendente della stessa azienda, che a bordo implorava di chiamare l’ambulanza) e riportato a casa. Lì l’hanno lasciato, col suo braccio staccato appoggiato in una cassetta per gli ortaggi, moribondo. A quel punto l’allarme dei vicini e la chiamata al 118. Un abisso di disumanità, oltre che un ritardo nei soccorsi che probabilmente gli è stato fatale: il giovane è morto stamane per via delle ferite riportate e delle emorragie.”

Anche sull’abisso di disumanità e sull’uccisione dei migranti, Steinbeck ci aveva già raccontato qualcosa: “Le grandi aziende agricole californiane sono organizzate in modo minuzioso e applicano una gestione centralizzata del lavoro come fanno le industrie e i trasporti, le banche e i servizi pubblici. […] I ranch gestiti da queste grandi aziende agricole speculative dispongono in genere di case per i lavoratori migranti, case per cui chiedono un affitto […]. Nella maggior parte dei casi non è ammesso che un lavoratore si rifiuti di pagare. Se vuole lavorare, deve vivere nella casa, e l’affitto viene scalato dalla sua prima paga. […] La volontà del proprietario del ranch è legge; i suoi sorveglianti sono sempre sul posto, con le pistole bene in vista. Il dissenso equivale alla resistenza a un pubblico ufficiale. Un’occhiata alla lista dei migranti feriti o uccisi in California a colpi di arma da fuoco, nell’arco di un solo anno, per “resistenza a pubblico ufficiale” può dare un’idea precisa della disinvoltura con cui questi “ufficiali” sparano ai lavoratori.”

Pare impossibile essere riusciti a scavare il fondo che avevamo toccato da un pezzo: prima li uccidevamo sparandogli, ora li ammazziamo più lentamente, lasciandoli davanti casa senza un braccio, sanguinanti.

Altro libro che mi è venuto in mente è Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij, un romanzo del 1866 di cui ci dice qualcosa l’autore stesso: “È il rendiconto psicologico di un delitto. Un giovane, che è stato espulso dall’Università e vive in condizioni di estrema indigenza, suggestionato, per leggerezza e instabilità di concezioni, da alcune strane idee non concrete che sono nell’aria, si è improvvisamente risolto a uscire dalla brutta situazione. Ha deciso di uccidere una vecchia che presta denaro a usura.”

È lecito chiedersi cosa c’entra un romanzo del genere con la vicenda Satnam Singh. Corretto. Mi spiego subito: primo, perché si parla di qualcuno che vive in condizioni di estrema indigenza; secondo, perché ricordavo che, fra le tante cose, in quelle pagine c’erano alcuni passaggi interessanti sull’argomento miseria, e ditemi voi se questa non c’entra nulla con l’indiano amputato e poi deceduto: “Nella povertà voi conservate intatta la nobiltà dei vostri sentimenti innati, ma nella miseria nera no, nessuno mai ci riesce. Quando si è in miseria nera, non ti si butta nemmeno fuori a bastonate, ma ti si spazza via da ogni consorzio umano con la scopa, per aggravare l’offesa; ed è giusto, poiché nella miseria nera io per primo sono pronto a offendere me stesso.”

Ecco cos’abbiamo fatto con Satnam Singh quando l’abbiamo lasciato davanti a casa senza soccorrerlo, l’abbiamo spazzato via.

Eppure, chi succhia il sangue ai poveri non dovrebbe prendere troppo sottogamba i pericoli che corre: “Delitto? Quale delitto? […] Perché ho ucciso un pidocchio schifoso, malefico, una vecchia usuraia che non era utile a nessuno, che succhiava il sangue ai poveri, un essere la cui soppressione dovrebbe far perdonare quaranta peccati? Questo sarebbe un delitto? Non ci penso nemmeno, e non intendo affatto lavarlo. Tutti puntano il dito contro di me, e mi sento dire da ogni parte: Delitto, delitto! […] Ah! È la forma che non va, la forma non è esteticamente soddisfacente!… Be’, proprio non capisco: distruggere il prossimo con le bombe, o dopo un regolare assedio; è forse un modo più rispettabile? La preoccupazione estetica è il primo segno di debolezza! Mai, mai me ne sono reso conto prima di adesso, e men che mai capisco in che cosa consiste il mio delitto! Mai, mai sono stato più forte e più convinto di adesso!…”

Immagino, invece, quello che potrebbe essere balzato in testa a chi si è allontanato dopo aver lasciato davanti casa l’indiano senza un braccio: “A tutto finisce per abituarsi, questa carogna che è l’uomo! Oppure, Gente felice quella che non ha nulla da chiudere a chiave!”

Sperando di non mancare di rispetto a Satnam Singh e ai suoi famigliari, e continuando a pescare da Delitto e castigo pur sapendo che un prete nulla c’entra coi sikh, mi sono permesso d’immaginare l’indiano pronunciare queste parole poco prima di morire: “[…] lasciatemi almeno morire in pace […] Che cosa? Un prete?… Non serve… Avete proprio soldi da buttare via?… Non mi lascio dietro peccati, io!… Dio mi deve perdonare anche così… Lui lo sa quanto ho sofferto!… E se non mi perdona, vuol dire che non ha importanza!…”

Visto che stiamo parlando di miseria, credo non sia per nulla fuori luogo parlare di elemosina e riportare un altro estratto del romanzo di Dostoevskij: “[…] non posso approvare, per principio, la beneficenza privata, giacché non solo non elimina radicalmente il male, ma anzi lo alimenta ancor di più […].”

Anche Gandhi diceva qualcosa di simile: “Mi rifiuto di insultare il povero offrendogli dei cenci di cui non ha bisogno invece che del lavoro di cui ha un bisogno estremo.” (da L’arte di vivere)

Ma esiste ancora il povero? Jules Feiffer, scrittore e fumettista statunitense, ci fa notare questo: “Ero solito pensare di essere povero. Poi mi dissero che non ero povero, ero bisognoso. Poi mi dissero che era autodistruttivo pensare a me stesso come bisognoso, ero solo privo di mezzi. Poi mi dissero che privo di mezzi era una cattiva immagine, ero sottoprivilegiato. Poi mi dissero che sottoprivilegiato era abusato, ero svantaggiato. Non ho tuttora un centesimo. Ma di certo ho un gran bel vocabolario.” (in Zona Letteraria, monografico intitolato “La colpa di essere poveri”).

Volendo, all’elenco sopra potremmo aggiungere “i meno fortunati” e chissà quant’altri giochi di parole.

Bisogna fare molta attenzione all’arma del linguaggio utilizzato da chi muove i fili di questo sistema che crea braccianti con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento, sfiniti dal lavoro, schiacciati dall’economia.

E altrettanta attenzione andrebbe riservata a chi si esprime sui motivi che generano questa povertà. Solitamente il pensiero di destra ritiene la povertà un fatto individuale: chi, nella competizione sociale, resta povero è perché è pigro, incolto, ignorante, in qualche misura inferiore. Invece, come ha scritto l’amico Gianfranco Manfredi sulla rivista Zona Letteraria, monografico intitolato “La colpa di essere poveri”, “la teoria della sinistra è […] che la povertà è un fattore strutturale, cioè di sistema. Chi si trova in povertà è in tale condizione perché si trova in settori economici che non riescono ad assicurare loro guadagni adeguati. La mobilità sociale consente a queste persone di non restare eternamente confinate in questi settori, nella misura in cui riescano a spostarsi in settori più remunerativi. Tuttavia, i settori economicamente depressi restano tali, e altre persone vi cadono.” (Gianfranco Manfredi, “Breve storia del pauperismo medievale. Il movimento dei pauperes spiritu da Valdo di Lione a Francesco d’Assisi”)

Non credo di dire un’eresia se scrivo che la povertà sta aumentando proporzionalmente a quanto sta aumentando il denaro che finisce nelle mani di pochi e che, quindi, la lotta contro la povertà non può prescindere dall’intervenire sui processi che permettono l’accumulo di ricchezze sempre e soltanto nelle stesse tasche.

Ma quali sono le mani dei pochi in cui finisce il denaro? Le grandi aziende agricole citate da Steinbeck? I mercati di frutta e verdura di mezza Italia citati da Avvenire? Magari le catene di supermercati che – fresca o surgelata – vendono questa frutta e verdura? Nessun altro? E se queste mani fossero anche le nostre, di noi consumatori, che acquistiamo solo a fronte di prezzi stracciati pur potendo sborsare qualcosa di più e che, risparmiando qua e là, spendiamo quel denaro accantonato in altri generi di consumo spesso e volentieri prodotti dal miliardo circa di poveri sparsi in giro per il mondo?

Sperando l’umanità faccia la scelta giusta fra le due opzioni riportate da Tolstoj nel suo saggio Guerra e rivoluzione del 1906 – “Ora, nella situazione attuale, l’umanità ha due scelte: o aderire alla civiltà esistente che assicura la più grande quantità di felicità a una minoranza, mentre la maggioranza è lasciata nella miseria e nella schiavitù; o sacrificare una parte delle conquiste della civiltà, cioè tutte le conquiste vantaggiose per un piccolo numero di persone, e questo subito, senza procrastinare, una volta che si sarà riconosciuto che sono precisamente questi vantaggi che impediscono alla maggioranza di essere libera dalla miseria e dalla schiavitù.” – mi chiedo… non è che il povero Satnam Singh l’ho anch’io sulla coscienza?

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Repressione al lavoro https://www.carmillaonline.com/2020/01/19/repressione-al-lavoro/ Sat, 18 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57359 di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del [...]]]> di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del conflitto – I.G.].

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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta

La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.

Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.

Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.

A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.

Il decreto Salvini- Uno

Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.

Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.

Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.

Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.

Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!

Il fatto che l’orda reazionaria  rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).

Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.

All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…

Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?

Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.

Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.

E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).

Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…

Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.

Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.

Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.

E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.

Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…

Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due

Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.

Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).

E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.

Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.

E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.

Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!

Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.

Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.

Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.

E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.

Il DL Minniti-Orlando

Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.

I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.

In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…

In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.

L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).

Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.

Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.

L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas

Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.

Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.

La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.

Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.

Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).

Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.

A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.

Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.

A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.

Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.

E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.

L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.

Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.

Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.

Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.

L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.

Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.

Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.


  1. Claudio Novaro: “Il decreto Salvini e il reato di blocco stradale”, pubblicato il 6/11/2018 su www.notav.info  

  2. “Il decreto Salvini a piedi uniti sulla logistica”, pubblicato su http://www.ship2shore.it il 26/09/2018 (qua). 

  3. Le principali lotte portate avanti da SI Cobas, dapprima nella logistica e poi nella filiera agroalimentare negli anni antecedenti ai Decreto- Salvini, e gli eventi che hanno portato all’arresto di Aldo Milani sono narrati e analizzati esaustivamente in Carne da Macello 

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Frammenti di fuoco nel deserto del Sud Europa https://www.carmillaonline.com/2019/07/14/frammenti-di-fuoco-nel-deserto-del-sud-europa/ Sat, 13 Jul 2019 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53503 di Filippo Violi

[Riportiamo un assaggio del romanzo di Filippo Violi, Frammenti di fuoco nel deserto del Sud Europa (Pav, 2019, pp. 340, € 16,00). La narrazione, costituita da cinque vicende, è ambientata ai giorni nostri in Calabria ed è connotata da un tono provocatorio e ironico. L’autore affronta, con un sottile, ma indistruttibile filo di speranza, temi quali la fabbrica, la burocrazia, l’immigrazione, il caporalato, l’usura e la ‘ndrangheta.]

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Frammento III – I Banditori del Passovecchio

La vita, la malattia, la sventura, l’isolamento, la povertà sono campi di battaglia [...]]]> di Filippo Violi

[Riportiamo un assaggio del romanzo di Filippo Violi, Frammenti di fuoco nel deserto del Sud Europa (Pav, 2019, pp. 340, € 16,00). La narrazione, costituita da cinque vicende, è ambientata ai giorni nostri in Calabria ed è connotata da un tono provocatorio e ironico. L’autore affronta, con un sottile, ma indistruttibile filo di speranza, temi quali la fabbrica, la burocrazia, l’immigrazione, il caporalato, l’usura e la ‘ndrangheta.]

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Frammento III – I Banditori del Passovecchio

La vita, la malattia, la sventura, l’isolamento, la povertà sono campi di battaglia che hanno i loro eroi che lottano a denti stretti con tenacia e resistenza; eroi oscuri ma più grandi a volte di quelli più illustri.
[…] Per la storia e i fatti che mi accingo a raccontare, non sarei sorpreso se a lungo andare fossi considerato semplicemente folle o, comunque, persona non gradita ad una nutrita schiera di uomini e donne benpensanti, immuni a farsi disturbare nel cantuccio dorato del loro cammino. Mai pertanto potrò aspettarmi, da codesta brava gente, bontà di credito alcuno.
Sarei matto ad aspettarmelo in un caso in cui i miei stessi sensi respingono quanto hanno direttamente sperimentato. Matto non sono e certamente non sto sognando, ma domani non so se ci sarò e oggi ho l’urgente bisogno di liberarmi l’anima. Il mio scopo immediato è quello di esporre, al mondo, il proseguo degli eventi successi in questo angusto luogo di periferia. La storia si è divertita ad accavallarli, senza badare a spese, insegnando però ai posteri gli orrori passati e i tristi presagi presenti e futuri.
Ora non resta che guardare, girarsi attorno, osservare malinconici come la città sia regredita nel corso di un ventennio. Vaghi col pensiero, cammini e nelle stradine del centro urbano noti alcuni negozi storici che ormai hanno chiuso i battenti, mentre altri, con piglio e orgoglio, stanno in attesa, chissà per quale tumulto giornaliero!
I saldi non fanno più eco né testo e nemmeno presa come un tempo, i cartelli con la scritta “cedesi attività” sono in aumento….
Si emigra e lo si fa tutti insieme, uniti, indistintamente, verso altre terre, verso altre mete, verso altri campi minati. L’opera di desertificazione nelle periferie d’Europa è da tempo iniziata, lo spazio vitale di hitleriana memoria è in via di completamento.
L’esercito dei disperati è già in cammino, va spedito, verso l’inferno teutonico.
Un esercito di riserva, come bacino di precari, rappresenta l’eredità di un territorio martoriato che così a noi ora si consegna: ultra cinquantenni, eternamente espulsi dal mercato del lavoro, da mesi e mesi non percepiscono alcun assegno, anche la “mobilità in deroga” non rappresenta più per loro garanzia di sostentamento, ma solo un triste avanzo di miseria.
Questo è il lascito che si consegna al popolo, quale opera truce e violenta di mestieranti della politica, alcuni dei quali stazionano sempre indisturbati sugli scranni del civico consesso.
[…] Il resto è storia d’oggi, così come quella di tutti i giorni: la gente chiude bottega e scappa, emigra. Il deserto nel Sud-Europa avanza, indisturbato. Restano solo cumuli di macerie a cielo aperto, veleni e lutti per esalazioni, miseria e precariato a vita. Un costo immane, amaro e salato da pagare, lasciato in dote al popolo pitagorico.
[…] Si moriva di cancro in quel distretto di provincia l’urgenza di bonificare subito quell’area industriale e salvaguardare la salute pubblica del territorio, dopo dieci lunghissimi anni di stagnazione burocratica e letargo politico, sembrava passata nel dimenticatoio, messa in secondo piano, i casi di tumore triplicavano di anno in anno, ma la gente sembrava quasi non accorgersene o far finta di niente. Almeno fino a quando un conoscente stretto o un familiare veniva attaccato da quell’orrendo morbo che quasi mai lasciava scampo.
La fabbrica era chiusa da tempo, i fumi delle ciminiere messi per sempre a tacere, l’ambiente sembrava potesse riprendere fiato, eppure si moriva sempre di più, a ritmo incessante e, la morte, oltre a non rispettare età, non guardava in faccia nessuno. I malcapitati, gli sfigati che la sorte stabiliva per loro l’atroce destino, venivano schiantati, schiacciati a terra come fossero bruchi, larve umane ridotti a cenere, dopo tanta sofferenza.
Sì, è vero, si respirava pure un certo benessere in quel cantone di provincia, ma la sofferenza di quella terra veniva nascosta, mascherata, come fosse pura vergogna.
Una cascata sonante di liquidità aveva inondato quel territorio e radunato, intorno all’abbeveratoio politico, una folla vorace di privilegiati: ordini professionali sparsi di qua e di là, organizzazioni sindacali e padronali, enti di formazione, agenzie immobiliari, di prestiti, di assicurazioni, e poi ancora concessionarie, società finanziarie; insomma quell’avanguardia parassitaria e ben nutrita di quel milione di famiglie che vivono in Italia di politica e mediazione sociale, ora si vedevano gingillare pure in quel posto.
L’edilizia era affetta da bulimia: spopolava, furoreggiava, prendeva i suoi frutti da quel nutrimento. Le lottizzazioni fioccavano come coriandoli, cemento su cemento la città s’inorgogliva e s’ingrassava. L’architettura urbanistica, opulenta e grigia, era sostanza che prendeva forma.

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Pastorale emiliana 2 – La vendetta https://www.carmillaonline.com/2018/01/06/pastorale-emiliana-2-la-vendetta/ Fri, 05 Jan 2018 23:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42604 di Giovanni Iozzoli

Eccolo, ci mancava un ingrediente decisivo. Arrivano sulla scena quei sindacati complici che firmano un accordo, separato e truffaldino, per soccorrere il padrone e dividere i sommersi dai salvati. Alla vicenda della Castelfrigo mancava solo questo elemento tradizionale – la corruzione sindacale – per avvicinarsi compiutamente alla Chicago anni Trenta: mafiosi capi di cooperative, narcotrafficanti addetti alle risorse umane, lavoratori schiavizzati, spremuti e buttati sul lastrico e adesso, finalmente, scendono in campo anche i sindacalisti venduti. Così, se Sergio Leone dovesse decidere di reincarnarsi, tra qualche anno potrà girare un [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Eccolo, ci mancava un ingrediente decisivo. Arrivano sulla scena quei sindacati complici che firmano un accordo, separato e truffaldino, per soccorrere il padrone e dividere i sommersi dai salvati. Alla vicenda della Castelfrigo mancava solo questo elemento tradizionale – la corruzione sindacale – per avvicinarsi compiutamente alla Chicago anni Trenta: mafiosi capi di cooperative, narcotrafficanti addetti alle risorse umane, lavoratori schiavizzati, spremuti e buttati sul lastrico e adesso, finalmente, scendono in campo anche i sindacalisti venduti. Così, se Sergio Leone dovesse decidere di reincarnarsi, tra qualche anno potrà girare un nostalgico “C’era una volta a Castelnuovo Rangone” dove non mancherà nessuno degli stereotipi classici della crime story – senza lieto fine, ovviamente, perché nella terra del maiale niente finisce lietamente: anche se l’assassino è pubblicamente smascherato, continua imperterrito a produrre crimine e impunità.

L’epica lotta dei forzati del prosciutto si avvia verso il suo sentiero finale, con orgoglio, consapevolezza, ma anche con un retrogusto amaro: la Cisl e l’azienda hanno tirato fuori un accordo, tenuto segreto per un mese, che tutela – assai debolmente – 52 dei 127 licenziati; si tratta esattamente del perimetro dei suoi iscritti, oltre a tutti quelli che non avevano partecipato ai due mesi di mobilitazione precedente. Un’attenta cernita. Del resto, il padrone non è tipo da nascondere la mano, era stato abbastanza esplicito già tempo addietro: sceglietevi la tessera giusta o ne pagherete le conseguenze. La faccenda ha destato scandalo persino sulla stampa locale – troppo smaccata la provocazione, troppo infame il comportamento cislino – finanche il sindaco di Castelnuovo ha dovuto mimare qualche timida ripulsa. Se il “paccotto” di Natale si confeziona con modalità così luride, dove va a finire l’auspicata “mediazione sociale”, l’appello “al dialogo e alla ragionevolezza”, la ricerca di “soluzioni condivise”?

Ma la vicenda Castelfrigo cos’è, se non la riproposizione su scala minore del modello Pomigliano e del metodo Marchionne, a suo tempo pienamente metabolizzato e legittimato dentro la società italiana? Perché il più grande gruppo industriale italiano avrebbe il diritto di spacchettare oscenamente i diritti e i destini dei suoi dipendenti, mentre nel più modesto comparto carni tutto ciò dovrebbe essere evitato? Perché questa, stringi stringi, è stata la “rivoluzione di Marchionne”, quella a suo tempo salutata come l’avvio di una nuova era: chi sciopera, chi ha la tessera non gradita o anche solo chi è potenzialmente individuato come disturbatore, è pregato di accomodarsi fuori. E alla Castelfrigo, oggi, spaccarsi la schiena e i polsi nelle celle frigorifere (per un contrattino interinale di tre mesi) è diventato un privilegio che si paga con la sottomissione, la presa di distanza dai reprobi, la resa unilaterale davanti al padrone. Questa è l’Italia sordida che abbiamo lasciato dilagare, in questi anni.

Flashback: da più di vent’anni, nel cuore dell’economia modenese, la filiera agroalimentare e il rinomatissimo “distretto carni”, le aziende hanno permesso l’insediamento di cooperative spurie, spesso gestite da malavitosi, grazie alle quali, con un complicato sistema di appalti e subappalti, si può risparmiare il 50% del costo del lavoro e praticare una generalizzata evasione fiscale e contributiva. In questo modo le imprese, grandi marchi o loro importantissimi terzisti, hanno dimostrato in pratica, a mo’ di teorema, che il discrimine tra economia criminale ed economia capitalistica ordinaria, sostanzialmente non esiste. Le mafie non sono un “cancro”, come dice la retorica legalitaria: sono una variante, un’opzione, una potenzialità in più del meccanismo economico.

Tutto ciò negli anni si è consolidato, in questo assai poco ridente angolo di provincia modenese, in forma organizzata e capillare di “sistema”, distribuendo miseria a chi lavora e consentendo margini di competitività ad imprese che per reggere la concorrenza globale farebbero ogni schifezza, anche riempire i polpettoni di carne operaia, se servisse.

Da un paio d’anni, i nuovi schiavi dei prosciuttifici hanno cominciato ad alzare la testa e ribellarsi. Si tratta di lavoratori spesso stranieri, eternamente precari, ogni anno più poveri e ricattabili sulla base dei furiosi cambi appalto che fanno sparire e ricomparire magicamente i formali datori di lavoro. La loro presa di parola, il coraggio della lotta, non era cosa né facile né scontata. E se già in altre aziende, vedi la Alcar, il conflitto aveva prodotto visibilità, è stato alla Castelfrigo che una lotta operaia ha fatto finalmente irruzione nell’agenda politica e costretto tutto il territorio a interrogarsi, con corpose ricadute nazionali.

E anche questo recente accordo truffa, tirato fuori tra Natale e Capodanno, non consentirà di seppellire né la vertenza, né le questioni che essa ha evocato. Finalmente il muro d’omertà diffuso, che aveva sostanzialmente salvaguardato il caporalato criminale per tutelare “le eccellenze produttive locali”, ha cominciato a sgretolarsi. Gazzettieri, amministratori, politicanti, magistrati e semplice opinione pubblica: tutti hanno dovuto toccare con mano che dietro i marchi scintillanti dei banconi degli ipermercati, si poteva leggere una storia durissima e vergognosa di sfruttamento paraschiavistico; la vetrina della qualità gastronomica italiana era chiazzata di sangue – e non in senso metaforico.

Dopo un paio di mesi di incessante mobilitazione davanti ai cancelli dell’azienda di Castelnuovo Rangone, con il protagonismo reale di una compagine determinatissima e disperatamente vitale, che è riuscita a inventarsi giorno per giorno un’enorme volume di iniziative, i centri di potere locali non hanno potuto più ignorare il problema; troppo insistente l’irruzione operaia, troppo clamore, troppi reportage, troppe vergogne nascoste per lunghi, lunghissimi anni, dietro le mura di capannoni che sbandierano il “made in Italy” come garanzia di qualità. Piano piano sono arrivati i pronunciamenti, le prese di distanza, gli ordini ispettivi e istituzionali e le denunce. Come un novello Candide, il ceto politico da sempre al governo da queste parti, ha manifestato indignazione per una realtà che tutti conoscevano da almeno vent’anni. La verità è che queste terre avevano lungamente alimentato una “congiura del silenzio” degna dell’Aspromonte: l’impresa è sacra, la competizione è selvaggia, il fatturato è inviolabile – chi parla di diritti e contratti è un disfattista, un estraneo imbucato, uno che non afferra la modernità delle filiere, un troglodita.

Questi straordinari ragazzi ghanesi, albanesi, maghrebini, cinesi (sì, evviva, ci sono anche i cinesi in testa alle mobilitazioni, ed è un segnale di novità) che hanno dato corpo questa lotta, inseguendo il padrone persino nei suoi sacri spazi privati, hanno prodotto in sé un mutamento di coscienza straordinaria: la lotta di classe è una scuola politica, culturale e umana che non ha eguali. Ogni santo giorno hanno animato la loro assemblea, accumulato competenze, concesso interviste, discusso da pari a pari con i sindacalisti professionisti a cui non hanno delegato nulla. Mesi che valgono come anni per lavoratori che se – come è scritto nei protocolli firmati ai tavoli regionali – dovessero trovare una nuova collocazione in aziende del territorio, dentro realtà meno piratesche e compromesse, resteranno comunque sentinelle vigili contro il nuovo schiavismo che avanza. Quadri operai, non merce.

Si è detto, senza retorica, che questi proletari, in massima parte stranieri, hanno insegnato molto agli italiani. Però attenzione: anche loro hanno imparato qualche lezione, pure quelli che vivono qui da un quarto di secolo e pensavano di sapere tutto.

Lezione 1
In Italia, oltre alla “cooperative spurie” esistono i “sindacati spuri”. Non si tratta di semplice corruzione (anche se in questi casi, mazzette e marchette non sono mai sgradite). O meglio: stiamo parlando di una corruzione più profonda, ontologica, viene da dire; un sindacato che fa esattamente il contrario di quello che dovrebbe fare, una perversione dei fini che mette in contrasto il nome e la cosa: come se il WWF si mettesse a organizzare safari. Questa espressione, “spuria”, tipica di un italiano desueto e burocratico, significa letteralmente (leggiamo dal Garzanti): “di natura non definita, bastardo”. Naturalmente la natura dei sindacalisti Cisl appare ben definita!

Lezione 2
In Italia non basta aver ragione, non serve che il sindaco o il Governatore della tua Regione o i giornali e la Rai, la Commissione Lavoro di Montecitorio o persino il Santo Padre e l’Onu, ti diano ragione. La vera ragione sta in bilico, ben nascosta dentro il rapporto di forza; la democrazia è solo una favola per anime semplici: patrimonio, fatturato, batterie di avvocati e complicità che contano, questo decide se le ragioni si incarnano in cambiamenti o restano pezzi di carta. Castelfrigo ha subito gravi danni di immagine e forse perso un po’ di commesse. Ma la vicenda dell’accordo separato, conferma che l’arroganza del padrone può anche fare a meno del consenso. È una rivendicazione di autonomia del comando d’impresa, una maligna dichiarazione di indipendenza che racconta bene la brutale ideologia esibita dai padroni oggi: dite pure quello che vi pare, io rispondo con i milioni. Se la vicenda Castelfrigo finirà con qualche sentenza in Tribunale e un po’ di risarcimenti, sarà l’ennesima vittoria delle ragioni d’impresa: la violazione della Costituzione è monetizzabile e con i soldi si compra tutto

Lezione 3
La vicenda Castelfrigo ha effettivamente smosso l’agenda politica e fatto uscire i paguri dal loro guscio. Ma l’ostinazione a non “spingersi troppo oltre”, a rimanere “sul terreno democratico”, una certa fissazione legalista, la scelta in definitiva di non praticare i blocchi dei cancelli, ha impedito che si sperimentasse l’ultimo miglio della lotta, quello in cui, esperite tutte le fasi di pubblica sensibilizzazione, il rapporto di forza diventa nudo e crudo, e si fa la cernita tra amici interessati, tartufi e solidali. I lavoratori hanno il diritto e il dovere di non abbandonare nessuna delle armi in loro possesso, se vogliono vincere.

Lezione 4
Non bisogna confidare nel fatto che i pronunciamenti istituzionali a favore di questa battaglia siano irreversibili: in Italia non esiste la nozione di “irreversibilità”, tutto è riassorbibile, niente passa davvero in giudicato. Peraltro siamo sotto elezioni, i politici italiani sono bestie impudiche e senza ritegno (soprattutto quelli nelle due versione piddine double face – PD e MDP). Le lotte sociali sono viste con sostanziale fastidio, come elementi di disturbo del traccheggiamento quotidiano a cui sono abituati; appena esse rifluiscono, le priorità tornano quelle tradizionali: prima il mercato poi tutto il resto.

Lezione 5
I padroni sanno cos’è la lotta di classe e soprattutto conoscono bene la solidarietà di classe. Confindustria non ha mollato un centimetro, ha considerato i padroni di Castelfrigo “colleghi che sbagliano” da non abbandonare, il fronte imprenditoriale è rimasto stoicamente compatto: si può e si deve difendere l’indifendibile! – molleranno prima loro, si son detti, con le loro pezze al culo e gli affitti in arretrato, piuttosto che noi, pilastri benemeriti del territorio. Una lezione di coerenza, per i proletari.

Lezione 6
Quando Diego – insieme a Chen, Frank e tutti gli altri – sostiene che alla Castelfrigo “stanno scrivendo un pezzo di storia sindacale” sta dicendo la verità, al di là di quali saranno gli esiti finali della vertenza. Il presidio andrà avanti, orgogliosamente, fino a quando tutti i lavoratori esclusi non saranno ricollocati in aziende della provincia (ci sono impegni assunti in tal senso dalla Lega delle Cooperative e da attori importanti del comparto, tutti ansiosi di cancellare l’onta e le polemiche di queste settimane e di ricacciare la polvere sotto al tappeto). Ma adesso è il momento di andare avanti, di non mollare, di spostarsi davanti ai cancelli delle altre decine di Castelfrigo che ammorbano il tessuto economico. Il rischio è che escano dal portone le cooperative “spurie” e rientrino dalla finestra gli appalti interni, tramite Srl “fatte in casa”- con la medesima finalità: non stabilizzare i lavoratori e comprimere il loro costo vivo. Bisogna proseguire, col coltello in mezzo ai denti. Perché è lì, dentro quei contratti farlocchi, dentro quegli stipendi miserabili, dentro lo spezzettamento della base occupazionale, dentro la sacrosanta disaffezione al lavoro, che cova e marcisce l’eterna crisi italiana: nella svalorizzazione cronica del lavoro, nel suo deprezzamento, nella sua marginalità, nel suo scadimento qualitativo e professionale. Quella è la vera cancrena italiana – il lavoro che un tempo fu ricchezza, civilizzazione, mobilità sociale, oggi è maledizione, povertà, cristallizzazione delle gerarchie. Si blatera tanto di ricette economiche e strategie di uscita dalla crisi. Viene da sorridere. Se si vogliono capire le ragioni della crisi, basta dare un’occhiata alla paga oraria in Castelfrigo. Là dentro è scritto l’arcano della crisi. E più si affannano a erodere i salari, a precarizzare le prestazioni, più la crisi, sghignazzando oscena, si avvita su se stessa. L’unica misura anticiclica oggi la potrebbero mettere in campo i proletari scioperando e strappando ricchezza.

Intanto il presepe emiliano traballa e scricchiola sempre di più. La figura operaia, simbolo dell’iconografia para-socialista che per alcuni decenni aveva dato corpo all’ideologia emiliana – l’operaio integrato, l’operaio in ascesa sociale, l’operaio professionale e dalla tuta immacolata, l’operaio con il figlio dottore, l’operaio cooperatore, civico, sentinella del territorio affacciato sulla soglia della sezione, a fronte strada –, quella figura operaia, dicevamo, sta solo nei ricordi sbiaditi e malinconici degli anziani, protagonisti inconsapevoli dell’epopea del compromesso sociale. Il microcosmo della lotta alla Castelfrigo ha squadernato brutalmente, in modo quasi didascalico, la moderna composizione del lavoro produttivo. I nuovi operai sono figure picaresche, tragicamente povere, sbattute come foglie al vento tra i diversi gironi di un mercato del lavoro pericoloso e inafferrabile. I più esposti e precari, come i forzati delle cooperative spurie, sperano in una stabilizzazione che li consegni a vita alla schiavitù di una busta paga sicura – e per molti è un miraggio chimerico; gli altri, quelli con un impiego e un contratto un po’ più solido, si tengono stretti la ciotola, bestemmiando, ringhiando, pagando bollette, mutui e rette sanguinose che devono garantire il destino di giovani e vecchietti di famiglia, abbandonati dalla ritirata del Welfare. Annaspano tutti insieme, sgomitando, a tentoni in mezzo alle nebbie padane – giorno per giorno, mese dopo mese, prestito su prestito, nella pallida speranza che Grillo, Salvini, Gesù Cristo o chissà chi altro, riesca a parlare al loro livore, alla paura del futuro, alle loro speranze deluse. Altro che miti socialisti. L’Emilia Romagna, proprio dentro le sue vetrine produttive, sta covando silenziosamente i virus più infidi e pericolosi. C’è qualcuno a sinistra, che trova il coraggio di rimettere le mani dentro questi laboratori tossici?


Pastorale emiliana – prima parte


Pastorale emiliana 2 – La vendetta

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