capitalismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fantascienza capitalista https://www.carmillaonline.com/2025/05/31/88511/ Sat, 31 May 2025 05:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88511 di Marco Pittaluga

Michel Nieva, Ciencia ficción capitalista. Cómo los multimillonarios nos salvarán del fin del mundo, Barcelona: Anagrama, 2024

In Ciencia ficción capitalista, lo scrittore argentino Michel Nieva legge lo stato presente del capitale attraverso la lente del rapporto fra fantascienza e capitalismo. È una scelta di metodo che appare al passo coi tempi. Oggi le pratiche imprenditoriali, i rapporti con i dipendenti, gli stili di vita e le dichiarazioni pubbliche dei capitalisti di punta, per semplificare al massimo l’élite che controlla le aziende della Silicon Valley, parlano di una fase nuova nella storia del capitale. Stiamo attraversando una di [...]]]> di Marco Pittaluga

Michel Nieva, Ciencia ficción capitalista. Cómo los multimillonarios nos salvarán del fin del mundo, Barcelona: Anagrama, 2024

In Ciencia ficción capitalista, lo scrittore argentino Michel Nieva legge lo stato presente del capitale attraverso la lente del rapporto fra fantascienza e capitalismo. È una scelta di metodo che appare al passo coi tempi. Oggi le pratiche imprenditoriali, i rapporti con i dipendenti, gli stili di vita e le dichiarazioni pubbliche dei capitalisti di punta, per semplificare al massimo l’élite che controlla le aziende della Silicon Valley, parlano di una fase nuova nella storia del capitale. Stiamo attraversando una di quelle turbolenze di solito spiegate col fatto che là fuori sta avvenendo un cambio di paradigma. Tratto decisivo di questo passaggio è l’individualismo assoluto del capitalista, che è appunto assolto da qualsiasi vincolo, nei confronti della comunità dei propri simili, che possa limitarne le scelte in materia di impresa, investimenti e vita. “È proprio quando opero in regime di totale irresponsabilità”, dice il plurimiliardario tipico del XXI secolo, “che faccio l’interesse dell’umanità (del quale, sia chiaro, non mi importa nulla). Se accettassi di limitarmi, soprattutto concettualmente, pensando cioè che esista un interesse sociale in linea di principio superiore al mio, non farei affatto un favore alla mia specie, tutt’altro. Agendo in questo modo priverei infatti gli umani dell’infinita capacità di innovazione che possiede un individuo come me quand’è dedito, con successo, al proprio arricchimento. Tale abilità innovativa si traduce in una ricaduta, nei termini di maggior invenzione e produzione, di cui beneficiano tutti, anche se ovviamente, e giustamente, in misura infinitamente minore della mia”.

Si potrebbe sostenere che è sempre stato così da quando esiste il capitalismo. Ma la novità del nostro tempo è che la rivendicazione da parte del capitalista della propria totale libertà in nome della sacralità del proprio egoismo si accompagna all’esplicito abbandono della democrazia. Quando Peter Thiel, il padrone di PayPal, dichiara, nel 2009, di non credere più che libertà e democrazia siano compatibili, compie una mossa decisiva1. È una svolta in grado di cambiare quel particolare rapporto fra capitale e Stato che sin dalla Grande Depressione degli anni Trenta e dalla sconfitta del nazi-fascismo nel 1945 caratterizza la vita sociale in Europa occidentale e Nord America. Qui non avrebbe torto chi dicesse che anche a Gianni Agnelli, tanto per citare un capitalista di un certo nome, della democrazia non importava assolutamente nulla. Però non lo diceva, anzi non lo poteva dire. Che non è un punto da poco. Come è misura dell’abisso in cui siamo caduti il fatto che oggi Thiel lo possa dire.

L’opzione antidemocratica adottata dal tecnocapitalismo della Silicon Valley costituisce la fase suprema dell’Ideologia Californiana, nata durante gli anni Sessanta lungo la costa Ovest degli Stati Uniti e oggi capace di coniugare valori e mentalità hippie con i loro omologhi yuppie. È un approccio al mondo basato su due principi: da una parte il rifiuto dell’autorità statale, responsabile, un tempo, delle cartoline precetto che mandavano i loro destinatari in Vietnam e oggi di un’insensata tassazione della ricchezza, e dall’altra la visione della tecnologia come utopia libertaria ed ecologista. Questo a dispetto sia del devastante impatto ambientale esercitato da molte delle tecnologie in voga nella Silicon Valley sia del lavoro supersfruttato che le rende possibili.

In questo contesto, per continuare a immaginarsi un futuro, il tecnocapitalismo si appropria della fantascienza. Qui siamo a un punto chiave dell’analisi di Nieva, perché il tipo di capitalista descritto sopra, quello alla Thiel, non può vivere nel presente. L’anarco-miliardario deve, al contrario, proiettarsi in continuazione nel futuro, perché è un visionario. L’insaziabile fame di ricchezza che lo tormenta lo costringe a immaginarsi sempre nuovi modi di guadagnar denaro, così da muoversi anni luce davanti al resto degli umani, quelli che si accontentano di quel che passa il convento. Così, mentre Mark Zuckerberg, insoddisfatto della realtà in cui vive la sua specie, lancia se stesso e le sue aziende in una realtà virtuale, il Metaverso, Elon Musk si prepara a colonizzare Marte. Jeff Bezos, infine, vuole rendere possibile l’immortalità; investe così in Unity Biotechnology, un laboratorio della ricerca contro l’invecchiamento cellulare. I tecnocapitalisti propongono il futuro come soluzione delle crisi del presente, con mossa tipica di chi scrive fantascienza. Ma si tratta di un genere del tutto nuovo, la fantascienza capitalista, basata sull’aporia che le crisi provocate dal capitalismo possano essere risolte solo attraverso più capitalismo. Esempio di questa fallacia è l’idea che il capitalismo possa utilizzare nella colonizzazione di altri pianeti le stesse tecnologie che hanno distrutto il nostro.

Nieva vede nel racconto fantascientifico narrato nella Silicon Valley l’ultima fase di una corrente della fantascienza iniziata con un articolo di Jules Verne, “La fin des guerres navales” (1903). In quel saggio, l’autore di De la Terre à la Lune (1865) sostiene che la fantascienza “scrive su carta quel che poi altri scolpiranno nell’acciaio” (18)2. La fantascienza capitalista compie un salto di qualità rispetto alla “hard science fiction” che si sviluppa negli anni fra il 1930 e il 1970, che specula “sul progresso tecnico-scientifico con la maggior verosimiglianza possibile nel quadro delle conoscenze esistenti” (p. 21). Il primo a tematizzare questo sottogenere della fantascienza è Hugo Gernsback quando, nel settembre del 1928, conia il termine scientifiction sulla sua rivista Amazing Stories, fantascienza che mette l’enfasi sui fatti scientifici3.

Si tratta di una fantascienza profetica, praticata da scrittori che posseggono un retroterra scientifico: Isaac Asimov (chimico), Arthur C. Clarke (fisico e matematico), James Blish (microbiologo), Rober A. Heinlein (ingegnere aeronautico) e Larry Niven (matematico). A questi dati si aggiungono le collaborazioni di Heinlein e Clarke con l’industria aerospaziale. All’inizio del terzo millennio, alcuni imprenditori di punta, Richard Branson (Virgin Galactic), Jeff Bezos (Blue Origin) e Elon Musk (Space X), entrano nel settore aerospaziale: “in un contesto marcato dalla minaccia urgente portata dal cambio climatico, camuffarono il verde dollaro della loro avidità speculativa con eroici progetti ambientalisti per salvare l’umanità portandola su altri pianeti” (p. 29). Nel 2001 nasce Space Adventures, che da allora invia turisti alla stazione spaziale. Negli anni successivi si aggiungono Virgin Galactic, Blue Origin, SpaceX, OrionSpan, United Launch Alliance, Aerojet Rocketdyne, Northrop Grumman, Maxar, Rocket Lab. Il luogo del commercio fra fantascienza e imprenditoria, a cominciare dal racconto che i milionari fanno di se stessi come raffinati lettori del genere, è naturalmente Silicon Valley. Così Nieva si chiede se la fantascienza non rappresenti la fase superiore del capitalismo e se i casi appena citati non siano esempi di una nuovissima tecnica di copiatura e riscrittura, “quella del lettore-imprenditore che trasferisce le infinite possibilità speculative della finzione letteraria alla speculazione finanziaria nel settore economico” (p. 33).

Tutti gli eroi della fantascienza capitalista sono dei ricconi con soluzioni eroiche ai problemi del mondo, bianchi, maschi, gringos, più Musk che si fa passare per afroamericano perché nato in Sud Africa4. Nel racconto fantascientifico del capitalismo, il maschio bianco imprenditore salva il mondo perché i problemi politici ed economici del pianeta sono in realtà insufficienze tecnologiche che soltanto il virile valore degli dei della Silicon Valley può risolvere. Se la tecnologia e il capitalismo sono responsabili del disastro ambientale, solo più capitalismo e più tecnologia troveranno la soluzione. Questo approccio ha un nome, “ecopragmatismo”, un ecologismo che mantiene rapporti amichevoli col ceto imprenditoriale. Mentre l’ambientalismo tradizionale genera soltanto più regolamenti statali e più pastoie burocratiche, la soluzione ecopragmatica dà vita a un “capitalismo verde ed efficiente”, senza limiti: energia nucleare, cibo transgenico, auto elettriche. Al vertice dell’ecopragmatismo si colloca la “geoingegneria solare”, ovvero l’approccio militaresco alla crisi climatica: “bombardare la stratosfera con enormi nubi di gas che, come una cappa atmosferica artificiale, proteggerebbero la Terra dalle radiazioni del Sole e ridurrebbero l’impatto del riscaldamento globale” (p. 40).

Michel Nieva

Una volta chiarito come il capitalismo fantascientifico sia la scorciatoia per complicarci terribilmente la vita sul pianeta, il passaggio chiave per immaginare una soluzione del presente disastro ambientale viene dall’osservare l’omologia fra la conquista dello spazio e la colonizzazione delle Americhe nei quattro secoli che seguono il 1492. Nelle dichiarazioni dei miliardari impegnati nella nuova corsa allo spazio, appaiono di frequente parole come “conquista” e “colonizzazione”, le stesse usate, dal viaggio di Colombo in poi, per descrivere le operazioni degli europei sul continente americano. Se le cose stanno così, solo i popoli indigeni della Terra, quelli che conoscono per esperienza il vero significato di “colonizzazione”, riusciranno a spiegarci cosa davvero hanno in testa i padroni di Silicon Valley quando discorrono dello spazio. Le uniche esperienze che possono essere avvicinate alla presente crisi socioambientale sono infatti quelle dei popoli colonizzati, per oltre quattro secoli decimati dalle malattie e dalla crudeltà europea: soltanto le comunità indigene sopravvissute al colonialismo possiedono un sapere in grado di immaginare modi nuovi di abitare un pianeta altrimenti posto davanti a una fine irreversibile. Quelle comunità ci diranno che dobbiamo passare dal territorio come fonte di merci morte al territorio come essere vivente. In altri termini, è necessario abbandonare l’idea che il territorio si possa sempre sostituire con un altro, fino al punto di mettere Marte al posto della Terra, per assumere quella che il territorio sia unico. Se la fantascienza capitalista è parte di una lunga storia – dalla distruzione delle popolazioni indigene nelle Americhe fino alla colonizzazione di nuovi pianeti – allora solo la decolonizzazione e il divenire indigeni, e non la ripetizione delle violenze originarie, come ci propongono i miliardari di Silicon Valley, ci possono salvare. Non a caso, a scrivere così, è uno scrittore cresciuto nel paese, l’Argentina, dove la fantascienza ha prodotto un grande racconto di una colonizzazione mortifera, l’Eternauta di Héctor German Oesterheld e Francisco Solano Lopez (1957-59), storia a fumetti della calata degli alieni a Buenos Aires.

Le varie meraviglie tecno-scientifiche che i tecnocapitalisti ci sciorinano davanti non illuminano il futuro, ma il passato. Si incamminano verso una fessura temporale dove i razzi di SpaceX con destinazione Marte “arrugginiscono nella polvere degli archibugi spagnoli”. È tutto un ammasso di ferraglia che si tinge del sangue della mattanza indigena, “in una violenza senza tempo che per non essere mai stata riparata si ripete con il ritmo di una catastrofe che non smette mai di ricominciare” (p. 65). Sembrerebbe, argomenta Nieva, che solo “il divenire indigeni” e “l’appartenere invece del possedere” costituiscano l’unica politica di respiro cosmico che “se obbedita salverà l’umanità dal crollo del cielo” (p. 65). In questo contesto la fantascienza acquista una centralità prima imprevista: si trova di fronte a un bivio. O la celebrazione idiota e il collaborazionismo tipico dei prodotti narrativi del capitalismo da una parte, o la politicizzazione tecnologica dell’arte, la critica politica della tecnologia posta al servizio dell’estrattivismo capitalista dall’altra. “Ma se la fantascienza capitalista […] ha sempre favorito la collaborazione di scrittori nordamericani, […] “la politicizzazione tecnologica prepara molto meglio chi scrive fantascienza a partire dell’esperienza del Sud, per la maniera in cui lì, storicamente, la tecnologia ha facilitato il saccheggio delle risorse, la repressione e il massacro” (p. 71).

L’epilogo di Ciencia ficción capitalista rappresenta un esempio di scrittura operante dentro un quadro di politicizzazione tecnologica. Mentre stavo scrivendo il saggio, scrive Nieva, mi arriva la lettera di un professore nordamericano che mi chiede di scrivere un racconto di fantascienza. Insieme ad altri oggetti d’arte, scelti fra i prodotti di letteratura, musica, arti plastiche e audiovisive, avrebbe formato una selezione della creatività umana da inviare sulla Luna con un razzo, alla fine del 2024. Dopo settimane di riflessione Nieva decide di rispondere affermativamente alla richiesta e inizia a scrivere “Criptolombrices”. Nel racconto, ambientato nel secolo XXVI, la terra è inabitabile e i multimilionari, compreso Musk che ha sconfitto la mortalità, vivono su Marte. Sul pianeta rosso c’è un inquinamento pazzesco, prodotto dagli umani per creare un effetto serra capace di riscaldare l’atmosfera. La vita consiste nel bruciare le maggiori quantità di carbonio possibili e nel mangiar la carne prodotta da enormi allevamenti di animali, necessari per la loro capacità di rilasciare grandi quantità di peti che contribuiscono al riscaldamento globale. Si ripete l’economia che ha distrutto la Terra, ma questa volta in maniera virtuosa: inquinare protegge la vita. Ma l’innalzamento della temperatura risveglia i “criptolombrichi”, una specie congelata da millenni, un parassita intestinale che migra fino a Muskonia e provoca la prima pandemia marziana.

L’epidemia distrugge la colonia umana su Marte: i pochi sopravvissuti, Musk compreso, si rifugiano in una stazione spaziale. Ma il fatto inesplicabile è che i vermi espulsi, con atroci dolori, dal ventre degli ammalati si distribuiscono ogni volta in gruppi di quattordici lombrichi, ordinati sempre in base alla stessa sequenza:


Dopo un lungo lavoro di interpretazione, la direttrice della commissione creata per spiegare la sequenza dei quattordici lombrichi, rende pubblico il messaggio finalmente decifrato: “FUCK YOU ELON MUSK”. “Magari lo mandassero sulla Luna!” è la battuta che conclude sia il racconto sia il libro.


  1. Quinn Slobodian. Crack-Up Capitalism: Market Radicals and the Dream of a World Without Democracy. New York: Holt, 2023. 1-2.  

  2. La responsabilità delle traduzioni da Ciencia ficción capitalista è mia.  

  3. Dall’editoriale di Hugo Gernsback intitolato “Science Fiction vs. Science Faction” in Wonder Stories Quarterly, vol. 2, n.º 1, 1930, p. 5:

    Non c’è dubbio che in futuro la fantascienza sarà guardata con grande rispetto da ogni persona ragionevole. Il motivo è che la fantascienza ha già contribuito non poco al progresso e alla civiltà e lo farà sempre di più con il trascorrere del tempo.
    Tutto è iniziato con Jules Verne e il suo Nautilus, che è stato il precursore di tutti i moderni sottomarini. La brillante immaginazione di Jules Verne ha senza dubbio contribuito in modo determinante a stimolare gli inventori e i costruttori di sottomarini. Ma naturalmente Jules Verne era un’eccezione in quanto sapeva usare i fatti scientifici e combinarli con la fantasia.
    Nei prossimi anni, inoltre, i nostri autori opereranno una netta distinzione tra la science fiction e la science faction, se posso usare questo termine.
    La distinzione dovrebbe essere abbastanza ovvia. Nella fantascienza l’autore può dare libero sfogo alla sua immaginazione e, purché non trasformi la storia in una favola scontata, rimarrà comunque nei limiti della pura fantascienza. La fantascienza può essere profetica, nel senso che gli avvenimenti immaginati dall’autore potrebbero avverarsi tra qualche tempo, anche se questo “qualche tempo” potrebbe significare tra centomila anni. Poi, naturalmente, si deve tenere conto che si possono applicare diversi gradi di fantasie nella fantascienza stessa. Si può spaziare tra previsioni probabili, possibili e quasi impossibili.
    In netta controtendenza rispetto alla fantascienza, c’è la science faction. Con questo termine intendo la fantascienza in cui sono presenti così tanti elementi scientifici che la storia, per quanto riguarda la parte scientifica, non è più una fiction ma diventa più o meno un rendiconto reale.
    Per esempio, se qualche anno fa si parlava di velivoli con motori a razzo, queste macchine sarebbero state ovviamente classificate come fantascienza. Oggi questi velivoli rientrano propriamente nella fantascienza, perché la propulsione a razzo è ormai a uno stadio molto avanzato. Sebbene questa tecnica di propulsione sia oggi ancora in fase sperimentale, come era stato per il prototipo dei fratelli Wright per l’aeroplano, i ricercatori che hanno lavorato con la propulsione a razzo sono stati sufficientemente incoraggiati da permetterci di prevedere con sufficiente sicurezza che nei prossimi venticinque anni il volo con questi tipi di propulsori  diventerà all’ordine del giorno.
    Qual è la storia migliore, quella che tratta di pura fantascienza o quella che si occupa di scienza? È difficile dirlo. Dipende, ovviamente, interamente dalla storia, dal suo trattamento e dall’ingegno dell’autore.
    Naturalmente, l’uomo di scienza, il ricercatore e persino l’uomo d’affari più ostinato guarderanno con più favore alla fantascienza, perché qui otterrà informazioni preziose che possono essere di utilità immediata; mentre le informazioni contenute nella fantascienza più diffusa possono forse essere troppo in anticipo sui tempi e spesso possono essere ritenute troppo fantastiche per essere di utilità immediata per l’umanità. Quindi, tra la fantascienza e la science faction ci sarà sempre un grande divario, e ognuna avrà migliaia e forse milioni di appassionati.

     

  4. In Argentina, gringo si dice dello straniero bianco, inizialmente di lingua inglese, poi in particolare italiana, a causa del prevalere dell’immigrazione dall’Italia nella regione rioplatense, specialmente negli anni fra il 1880 e il 1930. In Ciencia ficción capitalista il termine è usato nel primo senso, così da indicare sia cittadini statunitensi–per quali esiste l’alternativa, più comune in Argentina, di yanqui – sia britannici come Branson.  

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Economia neoclassica: una rete che non prende pesci https://www.carmillaonline.com/2025/05/21/economia-neoclassica-una-rete-che-non-prende-pesci/ Tue, 20 May 2025 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88585 di Luca Cangianti

Francesco Schettino, Socializzare i profitti. Le leggi generali dell’economia politica nell’era dell’Antropocene, pref. Clara E. Mattei, Meltemi, 2025, pp. 262, € 20,00.

Alcune parti del pensiero di Karl Popper sono sicuramente discutibili, specialmente in ambito politico. Però la metafora delle teorie scientifiche che sarebbero reti gettate sul mare della realtà per afferrare i «fatti» mi sembra suggestiva. Certo, è stato detto che a ben vedere i «pesci» stessi sarebbero prodotti (piuttosto che pescati) da tali reti, e che, a seconda della rilevanza del pesce, i pescatori sarebbero indotti a mutar metodo di pesca. Fatto sta che intorno al 1870 gli [...]]]> di Luca Cangianti

Francesco Schettino, Socializzare i profitti. Le leggi generali dell’economia politica nell’era dell’Antropocene, pref. Clara E. Mattei, Meltemi, 2025, pp. 262, € 20,00.

Alcune parti del pensiero di Karl Popper sono sicuramente discutibili, specialmente in ambito politico. Però la metafora delle teorie scientifiche che sarebbero reti gettate sul mare della realtà per afferrare i «fatti» mi sembra suggestiva. Certo, è stato detto che a ben vedere i «pesci» stessi sarebbero prodotti (piuttosto che pescati) da tali reti, e che, a seconda della rilevanza del pesce, i pescatori sarebbero indotti a mutar metodo di pesca. Fatto sta che intorno al 1870 gli economisti hanno cambiato le loro attrezzature di pesca e oggi si insegna quasi esclusivamente il paradigma neoclassico. Tutto il resto è relegato nei pressi dello sgabuzzino delle scope e dileggiato come «eterodossia». Gli eretici però esistono e ciclicamente tornano all’attacco, perché il pesce portato a tavola è piuttosto insipido. In tale contesto, Socializzare i profitti di Francesco Schettino è una scialuppa di salvataggio per tutti i lettori curiosi di capire meglio cosa c’è dietro i manuali patinati che si studiano nelle facoltà di economia di tutto il mondo.

Il libro si prefigge di smontare il paradigma ortodosso e mostrare cosa non va. L’oggetto dell’economia neoclassica è costituito dall’efficienza, ovvero dall’allocazione ottima di risorse scarse. L’autore a tal proposito mette in evidenza una omomorfia tra la teoria e il suo oggetto: il capitalismo, «pur avendo… impresso una accelerazione “mostruosa” alla produzione di merci a livello mondiale, trae origine e incrementa il suo sviluppo quando non c’è abbondanza. In effetti, se si osserva la genesi storica del modo di produzione, e si guarda, in particolare, al processo della cosiddetta accumulazione originaria… ci si accorge che alla sua base c’è stato un processo che ha smantellato la disponibilità diffusa di beni comuni, creando artificialmente la scarsità di possibilità economiche, attraverso le enclosures».
L’unità d’analisi del paradigma dominante è costituita dagli individui-consumatori che agiscono secondo criteri di razionalità soggettiva. Il capitalista possessore di stock di capitale viene posto allo stesso livello del possessore di capacità imprenditoriali, del rentier e del possessore di forza-lavoro. Ognuno dà il suo contributo alla produzione. La scuola neoclassica riduce gli elementi della spiegazione a un comune denominatore, all’essere utili o disutili e quindi scambiabili. Ciò rende possibile l’applicazione diffusa del ragionamento algebrico. Il prezzo ha natura relativa, mentre il valore è trattato soggettivamente e dipende dall’intensità del desiderio; è una relazione mentale tra individuo e merce e, ovviamente, astrae dai processi sociali.
Con questo tipo di rete, valore, distribuzione, crisi e sfruttamento – oggetti delle ricerche degli economisti appartenenti alla precedente scuola classica (Smith, Ricardo e Marx) – scivolarono via nelle profondità oceaniche. Contemporaneamente le nozioni di razionalità, di concorrenza perfetta e allocazione ottimale delle risorse offrirono un tono di scientificità positivista. Fu così che dalla political economy (come sociology, history e psychology) si passò all’economics (come physics e mathematics). Ciò che restava di politico era l’occultamento della dimensione politica dell’economia: la scienza economica, malgrado i progressi tecnici che la svolta neoclassica apportò, subì un impoverimento esplicativo. Schettino infatti mette in evidenza come l’approccio meanstream fallisca nello spiegare i fenomeni socio-economici più rilevanti che abbiamo di fronte agli occhi: le strutturali crisi cicliche, il prosperare dei monopoli a detrimento della tanto decantata concorrenza, l’assurda – ma funzionale dal punto di vista del dominio politico – polarizzazione economica tra ricchissimi e poverissimi in un mondo di crescente abbondanza, l’assottigliarsi dei ceti medi, le guerre commerciali e quelle fatte con i missili e i droni.

Nel quinto capitolo, infine, l’autore sfida il Moloch del Tina (there is no alternative) e abbozza arditamente alcune caratteristiche che una società postcapitalista dovrebbe avere per affrontare le catastrofi contemporanee (sfruttamento, polarizzazione sociale, disoccupazione, monopoli, degrado ambientale, tendenza strutturale alla guerra). Tale nuova formazione economico-sociale dovrebbe basarsi principalmente su cinque elementi: «a) il passaggio a un’economia in cui il valore d’uso sia prioritario e dunque al centro della produzione economica; b) riduzione dell’orario di lavoro anche per migliorare la qualità della vita; c) modificare la divisione standardizzata del lavoro, riportando creatività sul posto di lavoro, coerentemente con quanto sosteneva Marx (1891) nella Critica al programma di Gotha per cui la società futura non vedrà più i lavoratori “schiavi della divisione del lavoro” che diverrà “la principale necessità vitale e non solo un mero mezzo di sostentamento”; d) democratizzazione del processo produttivo anche rallentando l’economia; in altre parole in luogo del dispotismo del capitale si porrebbe la cooperazione e l’associativismo tra lavoratori; e) fornire la corretta rilevanza ai lavori essenziali come quelli di assistenza e cura.»
Lo strumento principe per conseguire questi obiettivi viene individuato in una pianificazione capace di coordinare a priori le decisioni d’investimento e non a posteriori come fa il mercato mediante le fluttuazioni dei prezzi relativi. Ciò limiterebbe le storture legate alla massimizzazione del profitto e permetterebbe di tener conto dei bisogni sociali.

Schettino mette bene in chiaro che si tratta di esperimenti mentali e non «ricette per l’osteria dell’avvenire». Lo sviluppo storico della conflittualità sociale, sia nel bene che più spesso nel male, è sempre più incredibile della più azzardata proiezione fantascientifica e le nuove istituzioni (rivoluzionarie o reazionarie che siano) nascono nel corso della lotta. Ecco perché è difficile scrivere ricette prima di accendere i fuochi sotto le padelle.

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György Lukács, Emilio Quadrelli e Lenin: tre eretici dell’ortodossia marxista https://www.carmillaonline.com/2025/05/07/il-nuovo-disordine-mondiale-29-limperialismo-lenin-e-la-globalizzazione/ Wed, 07 May 2025 20:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88241 di Sandro Moiso

György Lukács, Lenin, con un saggio introduttivo di Emilio Quadrelli e una lezione di Mario Tronti, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 190, 18 euro

La recente ripubblicazione da parte di DeriveApprodi del testo su Lenin di György Lukács (1885-1971), accompagnato da una corposa introduzione di Emilio Quadrelli (1956-2024) oltre che da un’appendice contenente una lezione di Mario Tronti, permette, tra le tante altre cose, di riflettere approfonditamente sui temi dell’eresia e dell’ortodossia nell’ambito della teoria marxista.

In questo contesto, secondo chi qui scrive, si possono rivelare di grande acume le riflessioni di Lukács e Quadrelli sul significato [...]]]> di Sandro Moiso

György Lukács, Lenin, con un saggio introduttivo di Emilio Quadrelli e una lezione di Mario Tronti, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 190, 18 euro

La recente ripubblicazione da parte di DeriveApprodi del testo su Lenin di György Lukács (1885-1971), accompagnato da una corposa introduzione di Emilio Quadrelli (1956-2024) oltre che da un’appendice contenente una lezione di Mario Tronti, permette, tra le tante altre cose, di riflettere approfonditamente sui temi dell’eresia e dell’ortodossia nell’ambito della teoria marxista.

In questo contesto, secondo chi qui scrive, si possono rivelare di grande acume le riflessioni di Lukács e Quadrelli sul significato rivestito dall’imperialismo all’interno del pensiero di Lenin, all’epoca fenomeno, appena definito nelle sue linee essenziali dal testo del liberale inglese John A. Hobson del 1902 (Imperialism), che aveva contribuito a dare vita ad una “prima globalizzazione” del mercato e dell’economia mondiale grazie anche a comunicazioni più rapide ed efficienti e all’integrazione dei paesi non industrializzati nell’orbita dei processi industriali, come fornitori di materie prime. Motivo per cui continenti interi e vaste regioni del globo furono stravolte per adattare l’ambiente e la popolazione all’estrazione di metalli o altre materie prime oppure per avviare monoculture estese (cotone, caffè, tè, caucciù, cacao) destinate a rifornire le industrie di trasformazione e i mercati europei, ma servendo anche come mercati in cui riversare il surplus di merci e manufatti prodotti dalle fabbriche europee.

Anche se l’espansione imperiale inglese risaliva a ben prima, preceduta da quella coloniale portoghese, spagnola e olandese, sarebbe stato il Congresso di Berlino, svoltosi tra il 15 novembre del 1884 ed il 26 febbraio del 1885, a rendere visibili gli appetiti espansionistici dei governi ed degli imperi europei con la spartizione (con carte geografiche, righelli, squadre e squadrette “nautiche” alla mano) del continente africano. Una sorta di grande nulla o di carta geografica bianca e “muta” cui solo la volontà degli imperialismi europei avrebbe “potuto” dare un volto e un senso compiuto, secondo le logiche di quello che all’epoca veniva indicato come white man burden ovvero il compito dell’uomo bianco di civilizzare il resto del mondo.

Detto questo però, e facendo ancora un passo indietro, occorre ricordare come questo fenomeno e questa tendenza irrefrenabile del capitalismo ad ampliare il mercato mondiale, sfondando i confini e i limiti delle nazioni e delle tradizioni locali, fosse già stato ampiamente annunciato da Karl Marx e Friedrich Engels nel loro Manifesto del Partito Comunista pubblicato nel 1848.

La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.
[…] il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i milionari dell’industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.
La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo1.

Gli stessi autori, negli anni seguenti, avrebbero poi ancora concentrato un parte dei loro studi sugli effetti del colonialismo europeo sia sull’India che sulla Cina, in particolare sulla distruzione della manifattura artigianale indiana dei tessuti a causa della diffusione sul mercato asiatico di quelli fabbricati in Inghilterra con il cotone proveniente dalle colonie (India compresa)2.

Ed è a partire da questo punto che si può aprire il confronto con le considerazioni di Lukács e Quadrelli contenute in una parte del testo qui recensito. Così, come afferma Quadrelli fin dalla prima pagina della sua introduzione:

Nel febbraio del 1924, a poche settimane dalla morte di Lenin, Gyorgy Lukács dà alle stampe il pamphlet Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario. Un centinaio di pagine scritte di getto che, come proveremo ad argomentare, si mostrano uno dei testi piu ricchi e densi della teoria politica marxiana dell’intero novecento. La sua complessità e ricchezza è tale da rivestire ancora nel presente molto di più di una semplice curiosità e ancor meno l’ennesimo omaggio malinconico al mondo di ieri. Se c’è una cosa che nel testo di Lukacs sorprende e assieme stupisce e la sua attualità. […] Composizione di classe, forma-partito, la questione dello Stato, la cornice politica propria dell’imperialismo e via dicendo lo rendono un testo che ha ben poco di datato. Consegnare e rinchiudere questo saggio nell’ipotetico scaffale dei pensatori del passato come tributo al mondo di ieri significa non avere compreso nulla di Lukacs e ancor meno del suo Lenin (e in fondo di Lenin stesso), ed e forse qui che la questione lascia i panni della schermaglia teorica per farsi battaglia politica a tutto tondo del e sul presente. Qui si pone la rigida contrapposizione tra l’attualità della rivoluzione e i suoi becchini. Qui si pone la drastica cesura tra la soggettività dei rivoluzionari e l’oggettivismo e il determinismo dei socialdemocratici di ieri e di oggi. Qui si pone la differenza tra l’essere e lo stare sul filo del tempo della rivoluzione e l’assunzione del tempo reificato del capitale come unica dimensione possibile.(( E. Quadrelli, György Lukács, Un’eresia ortodossa. L’attualità dell’inattuale in G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 5 e p. 14. )).

L’attualità di György Lukács di cui parla Quadrelli è costituita non soltanto dal rilevare come ogni procedimento teorico e pratico rivoluzionario debba porsi come eretico rispetto all’ortodossia spesso predicata da chi si ritiene custode di un ordine immutabile, anche della prassi rivoluzionaria, ma anche nelle pagine dedicate proprio all’Imperialismo di Lenin3, in cui quanto detto appena prima si esplica in maniera sorprendente. Afferma infatti il filosofo ungherese:

La concezione leniniana dell’imperialismo ha il carattere apparentemente paradossale di essere un’importante operazione teorica, senza per altro contenere molto di realmente nuovo se considerata come teoria puramente economica. Per più aspetti si fonda su Hilferding, e da un punto di vista meramente economico non regge affatto, per profondità e grandiosità, al paragone con la straordinaria prosecuzione a opera di Rosa Luxemburg della teoria marxiana della riproduzione. La superiorita di Lenin sta nel fatto di essere riuscito – e questa è un’impresa teorica senza paragone – a collegare concretamente e organicamente la teoria economica dell’imperialismo con tutte le questioni politiche contemporanee; a fare della struttura economica della nuova fase un filo conduttore per l’insieme delle azioni pratiche in un orizzonte cosi decisivo. Per questo egli respinge durante il conflitto talune concezioni ultrasinistre di comunisti polacchi come «economismo imperialistico». Perciò la sua critica e il suo rifiuto della concezione kautskiana dell’«ultraimperialismo», una teoria che confidava in un pacifico trust mondiale del capitale, verso il quale la guerra mondiale rappresenta un passaggio «casuale» e neppure «appropriato», culmina nella critica a Kautsky per aver separato l’economia dell’imperialismo dalla sua politica4.

Una discussione sorta all’interno della socialdemocrazia russa già in occasione degli eventi della rivoluzione del 1905, in cui si manifestarono sempre più apertamente le differenti visioni e prospettive dell’ala menscevica e di quella bolscevica.

La separazione tra destra e sinistra nel movimento operaio comincia sempre, anche al di fuori della Russia, con l’assumere la forma di una discussione sul carattere generale dell’epoca. Una discussione cioè volta a stabilire se determinati fenomeni economici, che si presentano in modo sempre piu chiaro (concentrazione capitalistica, importanza crescente dei grandi istituti finanziari, colonizzazione ecc.) rappresentino soltanto accrescimenti quantitativi del normale sviluppo del capitalismo, o se vada scorta in essi l’imminenza di una nuova epoca del capitalismo; se le guerre sempre piu frequenti (guerra dei boeri, guerra ispano-americana, russo-giapponese ecc.) che seguono a un periodo di relativa pace siano da considerare come fatti «casuali» ed «episodici», o se non si debba scorgere i primi segni di un periodo di guerre sempre piu violente. E infine: se lo sviluppo del capitalismo è giunto per questa via in una nuova fase, sono sufficienti i vecchi metodi di lotta a valorizzare i suoi interessi di classe in queste nuove condizioni? E quindi, quelle nuove forme di lotta di classe che sono sorte prima e durante la rivoluzione russa (scioperi in massa, insurrezione armata) sono eventi di significato solo locale e speciale, o magari «errori» e smarrimenti o vi si debbono scorgere i primi spontanei tentativi delle masse, suggeriti da un giusto istinto di classe, di adeguare il comportamento alla situazione mondiale?
E’ nota la risposta pratica di Lenin a questo intreccio complesso di questioni. Essa si espresse nel modo piu chiaro con la lotta da lui intrapresa al Congresso di Stoccarda […] perché la II Internazionale prendesse una posizione chiara e irriducibile contro la minaccia di una guerra imperialistica. Egli cercò di orientare questa presa di posizione secondo la questione di cosa si dovesse fare contro questa guerra5.

Se la posizione di Lenin e della Luxemburg tendeva a sottolineare la novità e il pericolo certo di guerra contenuta nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico, è altrettanto vero che il titolo dell’opera leniniana, che definiva l’imperialismo come fase suprema del capitalismo, metteva altrettanto in guardia dal fatto che coloro che si dichiaravano marxisti, ma che riponevano le proprie speranze o i timori nella capacità del capitale di controllare tutte le proprie contraddizioni, dall’ultraimperialismo di Kautsky allo Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM) teorizzato alla fine degli anni Settanta del ‘900 dalle BR, da quel momento avrebbero dovuto invece confrontarsi con una fase di guerra e competizione commerciale in cui tutti gli attori, vecchi e nuovi, avrebbero cercato di accaparrarsi con ogni mezzo le risorse e i mercati, oltre che la manodopera a basso costo, del mondo intero.

Fatto che presumeva che l’unico freno a questa competizione mondiale per il trionfo dei capitali nazionali o sovranazionali sarebbe stata costituita dalla rivoluzione proletaria internazionale. Nelle forme di cui i rivoluzionari avrebbero dovuto individuare le linee di tendenza da cui trarre la necessaria linea di condotta del partito dell’insurrezione. Per comprendere questo aspetto, ci soccorre quanto scrive, ancora, Emilio Quadrelli nell’introduzione.

Il paragrafo dedicato al modo in cui Lenin legge la fase imperialista si mostra di gran lunga come la parte più politica dell’intero pamphlet […] Tanto Hilferding, dal quale Lenin riprende molto, quanto Luxemburg, che ha sicuramente affrontato la questione con ben altro respiro, sono sotto questo aspetto, ricorda Lukacs, di gran lunga superiori al lavoro di Lenin. Ciò che però lo differenzia da questi e si può dire da tutti coloro che si sono trovati ad affrontare la questione imperialismo è la capacità di andare al cuore del politico, di individuare cioè la caratteristica essenziale della nuova cornice storica e tutte le ricadute che questa si porta appresso. L’isolamento politico cui Lenin andò incontro non solo nel 1914 ma ancora dopo, testimoniano – proprio nel modo politico in cui affronta la questione imperialismo – esattamente la rottura che apportò dentro tutto ciò che, in qualche modo, si richiamava al marxismo. Si tratta in fondo di qualcosa di comprensibile poiché Lenin incarna esattamente una frattura storica dentro la teoria marxiana: l’unico che ha mostrato di stare sempre sul filo del tempo e con questo portare il marxismo dentro la fase imperialista.
Con queste lenti, sottolinea Lukacs, va letto il suo lavoro sull’imperialismo ma non solo. Proprio in questo testo teoricamente minore Lenin mostra tutta la ricchezza politica che sta alla base della sua complessiva elaborazione teorica. La lucidità politica dell’Imperialismo leniniano è esattamente il punto d’approdo di un metodo elaborato nel corso della sua militanza politica abissalmente distante dall’intero mondo socialdemocratico. Questa differenza che sino allo scoppio della guerra aveva potuto rimanere compresa come tendenza dentro la grande famiglia socialdemocratica, adesso non può più essere racchiusa in un contenitore dove le diverse tendenze hanno cessato di essere tranquille esposizioni di punti di vista semplicemente diversi, per farsi, invece, fronti di combattimenti. Dentro la guerra imperialista le tendenze diventano le armi teoriche, politiche e organizzative di schieramenti di classe immediatamente nemici. L’isolamento politico cui va incontro Lenin rappresenta esattamente l’isolamento del proletariato internazionalista dei paesi imperialisti e delle masse subalterne delle colonie nei confronti di tutte le classi sociali cointeressate al macello imperialista. Tuttavia il settarismo leniniano, mai così evidente come in questa fase secondo le pletore dei suoi critici, di lì a poco si mostrerà come il settarismo della rivoluzione del proletariato internazionalem e dei popoli colonizzati e la sua teoria la sola in grado di armare i subalterni dentro l’obiettivo scenario della guerra civile rivoluzionaria internazionale6.

Con questo sguardo Lenin, già nel 1916, metteva in riga sia tutti coloro che credevano in una sorta di superimperialismo capace di governare il mondo al di là delle proprie contraddizioni o, udite udite, in una odierna idea di globalizzazione occidentale e americana ancora capace di dirimere i propri contrasti interni scaricandoli sui propri avversari, ma anche coloro che dalle teorie della stessa Luxemburg sui limiti del mercato mondiale e di quelle di radicale interpretazione delle conseguenze della caduta tendenziale del saggio di profitto facevano, o fanno ancora, derivare l’assunto di una inevitabile crollo della forma sociale e politica capitalista, senza bisogno dell’azione insurrezionale e cosciente dei suoi affossatori.

Infatti, se parlare di globalizzazione ha un senso ancora oggi non è tanto per la progressiva riduzione, da parte di molti paesi, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali considerato che la libertà di movimento dei capitali raggiunta verso la fine del 20° secolo è paragonabile a quella degli anni precedenti la Prima guerra mondiale, quando si era realizzato un alto grado di integrazione dei mercati finanziari (nel 1913 i rapporti tra i flussi totali di capitali e il commercio o la produzione mondiale erano superiori a quelli degli anni 1970). Piuttosto, se si vuole trovare la vera novità costituita dalla globalizzazione questa va individuata nella perdita di centralità dello stato-nazione, anche nei paesi che fino alla fine del XX secolo avevano utilizzato la propria forma e forza “nazionale” per opprimere gli altri con sistemi direttamente o indirettamente coloniali.

Da tempo siamo di fronte a qualcosa che ha trasformato il mondo in maniera non meno radicale di quanto lo sviluppo del capitalismo avesse comportato […] La globalizzazione e tutto ciò che si è portata dietro ha decisamente posto in archivio il mondo di ieri. Le conseguenze di ciò sono immense e non possono essere certo trattate in quattro battute, tuttavia e possibile evidenziarne alcuni aspetti che, almeno per i nostri mondi, si mostrano particolarmente laceranti. Parliamo dell’Europa occidentale e della sua storia piu recente. Ciò che appare per prima cosa evidente e l’eclissarsi di quella particolare forma statuale nota come Stato-nazione e di quel modello sociale che, per gran parte del Novecento, l’ha accompagnato, il welfare state. Tutte le classi sociali sono state investite da questo vortice il quale, in poche battute, ha detto che il mondo di ieri non esiste più. L’era globale non è un semplice passaggio interno a un modello, non è una pallida riforma, ma una rivoluzione, un salto epocale a tutti gli effetti. Nulla è più come prima. Lo stare dentro e contro torna a essere il cuore del dibattito politico contemporaneo7.

Qui si pone un altro problema politico di non poco conto, riguardante sia la composizione di classe che il ruolo che la classe deve svolgere, contro e fuori lo Stato-nazione e i richiami della sirene “populiste”.

Di fronte a quanto accade, pur con tutti i difetti del caso, sembra di risentire le medesime argomentazioni sorte in Russia di fronte all’irrompere del capitalismo. Da una parte i populisti che difendono strenuamente il mondo di ieri e che, in contemporanea, tendono a rendere eterni i soggetti sociali di quell’epoca; dall’altra i fautori del progresso che cantano le lodi di un capitalismo definitivamente liberatosi da ogni vincolo. Tutto, come allora, sembra compresso entro questa strettoia. A ben vedere anche le argomentazioni di ieri, pur con tutte le tare del caso, non sono tanto distanti da quelle del presente: la difesa del passato, per di più infarcito di narrazioni al limite del mitologico, contro il – non meno fantasioso – divenire radioso di una modernità emancipata da ogni vincolo. In pratica la contrapposizione tra la difesa dei proletariati nazionali europei e di quella particolare forma-Stato all’interno della quale erano ascritti, e l’imporsi dell’individuo completamente individualizzato e portatore di non secondari diritti civili e una forma statuale emancipatasi da ogni funzione sociale. Uno Stato snello il cui compito si limita a compiti militari e di polizia senza alcuna intromissione nella vita degli individui. Comunitaristi da una parte, liberalisti dall’altra, popolo contro individuo, Stato contro mercato e cosi via. I modi in cui questa apparente strettoia sembra porsi rimandano a un aut aut che non ammette vie di fuga. Lo stesso dibattito politico contemporaneo sintetizzabile in sovranisti ed europeisti sembrerebbe inchiodare la realtà entro le strettoie di queste forche caudine. Forse non è neppure un caso che il termine populismo sia tornato prepotentemente in auge8.

L’esaltazione del “popolo” in prossimità di una guerra risulta particolarmente importante dal punto di vista della politica antagonista e di classe poiché è tesa a sostituire, con un elemento mitico utile ai nazionalismi, la moralità e/o coscienza antibellicista delle classi che dovrebbero essere destinate a cancellare i miti e i caratteri principali del capitale con un colpo di spugna definitivo. Ed è per questo che, nel prosieguo della riflessione di Quadrelli sul testo di Lukács, occorre ancora ritornare a Lenin e, addirittura, alla guerra russo-giapponese.

Sin dai primi bagliori della conflittualità imperialista, la guerra russo-giapponese, Lenin coglie l’essenza del secolo da poco iniziato. Lo sviluppo del capitalismo sta iniziando a porre sulla scena storica nuove potenze politiche, economiche e militari che non potranno far altro che entrare in aperto conflitto con i vecchi potentati. La guerra vittoriosa del Giappone contro la Russia è la prima corposa avvisaglia di tutto ciò. Il mondo non può che andare incontro a una nuova definizione delle gerarchie di potenza. La guerra è all’ordine del giorno. Questa guerra, proprio per i mille fili che intrecciano il movimento dei capitali nella fase imperialista, non potrà che assumere una dimensione internazionale. Tutte le nazioni, quasi inconsapevolmente, non potranno far altro che finirci dentro. Ciò ha delle ricadute non secondarie e, in particolare, a farsi centrale per tutte le classi sociali è la dimensione della politica internazionale. La politica da cortile di casa ha cessato di esistere, nella fase imperialista abbandona i panni caserecci per divenire politica internazionale a tutto tondo. […] Certo, il mondo che ha di fronte Lenin è ancora limitato perché gran parte di questo è nella condizione della colonia e non può essere altro che oggetto delle mire imperialiste di un numero ristretto di paesi i quali, per lo più, sono concentrati nel vecchio continente. La divisione tra i paesi industrializzati e finanziariamente potenti e il resto del mondo è enorme tanto che, almeno inizialmente, l’Europa è il centro del conflitto. Sono le consorterie imperialiste europee a dare il la alla guerra ed è tra queste che il pianeta dovrà essere spartito. L’apparizione delle repubbliche sovietiche da un lato e dall’altro l’irrompere degli Usa, la nuova grande potenza imperialista in ascesa, saranno gli effetti non voluti, neppure minimamente pensati e immaginati, da quelle forze che nell’agosto del ’14 avevano dato fuoco alle polveri e che finiranno con il dare al sistema mondo un assetto del tutto diverso da quanto andato in scena nell’agosto del ’14 e quello che al termine del conflitto sarà ovvio ed evidente a tutti. Lenin, per molti versi, aveva anticipato tutto questo già nel 1905.
Ciò che egli coglie, sin dal conflitto russo-giapponese, sono le immediate ricadute internazionali che stanno alla base di questo passaggio. L’imperialismo ha posto in relazioni strettissime tutte le potenze imperialiste, non esistono piu interessi nazionali perché industria e finanza hanno ormai una composizione transnazionale. La Russia, ad esempio, contro il Giappone combatte grazie a dei capitali francesi e il risultato di quel conflitto, per forza di cose, non sarà contenibile entro i confini dell’impero zarista. Ma la vittoria del Giappone, a sua volta, non è un semplice fatto nazionale. La vittoria del Giappone formalizza l’ascesa di una nuova potenza imperialista dentro la contesa internazionale che avrà ricadute non secondarie sulla politica imperialista di tutte le potenze europee in Asia9.

Da questo punto di vista la globalizzazione non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze quanto già contenuto negli avvenimenti, e nelle guerre, del secolo precedente. Immaginare oggi una sorta di gerarchia assoluta delle potenze imperialiste, continuando a porre in cima gli Stati Uniti e la loro “volontà di potenza”, rischia di intrappolare ancora una volta il proletariato internazionale in una battaglia che non gli appartiene, sia che si tratti di difendere l’Occidente con i suoi valori che le potenze “ex-emergenti” che potrebbero essere soltanto quelle dominanti di domani.

La guerra, quindi, costituisce nella fase dell’imperialismo “globalizzato” un elemento dirompente e dirimente rispetto al quale non vi può essere altra risposta che l’insurrezione e la trasformazione della stessa in guerra di classe contro il Capitale e il suo Stato. Mai a difesa dello stesso, sia che questo si collochi in Occidente oppure in Oriente.


  1. K. Marx, F. Engels, Borghesi e proletari, sezione prima del Manifesto del Partito Comunista, 1848.  

  2. Si vedano in proposito: K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, a cura di Bruno Maffi, il Saggiatore, Milano (prima edizione 1960 – nuova edizione, con un’introduzione di M. Maffi, 2008) In particolare sullo spostamento della coltivazione di tè dalla Cina all’India e sulla successiva espansione della coltivazione dell’oppio, si veda il recentissimo A, Ghosh, Fumo e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio, Giulio Einaudi editore, Torino 2025.  

  3. V.I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, 1916.  

  4. G. Lukács, op. cit., p. 117.  

  5. Ibidem, pp.115-116.  

  6. E. Quadrelli, Imperialismo, guerra civile internazionale, insurrezione in G. Lukács, op. cit., pp. 39-40.  

  7. E. Quadrelli, Dal «popolo» al popolo. Il proletariato come classe dirigente in op. cit., p. 25.  

  8. Ivi, pp. 25-26.  

  9. E. Quadrelli, op. cit., pp. 41-42.  

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Stati alterati di coscienza digitale https://www.carmillaonline.com/2025/04/09/stati-di-coscienza-alterati-dal-capitale/ Wed, 09 Apr 2025 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87752 di Sandro Moiso

Roberto Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights con interventi di Andrea Fumagalli, Giovanni Giovannelli e Giorgio Sacchetti. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 174, 15 euro

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati (Bertolt Brecht)

James Ballard, in un’intervista rilasciata nel 1992, sosteneva che: «la tecnologia sta influenzando e cambiando la nostra immaginazione. Anche su un piano etico, mi sembra che la tecnologia, la tecnologia moderna, stia cambiando le basi morali delle nostre [...]]]> di Sandro Moiso

Roberto Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights con interventi di Andrea Fumagalli, Giovanni Giovannelli e Giorgio Sacchetti. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 174, 15 euro

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati (Bertolt Brecht)

James Ballard, in un’intervista rilasciata nel 1992, sosteneva che: «la tecnologia sta influenzando e cambiando la nostra immaginazione. Anche su un piano etico, mi sembra che la tecnologia, la tecnologia moderna, stia cambiando le basi morali delle nostre vite. Infatti la tecnologia, in particolare nella forma della televisione, ci permette di separare noi stessi dalla sfera dei nostri sentimenti.» Per poi continuare affermando: «In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità.»

E concludere, infine: «Certamente uno degli sviluppi che arriveranno molto presto è quella che viene chiamata realtà virtuale. Se le previsioni degli scienziati che stanno lavorando in California e in Giappone sui sistemi per la realtà virtuale sono vere, credo che non vi sia alcun dubbio che la realtà virtuale rappresenterà il più grande cambiamento nella storia dell’umanità. Per la prima volta gli esseri umani vivranno in un ambiente artificiale più convincente della cosiddetta realtà in cui abitiamo oggi. Una realtà artificiale dove saremo in grado di soddisfare qualsiasi fantasia, qualsiasi autoindulgenza, qualsiasi sogno, qualsiasi mito»1.

Certo, però, neanche un indagatore dell’inner space come Ballard avrebbe potuto immaginare il trasferimento della vita reale delle persone avvenuto, senza passare per visori e sensori particolari, all’interno del circuito dei social e di tutto quanto viene oggi ritenuto smart2. Un passaggio che ha permesso ai più di ritagliarsi spazi di vita immaginaria in cui perdere la propria fisicità e condizione reale per trasformarla in altro da sé, pur fingendo di rimanere tali. Una vita che è stata trasformata in altra o altro senza nemmeno passare dalla Second Life lanciata dalla Linden Lab nel 2003, un anno prima di Facebook, e che ha aperto le porte alla diffusione del Metaverso o Meta ideato e sviluppato da Mark Zuckerberg.

Richiamandosi al titolo di uno dei più celebri testi prodotti da Raoul Vaneigem, il Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations, nel lontano 1967 e adeguandolo al fatto che le giovani generazioni del tempo sono diventate il ma non solo di adesso, il saggio pubblicato da Colibrì e curato dalla Calusca City Lights si scaglia in un autentico attacco da “non fate prigionieri” contro le illusioni e le falsificazioni prodotte dall’utilizzo dei social, delle nuove tecnologie digitali e tutto quanto, attraverso le stesse, ha finito col definire il miserabile orizzonte di vite che si ritengono al passo coi tempi e, per l’appunto, “smart”.

Il volume si apre con una rapida disanima dei principali fattori culturali, politico/religiosi, economici e tecnologici che hanno condotto al Capitalocene come conseguenza dell’Antropocene, ovvero dalla convivenza umana con il mondo al tentativo di dominarlo in tutte le sue manifestazioni ambientali e naturali, seguito all’affermarsi del modo di produzione capitalistico.

L’acquisita capacità di alterare le caratteristiche, le condizioni biologiche e fisiche del Pianeta con tutte le specie viventi e i fossili, mette in grado di modificare non solo ogni darwiniana evoluzione ma anche il corso stesso della Storia: «La Natura non guida più la Terra. Noi lo facciamo. Ciò che accade è frutto della nostra scelta»3. Si deve quindi dominare il Pianeta attraverso la Tecnologia, presentata come espressione naturale della condizione umana; Tecnologia, la sola in grado di adeguare Gaia allo Sviluppo del Progresso dominando la Natura e le sue leggi: creandola e ricreandola nel Tempo a seconda delle necessità e degli effetti della produzione di merci. «il “dispotismo” capitalistico che assume la forma della razionalità tecnologica»4.
Ovviamente per “attività umane” vengono intese unicamente quelle foriere e portatrici del Progresso: la Proprietà Privata e il Profitto; i virus che sarà il Mercantilismo a diffondere, forgiando al contempo quell’Homo OEconomicus soggetto-modello monocolturale di ogni relazione, che deve
farsi, essere Economia.
Modello unico, globale, totalitario e totalizzante delle relazioni umane, darà origine al Capitalocene che, per affermarsi e divenire esso solo “la Storia”, usufruirà di quattro eventi rivoluzionari:
– A) la pubblicazione del Liber abaci (1202)
– B) la scoperta delle Americhe (1492)
– C) l’affissione delle 95 tesi di Lutero (1517)
– D) l’invenzione della macchina a vapore (1769)5.

Dalle conseguenze dello sviluppo dei quattro punti appena elencati, il saggio prende spunto per giungere fino all’attuale trasformazione della comunità umana in “comunità del capitale”; fatto ricollegabile soprattutto allo sviluppo di un’intelligenza artificiale che, in base a processi di calcolo sempre più rapidi e ad algoritmi sempre più raffinati e complessi, fornisce risposte senza la necessità di fornire una spiegazione pienamente comprensibile6.

L’Intelligenza Artificiale è figlia del potere capitalista che utilizza una tecnica onnipervasiva in grado di sostituire l’automatismo all’autonomia, il controllo per mezzo dei big data alle scelte dell’individuo. Un determinismo tecnologico ove sono la società e le persone a doversi modellare, adattare allo sviluppo tecnologico. È la società digitale data driven, omologata ai e dai prodotti della ai, che ripropone il mondo così com’è, il già pensato-detto-fatto (il data base): la Intelligenza Artificiale riproduce l’ordine costituito esistente. Non solo. Le tech companies proprietarie delle piattaforme e delle app di ai propongono un sistema organizzativo e valoriale, quindi una cultura, una pratica imprenditoriale e sociale sulla base di rapporti di potere, prevaricazione e sfruttamento: nell’economia digitale si demolisce la concorrenza (move fast and break things), la merce di successo è un killer, i siti internet sono registrati come domini (domains) e le ricerche in rete si chiamano esplorazioni (evocazione linguistica del colonialismo). La società digitale è in realtà una società macchinica7.

Ecco allora che le speranze riposte nella rete ai suoi esordi e nelle possibilità espresse dalla virtual reality si son trasformate non tanto nel loro contrario quanto, piuttosto nella loro stessa negazione. Marco Margnelli, neurofisiologo e psicoterapeuta presidente della «Società italiana per lo studio degli stati di coscienza», nel 1993, scriveva infatti:

Per molti lo sviluppo della tecnologia della cosiddetta realtà virtuale rappresenta la concreta realizzazione di alcune delle tensioni ideali e delle aspirazioni più vivaci di questo secolo. Il cosiddetto cyberspazio […] viene salutato come il più consistente e concreto passo in avanti verso la conoscenza del Sé che l’uomo abbia compiuto nel corso della sua storia.
[…] Progettare di riappropriarsi dell’intera coscienza significa acquistare autocoscienza della coscienza e cioè tentare, per l’ennesima volta, di conoscere noi stessi. […] La realtà virtuale sarà un software interclasse8.

Mentre a trent’anni di distanza il meccanismo di identificazione, si potrebbe dire, quasi extra-corporea messo in atto dai social network9 e dagli avatar con cui si identificano gli utenti anche quando utilizzano la loro vera identità anagrafica insieme alla massa di dati di ogni genere raccolti tra gli individui che frequentano la rete e gli stessi social, hanno fatto sì che gli stati individuali di coscienza si siano progressivamente alterati in direzione di quello che assomiglia sempre di più ad un annichilimento sia della coscienza individuale che collettiva. Attraverso l’uso di software che più che interclassisti, se non nella loro finalità di controllo automatico del gusto comune e del comune sentire, si vanno rivelando invece estremamente funzionali a un capitalismo che, guarda caso, si rivolge nelle sue forme più avanzate sempre più alla ricerca e allo sviluppo in ambito digitale.

Desiderio e passione, pensiero e sentimenti, corporeità e spirito, tutto ciò che è proprio dell’umano è messo in produzione dal Data computing; nella società delle piattaforme il Data computing esprime la strumentalizzazione e l’asservimento derivanti dall’organizzazione capitalista, che utilizza l’intera umanità come mezzo funzionale al fine ultimo della propria esistenza: il profitto.
Il Data computing è “Lavoro Implicito”, una forma produttiva del Lavoro reso digitale e gratuito, finalizzato alla riproduzione del Capitale-Cloud delle Società delle Piattaforme (Big Tech), capace di generare inedite procedure di governabilità e servitù volontaria10. I lavoratori-utenti ci offrono lo spettacolo di una moltitudine di sfruttati felici (= dominio & consenso): dobbiamo aver ben chiaro che il Data computing è inserito a pieno titolo nello scontro sociale tra Capitale e Lavoro, e come tale dev’essere affrontato: il “Lavoro Implicito” è una componente della Economia Politica del Capitalismo.
La lotta degli invisibili deve investire la digitalizzazione del Mondo: laddove il Capitalismo si esprime nelle forme e nei contenuti più rappresentativi della globalità del Nuovo Mondo alieno che sta costruendo, pur conservando modi di sfruttamento assai novecenteschi, fordisti e colonia listi, di genere ove convenienti, utilizzando sia le guerre diffuse e permanenti per il controllo geopolitico delle risorse e dei mercati sia la crisi economica speculativa come strumento oppressivo della condizione proletaria.
[…] Opporsi, impedire la colonizzazione digitale della vita da parte del neurocapitalismo e della sorveglianza, del mercato e del profitto, comporta la consapevolezza individuale e collettiva che subiamo una seconda esistenza negli universi digitali delle app e delle piattaforme, nel Metaverso, dove il corpo è ri-composto dalle nuove protesi, la testa sta in un cloud, il cibo prodotto nelle vertical farm, è geneticamente modificato ma bio, le tecnologie riproduttive e la AI elidono le frontiere tra quanto è umano e quanto non lo è. È questa la condizione post-umana propugnata dal neo-umanesimo capitalista in un pianeta altro, alieno da Gaia. Senza rimpianti per un ’900 che ha esaurito un ciclo storico durato due secoli e che non è più ripetibile. What me worry?11.

Anche se il testo è supportato da numerose altre considerazioni sulle trasformazioni in atto nel pianeta e nelle “dipendenze umane”, è proprio questo appello a mettere metaforicamente mano alle colt dell’azione collettiva e cosciente contro un modo di produzione, autodefinentesi smart, sempre più totale e totalizzante, a caratterizzarlo e a renderlo quasi indispensabile per la biblioteca di chiunque voglia ancora considerarsi nemico e antagonista dell’esistente. Non tanto o solo delle sue forme politiche, ma delle caratteristiche profonde che ne definiscono la produzione e riproduzione della vita biologica, economica e sociale.


  1. J. Ballard, All That Matterede Was Sensation, intervista a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, pp. 30-39.  

  2. Smart può essere tradotto come intelligente, sveglio, furbo, astuto, spiritoso, brillante, elegante o alla moda. Nel contesto della tecnologia, “smart” è spesso associato a dispositivi elettronici avanzati e connessi a Internet, come smartphone, smartwatch e smart TV.  

  3. An Ecomodernist Manifesto, sottoscritto da una ventina di accademici ed economisti di fama internazionale: www.ecomodernism.org  

  4. Raniero Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, «Quaderni rossi», n. 1, settembre 1961.  

  5. R. Brioschi, Smart Life. Un vademecum per scansarla e vivere felici a uso delle giovani generazioni ma non solo, a cura di Calusca City Lights. Edizioni Colibrì, Milano 2025, pp. 13-14.  

  6. Si veda in proposito quanto affermato da Gioacchino Toni qui.  

  7. R. Brioschi, op. cit., p. 51.  

  8. M. Margnelli, Realtà virtuale e autogestione della coscienza, in «Altrove» n. 1, dicembre 1993, Nautilus, Torino, pp. 93-95.  

  9. Per un’ulteriore riflessione in proposito, si consiglia la visione del convincente primo episodio della terza stagione della serie britannica “BlacK Mirror”, intitolato Caduta libera, diretto da Joe Wright e sceneggiato da Charlie Brooker, Michael Schur e Rashida Jones.  

  10. La definizione di “lavoro implicito” è da attribuirsi a S. Bellucci in E-Work. Lavoro Rete Innovazione, Derive e Approdi 2005.  

  11. R. Brioschi, Smart Life, op. cit., pp. 54-55.  

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A proposito del Manifesto di Ventotene https://www.carmillaonline.com/2025/03/20/lanno-degli-anniversari-1941-2021-manifesto-di-ventotene/ Thu, 20 Mar 2025 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68587 di Sandro Moiso

[Poiché si ritengono tutte le forze politiche rappresentate in parlamento ugualmente nemiche della lotta di classe e amiche del partito della guerra e vista la bagarre scatenatasi in quell’aula nei giorni scorsi, a seguito delle parole di Giorgia Meloni e l’uso opportunistico e guerrafondaio fatto del Manifesto di Ventotene dalla cosiddetta sinistra liberal-democratica “europeista”, si è scelto di ripubblicare un intervento sullo stesso tema già apparso su Carmilla nell’ottobre del 2021. S.M.]

Ad agosto (2021) ci siamo dovuti sorbire una farlocca celebrazione di un manifesto che, a dire di autorevoli europeisti come Sergio Mattarella, costituirebbe il fondamento [...]]]> di Sandro Moiso

[Poiché si ritengono tutte le forze politiche rappresentate in parlamento ugualmente nemiche della lotta di classe e amiche del partito della guerra e vista la bagarre scatenatasi in quell’aula nei giorni scorsi, a seguito delle parole di Giorgia Meloni e l’uso opportunistico e guerrafondaio fatto del Manifesto di Ventotene dalla cosiddetta sinistra liberal-democratica “europeista”, si è scelto di ripubblicare un intervento sullo stesso tema già apparso su Carmilla nell’ottobre del 2021. S.M.]

Ad agosto (2021) ci siamo dovuti sorbire una farlocca celebrazione di un manifesto che, a dire di autorevoli europeisti come Sergio Mattarella, costituirebbe il fondamento ideale dell’attuale Unione Europea.
Peccato, però, che a leggerne anche soltanto alcune pagine, guarda caso poste proprio all’inizio dello stesso, la narrazione europeista autorizzata non regga.

Il Manifesto, il cui titolo completo è “Per un’Europa libera e unita. Progetto di un manifesto”, fu infatti elaborato da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi nell’agosto del 1941, in piena seconda guerra mondiale, mentre i due antifascisti si trovavano confinati, insieme ad un migliaio di altri oppositori del regime, sull’isola di Ventotene, al largo di Formia.

L’autore principale fu Altiero Spinelli (1907-1986), che aveva iniziato la sua attività politica nelle file dell’allora Partito Comunista d’Italia e proprio per il suo ruolo di segretario giovanile dello stesso per l’Italia centrale era stato condannato nel 1927 a dieci anni di carcere e successivamente al confino, da cui fu liberato soltanto nel 1943 dopo la caduta “istituzionale” di Mussolini. Nel 1937, però, a seguito dei processi di Mosca e di una lunga riflessione sull’esperienza dello stato sovietico stalinizzato, era uscito da quello che era diventato il PCI.

Ernesto Rossi (1897-1967), che pure diede un importante contributo alla stesura del Manifesto, fu tra i fondatori e i principali animatori di Giustizia e Libertà e poi del Partito d’Azione e proprio attraverso gli scambi di idee con Spinelli, durante il periodo di confinamento forzato, divenne un sostenitore del federalismo europeo.

Idea di federalismo che, non dimentichiamolo, era nata e si era sviluppata proprio a seguito di quel secondo conflitto imperialista che stava macellando la gioventù europea e mondiale sui campi di battaglia ed era conseguenza non solo delle brame imperialiste delle potenze coinvolte, ma anche di un feroce nazionalismo che, in varie forme, aveva precedentemente finito con l’ingabbiare le stesse masse dei lavoratori.

Forse prendendo a prestito, almeno in parte, quell’idea di Stati Uniti d’Europa che Leone Trockij era andato sviluppando fin dal 19231, con l’intento di dar vita ad una federazione europea degli operai e dei contadini che desse una risposta concreta alle questioni più scottanti della rivoluzione europea, anche se nel 1915 lo stesso Lenin si era dichiarato contrario a tale parola d’ordine2, con argomentazioni che sarebbero poi in seguito state usate da Stalin per giustificare la teoria del “socialismo in un paese solo”.

Trockij, al contrario, era invece convinto che soltanto dall’unione tra le due parole d’ordine «governo operaio e contadino» e «Stati Uniti d’Europa» fosse possibile ingabbiare e controllare in chiave socialista quelle forze produttive capitaliste che superavano, già allora, il quadro nazionale degli Stati europei ed avevano costituito la vera forza motrice del Primo macello imperialista.

Proprio come la guerra rifletteva il bisogno di un ampio campo di sviluppo per le forze produttive compresse dalle barriere doganali, così l’occupazione della Ruhr, funesta per l’Europa e per l’umanità, riflette il bisogno di unire il ferro della Ruhr con il carbone della Lorena. L’Europa non può sviluppare la sua economia nelle frontiere doganali e statali che le sono state imposte dal trattato di Versailles. Essa deve abbattere queste frontiere, altrimenti è minacciata da una completa decadenza economica. Ma i metodi impiegati dalla borghesia dirigente per sopprimere le barriere che essa ha creato non fanno che aumentare il caos e accelerare la disorganizzazione.
L’incapacità della borghesia di risolvere i problemi fondamentali della ricostruzione economica dell’Europa si manifesta sempre più chiaramente di fronte alle masse lavoratrici. La parola d’ordine «governo operaio e contadino» va incontro a questa crescente aspirazione dei lavoratori a trovare una via di uscita con le loro forze. Ora, è necessario indicare in maniera più concreta questa via d’uscita: è la cooperazione più stretta tra i popoli d’Europa, l’unico mezzo per salvare il nostro continente dalla disgregazione economica e dall’asservimento al potente capitale americano3.

Messe da parte alcune considerazioni forse oggi superate sul tema delle “foze produttive” e del loro inarrestabile sviluppo, va qui compreso come in quelle poche righe già il leader bolscevico prefigurasse quelle che sarebbero state le conseguenze del trattato di Versailles prima e del secondo conflitto mondiale in seguito.

Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi si trovarono invece a scrivere in un periodo in cui erano fallite le speranze di un governo operaio e contadino europeo oppure di una federazione di governi di tal fatta, mentre Stalin si accaniva nella costruzione forzosa di un nuovo e potente capitalismo di Stato, non troppo diverso da quello rimesso in piedi da alleati ed avversari nel corso di quel devastante conflitto. Forse, fu proprio a partire da questa constatazione che, nella terza parte del Manifesto, Compiti del dopoguerra – La riforma della società, i due poterono affermare:

La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia, come è avvenuto in Russia4.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica “routinière” per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo dell’U.R.S.S., col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.
La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell’unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:

a) non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori; ad esempio le industrie elettriche, le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (Es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E’ questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;

b) le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl’istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio, ecc.;

c) i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l’avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell’interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;

d) la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;

e) la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali 5.

E’ evidente che numerose affermazioni qui contenute potrebbero, oggi, essere ampiamente riviste, ma ciò non toglie che la domanda da porsi sia: cosa c’entrano il contenuto del Manifesto e le idee dei suoi estensori con l’Europa di Draghi (e oggi di Ursula von der Leyen), della guerra, del capitale finanziario e della BCE oggi celebrata proprio attraverso le sue pagine? Visto che l’Europa unita sognata all’epoca dai due estensori e, prima, forse anche da Trockij andava in una ben diversa direzione.

La prima domanda, però, deve essere accompagnata anche da un’altra: cosa c’entrano gli attuali difensori dello Stato-nazione e dei suoi sacri confini, in un contesto di capitalismo avanzato, col socialismo, il comunismo e la rivoluzione?


  1. Si veda L.Trockij, Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa (Per la discussione internazionale), «Pravda», 30 giugno 1923, ora in L. D. Trockij. Europa e America (a cura di David Bidussa), Celuc Libri, Milano 1980  

  2. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, «Sotsial-Demokrat» n. 44, 23 agosto 1915  

  3. L. Trockij, Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa (Per la discussione internazionale), «Pravda», 30 giugno 1923, in op. cit., p. 100  

  4. Per i lettori che dovessero strabuzzare gli occhi davanti a tali affermazioni, occorre qui ricordare che tale principio era in linea con la Nep, la Nuova politica economica, con cui Lenin aveva cercato di rivitalizzare l’economia dell’U.R.S.S. al termine della devastante guerra civile del 1919- 1921, mentre la statalizzazione assoluta di ogni attività economica e proprietà fu alla base delle politiche staliniane di industrializzazione forzata e competizione economica sul mercato mondiale. – N. d. R. 

  5. Altiero Spinelli, Enesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Celid per conto del Consiglio Regionale del Piemonte, Torino 2001, Parte Terza: Compiti del dopoguerra- La riforma della società, pp. 24 – 26  

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Semiologia di una svolta “epocale” https://www.carmillaonline.com/2025/03/12/linee-di-tendenza-e-svolte-epocali/ Wed, 12 Mar 2025 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87245 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.

Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)

Giunti ancora una volta ad un [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.

Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)

Giunti ancora una volta ad un marinettiano e, ormai, tutt’altro che futuristico «estremo promontorio dei secoli» del mondo che conosciamo, o che credevamo di conoscere, torna utile riandare, con il testo appena pubblicato da Neri Pozza nella collana Colibrì, ad un altro svolto storico importante del secolo passato: quello degli anni Ottanta.

Diego Gabutti, con la sua lingua tagliente e lo sguardo ironico come al solito, ci conduce a rivisitare un momento in cui le illusioni dei due decenni precedenti, o forse quattro considerando tutto il tempo intercorso tra la fine del secondo conflitto mondiale e gli anni di cui si parla nel libro, sarebbero finite o, perlomeno, sarebbero state messe seriamente in crisi.

Sia chiaro, ad essere rimesse in discussione non furono soltanto le foscoliane illusioni del cuore, ma tutto l‘insieme di certezze di vario colore e senso politico, economico e culturale, su cui si era retto il mondo dei cosiddetti “Trenta ruggenti” ovvero gli anni intercorsi grosso modo tra il 1945 e il 1975, marcati da un’espansione economica che ebbe nell’Occidente, e in particolare nell’Europa del Mercato Comune, il suo baricentro consumistico e di benessere sociale.

Un ribaltamento delle prospettive che ha permesso in seguito di parlare di una sorta d nuova rivoluzione “conservatrice”, ammesso che una rivoluzione possa mai essere conservatrice, di cui Ronald Reagan, papa Wojtyla e Margaret Thatcher avrebbero costituito, ma soltanto col senno di poi, i deus ex-machina. Ma il cui primum movens fu forse quello di riportare nelle tasche dei “ricchi” ciò che per un illusorio momento era finito nelle tasche dei “poveri”.

Tutto questo secondo l’autore, e proprio in ciò risiede il maggior pregio del libro, non fu pianificato a tavolino, come troppo spesso le letture eccessivamente semplificate della storia e della politica vogliono suggerire, ma fu invece la conseguenza di una miriade di fatti di cui, pur non potendo elencarli tutti, l’autore ci racconta, più che spiegare, l’essenza in trentadue capitoli, più un Prologo ed un Epilogo, che vanno dal capodanno del 1980 con l’invasione sovietica dell’Afghanistan alla caduta del Muro di Berlino. Insomma: Dieci anni che sconvolsero il mondo, come giustamente recita il titolo.

C’erano state, nel giro di soli trent’anni, due guerre devastanti, guerre al di là d’ogni indignazione, perché come ci sono vignette comiche senza parole ci sono anche tragedie mute, o meglio ammutolenti: nubi di gas tossico sulle trincee, città incenerite, pietà l’è morta, il genocidio pianificato degli ebrei e degli zingari e prima ancora degli armeni, campi di lavoro, filo spinato, bombe nucleari, il nazifascismo e il bolscevismo sciamanti in ogni continente come la cavalleria dell’Apocalisse. Sembrava, ed era, la fine del mondo. Nell’ombra delle due guerre mondiali, vinte dai buoni ma non del tutto perdute dai cattivi, prendevano forma la cosiddetta «guerra fredda», che impazzava da un capo all’altro del pianeta, e il suo doppio sociologico: la guerra civile in permanenza che attraversava (e ancora attraversa) le società aperte, e che è la vera eredità del Novecento.

[…] Eppure, inconfutabile, di un’evidenza abbagliante, ecco il miracolo del secondo dopoguerra: rock’n’roll, piena occupazione, anticoncezionali e automobili col sedile ribaltabile che cambiano per sempre la vita sessuale dell’umanità occidentale, televisione, radioline a transistor, lo sbarco sulla Luna, la Beat Generation, Hollywood, un ascensore sociale funzionante a pieno regime, Volare oh-oh, il nascente turismo di massa, Elvis Presley, My Way, i Beatles, Satisfaction, la decolonizzazione, mutui facili da estinguere, il boom edilizio, i cineclub, Agente Lemmy Caution: missione Alphaville e Ma papà ti manda sola?, le vacanze al mare, sindacati potentissimi, generose (e precoci) pensioni per tutti, libertà di pensiero come nemmeno nei sogni più arditi degl’illuministi, libri economici diffusi in milioni di copie, il west di Sergio Leone, il movimento studentesco, la bestemmia non è più un reato, il femminismo, l’educazione permissiva, Il Padrino, la chirurgia dei trapianti e quella estetica, i vaccini, ogni sorta di miracoloso farmaco salvavita, l’età media che sale ad altezze vertiginose. Mai nella storia universale s’erano viste nazioni così opulente e generazioni così sazie, così istruite, così edoniste, e così politicamente impegnate, così militanti, e soprattutto così forever young, decise a rimanere giovani per sempre, come nel secondo dopoguerra, negli anni tra il 1945-46 e i primi Settanta, quando l’Occidente conosce una crescita e una trasformazione senza precedenti. Isole incantate e mari blu fin dove arrivava l’occhio.

[…] il capitalismo, qualunque cosa se ne sdottoreggi in giro, non è regolato da leggi; e non è nemmeno autocosciente, a differenza delle malmostose e iettatorie IA o intelligenze artificiali dei film di fantascienza (e oggi anche degli editoriali chic-choc dei giornali). Come sia capitato il secondo dopoguerra, e perché sia capitato, o dove abbia affondato le sue radici, non lo sa dunque nessuno, tanto meno lo stesso «grande capitale» (così s’ostinano a chiamarlo, duri, i marxisti pomposi e irriducibili) che pure di questa speciale festa è stato il generoso anfitrione. Non lo sa «il sistema», altro nome del babau sociologico che tutti sovrasta, e non lo sanno i chiromanti né gli economisti. Figurarsi se lo sanno gli editorialisti dei giornali, che tanto meno sanno e capiscono tanto più montano in cattedra. Capitato e basta – prima non c’era niente di simile o anche solo di paragonabile ed ecco che d’un tratto l’abbondanza era lì e il mondo si vestiva a festa – questo portento non suscitò sorpresa, ma fu dato per scontato, o meglio per dovuto, come se ci fosse sempre stato e così dovesse restare, eterno e inviolabile come un contratto sottoscritto col sangue nello studio odoroso di zolfo d’un notaio da melò luciferino1.

Eppure, eppure…un giorno o un anno o un decennio,,, all’improvviso…

Non ci fu mai, intendiamoci, una brusca frenata, tanto meno la crisi spaventosa profetizzata da Marx e corifei, come quando la produzione di beni si schianta, le banche falliscono, la gente si tuffa giù dai tetti e le strade si riempiono di senzatetto (tipo Furore di Steinbeck) che dormono all’addiaccio, arrostendo patate e cipolle rubate nei campi al fuoco crepitante dei falò. Niente di tutto questo. Solo che a un certo momento si dovette ammettere che il party dell’abbondanza era finito. Uno schianto, dopotutto, c’era stato.
[…] Morale: a metà dei Settanta, i nodi del boom (anzi dei boom, al plurale) vennero rapidamente, o meglio fulmineamente, al pettine – e la festa abortì. Un attimo prima rock’n’roll, l’attimo dopo ogni band taceva.[…] Nessuno s’aspettava né aveva previsto il saltafosso degli anni Ottanta esattamente come nessuno – venti, trent’anni prima – s’era aspettato o aveva previsto l’incantato Paese dei Balocchi del secondo dopoguerra. Non di meno l’incanto ci fu, e poi svanì2.

Tra tutte le storie che Gabutti ci narra nei capitoli successivi per illustrare, più che cercare di capire, le infinite cause che avrebbero portato al ribaltamento dei valori e delle tasche nel corso degli anni Ottanta, sembra particolarmente significativa la vicenda dell’incontro fatale, dostoevskiano si potrebbe quasi definire, tra una delle icone della cultura pop degli anni Sessanta e Settanta e un giovane sconosciuto e depresso della fine di quel periodo, che avrebbe in qualche modo contribuito a definire l’inizio del nuovo.

La data è fatale: 8 dicembre 1980, il primo anno del nuovo decennio sta per concludersi e, dal capodanno afgano all’elezione di Ronald Reagan, ha già visto succedere some weird things, alcune cose che, qualche tempo prima, sarebbero state considerate “strane” oppure impossibili. Ma lì, in quel momento e sulle scale che scendono dal Dakota Building, dove John Lennon vive con Yoko Ono, il sogno del punk più feroce di far fuori il rock e le rockstar precedenti, si avvera. Con spari, sangue, morto e tutto il resto. Altro che Sid Vicious nell’esilarante e feroce performance di My way messa in scena nel film The Great Rock’n’Roll Swindle di Julian Temple (uscito anch’esso nel 1980).

Il giovane (tenete a mente questo aggettivo) Rodion Romanovič Raskol’nikov, protagonista di Delitto e castigo, quando nella realtà si presenta sulla scena per fare la posta al cantautore di Imagine, veste i panni e i malesseri esistenziali di Mark David Chapman, bambino difficilissimo di Fort Worth, Texas occidentale, che in tasca non ha soltanto una Charter Arms Undercover calibro.38, ma anche una copia di The Catcher in the Rye, da noi Il giovane Holden, il romanzo di J.D. Salinger apparso in prima edizione nel 1951, all’inizio di tutto. «Holden Caulfield, il protagonista del romanzo, è l’Ur-adolescente –l’adolescente originario dei Fifties e Sixties e Seventies a venire.» Con Holden era cominciata l’avventura dei giovani ribelli «che si conclude bruscamente ventinove anni più tardi, l’8 dicembre del 1980, quando Mark David Chapman spara a John Lennon. Parentesi aperta, parentesi chiusa.»3

[Lennon] È stato un giovane della classe operaia inglese che ascolta Mystery Train e Rock around the Clock alla radio e capisce la musica meglio di quanto capisca o presti attenzione a qualunque altra cosa. Incontra un’anima affine, Paul McCartney, un altro musicofilo di Liverpool stregato come lui dal rock’n’roll, col quale mette in piedi una band e porta le canzonette orecchiabili dove non sono mai state prima: «tra i modelli di comportamento», dove secondo il filosofo [Bob Dylan] sono state di guardia fino a quel giorno, cioè prima dei Beatles e di quel che ne è seguito, soltanto le opere d’arte.»4

Forse Chapman, oltre che di americanissimo cibo spazzatura, si è nutrito di quelle canzonette e di quei modelli comportamentali. Mentre John, dopo l’incontro con Yoko, per così dire, si è intellettualizzato. Una miscela potenzialmente esplosiva:

patatine fritte nell’olio saturo e affogate nella maionese, manuali controculturali che inneggiano al furto e alla guerriglia, poster di Che Guevara, hot dog stracarichi di senape e ketchup e bacon e salse senza nome, John Lennon che canta Power to the People e Woman is the Nigger of the World (insomma canzoni sempre più ruffiane tirandosela da militante di sinistra, proprio lui che, quando cantava Revolution con Paul e Ringo e George, metteva bene in chiaro a futura memoria che non gli piacevano tutti quei ritratti del presidente Mao in giro per le strade e che non era il caso di chiedere soldi per la rivoluzione a lui e agli altri ragazzi, che di quelle sciocchezze non ne volevano sapere). Proprio Lennon ricapitola da solo l’intera stagione dei boom5.

Il fatidico incontro tra il “creatore” e il suo prodotto culturale e sociale, proprio come in Blade Runner di Ridley Scott (1982) i replicanti umanoidi cercano il loro ideatore per risolvere i loro problemi oppure ucciderlo, non potrà essere che catastrofico, finendo col definire una delle infinite linee di tendenza che avrebbero contribuito a fare degli anni Ottanta ciò che, poi, sarebbero stati.

Gli altri trentuno capitoli procedono in ordine cronologico accompagnando il lettore a scoprire i sintomi del cambiamento all’epoca in atto e l’infinito disordine che regna in un mondo retto da nessun fato. Di cui soltanto il caso e il caos possono delinearne il divenire futuro, al di fuori di ogni oggettività data per scontata e di ogni impossibile e fasullo sogno di “geometrica potenza” rigeneratrice.


  1. D. Gabutti, Prologo o delle utopie realizzate in D. Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 12-15.  

  2. Ivi, pp. 15-17.  

  3. D. Gabutti, Pop. John Lenno e le culture della società opulenta in D. Gabutti, op. cit., pp. 58-59.  

  4. Ivi, pp. 59-60.  

  5. Ibidem, p. 59.  

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D’istruzione pubblica. Il film sul neoliberismo scolastico https://www.carmillaonline.com/2025/01/07/distruzione-pubblica-il-film-sul-neoliberismo-scolastico/ Mon, 06 Jan 2025 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86293 di Luca Cangianti

La scuola neoliberista sta creando un nuovo tipo di essere umano, e non è una buona notizia. Questa potrebbe essere la sintesi di D’istruzione pubblica, il film documentario di Federico Greco e Mirko Melchiorre che, terminate le riprese, è adesso in fase di produzione.

Quando sarà possibile vedere il film in sala?

Melchiorre. Se tutto andrà bene nella primavera di quest’anno. Adesso, come per i nostri film precedenti, stiamo raccogliendo fondi, anche mediante crowdfunding. È una scelta politica che ci permette di essere completamente indipendenti.

Perché avete scelto la scuola come tema di questo nuovo lavoro?

Melchiorre. Per [...]]]> di Luca Cangianti

La scuola neoliberista sta creando un nuovo tipo di essere umano, e non è una buona notizia. Questa potrebbe essere la sintesi di D’istruzione pubblica, il film documentario di Federico Greco e Mirko Melchiorre che, terminate le riprese, è adesso in fase di produzione.

Quando sarà possibile vedere il film in sala?

Melchiorre. Se tutto andrà bene nella primavera di quest’anno. Adesso, come per i nostri film precedenti, stiamo raccogliendo fondi, anche mediante crowdfunding. È una scelta politica che ci permette di essere completamente indipendenti.

Perché avete scelto la scuola come tema di questo nuovo lavoro?

Melchiorre. Per completare la nostra trilogia sugli effetti devastanti del neoliberismo. Abbiamo iniziato nel 2017 con Piigs sull’austerità, nel 2022 con C’era una volta in Italia abbiamo poi affrontato la catastrofica situazione della sanità, e ora ci focalizziamo su un altro pezzo di stato sociale sottoposto a bombardamento.

Cinema ed economia non è un binomio intuitivo. Voi però vi siete caratterizzati proprio in questo modo.

Melchiorre. Ma certo! Senza economia non si capisce nulla.
Greco. Se non ti occupi di economia, essa si occuperà comunque di te. Per noi l’austerità è un problema, per il capitale una soluzione. La presunta scarsità economica permette allo stato di allocare risorse secondo i suoi interessi di classe superando facilmente le rivendicazioni popolari. L’austerità è un’arma affilata per contrastare il conflitto sociale, uno strumento formidabile per il ricatto salariale.

Anche in questo film usate una struttura narrativa a doppio binario: da una parte la storia fatta di persone comuni, e dall’altro un’inchiesta ad ampio respiro nella quale intervistate gli esperti del settore. Qual è l’obiettivo di questa scelta?

Greco. Rendere caldi, cinematografici, argomenti complessi, ma decisivi per la vita quotidiana della larga maggioranza della popolazione. Nel caso di D’istruzione pubblica al livello micro seguiamo la vita di Lorenzo Varaldo. Questo dirigente scolastico torinese si scontra con gli effetti delle varie riforme scolastiche seguite a quella Berlinguer del 1999 che inaugura l’autonomia scolastica. In sintesi, il compito dei dirigenti scolastici – che Varaldo rigetta – ormai non è più quello di aiutare gli insegnanti a svolgere il loro lavoro nel miglior modo, ma gestire montagne di burocrazia e trovare i soldi per mandare avanti la scuola, che invece dovrebbe essere un servizio pubblico garantito dall’articolo 3 della Costituzione.

Ma che c’è di strano che in una società capitalistica la scuola sia gestita capitalisticamente?

Greco. Niente! La scuola italiana è stata sempre una scuola borghese, nonostante alcune aperture democratiche fatte negli anni sessanta e settanta. Tuttavia con la Riforma Berlinguer assistiamo a un cambio di passo metodologico. La conoscenza viene ridotta a competenza: oggi la scuola deve insegnare «cose utili» piegando gli studenti alle dinamiche del mercato. Ma attenzione: questo non significa utilizzare solo un nuovo metodo di insegnamento, bensì fabbricare un essere umano nuovo, deprivato di capacità critica, di possibilità di ascensione sociale, e quindi di cittadinanza.

Lorenzo Varaldo, il protagonista di D’istruzione pubblica

Una riforma che funzionalizza la scuola al capitalismo contemporaneo è stata fatta dalla sinistra. Perché?

Greco. Come ci ha spiegato bene Massimo Bontempelli, la sinistra storica portava con sé due istanze: una modernizzatrice e l’altra emancipatrice. Con la nascita del neoliberismo (la periodizzazione può essere fissata nel 1979, nel 1989 o nel 1992 a seconda dei vari contesti tematici o geografici) la sinistra abbandona la seconda istanza. Tutto ciò che è nuovo è buono, ma il nuovo è proprio il neoliberismo, cioè il capitalismo non regolamentato. L’autonomia scolastica infatti altro non è che una sorta di autonomia differenziata applicata alla scuola. È l’aziendalizzazione dell’istruzione che trasforma i presidi in dirigenti scolastici, così come nella sanità ha trasformato le Usl (Unità sanitarie locali) in Asl (Aziende sanitarie locali). In questo modo quel po’ di otium che c’era nella scuola italiana si è trasformato in mero negotium. Ricordo infatti che la parola latina schŏla deriva dalla greca scholé, che in origine significava (come otium per i latini) tempo libero, piacevole uso delle proprie disposizioni intellettuali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico o profittevole. Negotium, cioè attività, occupazione, affare, era invece la negazione della scuola (nec otium).
Melchiorre. Insomma, per usare una metafora sportiva, la dialettica tra sinistra e destra politica con l’emergere del neoliberismo è che la sinistra alza la palla e la destra schiaccia.

Il vostro cinema mi sembra una piattaforma al servizio delle lotte sociali. Oltre a uscire nelle sale e a rimanerci a lungo, i vostri film vengono proiettati in centri sociali, associazioni culturali, sedi sindacali, e servono a introdurre dibattiti, a far riflettere insieme centinaia di persone.

Greco. Il nostro obiettivo è mettere insieme giornalismo e cinema per offrire ai movimenti strumenti di lotta. Le narrazioni hanno un sostrato mitico e aiutano a smuovere le coscienze. Il cinema inoltre è una riunione fisica di persone che rimanda a un’idea di comunità imprescindibile per chi voglia lottare contro l’ingiustizia e la disuguaglianza.
Melchiorre. Oltre a ciò noi ci auguriamo che i nostri film ispirino anche altri film-maker per generare un grande e inarrestabile onda d’immaginario d’opposizione.

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 3 – Dal “popolo” al popolo. Il proletariato come classe dirigente https://www.carmillaonline.com/2024/12/26/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-3-dal-popolo-al-popolo-il-proletariato-come-classe-dirigente/ Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85443 di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo industriale e agrario del capitalismo all’interno del sistema feudale russo, dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di un movimento borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla nascita delle prime forme di organizzazione operaia.

Il dibattito politico del movimento rivoluzionario e democratico è ancora pesantemente egemonizzato da quell’idea di popolo che aveva fatto da sfondo al populismo e alle sue diverse anime. Una continuità storica che, in qualche modo, si protrae sin dai tempi dei decabristi. L’irrompere del modo di produzione capitalista dentro l’apparente immobilismo dell’impero zarista mette in crisi quell’idea di particolarità che la Russia si era a lungo portata appresso e che tanto aveva incuriosito e attratto il mondo politico e culturale europeo. Il mistero russo aveva necessariamente coinvolto lo stesso movimento rivoluzionario tanto che gli stessi Marx ed Engels sulla Russia si erano soffermati in più occasioni1. Agli occhi degli europei la Russia si mostrava, al contempo, come bastione solido e inamovibile della controrivoluzione ma anche, per non secondarie schiere di rivoluzionari delusi dagli insuccessi del ’48 europeo, come il luogo maggiormente prono a un radicale processo rivoluzionario. L’autocrazia per gli uni, il popolo per gli altri, diventavano tanto i poli quanto l’esemplificazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Una esemplificazione forse eccessiva che, però, aveva alle spalle qualcosa di più di una semplice suggestione. Indubbiamente l’autocrazia ben poteva vantare il suo ruolo reazionario, mostrando in tal modo di essere la miglior garante internazionale di fronte all’idra della rivoluzione così come il movimento populista si mostrava una forza sovversiva tanto determinata quanto indomita. Autocrazia e popolo, in apparenza, sembravano essere realtà astoriche non soggette a quella permanente e radicale trasformazione economica e sociale alla quale, invece, era pervenuta l’Europa capitalista. Ma il capitalismo penetra, proprio per mano dell’autocrazia, anche in Russia.

Quella formazione economica e sociale considerata inamovibile inizia a assumere caratteristiche che, più o meno velocemente, iniziano a mandare in frantumi il mondo di ieri. Lentamente, ma in maniera costante, la questione operaia inizia a farsi strada anche dentro l’impero zarista. Gli stessi populisti, o almeno la parte teoricamente e politicamente più attenta, iniziano a modificare la loro linea di condotta, per questi gli operai e le città cominciano ad assumere un interesse impensabile solo qualche tempo prima, interesse che, però, è ben lungi da comprenderne il portato. Per i populisti gli operai diventano una componente del popolo il quale, nella sua astrattezza, rimane il soggetto storico del movimento rivoluzionario. Allo stesso tempo l’idea che il popolo possa dar vita a un modello economico e sociale in grado di saltare il capitalismo, rimane un dogma pressoché immutato per i populisti. Esattamente speculare a questa posizione conservativa ha preso forma quella progressiva della borghesia, la quale mira a realizzare una rivoluzione di tipo occidentale in grado di liberare il capitalismo dai vincoli in cui il modello autocratico, a causa delle alleanze di classe alle quali è soggetto, lo imprigiona. Lenin si inserisce come un vero e proprio cuneo all’interno di queste ipotesi che non sembrano avere alternative.

Qui il testo di Lukács si fa estremamente interessante e lo è perché, avendo a mente la stragrande maggioranza della pubblicistica sull’operato di Lenin in relazione allo sviluppo del capitalismo in Russia, elimina dall’orizzonte di questo qualunque oggettivismo e determinismo di sorta2. Ciò che Lukács evidenzia è come a interessare Lenin non sia tanto e semplicemente constatare come lo sviluppo del capitalismo in Russia sia ormai diventato un semplice dato di fatto, bensì gli effetti che tutto ciò comporta per la composizione di classe. A partire da un processo oggettivo, lo sviluppo del capitalismo dentro l’intero impero zarista con conseguente sradicamento dei tradizionali rapporti sociali anche nelle le campagne, Lenin giunge a ridefinire il soggetto della rivoluzione, infatti, lui non abiura l’idea di popolo ma la riformula avendo a mente, da un lato la configurazione concreta del popolo dentro la trasformazione capitalista, dall’altro la figura centrale, il proletariato, che nella sua esistenza cristallizza la massima tensione del conflitto.

Lenin separa il proletariato dal popolo per rimettervelo successivamente dentro come forza motrice dell’insurrezione. Su ciò Lukács si sofferma non poco. Perché? In questo modo Lukács mira a combattere due battaglie: da un lato ribadire come Lenin, e con lui la dialettica marxiana, siano del tutto estranee all’oggettivismo e al determinismo in seconda battuta, ed è ciò che gli fa comprendere Lenin sino in fondo, e come per questo a essere sempre predominante sia l’attualità della rivoluzione. Ciò che Lukács coglie, sin dagli anni venti del ‘900 è la distorsione determinista e oggettivista che anche dentro il movimento comunista albeggia prepotentemente. Una distorsione che, soprattutto in occidente, tenderà velocemente a farsi egemone sia nelle tendenze più prossime alla socialdemocrazia, sia in alcune tendenze di estrema sinistra. Per questo soffermarsi su questo passaggio è particolarmente utile. Ciò che, a differenza di quanto fa Lukács, viene solitamente posto in evidenza in relazione al dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia è la precisa e netta posizione di Lenin contro i populisti, ossia verso la possibilità di saltare la fase capitalista, il riconoscere il carattere progressivo che in ogni caso il capitalismo porta in seno, il necessario appoggio a questo sviluppo e, in contemporanea, l‘organizzazione dei futuri affossatori del capitalismo. In realtà le cose non sono proprio così. Questo è il classico modo proteso a salvare capra e cavoli attraverso il quale l’evoluzionismo socialdemocratico si approprierà di Lenin. Si riconosce il tratto rivoluzionario di Lenin mentre lo si imprigiona nella logica dello sviluppo delle forze produttive. Per altro verso si liquida in poche battute il complesso rapporto di Lenin con il populismo arrivando a ignorare che, se alla sua prima opera di spessore teorico ha dato il titolo Che fare? un qualche motivo ci sarà pur stato3.

Il rapporto di Lenin con il populismo è tutto tranne che semplice e lineare e non solo per le pur non irrilevanti questioni personali che lo legano alle vicende del populismo. Per un verso il suo giudizio è sicuramente spietato. I populisti si pongono fuori dalla storia idealizzando un mondo che non c’è più e su questo Lenin non si fa remora di affondare i colpi verso il loro corpo teorico, però sarebbe intellettualmente poco onesto limitare a ciò il suo punto di vista. C’è tutto un filone del populismo che, rompendo con la tradizione apolitica del proprio passato, inizia a considerare la dimensione politica come ambito dell’attività rivoluzionaria. Sono gli stessi che iniziano a volgere lo sguardo verso gli operai e le città e che, aspetto che catturò non poco l’interesse di Lenin, avevano dato vita a strutture organizzative ferree, centralizzate e, per i tempi, improntate a un certo grado di professionalità. Strutture che avevano fatto il loro punto di forza nell’attività cospirativa e che, a differenza di tutto il filone del populismo educazionista, ponevano il combattimento politico e militare al centro della loro iniziativa. Lenin coglie con lucidità questa spaccatura dentro il populismo e tanto si distanzia dagli educazionisti, che per molti versi possono considerarsi gli antesignani del menscevismo, quanto apprezza il tratto giacobino degli altri. Nel Che fare? l’eredità di questo populismo troverà uno spazio non secondario e Lenin, quindi, non rinnega la soggettività di questa idea, semmai la plasma all’interno di uno scenario storico che aveva spazzato via quegli orizzonti. Puntualizzare questo aspetto non serve solo e semplicemente a ristabilire una verità storica ma significa ricollocare Lenin dentro quella attualità della rivoluzione che l’ortodossia comunista ha teso a cancellare.

Lenin non ragiona come Struve e neppure come Pleckanov che, per molti versi, è del tutto complementare al primo, ciò che gli interessa è cogliere, dentro il processo storico in atto in Russia, il soggetto della rivoluzione e quel soggetto, il soggetto operaio, deve essere organizzato fin da subito sul terreno dell’insurrezione. In Lenin non ci sono, differenziandosi immediatamente sia da Struve che da Pleckanov, due tempi. Non c’è l’ascesa della borghesia, l’instaurazione del suo dominio e poi, a ciclo concluso, il graduale passaggio verso il socialismo: in lui vi è qui e ora, il partito dell’insurrezione. Perché questo partito possa esistere occorre individuare il soggetto della rivoluzione e questo soggetto è la classe operaia, ma fare questo non è sufficiente, perché limitarsi a ciò significherebbe isolarla e condannarla alla sconfitta. Lenin non è il teorico e l’artefice della purezza operaia, ma piuttosto il filosofo del ruolo direttivo ed egemone di questa classe all’interno del processo rivoluzionario4, della quale lui cristallizza il ruolo egemone e la sua funzione dirigente dentro la rivoluzione al fine di farne avanguardia di questa, ponendola alla testa di tutti i subalterni. In questo modo egli lega la classe operaia al popolo ma non al popolo astratto e astorico dei populisti bensì al popolo concreto che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Tradotto in soldoni, nel contesto, significa principalmente legare la classe operaia alla questione contadina la quale, nel frattempo, ha perso del tutto i tratti idilliaci entro i quali aveva continuato a immaginarla il populismo. Lenin frantuma l’idea astratta di popolo e ne estrae la figura operaia non per isolarla politicamente ma per farla emergere come soggetto della rivoluzione. Fatto ciò, costruita l’autonomia politica e teorica della classe operaia, la riconduce dentro il popolo. La rivoluzione è sempre opera di masse subalterne le quali per forza di cose non sono, e neppure possono essere, solo classe operaia. Ciò è fin troppo chiaro a Lenin il quale non ha mai vagheggiato di una rivoluzione operaia pura, infatti, ciò che gli interessa è costruirne l’autonomia politica in modo da consentirle di svolgere sino in fondo il ruolo direttivo della rivoluzione. Le rivoluzioni, da sempre, mettono in moto milioni di individui ben distanti dall’incarnare classi sociali pure e sono sempre opera di quella moltitudine spuria che è il popolo. Lenin, però, rompe con l’idea di popolo per tornarvi subito dopo ma il suo popolo non avrà più nulla di quello immaginato e caro ai populisti, perché esso è l’insieme di quelle forze concrete e reali che daranno, come il 1905 sarà lì a dimostrare, l’assalto tanto all’autocrazia quanto alla grande borghesia e ai proprietari terrieri che hanno importato nella campagna gli elementi propri dell’agricoltura e dell’allevamento capitalisti. Questo il popolo reale, questa la composizione delle classi che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Mentre menscevichi e borghesia si limitano a stare dentro a questo processo Lenin non si rinchiude in ciò. Vi sta dentro, perché è impossibile ignorare quanto la realtà storica ha sedimentato, ma in contemporanea vi è contro. Dentro questa obiettiva trasformazione storicamente determinante, scaglia il treno della soggettività di classe; allo scientismo e al determinismo e all’immancabile immobilismo di classe che si porta appresso, quello dei menscevichi e dei borghesi che arrivano persino a patteggiare con l’autocrazia pur di dar corso allo sviluppo delle forze produttive, contrappone la variabile soggettiva della lotta di classe. La storia è storia di lotte di classe, solo il risultato di questo conflitto determinerà uno scenario storico–politico piuttosto che un altro5. Si sta sicuramente dentro, ma per essere altrettanto sicuramente contro. La dialettica storica è la dialettica del conflitto, la guerra di classe la sua cristallizzazione.

Proviamo a tradurre il paragrafo sul presente. Da tempo siamo di fronte a qualcosa che ha trasformato il mondo in maniera sicuramente non meno radicale di quanto lo sviluppo del capitalismo avesse comportato per l’impero zarista. La globalizzazione e tutto ciò che si è portata dietro ha decisamente posto in archivio il mondo di ieri. Le conseguenze di ciò sono immense e non possono essere certo trattate in quattro battute, tuttavia è possibile evidenziarne alcuni aspetti che, almeno per i nostri mondi, si mostrano particolarmente laceranti. Parliamo dell’Europa occidentale e della sua storia più recente. Ciò che appare per prima cosa evidente è l’eclissarsi di quella particolare forma statuale nota come stato/nazione e di quel modello sociale che, per gran parte del ‘900 l’ha accompagnato, il welfare state. Tutte le classi sociali sono state investite da questo vortice il quale, in poche battute, ha detto che il mondo di ieri non esiste più. L’era globale non è un semplice passaggio interno a un modello, non è una pallida riforma, ma una rivoluzione, un salto epocale a tutti gli effetti. Nulla è più come prima. Lo stare dentro e contro tornano a essere il cuore del dibattito politico contemporaneo. Nessuno può esimersi da una presa di posizione in merito. Alla luce di ciò, una rilettura del Lenin di Lukács si mostra più che attuale.

Di fronte a quanto accade, pur con tutte i difetti del caso, sembra di risentire le medesime argomentazioni sorte in Russia di fronte all’irrompere del capitalismo. Da una parte i populisti che difendono strenuamente il mondo di ieri e che, in contemporanea, tendono a rendere eterni i soggetti sociali di quell’epoca; dall’altra i fautori del progresso che cantano le lodi di un capitalismo definitivamente liberatosi da ogni vincolo. Tutto, come allora, sembra compresso entro questa strettoia. A ben vedere anche le argomentazioni di ieri, pur con tutte le tare del caso, non sono tanto distanti da quelle del presente: la difesa del passato, per di più infarcito di narrazioni al limite del mitologico, contro il, non meno fantasioso, divenire radioso di una modernità emancipata da ogni vincolo. In pratica la contrapposizione tra la difesa dei proletariati nazionali europei e di quella particolare forma–stato all’interno della quale erano ascritti e tra l’imporsi dell’individuo completamente individualizzato e portatore di non secondari diritti civili e una forma statuale emancipatasi da ogni funzione sociale. Uno stato snello il cui compito si limita a compiti militari e di polizia senza alcuna intromissione nella vita degli individui. Comunitaristi da una parte, liberalisti dall’altra, popolo contro individuo, stato contro mercato e così via. I modi in cui questa apparente strettoia sembra porsi rimandano a un aut aut che non ammette vie di fuga. Lo stesso dibattito politico contemporaneo sintetizzabile in sovranisti ed europeisti sembrerebbe inchiodare la realtà entro le strettoie di queste forche caudine. Forse non è neppure un caso che il termine populismo sia tornato prepotentemente in auge.

Esattamente dentro questo passaggio, invece, è possibile cogliere l’attualità del nostro testo. Qui, sulla scia di Lukács, è possibile recuperare per intero il metodo di lettura storico proprio di Lenin rompendo in tal modo l’apparente orizzonte obbligato del presente. Ma ciò cosa comporta? Da dove cominciare? Dobbiamo e soprattutto è possibile essere contro la globalizzazione? Dobbiamo cullarci nel presunto idilliaco mondo di ieri, fantasticandone il restauro o bisogna pensare l’insurrezione nel presente? Ma, ancor prima, sarebbe il caso di chiederci cosa hanno comportato le trasformazioni in atto nei confronti della classe e della sua composizione. In altre parole: chi è il potenziale seppellitore dell’ordinamento capitalistico contemporaneo? Ecco che, di fronte a queste domande, il quadro della realtà storica assume tratti meno obbligati di quanto l’aut aut solitamente presentato ci mostra. L’espandersi globale del mercato sta, di fatto, uniformando sul piano internazionale una condizione proletaria e subalterna impensabile solo poco tempo prima. L’era globale ha fatto saltare la tradizionale suddivisione tra primo e terzo mondo. Oggi questi due ambiti non sono stati azzerati ma, si potrebbe dire, universalizzati. Le condizioni proprie di quest’ultimo sono state importate e poste a regime nel vecchio primo mondo mentre, forme di questo, sono ampiamente presenti nell’ex terzo mondo. La globalizzazione, come è stato ormai ampiamente argomentato (e a ciò necessariamente rimandiamo) ha dato origine a società postcoloniali dove la forma colonia è diventata parte costitutiva e costituente delle stesse vecchie metropoli del primo mondo6. Ciò ha dato vita alla formazione di masse subalterne e proletarie transnazionali omogeneizzate da condizioni di vita e di lavoro sempre più identiche.

Questo proletariato internazionale, queste masse subalterne, sono il popolo concreto con il quale abbiamo a che fare, questo, e non altri, sono i potenziali affossatori del capitalismo dell’era globale. Questo proletariato e questo popolo non ha alcun motivo per guardare con una qualche nostalgia l’epopea passata. Queste masse senza volto non hanno, nel presente, nulla da difendere ma solo da spezzare le catene che le imprigionano. Esattamente a partire da questo dato di fatto il partito può prendere le forme dell’insurrezione del presente, qui e solo qui va posto il Lenin del e nel presente. Dentro questo passaggio si misura l’attualità del metodo leniniano, quindi del partito dell’insurrezione.

(3continua)


  1. Per una buona discussione di ciò si vedano: P. P. Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, in Quaderni di Movimento operaio e socialista, n. 1, Edizioni Centro Ligure di Storia Sociale, Genova 1974; A. Walicki, Marxisti e populisti: il dibattito sul capitalismo, Jaca Book, Milano 1973.  

  2. Bisogna, infatti, non limitarsi, come hanno fatto i deterministi, a considerare il testo analitico Lo sviluppo del capitalismo in Russia, ma guardare all’insieme della produzione teorico–politica leniniana in merito allo sviluppo del capitalismo. Lì Lenin mostra chiaramente come il determinismo sia qualcosa di assolutamente distante da lui poiché, ciò che realmente interessa a Lenin, è organizzare gli affossatori del capitalismo non cantare le lodi di questo. È la soggettività della classe dentro lo sviluppo capitalista che interessa Lenin e la possibilità che, dentro questo processo storico–oggettivo, si aprono per l’emancipazione dei subalterni. Il Che fare? di ciò ne condensa, a ben vedere, la sintesi ma altri testi, come Le caratteristiche del romanticismo economico; Quale eredità respingiamo, in V. I. Lenin, Opere, vol. 2, Edizioni Rinascita, Roma 1954 sono altrettanto utili al fine di sottrarre Lenin a una lettura oggettivista e determinista.  

  3. Come risaputo Lenin riprese per il suo testo il titolo del romanzo populista di N. D. Černyševskij, Che fare?, Garzanti, Milano 1986. Con ciò Lenin volle dare una palese testimonianza di come, mentre si rigettava tutta una tradizione populista del tutto obsoleta, dall’altra se ne riprendevano le migliori qualità rivoluzionarie. Quella di un Lenin del tutto estraneo al mondo e alla tradizione populista è una leggenda storica dovuta solo all’imporsi dell’oggettivismo e del determinismo dentro il marxismo. Su questo aspetto l’interessante Introduzione di Vittorio Strada al Che fare?, Einaudi, Torino 1970.  

  4. Esattamente qua si configura la frattura insanabile con il menscevismo di sinistra di Trockij e la sua Rivoluzione permanente, Torino, Einaudi 1967. Trockij è il vero assertore della rivoluzione operaia pura e ciò non gli farà mai comprendere la relazione complessa e contraddittoria che necessariamente si instaura tra classe operaia e masse subalterne. Le avvisaglie di ciò si erano già mostrate nella sua critica al giacobinismo del Che fare?, Red Star Press, Roma 2022, quando rimprovera a Lenin il legame con l’esperienza giacobina non comprendendo che, proprio dentro quell’esperienza, era compresa in potenza la moderna rivoluzione delle masse subalterne. Come i populisti si inventavano il mondo di ieri, Trockij finisce con l’inventarsi il mondo di oggi e, con ciò, finisce con il perdere la concretezza storica entro la quale si giocano i conflitti delle classi.  

  5. La linea di condotta tenuta da Lenin nel corso degli eventi del 1905 è, al proposito, quanto mai esemplificativa. Il modo e le motivazioni con le quali affronta e argomenta la possibile partecipazione dei bolscevichi a un governo rivoluzionario ne rappresentano un’eccellente cristallizzazione.  

  6. Cfr.: S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2013.  

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Sparse riflessione ferragostane https://www.carmillaonline.com/2024/10/10/sparse-riflessione-ferragostane/ Thu, 10 Oct 2024 20:40:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84730 di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della [...]]]> di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della storia, ma semplicemente  provo a mettere a fuoco fatti e tendenze difficilmente oppugnabili. Fatti e tendenze che mi paiono vistosamente assenti in quel poco di dibattito pubblico che possiamo riscontrare nel nostro Paese.

Il pessimismo della ragione

“Sentinella, a che punto è la notte?” Una domanda oggi più che mai angosciante,  tra il “vecchio” in affanno, ma che non muore,  ed il “nuovo” (un’alternativa di sistema) che tarda a profilarsi.

Del resto, in quanto a transizioni sistemiche, abbiamo alle spalle una pesante eredità di fallimenti o, meglio, di regressioni a forme, diverse, di capitalismo di Stato o di capitalismo tout court: persino laddove le condizioni soggettive erano più favorevoli  (la Cina di Mao carica  delle pulsioni egualitarie derivanti dalla “rivoluzione culturale”) si è registrata la sconfitta della “sinistra”.

Salvo pensare, come fanno non pochi illusi, che un’economia pianificata, meglio se gestita da un partito  comunista al potere,  sia sinonimo di socialismo.

En passant, come è stato che la classe operaia pretesa al potere, nell’ultima Unione Sovietica, si sia lasciata depredare fabbriche ed aziende senza colpo ferire?

Di fatto, la rottura storica dell’Ottobre ’17 ha realizzato una duplice eterogenesi dei fini: da una parte lo sviluppo economico (industria pesante) è stato provvidenziale, risolutivo nella guerra contro l’aggressione nazista, dall’altro, e su una più lunga lunghezza d’onda, è stato ispiratore delle lotte di liberazioni anticoloniali in tutto il mondo: su questo aspetto è stato  lungimirante il genio di Vladimir Lenin.

Anche a seguito del naufragio del “socialismo reale”, oggi l’umanità sembra avviarsi senza freno alcuno verso l’autodistruzione  vuoi per un ecatombe nucleare vuoi per un’inarrestabile, progressiva catastrofe climatica. Il movimento pacifista, vent’anni fa protagonista su scala mondiale, è annichilito, colpito ingiustamente, tra l’altro, dall’accusa di filoputinismo.

Quel che poteva convenzionalmente essere creduto come diritto internazionale, per quanto precario, è a pezzi; il potere regolatore dell’ONU annullato, sostituito artatamente dalla potenza, aggressiva in ogni continente, della NATO; l’Unione Europea sopravvive in quanto autolesionisticamente “sdraiata” sugli USA. L’assenza di un vero ordine internazionale è tale  che Israele può impunemente continuare nei suoi sistematici massacri del popolo palestinese, al limite del genocidio.

Tuttavia, a livello globale si manifesta la tendenza, contrastata dall’Occidente (in opposizione al “resto del mondo”),   verso il multipolarismo, agìto in particolare dai Paesi BRICS, che attuano nei loro scambi commerciali un processo di de-dollarizzazione, cioè di concreta contestazione  di una incontrastata egemonia non solo economica. Ovviamente un’alternativa di società è altra cosa.

La logica ineluttabile dell’accumulazione capitalistica confligge con la realtà di un “mondo finito”, della limitatezza di risorse naturali, non riproducibili: iato acuito  dall’accresciuta produttività assicurata dall’automazione  e dall’intelligenza artificiale. E’ come dire che la contraddizione capitale – lavoro, pur permanendo ed allargandosi, trascenda producendosi nella forma di una non più ricomponibile crisi ambientale, nel disastro.

Nel contempo un equilibrio quasi secolare connotato dall’egemonia USA (Bretton Woods) si è rotto, l’unipolarismo  imperiale è incrinato dall’emergere prepotente di nuovi centri ed economie-mondo: un passaggio lungo e tormentato quanto inevitabile che solo una guerra generalizzata può bloccare,  a spese dell’intero pianeta e a costo della sua rovina. Poiché la Cina è l’obiettivo vero e finale dell’offensiva occidentale, chi si augura una sconfitta della Russia in Ucraina  non si rende conto che essa può indurre quel Paese asiatico ad anticipare le mosse dell’avversario entrando direttamente in guerra a fianco della Federazione Russa.

La globalizzazione, oggi in crisi per ragioni geopolitiche di cui sopra, ha visto imporsi  a livello mondiale il modello neoliberista, onnipervasivo e tendenzialmente totalitario,  modello che ha ridefinito in senso fortemente individualistico il profilo dell’homo oeconomicus (la concorrenza purchessia come paradigma, variante  economico/politica del conflitto armato: vincitori e vinti, vivi e morti): da qui la privatizzazione dei beni comuni ed il venir meno dell’welfare. Di più il predominio della finanziarizzazione,  se da un lato espone il sistema mondiale a ricorrenti crisi speculative, dall’altro oscura, rende anonima l’identità, il volto del padrone di turno (fondi di investimento) rendendolo sfuggente ad un potenziale scontro di classe.

Sul piano delle forze politiche le vecchie discriminanti, come quelle in Occidente tra europeisti e sovranisti, sono ormai un ricordo del passato; nell’affermarsi delle democrature e della “società del controllo” la vecchia discriminante antifascista post-seconda guerra non può che cadere, l’estrema destra rientra dunque pienamente nel gioco politico, anche se con una postura di alternativa neo-reazionaria. Quando il declino di una società incombe, come è ora il caso degli Stati Uniti d’America, la collaudata alternanza di potere assicurata dal bipartitismo perfetto entra irrimediabilmente in crisi, tanto che l’auspicata vittoria presidenziale della democratica Kamala Harris non è pensabile possa avvenire senza gravi sconvolgimenti, al limite della guerra civile.

L’alternativa “socialismo o barbarie” sembra sciogliersi in maniera inequivocabile.

Nel tentativo di governare la spinta neoliberista e di addomesticarla in una “terza via” (Tony Blair), i due poli in cui classicamente si era diviso il movimento operaio, stalinismo e socialdemocrazia, entrambi inchiodati su un paradigma sviluppista, si sono degradati in social-liberalismo:  è il caso di dire, come in effetti è accaduto, simul stabunt vel simul cadent.

L’imperialismo persiste nella forma di economie di rapina nei confronti del Terzo e del Quarto Mondo (quasi una seconda accumulazione originaria?), anche se prosegue la tendenziale unificazione capitalistica del pianeta (l’Africa?) nel segno di un’altissima socializzazione del lavoro, segnata da una diffusiva economia della conoscenza e da una crescente produttività garantita dalle tecnologie, specialmente da quelle derivanti dalla rivoluzione informatica e robotica.

Nel contempo il lavoro precedentemente concentrato in grandi agglomerati di manodopera risulta ora spazialmente frantumato  e governato da algoritmi unilateralmente imposti e dunque di difficile controllo e contestazione; mentre riemergono forme di lavoro schiavistico, permane il lavoro gratuito di cura, specialmente ad opera delle donne. A queste asimmetrie corrisponde un’inaudita concentrazione verso l’alto delle ricchezze ed uno sventagliamento delle diseguaglianze  che non si era storicamente mai verificato.

In passato era il conflitto, agito dai sindacati e non solo, a frenare tali tendenze e a garantire tramite il fisco una certa  redistribuzione verso il basso: oggi, anche laddove la sinistra ha assunto connotati liberali regna l’atomizzazione sociale:  essa in qualche modo subisce l’ideologia americana del  “siamo tutti (e ciascuno in maniera diversa) proprietari, tutti imprenditori di se stessi”,  ciò che rende impossibile la ri-formazione di una coscienza di classe. La  contraddizione capitale – lavoro viene oscurata anche laddove, sotto regimi ferocemente autoritari (tipicamente in Estremo Oriente), lo sviluppo delle forze produttive e della manifattura è decisamente più intenso, manifestandosi sotto forme fabbrichistiche.

Se parliamo dell’Occidente, in particolare dell’Italia la contraddizione capitale – lavoro evoca il movimento operaio, una soggettività antagonista, comunista, ma oggi del tutto latente: nel breve/medio periodo non si intravedono le condizioni della rinascita di una coscienza di classe, per le ragioni già enunciate. Forse quando diventasse egemone la consapevolezza per via ecologica dell’intollerabilità del sistema, nuove ragioni antagonistiche potrebbero arricchire e fare riemergere la contraddizione capitale – lavoro.

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Avanti barbari!/6 – L’Occidente e il capitalismo sono razzisti (l’Italia anche) https://www.carmillaonline.com/2024/10/02/avanti-barbari-6-loccidente-e-razzista-e-litalia-anche/ Wed, 02 Oct 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84539 di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di [...]]]> di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di tutte queste qualità e perciò ha continuato ad essere libero, ad avere le migliori istituzioni politiche e a essere capace di governare per mezzo di una sola costituzione. (Aristotele – Politica)

Come rende evidente l’epigrafe, il razzismo su cui si fondano l’Occidente e i suoi ideali filosofici e politici è cosa di vecchia data considerato che il brano di Aristotele appartiene al settimo libro della Politica e, come il suo autore, al IV secolo avanti Cristo. La scrittura alfabetica era invenzione recente (V secolo), ma già era utilizzata per marcare la differenza tra chi era civile e ben governato e tutti gli altri popoli che, nel greco antico, erano definiti come βάρβαρος. bárbaros ovvero barbari.

Saranno poi degli ex-barbari a “civilizzare” gran parte del continente europeo partendo dalla città dei sette colli e giungendo ai margini di quelle aree nordiche e orientali che delimiteranno con un limes: di qua la civiltà mentre chi fosse al di là sarebbe stato definito questa volta come barbarus.

Di tutti questi passaggi, che poi andranno avanti ancora per un millennio e più prima di giungere alla tanto decantata Europa dalle radici cristiane da cui deriverebbero le magnificenze politiche e ideali dell’attuale, non si potrebbero contare ancora oggi le stragi di popoli “altri” interni al continente e di eretici e di ribelli all’ordine delle leggi, delle lingue, della divisione delle ricchezze imposte dai popoli civili e superiori per ordinamento sociale e statuale.

Sono passate e defunte quelle civiltà, ma il senso di superiorità razziale e di classe che avevano portato con sé nel corso dell’opera di civilizzazione non è ancora scomparso e rappresenta, forse, ancora il prodotto più durevole di epoche considerate “classiche”. Certo, l’idea che permetteva di trarre in schiavitù interi popoli, o almeno quel che ne rimaneva dopo l’opera educativa della civiltà greco-romana, non aveva ancora pretese scientifiche come invece sarebbe accaduto a partire dal XVIII e dal XIX secolo, quando l’espansione occidentale del concetto di impero avrebbe letteralmente falcidiato società, popoli, culture prima di integrarli nel mercato mondiale sviluppatosi a partire dal ’500.

Anna Curcio, con il suo testo appena pubblicato da DeriveApprodi, fa riflettere i lettori sui concetti di razza e razzializzazione attraverso gli eventi che li hanno definitivamente fondati e che vanno, in sintesi, dalle leggi approvate nella Virginia del 1600 fino al finto anti-razzismo di tanta intellettualità liberal di oggi. E lo fa tenendo come centrale la riflessione di come quello di razza non sia soltanto indissolubile da quello di classe, ma anche di come tale concetto abbia prevalso nell’organizzazione socio-economica di un paese, l’Italia, che si ostina, soprattutto a sinistra, a ritenersi come tutt’altro che razzista, anzi un paese di brava gente. Gli italiani appunto.

L’opera può essere affiancata ad altre già pubblicate in Italia, come quelle di Houria Bouteldja1 e di Tommaso Palmi2, ma ha il grosso pregio di riportare il dibattito nello specifico dell’Italia contemporanea, proprio mentre i fatti recenti, come quelli legati alla recente visita del primo ministro laburista Starmer, durante la quale la “destra di governo” di Giorgia Meloni e la “sinistra di governo” inglese si sono date la mano sulla pelle dei migranti e sulle modalità da adottare per il loro “respingimento”, confermano l’allineamento di posizioni politiche che solo per motivi elettorali e mediatici possono essere presentate come “nemiche”.

Motivo per cui, nel recensire un libro che con dovizia di particolari e dati approfondisce il tema dello sviluppo e dell’affermazione del discorso razziale in Italia, dalle sue origini nell’Italietta coloniale e liberale seguita all’unificazione nazionale, attraverso la Grande Crisi e il Fascismo, per proseguire con un ambiguo dopoguerra e fino agli attuali “fasti razziali” riconducibili alle conseguenze della globalizzazione e delle grandi migrazioni in atto, sembra importante sottolineare come il tema del razzismo non sia mai disgiunto da quello della svalutazione e repressione della forza lavoro, sia che si trattasse dei lavoratori provenienti dal Sud del paese negli anni successivi al secondo conflitto mondiale oppure che si tratti della attuale forza lavoro migrante.

Cui fa da corollario l’attenzione rivolta, come si è già accennato più sopra, alla falsità di un discorso anti-razzista in cui alla mera assistenza solidale, mirata soprattutto all’integrazione nel sistema degli immigrati “buoni”, si affianca un discorso liberale che separa nettamente il discorso della forza lavoro da quello della sua razzializzazione o, per meglio dire, della “razza” dalla “classe”.

Prendendo a spunto un editoriale comparso nel 2014 sul «Corriere della sera», l’autrice sottolinea come «prendere la parola contro il razzismo vuol dire soprattutto combattere lo sfruttamento e la precarietà di tutti i giorni»3. Mentre un noto docente universitario, dalle pretese etiche liberal-progressiste, nel difendere l’editoriale di cui era stato autore, sosteneva che quell’articolo non «riguardava certo i profughi» ma «i flussi di forza-lavoro». Confermando così con quella dichiarazione, anche se fino a quel momento era stato possibile non vedere e lasciarsi distrarre dalle necessità immediate dei salvataggi in mare o dell’uso indiscriminato dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), come l’ordine del discorso potesse assumere una forma più esplicita e problematica. Rivelando come la matrice di fondo del discorso di tanta parte dell’accademia e degli operatori dell’informazione consistesse semplicemente in una sorta di separazione della “pula del razzismo” dal “grano della condizione di classe” e dell’organizzazione del lavoro.

Per i profughi non vale la pena sprecare analisi sulle pagine di un prestigioso quotidiano, basta un po’ di pelosa compassione e lacrime di coccodrillo da sfoggiare all’indomani di stragi sempre annunciate; quella della forza lavoro è invece una materia ben più sostanziale e, a differenza di quattro straccioni tutelati dalle leggi internazionali, chiama in causa l’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali di produzione e riproduzione. Il razzismo […] non è un vizio ideologico […] né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente nella crisi, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione delle nostre società, fondamento della stessa razionalità del capitale4.

Una logica, ripresa nell’editoriale in questione e nelle repliche alle critiche pervenute dal movimento, soprattutto bolognese, degli studenti universitari, che si prodiga nella costruzione di “differenze”, invocando “interventi selettivi” in materia di immigrazione:

per lanciarsi poi a stabilire una gerarchia tra migranti buoni e migranti cattivi. Dove i buoni sono quelli che si integrano, quelli che sono disposti ad annullare la propria identità sociale e culturale sullo sfondo del primato della whiteness e di un sistema di relazioni verticali costruito dentro le gerarchie della razza. Quelli, soprattutto, che accettano senza batter ciglio forme feroci di sfruttamento sul lavoro, dequalificazione e marginalizzazione5.

Un discorso fondamentalmente razzista, perché mette a lavorare la razza:

che come ci insegna Frantz Fanon non è un attributo biologico ma una costruzione sociale e discorsiva orientata alla marginalizzazione e discriminazione «di un gruppo di uomini da parte di un altro», per costruire segmenti segregati e tra loro in competizione della forza-lavoro. Tanto più resisti all’assimilazione e combatti lo sfruttamento tanto più sei cattivo, destinato ad occupare le posizioni sociali e produttive più precarie, peggio retribuite e maggiormente dequalificate […] Per questo la strategia degli intellettuali neoliberali, in questo paese e non solo, è sempre quello di alzare una cortina fumogena che fa perdere di vista la realtà, che permette di mescolare le carte e rendere indecifrabili le differenze tra «accoglienza» e «convenienza» del lavoro migrante […], tra profughi e «clandestini», tra migranti «buoni» e migranti «cattivi»6.

Una pratica, per molti versi, non troppo diversa dalla criminalizzazione di qualsiasi forma di resistenza di classe e delle forme più avanzate e radicali della sua teorizzazione. Lontana da quella convinzione di Karl Marx, contenuta nei testi sulla religione, spesso citati a sproposito e con intento puramente laico e borghese, secondo cui quello che interessa al proletariato internazionale e ai rivoluzionari non è togliere o aggiungere petali alle catene, ma spezzarle una volta per tutte.

Relegare il razzismo ad altri momenti storici o ad altre latitudini è senz’altro più conveniente che discuterlo nella sua attualità. Il presente ci parla di un sistema di sfruttamento diffuso e strutturale che il razzismo alimenta e rende possibile nelle sue differenti gradazioni. Un dispositivo intrinseco alla produzione capitalistica che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non. Il razzismo è, detto altrimenti, la sintesi più infame e violenta di uno sfruttamento che tutte e tutti conosciamo e viviamo. E’ per questo allora che combattere il razzismo non è mera solidarietà ma una lotta comune che ci riguarda da vicino, forse a volte più di quanto crediamo7.


  1. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi, Edizioni Sensibili alle foglie 2017.  

  2. T.Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020.  

  3. A. Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 89.  

  4. A. Curcio, op. cit., pp. 89-90.  

  5. Ibidem, p. 90. 

  6. Ibid. , pp. 90-91.  

  7. Ivi, p. 90.  

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