Bruxelles – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Sep 2025 22:01:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 28: l’antifascismo europeista e la diplomazia delle armi https://www.carmillaonline.com/2025/03/26/il-nuovo-disordine-mondiale-28-lantifascismo-europeista-e-la-politica-delle-armi/ Wed, 26 Mar 2025 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87454 di Sandro Moiso

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

“L’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo” (Amadeo Bordiga)

La vera novità del nuovo giro di valzer di “The Donald 2.0” e dai suoi cavalieri dell’Apocalisse hi-tech è rappresentata dall’aggressività di carattere economico, ma [...]]]> di Sandro Moiso

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

“L’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo” (Amadeo Bordiga)

La vera novità del nuovo giro di valzer di “The Donald 2.0” e dai suoi cavalieri dell’Apocalisse hi-tech è rappresentata dall’aggressività di carattere economico, ma anche politico, nei confronti degli “alleati” europei e non solo. Da lì deriva lo smarrimento manifestato da editorialisti, opinionisti, rappresentati politici e pennivendoli di vario livello di fronte ad un’America che rischierebbe di perdere le sue prerogative di custode dell’ordine liberal-democratico occidentale e, quindi, planetario.

Ecco allora alzarsi, dal World Economic Forum di Davos o dall’aula parlamentare di Bruxelles per voce di Ursula von der Leyen così come dalle pagine di «Repubblica», del «Corriere della sera » o dalla penna di uno stagionato rappresentante dei nouveaux philosophes come Bernard-Henri Lévy, un autentico peana per l’età dell’oro perduta e di rimpianto per quando l’America, gli States, la Land of Freedom svolgevano davvero il lavoro affidatogli dal Manifest Destiny1 ovvero proteggere e sviluppare gli interessi occidentali, quindi anche europei, in tutto il mondo.

Purtroppo, però, per gli autori di questi plaidoyer per i principi e i diritti perduti, l’attuale politica americana porta alla luce ciò che ha sempre sotteso la democrazia bianca e liberale trionfante nel corso del secolo americano. Una politica di feroci disuguaglianze all’interno e all’estero, di repressione indiscriminata nei confronti di qualsiasi opposizione o resistenza, una politica imperiale sapientemente divisa tra il big stick delle armi, delle flotte e dei bombardamenti indiscriminati e la carota degli aiuti “umanitari” e dei dollari distribuiti a pioggia tra gli alleati più fedeli a garanzia dell’ordine imperiale mondiale.

Tanto da spingere la giornalista italo-marocchina Karima Moual a chiedere provocatoriamente ai politici italiani ed europei: «Come ci si sente se Trump tratta l’Europa da debole? Come ci si sente se i diritti e la giustizia sono sottomessi al business? Tutto questo lo conoscono bene e da tante tempo i popoli arabi e quelli dell’Africa»2.

Certo, c’è da dire, le posizioni espresse dall’attuale amministrazione americana, dal possibile ritiro dall’impegno militare in Europa e nella Nato fino ai dazi sui prodotti europei e canadesi (oltre che cinesi) e al disconoscimento di organizzazioni internazionali ormai fallimentari come l’ONU o il tribunale penale internazionale dell’Aja o l’estromissione dei maggiori paesi europei da qualsiasi trattativa diplomatica riguardante le sorti dell’Ucraina, non sono, come molta stampa liberaldemocratica vorrebbe far credere, frutto di decisioni improvvise e inaspettate. Piuttosto, invece, sono il frutto obbligato di una crisi dell’Occidente che ha finito, inevitabilmente, col riflettersi nel voto americano, prima, e nel sistema delle alleanze interne allo stesso ordine occidentale, dopo.

In fin dei conti la brutalità e la “mancanza di tatto” del presidente statunitense, la nuova ricerca di una nuova condivisione del governo del mondo, successivo al tanto agognato nuovo ordine mondiale ventilato fin dalla caduta del muro, e il rifiuto di coinvolgere ancora l’Europa e i suoi rappresentanti nelle politiche globali, ha almeno un pregio: quello di togliere il velo che nascondeva la finzione insita nelle roboanti dichiarazioni atlantiste e liberali sul ruolo dell’Occidente e di un’Europa sempre più evanescente sulla scena politica mondiale, dell’ONU e degli altri organismi internazionali nel governo democratico del mondo e sulla diffusione di valori e diritti liberali dati per scontati, ma scarsamente condivisi in diverse aree del globo.

Per ll destino del nostro continente il segnale era stato dato immediatamente dal fatto che Trump avesse nominato come nuovo ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea Andrew Puzder, ex-dirigente di alcune delle più note catene di fast food in America, come dire che il buongiorno si vede fin dalla colazione. Il tutto poi aggravato dalle dichiarazioni rilasciate, al canale televisivo Fox News, dal mediatore per la guerra in Ucraina Steve Witkoff, che ha definito i leader europei come dei sempliciotti, “tutti convinti di essere dei nuovi Churchill”3. O, ancor peggio, i giudizi espressi in una comunicazione che avrebbe dovuto rimanere riservata tra J.D. Vance e Pete Hegseth, capo del Pentagono, a proposito di un possibile intervento militare contro gli Houthi dello Yemen, portato a termine nei giorni successivi4.

Anche per questi motivi gli europei e gli europeisti si son trovati di fronte al dilemma di come sopperire al venir meno della protezione prima offerta dal fratello maggiore, optando naturalmente per un piano di riarmo che dovrebbe contribuire sia a proteggere l’Europa dalla novella barbarie asiatica di Putin che a rilanciare la stagnante economia europea. Basata principalmente su un antiquato modello guidato dal settore dell’automotive come si è già sottolineato in un precedente articolo (qui).

Forse mai come in questo periodo lo stretto legame tra crisi dell’imperialismo (economica e politica), corsa agli armamenti e guerra è stato dichiarato, da Draghi a Ursula “bomber” Layen, così apertamente e chiaramente. Passando, altrettanto, dall’inossidabile rampollo della famiglia Agnelli, John Elkann, che nei giorni scorsi ha chiarito, con uno straordinario giro di parole e di non detti, che la riconversione bellica non sarà la soluzione dei problemi dell’industria automobilistica, ma che quest’ultima, nella sua incarnazione in Stellantis, si adeguerà ai flussi di investimenti destinati a risollevarne le sorti. Ovvero che il piano ReArm Europe sarà alla fine il solo disponibile, sia nella sua forma “europea” che in quella degli interessi nazionali.

Sì perché, intanto, ancora una volta si è palesato il fatto che il vero ostacolo alla tanto strombazzata necessità di costruzione di una difesa europea non è rappresentato per ora dall’opposizione politica, o autodefinentesi tale senza alcun merito, né dalla protervia del nuovo babau americano o dall’aggressività russa, ma semplicemente dal fatto che gli interessi del capitale europeo restano comunque nazionali ed ognuno cercherà di tirare l’acqua al proprio mulino in termini di investimenti, raccolta di flussi finanziari e produzione di armi e mezzi corazzati, aerei, droni, sistemi elettronici e navi. Così come rivelano anche le divisioni, manifestatesi nel più recente vertice europeo del 20 marzo, a proposito di debito comune, eurobond, invio delle truppe in Ucraina e politiche nei confronti dei dazi, della Nato e degli Stai Uniti.

Una scelta, quella del riarmo, che comunque, nell’intento generale espresso da von der Leyen e Kaja Kallas, ha escluso i produttori di armi degli Stati Uniti dal nuovo massiccio piano di spesa per la difesa dell’Unione Europea, in cui precedentemente gli stessi avevano ormai raggiunto una quota del 64% della stessa, e dal quale anche il Regno Unito è stato, per ora, escluso.

“Dobbiamo comprare di più europeo. Perché ciò significa rafforzare la base tecnologica e industriale della difesa europea”, ha dichiarato la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Peccato, però, che nel tentativo di rafforzare i legami con gli alleati, Bruxelles abbia coinvolto paesi come la Corea del Sud e il Giappone e l’Associazione europea di libero scambio (EFTA) nel suo programma che potrebbe arrivare a una spesa di 800 miliardi di euro per la difesa.

Fino ad ora, circa due terzi degli ordini di approvvigionamento dell’UE sono andati a industrie belliche statunitensi, ma il cambiamento radicale dell’ordine internazionale indotto dalle scelte di Trump e dal suo nuovo rapporto “privilegiato” con la Russia di Putin ha fatto dire a Kaja Kallas, il massimo rappresentante diplomatico dell’UE, che «Non lo stiamo facendo per andare in guerra, ma per prepararci al peggio e difendere la pace in Europa»

La proposta più concreta è l’impegno della Commissione a prestare fino a 150 miliardi di euro ai paesi membri da spendere per la difesa nell’ambito del cosiddetto strumento SAFE.
Mentre i prestiti saranno disponibili solo per i paesi dell’UE, anche gli stati amici al di fuori del blocco potrebbero prendere parte all’acquisto congiunto di armi.
L’aggiudicazione congiunta nell’ambito della proposta SAFE è aperta all’Ucraina; Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein dell’EFTA; nonché “i paesi in via di adesione, i paesi candidati e potenziali candidati, nonché i paesi terzi con i quali l’Unione [europea] ha concluso un partenariato per la sicurezza e la difesa”.
Alla fine di gennaio, l’UE aveva sei partenariati di difesa e sicurezza con Norvegia, Moldavia, Corea del Sud, Giappone, Albania e Macedonia del Nord. Anche la Turchia e la Serbia, in qualità di paesi candidati all’adesione all’UE, potrebbero potenzialmente aderire.
Ciò lascia fuori gli Stati Uniti e il Regno Unito, anche se lo status della Gran Bretagna potrebbe cambiare […] Il Canada ha anche chiarito di volere relazioni di sicurezza più strette con l’UE. Mercoledì la Commissione ha anche proposto una maggiore cooperazione in materia di difesa con Australia, Nuova Zelanda e India. «Ci sono molte richieste in tutto il mondo di cooperare con noi», ha detto un alto funzionario dell’UE5.

Un invito ad un banchetto finanziario che nasconde come a tale punto di crisi e necessità di riconversione bellica si sia giunti dopo tre anni di conflitto in Ucraina che hanno visto i paladini della democrazia, del liberalismo e dell’antiautoritarismo europeo sposare la causa della guerra e, soprattutto, delle sanzioni alla Russia di Putin senza mai chiedersi quanto tutto questo potesse gravare, così come è stato, sull’economia e le società del continente. Il dato di fatto è talmente visibile da non meritare certo altre contorte considerazioni, se non la sottolineatura del fatto che quegli stessi stati democratici hanno saputo, e tutt’ora sanno, soltanto dichiarare che per ottenere la pace non serve la diplomazia, ma soltanto preparare la guerra.

In un’autentica orgia di dichiarazioni belliciste una gran parte degli imprenditori europei, e non solo, ha fiutato l’odore dei soldi e del sangue, mentre, senza alcuna vergogna, i governanti si son precipitati a dichiarare l’inevitabilità della guerra, compresa quella nucleare. “La Polonia deve perseguire le capacità più avanzate, comprese le armi nucleari e le moderne armi non convenzionali. Questa è una gara seria – una gara per la sicurezza, non per la guerra” ha dichiarato il primo ministro polacco Donald Tusk al parlamento di Varsavia all’inizio di questo mese6.

Anche se il dibattito sull’ombrello nucleare europeo ha contribuito a mettere in risalto la differenza di interessi tra Macron, Starmer e dell’avatar di Olaf Scholz che già governa la Germania pur non avendo ancora messo in piedi un vero governo, Friedrich Merz. Oltre che le stesse difficoltà insite nel programma di allargamento del programma nucleare militare ad altri paesi europei, mentre «l’obiettivo di Parigi potrebbe essere quello di scaricare le spese per l’ombrello nucleare sui Partner comunitari, liberando risorse per le spese nazionali […] Parlare poi di buy European in assenza di una politica sulle materie prime fa semplicemente sorridere. Secondo le stime di JP Morgan, il consumo europeo di acciaio derivante dal solo piano di riarmo tedesco registrerà un balzo annuo dell’8-12%, oltre le 10mila tonnellate; ma forse non tutti sanno che oggi in Europa esiste un solo produttore certificato di acciai balistici, il che pone un problema serio di dipendenza. La guerra del rame in corso tra Washington e Pechino potrebbe inoltre creare forti carenze nel mercato dell’ottone, ostacolando i piani di produzione (e di ripristino delle scorte) di munizionamento»7.

Secondo Fabian Rene Hoffmann, ricercatore presso l’Oslo Nuclear Project, anche se una delle potenze europee della Nato fosse intenzionata a sviluppare armi nucleari proprie, anziché semplicemente ospitarle, si troverebbe a partire da zero.
“Il problema principale che i Paesi europei si trovano ad affrontare è che non dispongono di infrastrutture nucleari civili per avviare un programma di armi nucleari o, se dispongono di infrastrutture nucleari civili, che sono altamente ‘resistenti alla proliferazione'”, ha dichiarato a Euronews.
“Per esempio, Finlandia e Svezia hanno solo reattori ad acqua leggera, che non sono adatti alla produzione di plutonio per armi. Inoltre, nessuno di questi Paesi ha impianti di ritrattamento chimico, necessari per separare gli isotopi ricercati da quelli indesiderati nella produzione di materiale fissile”, ha poi spiegato l’esperto.
“Quindi, anche se volessero lanciare un programma nucleare, non potrebbero farlo con le infrastrutture esistenti, almeno nel breve periodo. Questo è il caso di tutti gli Stati europei non dotati di armi nucleari con un programma nucleare civile in questo momento”. Hoffman ha riconosciuto una discutibile eccezione: la Germania.
“Sebbene non disponga più di un’infrastruttura nucleare civile significativa, ha una grande scorta di uranio altamente arricchito per scopi di ricerca”, ha spiegato. “In teoria, queste scorte potrebbero essere riutilizzate per creare materiale fissile per le armi”.
“Ma anche in questo caso sarebbe sufficiente solo per circa 5-15 testate nucleari, quindi non sarebbe sufficiente per dispiegare quello che chiamiamo un deterrente nucleare “robusto””, ha poi detto Hoffman8.

In un contesto in cui anche il concetto di “volenterosi” inventato dal premier inglese si fa di giorno in giorno più ambiguo. Considerata anche la diffusione da parte della testata tedesca «Welt am Sonntag» di una fake news sull’offerta cinese di invio di truppe in Ucraina per garantire la pace, smentita dal portavoce del ministero degli Esteri cinese, Guo Jiakun9.

Naturalmente mentre l’italietta meloniana, ancor più inconsistente della falange comune europea, si adegua al motto secolare: «Franza, America o Alemagna pur che se magna». Travestendo il tutto da raffinata tattica politica e diplomatica, con l’Italia ponte tra Europa, America e Nato, oppure cercando di nascondere l’autentico gioco delle tre carte portato avanti dal ministro dell’economia Giorgetti rispetto al debito italiano e possibilità di investimenti privati nel settore della difesa. Sì, se non ci fosse di mezzo il pericolo, ormai quasi certo, del deflagrare di un nuovo macello imperialista mondiale, ci sarebbe soltanto da ridere.

La risvegliata, ma tutt’ora esanime armata Brancaleobe europea deve, però, fare i conti con un altro problema, rappresentato proprio dalle società che si intendono governare e trascinare nei conflitti a venire e si parla qui di conflitti e non di conflitto poiché, come già sottolineava Trockji nei suoi scritti sulla guerra oppure in altri scritti comparsi anche qui su Carmilla, una volta che la guerra è nell’aria l’unica cosa sicura è che ci sarà, ma su quali saranno alla fine i veri contendenti o i fattori scatenanti sarà solo il disordinato e caotico divenire degli eventi a dirlo.

Infatti, per tornare a quanto si diceva della società europee, è proprio la ritrosia che si manifesta in gran parte dei cittadini delle stesse ad impugnare le armi per cause non meglio definite, ma sicuramente contrarie agli interessi vitali ed economici degli stessi, a sabotare quello che i maggiorenti delle istituzioni europee vorrebbero vendere come unico percorso possibile per uscire dalla crisi dell’Occidente e dei suoi “valori”, oltre che da quella economica e di rappresentanza politica e diplomatica.

Un recente sondaggio dell’istituto Gallup ha infatti rivelato che, a partire dalla Polonia, dove la percentuale di coloro favorevoli alla difesa in divisa della propria nazione, nonostante i propositi sempre bellicosi di Tusk, è del 45 per cento, la medesima percentuale scende rapidamente negli stati i cui governanti con tanta facilità sembrano volersi impegnare in un conflitto. In Germania con il 23 per cento, mentre in Belgio si dice disponibile solo il 19 per cento. Nei Paesi Bassi ancora meno, il 15 per cento. Risale in Francia e Spagna con un 29 per cento e in Austria il 20 per cento e ancora in Gran Bretagna con il 33 per cento. Ultima viene l’Italia con il 14 per cento. Considerati anche gli stati “più combattivi” (Finlandia 74%, Grecia 54 % e Ucraina 62%) si giunge ad una media europea del 34% ben distante da una entusiastica risposta ad una mobilitazione generale10.

Occorre poi ancora sottolineare come il dato ucraino sia poco affidabile, considerata la diffusa resistenza alla leva manifestatasi negli ultimi anni e nell’ultimo periodo che ha visto almeno un milione di uomini di età arruolabile lasciare clandestinamente il paese, mentre numerosi soldati, circa 1.700, dei 5.800 inviati in Francia per essere addestrati hanno preferito disertare una volta giunti lì. Esattamente come hanno fatto, fino ad ora, almeno 100.000 soldati ucraini incriminati per diserzione11. Cui bisogna ancora aggiungere il provvedimento di Zelensky per impedire a giornalisti e artisti di abbandonare l’Ucraina con permessi speciali di cui facevano buon uso non ritornando in patria e la sempre più forte resistenza all’arruolamento forzato dei giovani che ha visto assalti agli uffici di arruolamento e, in alcuni casi, l’omicidio degli ufficiali incaricati dell’arruolamento da parte di parenti dei giovani cercati per essere inviati al fronte12.

In Germania, dove il progetto di riarmo sembra voler riportare la nazione mitteleuropea ai suoi nefasti splendori militareschi del Primo e Secondo macello imperialista, la resistenza della cosiddetta “Gen Z”, i nati dopo il 1997 che oggi sarebbero i primi reclutati dalla leva, è evidentissima. Lo dimostrano i dati degli obiettori di coscienza (coloro che dopo essersi arruolati hanno poi lasciato le forze armate) che sono aumentati del 500% nel 2023 dopo lo scoppio del conflitto ucraino. Nel dettaglio 1 su 4 dei 18.810 uomini e donne che si erano arruolati nel 2023 hanno lasciato le forze armate entro 6 mesi. Dati guardati con preoccupazione da parte del ministero della Difesa in un momento in cui la Germania punta sempre di più sul rafforzamento della difesa nazionale e che potrebbe prevedere una leva obbligatoria sia per gli uomini che per le donne.

Da quando la Russia ha lanciato la sua invasione su larga scala dell’Ucraina nel febbraio 2022, la Germania ha avviato uno sforzo di riarmo su vasta scala. L’esercito tedesco può contare su 181mila soldati, con un’età media di 34 anni (Più dell’Italia che conta 161mila effettivi, mentre la Francia ne ha circa 260mila). Tuttavia un ultimo rapporto ufficiale evidenzia alcune criticità, il 28% delle posizioni nei ranghi più bassi non sono coperte e mancano il 20% degli ufficiali che sarebbero necessari. A questo si aggiungono gli alti numeri delle defezioni del 2023 (il 25% dei neo-assunti). Anche per far fronte a questi problemi in parlamento si è tornato a discutere di leva obbligatoria. La proposta è arrivata dal parlamentare Florian Hahn che ha dichiarato alla Bild che “Già da quest’anno i primi soldati di leva devono entrare nelle caserme”. Ricordando che il mondo è diventato più insicuro e la Germania «ha bisogno di un deterrente credibile dato proprio dalla capacità di aumentare gli effettivi. Obiettivo che può essere raggiunto anche attraverso cittadini in uniforme siano essi volontari o di leva». In Germania il servizio militare obbligatorio è stato abolito nel 2011. Era stato istituito nel 1956. Tuttavia né la minaccia russa né il crescente clima di tensione internazionale sembrano motivare i giovani tedeschi ad arruolarsi, tanto che, come riporta il Financial Times in un reportage l’esercito ha “Sempre più difficoltà a trovare giovani della Gen Z pronti per la guerra”. «Meglio sotto occupazione che morto», la frase pronunciata da Ole Nymoen, giornalista freelance ventisettenne tedesco, sta facendo discutere la Germania insieme al suo libro dall’eloquente titolo “Perché non combatterei mai per il mio paese”. Il saggio è uscito questa settimana e analizza il punto di vista di molti ragazzi: «La nazione si trasfigura in una grande comunità solidale, che tutti devono servire con gioia. E questo dopo decenni di desolidarizzazione, durante i quali i politici neoliberisti hanno dichiarato che l’impoverimento di ampie fasce della popolazione era l’unica opzione»13.

E adesso, proprio mentre l’America di Trump dimostra, con la sua politica che cerca di ristabilire una equilibrata ripartizione del mondo oggi con la Russia di Putin, ma in un ancora incerto futuro, forse, anche con la stessa Cina, di essere giunta a un punto di non ritorno della sua pretesa egemonia mondiale e i governi europei sbandano dandosi come unico “obiettivo” comune quello di entrare in un’economia di guerra, si riattivano anche i corifei dei diritti umani, delle liberà, delle democrazie solo e sempre parlamentari e dell’antifascismo europeista tornano a dimostrare l’esattezza dell’assunto di Amadeo Bordiga secondo il quale: Il peggior prodotto del fascismo è l’antifascismo. Un’affermazione che va però inserita in una più ampia riflessione sulle caratteristiche del fascismo che vale la pena qui di riportare:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi, ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori, provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.[…] Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale. Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che dal fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici14.

Ecco allora arrivare oggi alle nostre orecchie lo schiamazzo osceno di chi, non sapendo in quale altro modo chiamare i giovani e le società intere al massacro bellico, non può far altro che riscoprire un antiamericanismo di maniera, patriottico e nazionalista, oppure il richiamo all’antiautoritarismo liberale in difesa della democrazia offesa dall’autocrate Putin, con manifestazioni di piazza e chiamate alle armi velenose e subdole. Degne sì di essere chiamate fasciste e contrarie a qualsiasi altro interesse di classe e della specie, visto che le posizioni espresse dalla Schlein su difesa europea e debito comune sono molto simili a quelle espresse dalla Meloni e dal suo governo. Oppure, come hanno fatto i verdi tedeschi, si ammanta l’approvazione dello sforzo bellico con la necessità di una “transizione ecologica” o ancora, com’è successo l’estate scorsa in Francia, con il voto della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon ai candidati di Macron, il principe dei guerrafondai europei tenuto a freno solo dalle considerazioni di carattere economico della Banca di Francia, per opporsi a Marine Le Pen.

Mobilitazioni di carattere principalmente ideologico cui, però, fa da corollario il piano della commissione europea che, mescolando tra di loro i pericoli rappresentati da guerre, pandemie e disastri ambientali affiancati alle politiche securitarie portate avanti da tutti i governi nel corso degli ultimi decenni, è stato presentato in bozza a Bruxelles per una “Strategia di preparazione dell’Unione” o di “Vigilanza” che formula la necessità per le famiglie di accumulare scorte di medicine, batterie e cibo per resistere 72 ore in caso di guerra e per le scuole e gli insegnanti di preparare gli allievi ai “pericoli” della guerra, non certo in chiave antimilitarista (qui e qui).


  1. Il Destino manifesto è un’espressione che indica la convinzione che gli Stati Uniti d’America abbiano la missione di espandersi, diffondendo la loro forma di libertà e democrazia. La frase “destino manifesto” venne all’inizio usata principalmente dai sostenitori della democrazia jacksoniana negli anni 1840, per promuovere l’annessione di buona parte di quelli che oggi sono gli Stati Uniti d’America occidentali (il Territorio dell’Oregon, l’Annessione texana e la Cessione messicana) a partire dalla presidenza di James Knox Polk. Il termine venne riesumato negli anni 1890, questa volta dai sostenitori repubblicani, come giustificazione teorica per l’espansione statunitense al di fuori del Nord America e alcuni commentatori ritengono che questi aspetti del destino manifesto, in particolare il credo in una “missione” statunitense per promuovere e difendere la democrazia in tutto il mondo, abbia continuato a lungo a influenzare la politica statunitense e la sua narrazione, in patria e fuori.  

  2. K. Moual, Hey, amici, come ci si sente con la Ue trattata come uno staterello africano?, Huffington Post, 20 Febbraio 2025.  

  3. E. Franceschini, “Putin super intelligente, Ucraina falso Paese”. L’assurda intervista di Witkoff, inviato di Trump, «la Repubblica», 24 marzo 2025.  

  4. JD. Vance: «Penso che stiamo commettendo un errore: solo il 3% del commercio Usa passa dal Canale di Suez, contro il 40% di quello europeo. C’è il rischio reale che il (nostro) pubblico non capisca perché questa azione sia necessaria […] Se ritenete che dovremmo comunque farlo, allora andiamo. Però detesto l’idea di salvare gli europei ancora una volta».
    P. Hegseth: «Condivido in pieno la tua critica degli approfittatori europei. E’ patetico.» in R. Fabbri, Vance-Hegseth e l’odio per l’Ue. La chat segreta, «Il Giornale», 25 marzo 2025.

     

  5. Si veda: G. Sorgi, J. Barigazzi e G. Faggionato, EU slams the door on US in colossal defense plan, «Politico» 19 marzo 2025.  

  6. A. Naughtie, Un altro Paese europeo potrebbe sviluppare le proprie armi nucleari?, «Euronews», 23 marzo 2025.  

  7. G. Torlizzi, Armi, il piano di Parigi per escludere l’Italia, «Il Giornale», 26 marzo 2025.  

  8. A. Naughtie, art. cit.  

  9. Cfr: Cina: “Le nostre truppe di peacekeeping in Ucraina? Fake news”, «la Repubblica», 24 marzo 2025. 

  10. Per tutto quanto riguarda i risultati del sondaggio dell’istituto Gallup, si vedano: Se scoppiasse una guerra, combatteresti? Cosa farebbero gli italiani, Adnkronos, 18 marzo 2025 e E. Pitzianti, Combatteresti per il tuo Paese? Ecco la risposta degli italiani, Esquire Italia, 7 marzo 2025.  

  11. Si vedano: F. Kunkle, S. Korolchuk, Ukraine cracks down on draft-dodging as it struggles to find troops, «The Washington Post», 8 dicembre 2024; A. D’Amato, I soldati ucraini che hanno disertato in Francia: «Erano nelle caserme, avevano diritto di uscire», «Open.online», 7 gennaio 2025; Ucraina diserzioni, 19mila soldati hanno già abbandonato. Kiev depenalizza il reato per chi lascia la prima volta: l’altro fronte odioso della guerra, «Il Messaggero», 8 settembre 2024; D. Bellamy, Decine di migliaia di soldati hanno disertato dall’esercito ucraino, «Euronews», 30 novembre 2024.  

  12. N. Scavo, Agguati contro i reclutatori. Kiev teme la rivolta interna, «Avvenire», 4 marzo 2025.  

  13. Leva obbligatoria, la Germania vuole reintrodurla ma la Gen Z si rifiuta: «Meglio sotto occupazione che morto», «Il Messaggero», 18 marzo 2025.  

  14. Edek Osser, Un’intervista a Amadeo Bordiga, giugno 1970 (qui)  

]]>
“Els carrers seran sempre nostres!” Il movimento reale in Catalogna https://www.carmillaonline.com/2018/07/20/els-carrers-seran-sempre-nostres-il-movimento-reale-in-catalogna/ Fri, 20 Jul 2018 20:40:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46727 di Giacomo Marchetti

Il movimento politico sociale sviluppatosi in Catalogna lo scorso autunno è stato uno dei momenti più alti del conflitto attuale in Unione Europea. Il suo sviluppo ha mostrato il vero volto dello stato spagnolo ed ha reso evidente il mancato passaggio da un regime franchista ad una formazione statuale effettivamente post-franchista.

La sconfitta della mobilitazione per mano della reazione spagnola ha segnato il definitivo fallimento di una transizione democratica progressiva che aveva animato l’ottimismo delle forze social-democratiche “spagnoliste” dalla morte di Franco in poi ma di cui il carattere illusorio era sempre stato denunciato dalle sinistre indipendentiste [...]]]> di Giacomo Marchetti

Il movimento politico sociale sviluppatosi in Catalogna lo scorso autunno è stato uno dei momenti più alti del conflitto attuale in Unione Europea.
Il suo sviluppo ha mostrato il vero volto dello stato spagnolo ed ha reso evidente il mancato passaggio da un regime franchista ad una formazione statuale effettivamente post-franchista.

La sconfitta della mobilitazione per mano della reazione spagnola ha segnato il definitivo fallimento di una transizione democratica progressiva che aveva animato l’ottimismo delle forze social-democratiche “spagnoliste” dalla morte di Franco in poi ma di cui il carattere illusorio era sempre stato denunciato dalle sinistre indipendentiste e dalle forze rivoluzionarie iberiche.
Come sempre, si potrebbe dire, la storia procede per il suo lato cattivo…
L’output politico di questo aspro scontro di classe è stata una nuova “torsione autoritaria” e un “bilanciamento a destra” con, come pivot, una formazione populista come Ciudadanos che coniuga un orientamento fortemente reazionario (in particolare rispetto alla questione dell’indipendentismo) ad uno spiccato neo-liberismo.

Questo movimento ha reso evidente la capacità di protagonismo di una significativa porzione sociale ben oltre i perimetri della presa organizzativa specifica dell’indipendentismo catalano, in cui comunque le parti “più avanzate” e anagraficamente più giovani di questa compagine politica hanno avuto un ruolo rilevante in questo processo
Questa componente ha saputo portare contenuti e pratiche pregresse che nei picchi della mobilitazione si sono generalizzate ed è stata in grado di porre la questione della de-connessione della Catalogna dalla Spagna al centro dell’agenda politica, senza però – come riconosciuto dal bilancio fatto su quella esperienza – aver posto l’attenzione su come articolare materialmente lo sganciamento da Madrid.
Non è superfluo ricordare che la marea umana che ha invaso le strade catalane ha illustri precedenti che inquadrano il retroterra e l’orientamento di questa mobilitazione, che di fatto tutt’altro che focalizzatasi su un indipendentismo “chiuso” di matrice identitaria ripiegato su sé stesso: la mobilitazione di Barcellona (unica nel suo genere in Europa) per l’accoglienza dei profughi contro le politiche razziste del PP e quella successiva agli attentati jihadisti sulle Ramblas che ha di fatto annullato ogni tentativo di strumentalizzazione da destra dell’accaduto, senza tralasciare i vari movimenti sociali d’opposizione dallo sciopero globale femminista ai movimenti per il diritto all’abitare.

Questo movimento reale ha coagulato, seppure in un arco temporale circoscritto, un blocco sociale antagonista variegato che andava da una piccola borghesia radicalizzata sempre più stretta dalla crisi nella morsa della polarizzazione sociale, a parti di classe lavoratrice “tradizionale” – dai lavoratori portuali che si sono rifiutati di far sbarcare le navi con le “truppe d’occupazione” mandate da Madrid ai Vigili del Fuoco che hanno protetto i seggi dove si è svolto il referendum – fino ai settori di quel precariato sociale diffuso che hanno animato i “blocchi” durante gli scioperi generali e che hanno costantemente spinto alla mobilitazione, facendo una costante opera di pressing su chi, dal lato istituzionale, portava avanti questo processo, talvolta con notevoli tentennamenti.
In questo contesto l’organizzazione di stampo territoriale soprattutto a Barcellona ha offerto uno squarcio delle possibilità di sviluppare un substrato organizzativo funzionale alle esigenze del conflitto in ambito metropolitano ricco di suggestioni, al di là della specificità della “capitale” catalana e dell’involucro indipendentista che hanno assunto le principali rivendicazioni politico-sociali.

Quello che si è consumato in Catalogna è stato l’affossamento definitivo di un patto sociale con cui era stata governata questa porzione della penisola iberica da parte di attori politici che coniugavano insieme alla richiesta di un maggior margine d’azione rispetto a Madrid un orientamento neo-liberista, questa sepoltura è avvenuta da un lato a causa delle esigenze di ri-centralizzazione del processo decisionale da parte dello stato spagnolo e dall’altro dalla perdita di consenso di quei ceti direttamente interessati dalle politiche di austerity in salsa “autonomista”.
In sostanza la decennale crisi ha ridotto i margini di azione che Madrid aveva precedentemente concesso durante un ciclo economico espansivo “drogato” dall’intreccio tra speculazione edilizia, settore creditizio e rendita politica consolidata. Con la fine di questo artificioso “boom economico” che ha avuto conseguenze dirette disastrose sul corpo sociale su cui questa crisi è stata scaricata sono state polverizzate le possibilità di trattativa con il governo centrale su qualsiasi aspetto minimamente rilevante dell’agenda politica.
Contemporaneamente ha preso sempre più consistenza un sentimento popolare che vedeva nello “sganciamento” da Madrid una possibile exit strategy da questa situazione, anche in virtù del fatto che ogni avanzamento anche parziale su ogni piano veniva di fatto annullato dal governo centrale che nella sua strategia di pervicace arroccamento sulla propria rendita di posizione politica si appoggiava sulle parti più reazionarie e retrive del blocco sociale dominante.
La chiusura ad ogni possibilità di trattativa con il governo centrale e la militarizzazione imposta da Madrid hanno costituito una strategia conseguente all’annullamento di ogni ipotesi anche solo velatamente “riformista”, in cui la governance spagnola recupera l’ingombrante arsenale che la lotta di classe dall’alto dello Stato iberico non ha mai smantellato – tra cui un monarca “fuori tempo massimo”, le istanze più retrive del clero cattolico e il riemergere di una ideologia apertamente fascista – riconfigurato secondo le esigenze delle élites oligarchiche europee che governano a Bruxelles.
I limiti del processo di transizione appaiono evidenti quando i protagonisti politici, gli apparati dello stato e la configurazione di valori a cui gli uni e gli altri esplicitamente si rifacevano hanno mostrato come il sistema di potere iberico più che un profilo liber-democratico ha il volto della “democradura” come un famoso scrittore latino-americano definiva i regimi “post-dittatoriali” sud-americani.

Gli attori politici che governano la UE hanno legittimato in pieno un livello repressivo operato su diversi piani dalla Spagna, dal tentativo di impedire manu militari un referendum fino al “commissariamento” del governo catalano costretto all’esilio, dall’incarcerazione dei militanti delle organizzazioni sociali che hanno animato il movimento (tutt’ora in carcere), allo sdoganamento dell’estrema destra spagnola dichiaratamente fascista in funzione “anti-catalana”.
Questa prassi concertata tra Madrid e Bruxelles – la Spagna è un Paese strategico sia per l’UE che per l’Alleanza Atlantica – crea un precedente pericoloso per le sorti del conflitto di classe in tutto il continente e di fatto un innalzamento della soglia del livello repressivo che investe direttamente le forme residuali della democrazia rappresentativa se con un “colpo di mano” si esautora una rappresentanza politica eletta, o si nega la possibilità di esprimersi per via referendaria scatenando una offensiva a tutto campo che è andata dall’oscuramento dei siti che informavano sul referendum ad una tragicomica “caccia alla scheda” fino alle cariche di persone in fila per votare ad un seggio.
D’altro canto questo pronunciamento in favore della prassi di Madrid da parte della UE ha fatto mutare il “senso comune” di una popolazione facendola diventare euro-scettica come dimostrano i sondaggi dedicati a questo momento: la UE non è più certo percepita come l’ancora di salvezza dalla maggioranza dei catalani perché si è dimostrata una pesante camicia di forza ad il proprio anelito di libertà al pari di tutti gli attori politici istituzionali “spagnoli”, tra cui Podemos che ha dimostrato i suoi limiti strutturali di fronte alle istanze espresse da un movimento reale e di massa e la stessa inadeguatezza del movimento politico della sindaca di Barcellona Ada Colau.

In Italia le vicende catalane hanno avuto un colpevole deficit di attenzione e di capacità di lettura da parte sia di ciò che rimane della “vecchia sinistra” ex-istituzionale, sia delle varie componenti che animano il ceto politico residuale dell’antagonismo sociale, che quello strato non particolarmente cospicuo di intellettuali marxisti che non hanno gettato il cervello alle ortiche, mentre i settori più dinamici di “movimento” hanno colto per varie ragioni e con approcci differenti l’importanza di ciò che stava avvenendo e la necessità di interloquire con il movimento reale che stava animando le strade e le piazze catalane.
Quando poi il cono di luce dei media si è allontanato da quel quadrante e il movimento ha esaurito la sua forza propulsiva e sono iniziati il bilancio di ciò che era successo, con un pesante fardello repressivo che tuttora grava su quel contesto, quella parziale e fugace attenzione è praticamente sfumata e le questioni poste da quel movimento sono state velocemente rimosse dalla riflessione e dal dibattito.
Il volume: La Sfida Catalana. Cronaca di una rivoluzione incompiuta, scritto da Marco Santopadre e curato dal sottoscritto, pubblicato da Pgreco cerca di colmare questo deficit offrendo una riflessione più organica che partendo dalla minuziosa ricostruzione della cronaca di quei giorni evidenzi i nodi politici al centro della vicenda dentro una prospettiva storica di più ampio respiro che investe più piani d’indagine e che cerchi di fare una “fotografia in movimento” di ciò che è accaduto.
La Sfida Catalana parte dalla convinzione che lo studio di un movimento reale se storicamente collocato e compreso nella sua sperimentazione pratica di un processo di avanzamento politica non è una mera operazione intellettuale, ma uno stimolo per ripensare la propria pratica quotidiana e gli orizzonti che apre.

]]>
La Storia di ieri, oggi e domani https://www.carmillaonline.com/2017/05/11/la-storia-ieri-oggi-domani/ Wed, 10 May 2017 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38154 di Sandro Moiso

notav-6 maggio 2017 ASinistra è combattere il fascismo. Sia quello nazionalista, che quello globalista, che oggi si contendono il pianeta” (Alessandra Daniele)

Nello scorso week-end, nei giorni 6 e 7 maggio, si sono svolti due eventi che non potrebbero essere più lontani tra di loro per numero oggettivo di partecipanti, rilevanza data loro dai media nazionali ed internazionali e peso rivestito a livello istituzionale. Naturalmente si tratta, in primo luogo, delle elezioni presidenziali francesi, cui la società dello spettacolo ha saputo dare e programmare tutta l’importanza che meritavano a livello di opinione pubblica.

Mentre il secondo, quasi [...]]]> di Sandro Moiso

notav-6 maggio 2017 ASinistra è combattere il fascismo. Sia quello nazionalista, che quello globalista, che oggi si contendono il pianeta” (Alessandra Daniele)

Nello scorso week-end, nei giorni 6 e 7 maggio, si sono svolti due eventi che non potrebbero essere più lontani tra di loro per numero oggettivo di partecipanti, rilevanza data loro dai media nazionali ed internazionali e peso rivestito a livello istituzionale.
Naturalmente si tratta, in primo luogo, delle elezioni presidenziali francesi, cui la società dello spettacolo ha saputo dare e programmare tutta l’importanza che meritavano a livello di opinione pubblica.

Mentre il secondo, quasi invisibile a livello giornalistico e mediatico, se non sulle pagine locali di alcuni quotidiani nazionali oppure sui siti antagonisti, è stato costituito dalla marcia tenutasi in Val di Susa, da Bussoleno a San Didero, contro il modello di sviluppo basato sulle grandi opere e sulla devastazione del territorio, di cui naturalmente l’alta velocità ferroviaria costituisce l’apripista e la punta di diamante.
Eventi lontani tra di loro, si diceva, il cui raffronto appare, ad uno sguardo disattento e superficiale, improponibile. Eppure, eppure…

La Storia di ieri e di oggi
Nel primo si sono apparentemente scontrati il passato e il presente della società e della sua conduzione economica e sociale.
L’internazionalismo finanziario, di cui Emmanuel Macron è stato il campione, e il nazionalismo della passata grandeur francese di cui Marine Le Pen è stata la pulzella destinata al rogo mediatico e politico.

macron-le-pen Un capitalismo che può sopravvivere soltanto abbattendo qualsiasi barriera economica e nazionale, sostituendo i governi e le borghesie nazionali con tecnocrati, dipendenti diretti della Banca Centrale Europea o del Fondo Monetario Internazionale, il cui potere è inversamente proporzionale alla loro nullità propositiva e politica, ha cercato e ottenuto il consenso dei subordinati, sbandierando il fatto di essere il campione dei diritti contro il pericolo delle derive populiste e fasciste.
Che, a ben guardare, non sono altro che l’altra faccia del capitalismo, le cui ragioni di esistenza stanno soltanto nella difesa dei confini, del mercato nazionale e nell’innalzamento di barriere protettive, senza tuttavia negarsi la possibilità di abbattere quelle altrui.

Un capitalismo, il primo, che, nella sua suprema fase finanziaria, non tollera più alcun limite giuridico ed alcuna forma di mediazione politica ed istituzionale, ma che si scontra quotidianamente con le sue contraddizioni. Un capitalismo che macella gli uomini, le donne e l’ambiente per sostituirli con macchine e realtà virtuali che, a loro volta, lo limitano non essendo in grado di consumare il prodotto che sta alla base della realizzazione del valore.

Confermando una marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto portata ormai alle sue estreme conseguenze cui né la speculazione finanziaria né, tanto meno, il sovraconsumo delle classi che si accaparrano la ricchezza socialmente prodotta possono contrastare. Destinato a creare, in prospettiva, una società di proletari destinati a vivere di panem et circenses come nell’antica Roma imperiale; una autentica plebe schiavizzata, più che dal lavoro, dalla dipendenza dalle elemosine di Stato (bonus, reddito di cittadinanza et similia) che domani potrà trasformarsi in elemosina tout court. Con tanto di benedizione papale affinché il consumo possa continuare all’infinito.

Una realtà già presente, proprio nei paesi un tempo al centro dell’imperialismo, cui si contrappongono ideali nazionalisti e conservatori che fanno della Terra e del Lavoro, unite idealmente nella Patria e nel prodotto nazionale, la base di una protesta perdente e fascistoide. Destinata soltanto a portare alla rovina reciproca le classi in lotta. Di cui guerre, razzismo, fondamentalismo religioso (cristiano, islamico ed ebraico), egoismo, disperazione, suicidi non costituiscono altro che la facciata più visibile.

Realtà, quelle rappresentate da Macron e dalla Le Pen, che i media e i commentatori politici accecati e asserviti si sforzano di presentare come novità, ma che non lo sono. La prima perché pienamente consequenziale ad un modello di sviluppo e ad una forma di produzione ampiamente prevedibile nel suo percorso fin dalla sua nascita. L’altra assolutamente inserita in tutto il percorso dei nazionalismi novecenteschi, di cui, come gran parte dei cosiddetti movimenti populisti, è la legittima erede.

francia-festa- Due modelli politici che rappresentano le due facce di una stessa medaglia, come hanno ben compreso e sintetizzato i francesi che hanno coniato lo slogan Ni patrie, ni patron! Ni Le Pen, ni Macron! E come le bandiere tricolori sbandierate in piazza dai sostenitori dell’uno e dell’altra hanno ulteriormente confermato. Due modelli che non sostituiscono rinnovandoli i partiti e gli schemi politici precedenti, ma che li assorbono e integrano al proprio interno, in attesa di un divenire economico, militare e politico piuttosto incerto.

Due modelli che il 37% dei francesi ha rifiutato, esattamente come al secondo turno delle elezioni presidenziali del 1969 quando, dopo le dimissioni di De Gaulle seguite alla sconfitta subita ai referendum da lui indetti per modernizzare la struttura dello Stato, il 31% dei francesi si astenne dal voto e un altro 6,5% votò con schede bianche o nulle. Mentre, invece, al secondo turno delle ultime elezioni si è astenuto il 25,5 % mentre più del 12% ha votato scheda bianca o nulla.

Certamente il gioco di una parte considerevole dell’attuale potere politico e bancario (Macron rispecchia magnificamente il processo di osmosi e di integrazione avvenuto tra i due poteri) è quello di portare una buona parte dell’elettorato a disinteressarsi completamente di ciò che avviene ai piani alti oppure a riporre le proprie rabbiose speranza in contenitori sostanzialmente vuoti e partecipi dello stesso gioco di conservazione dello status quo economico e sociale.

Ma questo gioco è estremamente pericoloso, poiché mentre per tutto il ‘900 il gioco delle parti ha finito con l’integrare le proteste e le lotte sociali all’interno dell’establishment, attraverso la sussunzione all’interno dello stesso dei partiti che avrebbero dovuto rappresentarle e difenderne gli interessi, oggi il processo di allontanamento da sé e dallo Stato messo in atto dalla rete dei poteri economico-finanziari non potrà avere altra conseguenza che la formazione di comunità nemiche degli stessi e auto-organizzate su altre basi, destinate a negare l’esistenza dell’attuale forma sociale di produzione e riproduzione.

La Storia di domani no-tav-6-maggio-2017
Questa, che è già Storia del domani, ha già iniziato da tempo a manifestarsi. Come la marcia in Val di Susa di sabato 6 maggio ha confermato.
Certo, a ben vedere, sabato scorso si è svolta soltanto una marcia da Bussoleno ai terreni recentemente espropriati nel comune di San Didero. Agli occhi di molti, quindi, una protesta locale. Ma quelle migliaia di persone che hanno manifestato (15.000 per gli organizzatori e, naturalmente, 4.000 per la Questura), sotto una pioggia battente e con la fiducia negli sguardi, rappresentavano qualcosa di più. Molto di più.

Come sempre erano presenti i rappresentanti dei vari comitati contro la costruzione della linea ad alta velocità Torino – Lione, sia italiani che francesi; ma ad essi si aggiungevano i comitati No Tap, contro le grandi navi nella laguna di Venezia, dei terremotati dell’Italia Centrale, della Terra dei fuochi, contrari alla costruzione di nuovi, inutili e dannosi aeroporti, le Brigate di solidarietà attiva e i rappresentanti di altre iniziative, sviluppatesi a partire da specifici territori, contrarie alla devastazione dell’ambiente, allo spreco delle risorse e alle mafie politico-economiche coinvolte nella realizzazione delle presunte grandi o piccole opere.

notav 6 maggio 2017 D Opere inutili e dannose, mancate ricostruzioni e devastazioni dei territori in nome del profitto e della speculazione finanziaria che ben rappresentano, ormai il percorso che i modernizzatori della società, da Renzi a Macron passando per Bruxelles e la Banca centrale europea, intendono mettere in atto. Opere e mancati provvedimenti che toccano ormai centinaia di migliaia di cittadini, forse milioni, già stretti nella morse della crisi economica, dello scarso e sottopagato lavoro e della fine di ogni garanzia.

Stiamo attenti: non diritto, ma garanzia. I diritti possono essere impunemente sbandierati, fin dagli albori delle Rivoluzioni borghesi, dagli affamatori di popoli. Il diritto al lavoro, per esempio e solo per citarne uno, non significa che il lavoro debba svolgersi entro certi margini di garanzia: afferma soltanto che tutti devono poter lavorare. Così il job act e tutte le sue trappole possono essere sbandierati come estensione di un diritto, concesso eliminando tutte le garanzie economiche, sindacali, previdenziali e assistenziali che lo hanno accompagnato per anni, grazie alle battaglie sindacali e alle lotte di classe.

Oggi con il discorso dei diritti, umani e generici, si devastano i territori, si favoriscono le mafie di ogni tipo, si abbassa il costo del lavoro, si annullano le differenze di classe (naturalmente soltanto nel discorso istituzionale), si ignorano le condizioni reali di esistenza di milioni di individui, si va alla guerra e si riducono le differenze di genere e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna ad un puro elemento di mancato ammodernamento della mentalità.1

notav 6 maggio 2017 E Bene, coloro che hanno partecipato alla marcia del 6 maggio, indipendentemente dalla regione di provenienza, sapevano tutti, amministratori, semplici cittadini e militanti, che così non si può più andare avanti e che altre scelte sono possibili e devono essere fatte. Amministratori, sindaci, cittadini non erano lì per una semplice manifestazione di protesta, né erano lì soltanto per manifestare la propria vicinanza alla più antica lotta territoriale italiana.

Erano lì per testimoniare che la lotta NoTav è diventata un modello di riferimento, sia politico che organizzativo. Un modello che ha saputo produrre solidarietà reale e non formale con militanti che sono stati o sono presenti ormai in più di una situazione di disagio (dai territori colpiti dal terremoto alla Puglia). Un modello che ha saputo dimostrare che si può costruire dal basso, by-passando partiti, sindacati e luoghi istituzionali decotti, un’autentica democrazia dal basso e una autentica capacità di resistenza e di lotta. Pienamente cosciente dei propri scopi e degli obiettivi da perseguire.

Una comunità umana cosciente e consapevole che, dalla valle subalpina, estende ormai la sua ramificazione organizzativa e la sua influenza lungo una linea rossa che va dal Piemonte al Veneto e dal Nord al Sud, fino alla Puglia, passando per il Centro devastato dai terremoti. Non più secondo un trito modello classista di Stato, ma attraverso l’unione delle comunità che lottano, per forza di cose, contro di esso.

Questa sembra essere la Storia di domani, ammesso che la specie voglia continuare ad avere una Storia e non voglia invece sprofondare nella catastrofe planetaria verso cui imperialismo economico, speculazione finanziaria e militarismo sembrano volerla indirizzare. Una Storia già raccontata in Francia dalla ZAD di Notre-Dame-des-Landes, oppure dai curdi del Rojava oppure, ancora, dall’EZNL del Chiapas messicano. Senza dimenticare le centinaia di fabbriche autogestite in Argentina e le lotte in difesa della terra e delle differenti colture in India e in Asia.

notav 6 maggio 2017 C Una rete mondiale di comunità su cui basare un nuovo internazionalismo e una nuova visione del futuro della specie, in cui la necessaria eguaglianza economica e il rapporto con l’ambiente non entrino in conflitto tra di loro; rafforzando le diversità e la comunione degli interessi allo stesso tempo. Non più basato su una semplicistica e riduttiva visione operaista e tecnocratica in cui le esigenze del lavoro e della produzione sono destinate a prevalere sull’ambiente e sulle differenti specie, umana compresa.

Un’utopia? Una bestemmia? Un superamento della forma stato oppure una ridefinizione dei suo compiti e dei suoi limiti nazionali e rappresentativi? Forse tutte queste cose insieme, ma tutto ciò è quello la realtà delle lotte ci propone di nuovo, senza dimenticare il passato e la Storia delle lotte contro il capitale e le sue istituzioni. Come diceva lo striscione che apriva il corteo: C’eravamo, ci siamo, ci saremo!

La Storia dell’altro ieri
Quelli che proprio non ci sono mai stati, che non ci sono e non ci saranno più stanno invece in quella che un tempo si chiamava Sinistra e che oggi assume un aspetto ed un significato sempre più ambiguo, se non molesto. Come gli autentici servi del capitale finanziario che hanno ancora una volta agitato lo spettro del fascismo per spingere gli elettori a votare per l’incarnazione vivente del dominio capitalistico, Emmanuel Macron, quasi che questo non fosse egli stesso un rappresentante della concentrazione finanziaria che da sempre si agita dietro al fascismo e all’imperialismo. Oggi malamente travestiti di diritti generici e da globalizzazione della miseria mondiale.

Una Sinistra, che definire opportunista è ancora troppo poco, che sembra ignorare che i governi nazionali e parlamentari sono già stati cancellati dalla storia, insieme alla democrazia rappresentativa e parlamentare, proprio dai campioni del modello che hanno difeso contro il pericolo fascista. Davanti ai quali i difensori dell’ammodernamento della Sinistra e dello Stato, come Manuel Valls, già si prostrano. Mentre altri correranno ancora ad inginocchiarsi, pur tra mille contorsioni ideologiche.

Una Sinistra incapace di cogliere come tale trasformazione del modello politico e contrattuale dell’attuale capitalismo non dipenda soltanto da scelte irrazionali e/o autoritarie, ma da un processo di accumulazione che, rallentato in Occidente, ha spostato l’asse produttivo in altre aree e continenti e che non può più contrattare con i lavoratori prebende che prima erano garantite dallo sfruttamento del proletariato internazionale. Il grasso che colava dallo sfruttamento di quelle classi operaie non entra più soltanto nelle tasche dell’Occidente, né ai piani alti, né, tanto meno, in quelli bassi.

Mentre un’altra Sinistra, meno significativa e che si ritiene alternativa alla precedente, continua tristemente a trascinare le proprie bandiere di partito all’interno delle manifestazioni, come è successo anche sabato a Bussoleno, scambiando il ruolo reale del movimento con qualcosa che possa e debba ancora essere guidato o sfruttato. Una propaganda politica che promette una conquista di un Palazzo d’Inverno che ormai non esiste più e che spera di cavalcare una tigre che nemmeno comprende. Magari cercando di spingere alla creazione di organismi fasulli, simili ai già fallimentari intergruppi degli anni ’70, per ridare fiato a sindacalisti e rappresentanti politici che ormai non rappresentano altro che se stessi. Rinviando all’infinito il problema del cambiamento e accontentandosi, troppo spesso, di testimoniare un avvicendamento di poteri sempre più ambiguo e lontano nel tempo.

N.B.
Il presente intervento è anche da intendersi come una risposta al Commissario di governo per la Torino-Lione, Paolo Foietta, che in un’intervista, pubblicata su La Stampa del 7 maggio 2017, ha affermato: “Ieri si è svolta una manifestazione che ha assunto carattere nazionale. Una marcia di tutti i movimenti del “no” contro qualcosa e infatti sono arrivati da mezza Italia. Si tratta di una svolta che prefigura la costruzione di un fronte del No che va oltre la Val di Susa e assume un carattere antipolitico e antigovernativo […] ma quella manifestazione è datata nelle parole d’ordine perché non prende in considerazione quello che è successo in questi anni


  1. Straordinario il commento del giudice istruttore di Trieste che si occupa del caso della neonata morta a seguito del suo abbandono, probabilmente ad opera di una ragazza sedicenne, in un campo alla periferia della città: “Sono cose da Sicilia degli anni ’40!” Nossignore, sono cose che capitano ora, adesso e qui nell’Italia della falsa modernità istituzionale e della miseria sociale.  

]]>
Appuntamenti mancati, indirizzi sbagliati https://www.carmillaonline.com/2016/05/09/appuntamenti-mancati-indirizzi-sbagliati/ Mon, 09 May 2016 20:30:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30419 di Sandro Moiso Copertina1923

Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00

Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente [...]]]> di Sandro Moiso Copertina1923

Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00

Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente attualità. Primo tra tutti quello della centralità , o meno, della classe operaia e del suo ruolo all’interno di un radicale sovvertimento del modo di produzione attuale e della politica di alleanze che, attraverso le sue organizzazioni e partiti, dovrebbe saper mettere in piedi in una tale prospettiva. Ben al di là, naturalmente, della “egemonia”, principalmente culturale, teorizzata da Gramsci.

Tema delicato in cui una sorta di idealizzazione della stessa, ricollegabile alle trasformazioni avvenute forse più a partire più dall’inizio del ‘900 che ai fondatori del socialismo, ha forse raggiunto nell’operaismo degli anni settanta, e nei suoi attuali epigoni, il suo limite e il suo massimo rilievo teorico.1

Fin dalla premessa l’autore si chiede, a proposito della mancata rivoluzione tedesca del 1923, “perché fino a oggi l’argomento in Italia è stato affrontato in modo più che fuggevole, nonostante il fatto che in quel tentativo siano stati coinvolti all’incirca un milione di lavoratori e varie centinaia di migliaia di comunisti, e non solo tedeschi, cosa che nella storia non si era mai verificata prima e non si è più verificata successivamente. Dalla storiografia di tipo accademico c’era da aspettarselo: quello che si è rivelato come un «non evento» non poteva suscitare grande interesse”.

Osservando, però, subito dopo che “Si potrà essere o meno d’accordo su singoli aspetti della nostra analisi, ma non si potrà evitare di riconoscere che i motivi veri della sconfitta in Germania (primo fra tutti il mancato riconoscimento dell’idea che la rivoluzione comunista doveva avere carattere popolare o non sarebbe stata, idea presente, anche se poco considerata, nel famoso opuscolo di Lenin sull’Estremismo) siano esistiti e necessitino ancora di una seria discussione, nonostante la mole d’acqua che è passata sotto i ponti della storia.
Purtroppo in Italia, e non solo in Italia, ha circolato e alimentato, con effetti disastrosi, la cultura di quella che è stata chiamata «sinistra rivoluzionaria» la tesi secondo la quale la rivoluzione nei paesi sviluppati sarebbe stata, e sarebbe ancora al risveglio della classe operaia, di estrema «semplicità», con uno svolgimento positivo assicurabile da un grado spinto di intransigenza formale rispetto a obiettivi programmatici generalissimi. Ristabilire la verità sul 1923 in Germania, che ha attestato proprio l’esatto contrario della «semplicità» del processo rivoluzionario in Occidente, è quanto abbiamo cercato di fare
”.

Il tema centrale dello studio qui esaminato riguarda quindi le possibili strategie e tattiche di un percorso politico destinato a sfociare nel superamento dei rapporti di produzione e dominio di carattere capitalistico. Tema che Basile focalizza soprattutto analizzando l’azione del Partito Comunista Tedesco che, all’epoca, costituiva il secondo partito, numericamente e per ordine di importanza, dopo quello bolscevico all’interno dell’Internazionale Comunista.2

Era chiaro che il proletariato tedesco non poteva restare inerte di fronte alle ripercussioni della crisi mondiale sulla disastrata economia del paese e alla progressiva svalutazione del danaro, all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, alla crescita della disoccupazione e all’impoverimento di sempre più vasti settori della popolazione, per la quale giorno dopo giorno si aggravava ovviamente anche il problema delle abitazioni. Ed era altrettanto chiaro che la KPD (Partito Comunista Tedesco) non poteva sottrarsi al compito di dare a questo fenomeno una prospettiva politica pratica, fuori da un ambito propagandistico generale”.

Ma, in Germania, proprio l’orientamento operaista significò “contrapporre alcune decine di milioni di lavoratori al resto della popolazione, che ammontava a un po’ più di sessanta milioni, tra la quale, nel vuoto lasciato dai comunisti e dagli stessi socialdemocratici, cominciarono a prendere sempre più piede le destre e l’estrema destra (i nazionalisti, i gruppi paramilitari reazionari derivati dai Corpi Franchi, l’Orgesch, i völkischen e i nazionalsocialisti), che sfruttarono la protesta sociale cercando di indirizzarla anche in senso fisico contro il movimento operaio e le sue organizzazioni”. La rivoluzione non poteva certo vincere lasciando da parte più della metà della popolazione del paese.

Il dramma prese inizio a partire dall’entrata sul territorio tedesco delle truppe franco-belghe che fin dal 10 gennaio 1923 “occuparono nei giorni successivi Düsseldorf, Bochum e Dortmund. La Germania perse così il 40 per cento del suo ferro, il 70 per cento della sua ghisa e l’88 per cento del suo carbone […]La Germania fu trascinata in una spirale inflazionistica peggiore di quella in atto, voluta dai finanzieri e dagli industriali speculatori, che liquidò la resistenza, investì i risparmiatori, assumendo l’aspetto di un’espropriazione sistematica delle classi medie e precipitando i lavoratori in una miseria inaudita. Il cambio del marco tedesco, a pochi mesi di distanza dall’occupazione della Ruhr, passò da 48.000 in maggio a 4,6 milioni per un dollaro in agosto. Si può facilmente immaginare l’abisso in cui repentinamente precipitarono le condizioni di vita della popolazione. Scoppiarono infatti vere e proprie «rivolte della fame» in parecchie città. E il tasso di cambio continuò a salire”.

Karl Radek, all’epoca uno dei più important rappresentanti del Partito Bolscevico e dell’Internazionale, ebbe ad osservare che i comunisti, in tale situazione, avrebbero avuto tutto l’interesse a non consegnare all’imperialismo francese il cuore della rivoluzione: il bacino della Ruhr.
Sempre Radek affermò che “Il fatto decisivo in tutta la situazione è che una grande nazione industriale è stata ridotta al rango di una colonia. Questa sconfitta della borghesia tedesca suscita un grande movimento rivoluzionario. Il nazionalismo, che un tempo era soltanto uno strumento per rafforzare i governi borghesi, si converte in un fattore di accelerazione dell’attuale rovina capitalistica

E continua poi ancora: “Il partito tedesco non si è affatto adattato all’ondata nazionale, esso non ha smesso di incoraggiare la fraternizzazione con i soldati francesi […], ma la KPD non deve trascurare che la differenza tra il nazionalismo e gli interessi rivoluzionari della nazione tedesca che sono adesso la stessa cosa degli interessi nazionali rivoluzionari del proletariato […] Quello che viene definito nazionalismo tedesco non è soltanto nazionalismo, bensì un vasto movimento nazionale d’importanza rivoluzionaria. Le ampie masse piccolo borghesi, le masse dei tecnici e degli intellettuali, che svolgeranno un ruolo importante nella rivoluzione proletaria per il fatto che nel sistema borghese tutte queste masse vengono schiacciate, declassate e proletarizzate, danno ai loro rapporti con il capitalismo degenerato la forma di una ribellione nazionale. […] Noi dobbiamo combattere l’ideologia nazionalistica, aprire gli occhi alle masse che ne sono strumentalizzate. Ma se non vogliamo essere un mero partito operaio di opposizione, ma un partito operaio che combatte per il potere dobbiamo trovare il cammino che conduce a queste masse”.

Agli inizi di luglio, si verificò il montare spontaneo di scioperi rivendicativi a causa del crollo del marco e dell’aumento vertiginoso di tutti i prezzi, con il governo che sembrava in procinto di dichiarare bancarotta. Contemporaneamente gli occupanti francesi e belgi nella Ruhr spingevano avanti un movimento secessionista e in Baviera il governo di estrema destra si muoveva per rendersi autonomo da Berlino; la Reichswehr, con i gruppi paramilitari fascisti, si preparava dal canto suo a intervenire contro i governi operai della Sassonia e della Turingia.
La Centrale della KPD lanciò un appello per organizzare in tutto il paese per la fine del mese una «giornata antifascista» che prevedeva la mobilitazione dei proletari contro la minaccia del fascismo e l’agitazione tra le masse piccolo borghesi per separarle dai loro dirigenti.

Ma tale appello portò, progressivamente a far dipendere sempre di più l’azione dei comunisti e delle masse già potenzialmente in rivolta dalle scelte operate dal partito socialdemocratico e dal sindacato con cui si era cercata l’alleanza a discapito di un’azione allargata anche a quei settori “nazionalisti” che, di fronte ad un’azione più decisa della KPD, avrebbero dovuto decidere se stare dalla parte del capitale o dei lavoratori e dei contadini . Così quando, di fronte agli scontri che si verificarono in alcune prove preliminari a ridosso di scioperi rivendicativi, la polizia della Prussia e il governo del Reich vietarono la manifestazione, si propose di svolgere la manifestazione stessa soltanto là dove, come in Sassonia e in Turingia, non fosse stata sospesa dalle autorità o dove, come nella Ruhr e nell’Alta Slesia, queste ultime non potessero impedirla. Nel resto del paese si sarebbero dovuti tenere comizi in spazi chiusi. In considerazione anche del fatto che i fascisti sembravano molto superiori ai comunisti quanto ad armamento e sarebbe stato utopico credere che i socialdemocratici avrebbero seguito i comunisti nel caso di scontri diretti, nei quali la polizia, trovandosi di fronte a nulla più che una dimostrazione di protesta, sarebbe stata tra l’altro dalla parte dei fascisti.

Ai primi di agosto, la Commissione di Berlino dei sindacati, nella quale era presente una forte componente socialdemocratica, sia di destra sia di sinistra, invitò l’ADGB (Allgemeine Deutsche Gewerkschaftsbund – Confederazione generale dei sindacati tedeschi), la SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Tedesco), l’USPD (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco) e la KPD a una riunione di «concertazione», ma questa iniziativa fu surclassata subito dalle azioni di massa e dagli scontri con la polizia e con l’esercito che, con morti e feriti in varie città, fecero aumentare ancor più la tensione.

Ruolo propulsore nella dichiarazione di uno sciopero generale di tre giorni ebbero i comitati di fabbrica, che avevano raggiunto il numero di ventimila, con un Consiglio d’azione a livello nazionale, presieduto da un comunista, che l’11 agosto esso approvò un programma in nove punti: dimissioni del governo, formazione di un governo operaio e contadino, requisizione dei viveri e loro distribuzione sotto il controllo delle organizzazioni proletarie, riconoscimento ufficiale dei comitati di vigilanza appositamente costituiti, decadenza dell’interdizione degli organismi operai di autodifesa, salario orario minimo, riassunzione dei disoccupati, revoca dello stato d’assedio e del divieto di manifestare, liberazione dei prigionieri politici operai.

Lo stesso giorno il partito socialdemocratico fu costretto ad annunciare la fine del proprio sostegno al governo Cuno che si dimise. L’incarico di formare un nuovo governo fu affidato da Ebert, presidente socialdemocratico della repubblica, al deputato popolare Gustav Stresemann. Questi diede vita a un ministero di «grande coalizione». Su tale base la socialdemocrazia, pronta a voltare le spalle alle lotte operaie e all’ipotesi di un accordo con i comunisti, appoggiò Stresemann ed entrò nel governo con quattro ministri.

A poco a poco, nel giro di una settimana, le lotte si esaurirono. Cominciarono arresti e licenziamenti (che raggiunsero la cifra di centomila verso la fine del mese). Anche i vertici dei comitati di fabbrica furono colpiti dalla repressione, così come l’apparato della KPD.
Nel partito si fece strada, lentamente e nonostante forti incertezze, l’idea che forse la situazione era più matura per un’azione rivoluzionaria di quanto esso avesse ritenuto fino alla «giornata antifascista» di fine luglio. Le lotte rivendicative degli operai e dei disoccupati erano nel frattempo ricominciate, così come quelle per la casa e per gli approvvigionamenti, mentre si moltiplicavano gli scontri con la polizia e con l’esercito.

A settembre nel giro di alcune settimane, la Germania diventò l’argomento principale degli interventi pubblici dei dirigenti sovietici, dei loro discorsi nei congressi, sindacali o d’altro genere, il centro dell’attenzione della stampa sovietica. In particolare ebbe inizio l’impegno per sostenere le strutture militari della KPD e di quelli che erano chiamati organismi di difesa della classe operaia o «Centurie proletarie». Un generale sovietico già presente in Germania fu posto alla loro testa con lo pseudonimo di Helmuth Wolf e furono creati apparati specifici per l’addestramento militare, per lo spionaggio, per la penetrazione nella polizia e nell’esercito e per le azioni di sabotaggio e terroristiche.

centuria Per quanto riguarda le Centurie proletarie, esse erano state pazientemente costituite agli inizi dell’anno. Il 15 maggio erano state vietate in Prussia, misura presa a ruota in altre regioni, e ciò aveva ostacolato il loro sviluppo, costringendo gli organizzatori a mascherarle come servizi d’ordine o associazioni sportive. Se a maggio ne esistevano 300 in tutta la Germania, in luglio crebbero a 900, per un totale di circa centomila uomini, la metà dei quali concentrati in Sassonia e Turingia, con forti presenze anche nella Ruhr e a Berlino. Nella maggior parte dei casi si trattava di organismi, basati nelle aziende o nelle varie località, a composizione mista, di membri della KPD, dei sindacati e della socialdemocrazia.

L’armamento delle Centurie in ottobre, nell’ipotesi migliore, a parte le pistole, non superava i 50.000 fucili. Si approntarono anche riserve di esplosivi, si svaligiarono botteghe di armaioli e si organizzarono vari furti nelle caserme. In Sassonia si impiantò addirittura una fabbrica clandestina di armi e munizioni.Lo sforzo militare compiuto in pochi mesi fu davvero considerevole. Ma, rapportato alla società tedesca, agli effettivi e all’armamento della Reichswehr, della polizia e dei gruppi paramilitari d’estrema destra, esso appare del tutto inadeguato.

Mentre i comunisti entravano nei governi della Sassonia e della Turingia a fianco dei socialdemocratici, il generale Müller in Sassonia, fin dagli ultimi giorni di settembre, aveva rafforzato lo stato d’emergenza, attribuendo alla Reichswehr il compito di assicurare l’ordine pubblico, vietando ogni manifestazione di strada e gli scioperi, annunciando lo scioglimento delle Centurie proletarie e il ritorno della politica locale ai propri compiti tradizionali di pura amministrazione.
Cosa non meno importante, egli aveva ordinato alle banche di non consegnare i fondi chiesti dai ministri del governo di Dresda. Nello stesso modo si era comportato il generale Reinhardt in Turingia, dove tutto si svolse più o meno come in Sassonia, con la stessa violenza anche se con maggiore lentezza. Il 5 ottobre era stata sospesa la stampa comunista. Ma le truppe erano rimaste consegnate momentaneamente nelle caserme.

La tensione cresceva. Dal ministero sassone dell’economia partì una richiesta alle banche di Dresda per l’apertura di un credito di 150 miliardi di marchi-oro che avrebbe permesso di effettuare gli acquisti più urgenti di generi alimentari per 700.000 abitanti ridotti letteralmente al lumicino.
Le banche comunicarono che il credito sarebbe stato messo a disposizione del generale Müller. La Baviera sospese le vendite del latte e dei prodotti caseari in genere in Sassonia e i granai del Reich aumentarono i prezzi del 41%. Per la Turingia la situazione non era diversa. Era in atto un vero e proprio blocco contro le regioni rosse.

La Reichswehr si mobilitò nelle strade e nelle piazze dove le proteste, anche in Sassonia, contro l’intervento militare prendevano sempre più l’aspetto di una rivolta: di nuovo ad Amburgo, ad Aquisgrana, Berlino, Düsseldorf, Erfurt, Cassel, Essen, Colonia, Francoforte, Hannover, Beuthen, Lubecca, Braunschweig e Allenstein. Questa collera non poteva giungere da sola al livello dell’azione rivoluzionaria: essa, di fronte al protrarsi eventuale della repressione, non poteva trasformarsi in altro che in una rassegnazione disperata. Ma non esisteva soltanto il proletariato, per la piccola borghesia, più pauperizzata che mai, e i ranghi intermedi e inferiori delle forze armate la capitolazione nella Ruhr aveva accresciuto piuttosto che diminuito l’ira, anche se ne beneficiava l’estrema destra, a causa della debolezza che sulla questione specifica aveva recentemente mostrato il KPD che senza un’azione rivoluzionaria diretta, non poteva provocare crepe reali nella forza dello Stato.

Il 20 ottobre i dirigenti comunisti incaricati dell’insurrezione si riunirono clandestinamente a Dresda e sottolinearono unanimemente che prima della data prevista per l’insurrezione era necessario che il proletariato sassone chiamasse in proprio aiuto l’insieme dei lavoratori tedeschi. Solo durante lo sciopero generale, in cui questo aiuto si doveva esprimere e che sarebbe stato indetto da una conferenza dei comitati di fabbrica convocata a Chemnitz il giorno successivo, sarebbe iniziato il sollevamento armato. Ai segretari di distretto si comunicò che il 23 le Centurie e i gruppi d’assalto sarebbero entrati in azione, attaccando caserme e posti di polizia, occupando i nodi stradali, le stazioni, gli uffici postali e gli edifici amministrativi.

Ma, per i tentennamenti e i rifiuti opposti da una parte della socialdemocrazia e degli operai ad essa legati questo ordine finì con l’essere sospeso e solo ad Amburgo (dove i comunisti erano in condizioni di marcata inferiorità rispetto ai socialdemocratici), a causa dell’abbandono in anticipo della riunione della Centrale da parte di un rappresentante dell’organizzazione cittadina, questi partì convinto che l’insurrezione fosse confermata e l’attacco iniziò come stabilito, ma, ovviamente, senza mobilitazione delle masse. All’alba del 23 ottobre, l’organizzazione di combattimento del partito (composta da un po’ più di un migliaio di militanti) attaccò i posti di polizia dei sobborghi della città per rifornirsi di armi e fornirne anche alle Centurie proletarie, che erano state formate, ma non ne disponevano. Poi si puntò verso il centro della città. Mancando la mobilitazione proletaria, per lo meno nelle proporzioni che avrebbe dovuto avere – non si può dire che fu proprio del tutto assente –, l’azione si esaurì in ventiquattr’ore, nella consapevolezza dell’isolamento in cui si svolgeva, a causa della preponderanza delle forze avversarie (la polizia contava varie migliaia di uomini che furono rincalzati via mare). Il partito riuscì a organizzare abbastanza efficacemente la ritirata. Sul terreno restarono alcune decine di morti da ambo le parti. Molti furono i feriti e vennero arrestati un centinaio di comunisti.

Nei giorni seguenti lo stato d’emergenza dichiarato dal governo e l’azione decisa della Reichswehr portarono all’eliminazione dei “governi operai” della Sassonia e della Turingia, sostituiti da governi a cui capo vi erano rappresentanti della destra socialdemocratica e finiva così in un fiasco l’ultima occasione, prima dell’avvento del nazismo, che la più importante classe operaia e il più grande partito comunista dell’Occidente avessero mai avuto.

Che in quel fiasco l’incapacità di allargare un fronte dal basso alle esigenze di altri settori di società, non solo operai, abbia avuto un ruolo è cosa certa per l’autore, che conclude il suo lavoro citando Lenin nel 1916 che, in occasione dell’insurrezione irlandese, aveva scritto: “Le fiamme delle insurrezioni nazionali, dovute alla crisi dell’imperialismo, sono divampate sia nelle colonie sia in Europa e […] le simpatie e antipatie nazionali si sono manifestate nonostante le minacce di misure draconiane di repressione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, […] potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere […] e attuare le altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si «epurerà» dalle scorie piccolo borghesi tutt’altro che di colpo. […] Non è […] chiaro che in questo senso meno che in ogni altro è lecito contrapporre l’Europa alle colonie? La lotta delle nazioni oppresse in Europa, capace di giungere sino all’insurrezione e alla lotta di strada, sino a spezzare la ferrea disciplina dell’esercito e dello stato d’assedio, «inasprisce la crisi rivoluzionaria in Europa» con forza immensamente maggiore di un’insurrezione molto più sviluppata in una lontana colonia”.

Giunto a questo punto, devo scusarmi con il lettore, per la lunga dissertazione tesa a riassumere i fatti narrati (con maggior dovizia di particolari) nel testo, ma la conoscenza di quegli errori e di tentennamenti, di quei dibattiti a livello tedesco ed internazionale di cui furono protagonisti tutti i maggiori rappresentanti dell’Internazionale Comunista (che l’autore riporta con estrema fedeltà e con un’abbondante raccolta di relazioni e discorsi) non ancora stalinizzata, vale ancora la pena di essere approfondita e conosciuta, non soltanto per pedanteria storica o per il piacere della citazione.parigi 1 maggio

Si può non essere d’accordo con la tesi dell’autore, ma è certo che, e forse soprattutto, oggi la questione della capacità per un movimento antagonista di essere portatore di istanza collettive globali, da Occupy Wall Street al movimento NoTAV passando per Taranto fino al rifiuto dei pareggi di bilancio e delle leggi sul lavoro imposti da Bruxelles e dai governi che ne sono ispirati fino ai diritti dei migranti e degli immigrati, resta un terreno di scontro, ricerca teorica, organizzazione ed azione che proprio l’opposizione di una parte del sindacato al referendum sulle trivelle o l’appoggio alla disperata ed iniqua scelta tra posto di lavoro e salute dei cittadini oppure l’appoggio di una parte delle ex-sinistre alle politiche europee, dimostrano essere ancora centrale e vitale.

Così come si dimostra ancora essenziale la riflessione sul legame tra lotte di classe e questioni nazionali, dalla Palestina al Kurdistan fino al Donbass, e su ciò che si intende come internazionalismo e che non può essere semplificato solamente attraverso la richiesta dell’abolizione di tutti i confini. Oppure su svariati altri temi, come la spontaneità o meno di un’insurrezione, che Corrado Basile tocca nel corso della sua indagine e di cui occorre qui lasciare al lettore l’onere della scoperta.


  1. Come precisa lo stesso autore “Con orientamento operaista intendiamo il fatto di concentrare l’attenzione sui problemi che in modo diretto e immediato riguardavano la condizione dei lavoratori, trascurando tutti gli altri come di second’ordine se non peggio”  

  2. Secondo le fonti disponibili, i membri della KPD nel 1922 dovevano essere circa 220.000, per lo più operai. I giovani comunisti erano 30.000. L’organizzazione si basava sul centralismo democratico. Il partito disponeva di 38 quotidiani con 340.000 abbonati. I deputati al Reichstag erano 14, nei parlamenti regionali erano presenti 72 deputati; i consiglieri municipali erano 12.000 e la KPD disponeva della maggioranza assoluta in 80 consigli e relativa in 170. Dopo il partito bolscevico quello tedesco era il più importante partito della Terza Internazionale. I comunisti influenzavano due milioni e mezzo di lavoratori attraverso i sindacati, i comitati di fabbrica e le organizzazioni dei disoccupati. I comitati di fabbrica erano strutture legali dal 1920 e avevano raggiunto una consistenza numerica considerevole, con un congresso e un consiglio d’azione nazionale orientato molto a sinistra  

]]>
Agnelli sacrificali https://www.carmillaonline.com/2016/03/27/agnelli-sacrificali-2/ Sun, 27 Mar 2016 04:17:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29446 di Alexik

Agnello sacrificaleGli attentati di Bruxelles hanno lasciato sul terreno i corpi di 31 persone inermi e più di 100 feriti negli ospedali. A reti unificate, in questi giorni, ne stiamo conoscendo i volti, le storie. Possiamo rimpiangerne i desideri spezzati, identificarci con loro.

Altri morti di questa sporca storia non hanno avuto tanti riflettori. Nella migliore delle ipotesi, hanno dovuto accontentarsi di essere rappresentati da un numero. Molto più spesso la loro fine è stata oscurata dal buio dei nostri teleschermi. Il cordoglio e lo sdegno sono ‘privilegi’ riservati solo ai nostri morti, e vanno sapientemente amplificati, [...]]]> di Alexik

Agnello sacrificaleGli attentati di Bruxelles hanno lasciato sul terreno i corpi di 31 persone inermi e più di 100 feriti negli ospedali. A reti unificate, in questi giorni, ne stiamo conoscendo i volti, le storie. Possiamo rimpiangerne i desideri spezzati, identificarci con loro.

Altri morti di questa sporca storia non hanno avuto tanti riflettori. Nella migliore delle ipotesi, hanno dovuto accontentarsi di essere rappresentati da un numero. Molto più spesso la loro fine è stata oscurata dal buio dei nostri teleschermi. Il cordoglio e lo sdegno sono ‘privilegi’ riservati solo ai nostri morti, e vanno sapientemente amplificati, per spingerci attorno a una bandiera e motivare nuove avventure militari.

Avventure come queste: “Near Mosul, six strikes struck two separate ISIL tactical units and destroyed an ISIL assembly area, an ISIL supply cache, and three ISIL vehicles and damaged an ISIL-used bridge section and suppressed an ISIL fighting position” (19 marzo 2016).

Dovrebbe rassicurarci questa nota del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che sintetizza la cronaca di uno dei tanti attacchi aerei sull’Iraq. Rincuorarci sulla geometrica potenza, sulla precisione chirurgica della risposta occidentale al terrorismo. Se non fosse che a Mosul, occupata dal Daesh, ci abitano un milione e mezzo di persone, e che il bombardamento in questione ha ucciso, oltre a 40 combattenti jihadisti, decine di civili. Alcune fonti parlano di 25 civili morti, altre ne calcolano più di cento per l’attacco al campus universitario. I nostri media non si sono scomodati a contarli.

In teoria i bombardamenti sulle città sarebbero vietati dalla Convenzione di Ginevra (Protocollo aggiuntivo del ’77), ma già da lungo tempo gli U.S.A. ci hanno dimostrato che con i trattati internazionali ci si può spazzare allegramente il culo. Nel 1986, con raid su Tripoli e Bengasi, e poi con la prima guerra del Golfo, è stata interrotta quella relativa tregua che dalla fine del conflitto in Vietnam inibiva ai nordamericani la pratica degli ‘airstrikes’ sui centri abitati. E’ da allora che Libia ed Iraq rientrano nella categoria dei ‘target’, con i bei risultati che vediamo.

Ed è da allora che chiunque, dal ‘nemico russo’ ad Israele, dagli alleati europei alle satrapie medio orientali, si sente legittimato a sganciare ordigni sui civili seguendo l’esempio della più grande democrazia occidentale .

Ultimi, in ordine di tempo, i nostri amici Sauditi, che continuano a scaricare sui villaggi dello Yemen le bombe che noi gli vendiamo. Più o meno in questo modo:

L’attacco, ripreso nel video nel villaggio di Dhayan, risale al 21 gennaio scorso. Vi è stata colpita anche un ambulanza proveniente dall’ospedale di Al Gomhoury, supportato da Medecins sans Frontieres. Si è trattato infatti di un ‘dual tap strike’, una modalità che prevede che ad un primo attacco ne segua un secondo per uccidere anche i soccorritori. In questo caso gli attacchi sono stati tre, e nel terzo è stato ucciso anche Hashim al-Homran, il ragazzo di 17 anni che ha girato le riprese.

Hawijah, 3 giugno 2015. Fonte: Iraqi Spring

Hawijah, 3 giugno 2015. Fonte: Iraqi Spring

Ma non divaghiamo. Torniamo all’Iraq e alla nostra guerra contro il terrorismo

Il 19 marzo è stata una pessima giornata anche ad Hawijah, una cittadina occupata dal Daesh nel governatorato di Kirkuk. Hawijah non è nuova ai bombardamenti. Il 3 giugno 2015 l’attacco aereo contro  una fabbrica in mano agli jihadisti ha provocato 70 morti e 150 feriti fra i civili che abitavano e lavoravano lì intorno. Tutta la zona è stata rasa al suolo. È stato uno degli ‘effetti collaterali’ più gravi dall’inizio dell’offensiva occidentale contro il Daesh.

Il 19 marzo scorso i caccia occidentali sono tornati ad Hawijah: 41 civili morti e 53 feriti nel bombardamento dell’ospedale e del mercato principale della città. Fonti della coalizione occidentale hanno descritto laconicamente l’accaduto: “Near Al Huwayja, one strike destroyed an ISIL anti-air artillery piece.”  Questa, invece, la ricostruzione video di Al-Jazeera (le immagini e il parlato si riferiscono anche al bombardamento di Mosul):

Bombardamento su Mosul, 11 gennaio 2016. Fonte: NRN News.

Mosul, 11 gennaio 2016. Fonte: NRN News.

I massacri del 19 marzo sono solo gli ultimi in ordine di tempo. Il 15 marzo il bombardamento della Gulf Commercial Bank di Mosul ha causato la morte di 13 civili e il ferimento di 25, fra cui le solite donne e i bambini. Le banche di Mosul sono fra i target prediletti dalla coalizione internazionale. Il Daesh vi conserva nei caveau i proventi del traffico di petrolio, e le usa per distribuire il soldo ai miliziani. L’11 gennaio due bombe da 900 kg sono state sganciate sulla Rasheed Bank, situata in un’area residenziale. Un obiettivo importante dato che, a detta della CNN, i comandanti statunitensi erano disposti a mettere in conto una cinquantina di vittime civili per la sua distruzione. Durante l’attacco dell’11 gennaio di civili ne sono morti ‘pochi’, solo due.

Bombardamento su Mosul, 5 marzo 2016. Fonte: NRN News.

Mosul, 5 marzo 2016. Fonte: NRN News.

Anche le fabbriche di Mosul sono un obiettivo appetibile . Il 5 marzo scorso gli aerei della coalizione hanno bombardato un vecchio impianto industriale nella zona est della città, sospettato di essere utilizzato dal Daesh per la produzione di armi. Nel complesso avevano trovato rifugio dei profughi. Oltre a 10 miliziani, sono rimasti sotto le bombe anche Ali Fathi Zeidan Al- Manaawi e sua moglie, Hussein Ali Fathi Zeidan sua moglie e sei bambini,  Hassan Ali Fathi Zeidan, sua moglie e tre bambini, Ghazala Ali Fathi Zeidan, sua sorella di 10 anni, suo marito e i loro tre figli.

Spostiamoci ora a sud ovest, nella provincia irachena di Al-Anbar. Il 28 febbraio l’agenzia Al Araby ha pubblicato le testimonianze sui fatti di Alvahilat, un villaggio vicino ad Ar Rutbah.   Ad Alvahilat sotto le bombe sono rimasti 26 civili, tra cui nove bambini e sei donne, e 31 feriti. Fra le dichiarazioni raccolte, quella del colonnello Mohammad Obeid, dell’ Anbar Operations Command, che descriveva l’accaduto come uno “sfortunato incidente“: “Sì, abbiamo ricevuto informazioni sull’uccisione di civili da parte di  raid aerei condotti dalla coalizione internazionale nell’Anbar occidentale“.

Questo è il commento di Hatem al-Issawi, membro del consiglio tribale di Al-Anbar: “La gente macellata, i bambini recuperati a pezzi, e tutto col pretesto di combattere Daesh. E’ diventato irrazionale, demolire una casa al fine di prendere un topo, e uccidere la nostra gente per una manciata di uomini armati”.

Thaiyala, 1 gennaio 2016. Per terra: Ismail Taha Hussein Amiri e famiglia. Fonte: Al Anbar News.

Thaiyala, 1 gennaio 2016. Per terra: Ismail Taha Hussein Amiri e famiglia. Fonte: Al Anbar News.

Ed ha i suoi buoni motivi per essere incazzato, visto che ad Al Anbar gli “sfortunati incidenti” sono tutt’altro che rari. Il primo gennaio la provincia ha inaugurato l’anno nuovo con il massacro di Thaiyala. Dodici morti, nello specifico: Ismail Taha Hussein Amiri e nove membri della sua famiglia, Ashjan Taha Ismail Darraji e una donna di nome Yana. Il 7 marzo, stesso copione nella cittadina di Hit, con 12 civili ammazzati. Fra questi Hadi Hassan Jihad, Fadel Awad Alasaffi e sua moglie, Bashar Hadi Jihad e cinque membri della sua famiglia feriti.

La lista dei massacri è ancora lunga. Quelli elencati sono solo i principali fra gli ‘sfortunati incidenti’ della ‘lotta al terrorismo’ in Iraq dall’inizio del 2016. Le annate 2014 e 2015 si possono consultare sul sito di Airwars, dove un gruppo di giornalisti tenta di tenere il conto  delle vittime civili prodotte dalle varie aviazioni che infestano i cieli del Siraq.

Fino ad ora il bilancio di Airwars sulle ‘civilian casualties’ della coalizione occidentale dall’agosto 2014 in Siria ed Iraq è di almeno mille morti (limitandosi a quelli accertati sulla base di fonti attendibili), che si sommano ai 2.900 attribuiti ai raid russi sulla Siria.

Almeno mille morti di cui i paesi della coalizione negano ogni esistenza, forse per non ammettere che la loro strategia di contrasto agli jihadisti di oggi nutre le radici dell’odio degli jihadisti di domani. L’odio di quei sopravvissuti che ogni giorno estraggono i corpi dei loro cari dalle macerie delle loro case.

Un odio simile a quello cresciuto anni fa sotto i bombardamenti al fosforo bianco di Falluja, o fra le torture di Abu Ghraib, o negli altri centri di detenzione gestiti dagli americani (Al Baghdadi viene da lì), dove la sconfitta sunnita si è caricata di nuovo rancore. Su questo rancore ha fatto presa il califfato.

Ma se, per contrastare la jihad, semplicemente si smettesse di alimentarla? Astenendosi, per esempio, dall’utilizzarne i gruppi al fine di destabilizzare altre entità statuali ? Evitando di finanziarli e di riempirli di armi, come è successo innumerevoli volte, dall’Afghanistan del 1979 alla Siria di oggi ? Riportando efficacemente all’ordine chi li sostiene materialmente, come i nostri graziosi alleati turchi, sauditi e qatarioti ?

Sorge il dubbio che non sia una strategia funzionale ai reali interessi di chi bombarda. Del resto, la jihad è il nemico ideale. In poco tempo è riuscita a far attuare in Europa misure altrimenti inaccettabili, come la messa in stato d’assedio di interi quartieri o la schedatura del DNA, e la progettazione di infrastrutture repressive sovranazionali. Tutti strumenti che, in tempi di crisi economica permanente, potranno sempre tornare utili, un giorno o l’altro, contro chi non vuole pagare la crisi, o non vuole accettare la guerra.

Per ora la jihad è il lupo più utile per spaventare il gregge, stringerlo attorno al pastore che lo porterà al macello.

]]> La grande truffa del rating (e del capitalismo finanziario) https://www.carmillaonline.com/2016/02/03/la-grande-truffa-del-rating-e-del-capitalismo-finanziario/ Wed, 03 Feb 2016 22:00:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28384 di Sandro Moiso

la grande scommessaLa verità è come la poesia. Piace quasi a nessuno” (udita in un bar di Washington D.C.)

Schiacciato, in Italia, tra due uscite cinematografiche di cui si è parlato forse anche troppo (“Quo vado?” – 1 gennaio – e “Revenant” – 16 gennaio) il film di Adam McKay “La grande scommessa” (7 gennaio) ha ricevuto meno attenzioni di quelle che sicuramente avrebbe meritato e merita. Certo, il film è candidato per interpretazione, regia, sceneggiatura e molto altro ancora a quasi tutti i premi cinematografici disponibili sul mercato americano, a partire proprio dagli Oscar, ma non [...]]]> di Sandro Moiso

la grande scommessaLa verità è come la poesia. Piace quasi a nessuno” (udita in un bar di Washington D.C.)

Schiacciato, in Italia, tra due uscite cinematografiche di cui si è parlato forse anche troppo (“Quo vado?” – 1 gennaio – e “Revenant” – 16 gennaio) il film di Adam McKay “La grande scommessa” (7 gennaio) ha ricevuto meno attenzioni di quelle che sicuramente avrebbe meritato e merita. Certo, il film è candidato per interpretazione, regia, sceneggiatura e molto altro ancora a quasi tutti i premi cinematografici disponibili sul mercato americano, a partire proprio dagli Oscar, ma non sono queste candidature e nemmeno la magistrale recitazione di alcuni interpreti (Steve Carell e Christian Bale su tutti) a far sì che questo film valga la pena di essere visto e recensito.

Già altri ne hanno segnalato la valenza puramente filmica e morale delle immagini, del ritmo narrativo serratissimo, degli sguardi e dei dialoghi. Ma non si tratta solo di questo. No, perché ci troviamo di fronte ad uno dei più determinati, feroci e limpidi attacchi contro il capitalismo finanziario, la sua alterigia, la sua crudeltà, la sua spietatezza e, soprattutto, la totale incompetenza dei suoi manager e dirigenti che siano mai comparso sugli schermi. Non soltanto americani.

Non si fanno sconti nel film. I personaggi sono reali, così come i nomi delle banche e delle società finanziarie coinvolte nella catastrofe che ci perseguita a partire dal 2008. Merrill Lynch, Goldman Sachs, Moody’s, Morgan Stanley, Deutsche Bank, Chase Manhattan Bank, JPMorgan, Lehman Brothers sono soltanto alcune (anche se tra le più pericolose) delle associazioni a delinquere in guanti bianchi che compaiono nel corso delle vicende narrate.

case in bilico 2Adam McKay, noto principalmente come regista del Saturday Night Live (dal 1995 al 2001) e di varie commedie oltre che come produttore cinematografico,1 basandosi sul best seller di Michael Lewis,2 pubblicato negli USA nel 2010, ricostruisce le vicende che, tra il 2006 e la fine del 2007, portarono all’esplosione della gigantesca bolla speculativa ed immobiliare venutasi a creare negli Stati Uniti a causa della diffusa abitudine di concedere mutui per l’acquisto di una casa senza badare alla solvibilità dei contraenti.

Le conseguenze di tutto ciò si misurarono in sei milioni di americani che persero la casa e in otto milioni di disoccupati in più soltanto sul territorio statunitense, mentre l’onda lunga dello tsunami finanziario si sarebbe propagata sull’intera economia mondiale con le conseguenze sociali, economiche, politiche ed occupazionali che ancora tutti ben conosciamo.

Raccontare qui le vicende di come alcuni broker si fossero resi conto della catastrofe imminente e della autentica truffa contenuta negli swap (strumenti derivati della finanza utili a facilitare lo scambio di crediti o la loro assicurazione contro eventuali rischi di default) e nei pacchetti obbligazionari venduti da banche e società di brokeraggio come sicuri, ma in realtà strapieni di titoli spazzatura, non avrebbe senso. Così come non lo avrebbe sottolineare la presunta moralità o meno dei principali protagonisti della vicenda: Michael Burry (Christian Bale), Mark Baum, basato su Steve Eisman un manager di fondi speculativi, (Steve Carell) e Jared Vennet, personaggio basato sul trader della Deutsche Bank Greg Lippmann (Ryan Gosling). Perché, al di là delle necessità di narrazione filmica, il loro intento non è morale ed ognuno di loro acquisirà, all’esplodere della crisi, un guadagno colossale. Sulla pelle di milioni di cittadini, lavoratori e piccoli proprietari di immobili e pacchetti finanziari.

A differenza, però, di un altro bel film su quella/questa crisi (Margin Call di J.P. Chandor – 2011) il lungometraggio di McKay, che ne è anche lo sceneggiatore, non si limita a suggerire un giudizio, ma espone esplicitamente la sua tesi: non ci troviamo di fronte all’avidità di alcuni oppure alla mancanza di scrupoli morali ed etici di alcune banche o società. E non ci troviamo neppure davanti ad un piano ben congegnato di cui soltanto alcuni sono al corrente mentre la stragrande maggioranza dei comuni mortali è distratta da altro o ad altri interessi affaccendata.

No, niente Trilateral, niente Club Bilderberg: siamo davanti al capitalismo nella sua età finale, puramente speculativa, avida, imbecille. In cui le società di rating non fanno altro che attribuire triple A o doppie B, o qualsiasi altro tipo di giudizio, non sulla base di ragionate ed approfondite analisi delle situazioni finanziarie oggettive, delle esposizioni e degli asset di color che lo richiedono, ma sulla base degli interessi del momento, di certezze e assunti mai testati e comprovati o, ancor peggio, soltanto per interessi di bottega o per la necessità di strappare clienti agli altri concorrenti. Mentre anche coloro che dirigono le banche centrali, si tratti dl Alan Greenspan (esplicitamente e ripetutamente citato) o dei funzionari di Bruxelles, sembrano brillare per incompetenza e superficialità al di sopra di tutti gli altri, già scadenti, comprimari.
Un’idra tentacolare ma priva di testa, la cui unica funzione cerebrale sembra essere quella ereditata dai rettili, dedita principalmente a soddisfare gli istinti primari e in cui l’aggressività svolge un ruolo fondamentale.

Un mostro acefalo e caotico che sembra trovarsi più a suo agio ad un tavolo di roulette che non a quello di una seria riflessione ed analisi della situazione economica e sociale. Non a caso il climax del film è ambientato proprio a Las Vegas, nel casinò di quel Caesar’s Palace che sembra riassumere in sé tutte le illusorie promesse e tutte le follie del capitalismo dell’azzardo finanziario. In cui i gettoni persi oppure vinti e accumulati non sono costituiti da altro che dalle vite di milioni di cittadini comuni e dai loro risparmi ed averi.

Un film che, anche se dovesse essere premiato agli Oscar, non potrebbe nemmeno suscitare le simpatie dei vari populismi grillini e leghisti. E’ un film schierato, antagonista. E la società dello spettacolo, non potendolo ignorare, farà di tutto per digerirlo e renderlo innocuo. Probabilmente senza riuscirci, poiché il messaggio di cui è portatore è troppo chiaro (sintetizzando: il capitalismo è un misto di avidità, di truffe e di merda), così come sembra essere confermato dalle più recenti statistiche sulla concentrazione della ricchezza mondiale in pochissime mani (meno dell’1% della popolazione).3

La straordinaria forza comunicativa del film, però, non è solo nella ricostruzione minuziosa e a tratti rocambolesca degli eventi. E’ l’autentico detournement di stampo situazionista che viene operato attraverso le immagini a determinarne, in alcuni momenti, la novità e l’efficacia. Se è da antologia la scena in cui una lap dancer, volteggiando sul palo, spiega a Mark Baum come si trovi ad essere intestataria di mutui per cinque ville, altrettanto valide sono quelle in cui Margot Robbie (in una vasca da bagna piena di schiuma e drink in mano) e Selena Gomez (ad un tavolo da gioco di Las Vegas) ci mettono la faccia, oltre che il nome, e spiegano agli spettatori i meccanismi finanziari messi in atto da Wall Street per accumulare profitti colossali sulle spalle degli ignari risparmiatori. Senza dimenticare il cuoco-scrittore Anthony Bourdain che affettando un pesce, ormai non più fresco, spiega come trasformarlo in una magnifica e costosa zuppa di pesce ovvero come titoli spazzatura e crediti inesigibili possano essere trasformati in “solidi” pacchetti obbligazionari. Se per caso ancora non vi fosse chiaro il linguaggio, qui espressamente semplificato, pensate pure a Banca Etruria e alle altre tre banche coinvolte nell’ultimo scandalo bancario italiano e ai risparmiatori rovinati. Ecco, ci siete arrivati? Proprio così.

working class 1Sì, perché il film ci lascia con un’unica certezza: da allora nulla è cambiato e nessuno ha pagato, se non i lavoratori e i risparmiatori che continuano a camminare sul filo del vuoto, senza alcuna speranza legale di veder risarciti i propri diritti o i propri risparmi. Ma anche su questo punto il film non scade mai nel populismo: il meccanismo funziona perché la gente ci vuole credere. Tutti vogliono la casa di proprietà e tutti sperano di arricchirsi facilmente con i pochi risparmi a disposizione. Punto. Ora tutti a casa.

Ma non prima di essere rimasti seduti fino al termine dei titoli di coda per ascoltare i Led Zeppelin interpretare il brano più adatto a concludere il film: When The Levee Breaks, un blues scritto ed interpretato per la prima volta nel 1929 da Kansas Joe McCoy e da sua moglie Memphis Minnie.
Quando il pranzo di gala finisce, appunto. Come in quell’altra “grande crisi” degli anni trenta di cui, inevitabilmente, si parla molto nel film, soprattutto attraverso i dialoghi di Mike Burry/Christian Bale.


  1. Uno degli ultimi film prodotti è stato Duri si diventa di Etan Cohen, 2015  

  2. The Big Short – Il grande scoperto, Rizzoli 2011  

  3. http://vocidallestero.it/2015/10/18/theguardian-la-meta-della-ricchezza-mondiale-nelle-mani-dell1-della-popolazione/  

]]>
Emergenza di Stato https://www.carmillaonline.com/2015/11/29/emergenza-di-stato/ Sun, 29 Nov 2015 22:00:17 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26904 di Alessandra Daniele

they_live (3)Mentre la Francia entrava in Stato d’Emergenza permanente, anche la capitale amministrativa e politica dell’Unione Europea è stata militarizzata e messa in totale stato d’assedio. Uffici e scuole chiuse, strade deserte, metropolitana bloccata, pattuglie armate e mezzi blindati ovunque, rastrellamenti, perquisizioni, retate. Ai cittadini è stato prescritto di non affacciarsi alle finestre, e se l’avessero fatto, di non comunicare a nessuno ciò che avrebbero visto. Non è la trama d’un episodio di Black Mirror, né del prequel di The Walking Dead, è successo a Bruxelles, sta [...]]]>
di Alessandra Daniele

they_live (3)Mentre la Francia entrava in Stato d’Emergenza permanente, anche la capitale amministrativa e politica dell’Unione Europea è stata militarizzata e messa in totale stato d’assedio.
Uffici e scuole chiuse, strade deserte, metropolitana bloccata, pattuglie armate e mezzi blindati ovunque, rastrellamenti, perquisizioni, retate.
Ai cittadini è stato prescritto di non affacciarsi alle finestre, e se l’avessero fatto, di non comunicare a nessuno ciò che avrebbero visto.
Non è la trama d’un episodio di Black Mirror, né del prequel di The Walking Dead, è successo a Bruxelles, sta in gran parte ancora succedendo, ed è stato giustificato con la caccia a un singolo presunto terrorista, del quale non si sa bene neanche se sia ancora affiliato o già dissociato e in fuga anche dall’ISIS, e che comunque non è stato trovato.
Nessuno ha protestato più di tanto per la clamorosa sospensione della democrazia e dello stato di diritto, seguita ai roboanti proclami sull’imperativo categorico di difendere a ogni costo le conquiste della Civiltà Occidentale come la democrazia e lo stato di diritto.
Le prove tecniche di golpe sono perfettamente riuscite.
Non che le classi dirigenti abbiano davvero urgente bisogno d’un golpe militare vecchio stile, ormai la democrazia in Europa è appena un sipario, e neanche di velluto pesante, è una tendina della doccia di plastica trasparente.
Comunque adesso sappiamo per certo che in nome d’una sicurezza impossibile gli europei sono prontissimi a buttare nel cesso anche questa tendina, e consegnarsi a una dittatura militare che, nel loro interesse, gli vieta anche di affacciarsi alle finestre
Intanto in Italia, Renzi promette di controbilanciare il giro di vite poliziesco con qualche elemosina alla “Cultura”.
“Per ogni telecamera nuova che viene installata vogliamo un nuovo regista teatrale che sperimenti” ha detto testualmente il nostro Cazzaro in Capo. Magari un nuovo regista che metta in scena una versione sperimentale di “1984” durante la quale tutti gli spettatori vengano schedati.
Non ci resta che aspettare che le telecamere di controllo riprendano uno scambio di bustarelle, perché le classi dirigenti italiche riscoprano la sacralità del garantismo, e l’inviolabilità della privacy. La loro.
Dopo il teatro sperimentale, quale altro baluardo della nostra Cultura il governo s’impegnerà a sostenere in funzione antiterrorismo? In questi giorni Salvini e Sallusti hanno molto insistito nel dire che il crollo della Civiltà Occidentale cominci nelle scuole che non fanno il presepe. “Uno dei principali Valori dell’Occidente” l’ha testualmente definito Sallusti di fronte a un’accigliata Gruber in giubbotto di pelle steampunk. Renzi potrebbe quindi decretare il presepe obbligatorio in tutti gli edifici pubblici e privati. Il decreto Cupiello.
A sostenere il vero principale Valore dell’Occidente, lo shopping più o meno natalizio, ci penserà l’indotto del giro d’affari bellico.
]]>
Il Ruggito del Cazzaro https://www.carmillaonline.com/2014/03/23/il-ruggito-del-cazzaro/ Sun, 23 Mar 2014 22:38:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13583 di Alessandra Daniele

coniglio-cilindroRenzi aveva promesso di farsi valere in Europa. Quindi ha guardato la Merkel dritto negli occhi, e gliel’ ha detto forte e chiaro: “Obbedisco”. Poi s’è voltato verso la telecamera, ed ha aggiunto: “ma lo faccio per me stesso, non per te”. Alla camera dei deputati ha invece parlato ininterrottamente per sei ore. Senza dire niente. Come sempre, a braccio: se dovesse riempire un pezzo di carta con le cose che dice davvero, il risultato sarebbe un foglio bianco. Intanto, entrava in vigore il primo decreto del suo “Jobs [...]]]> di Alessandra Daniele

coniglio-cilindroRenzi aveva promesso di farsi valere in Europa.
Quindi ha guardato la Merkel dritto negli occhi, e gliel’ ha detto forte e chiaro:
“Obbedisco”.
Poi s’è voltato verso la telecamera, ed ha aggiunto: “ma lo faccio per me stesso, non per te”.
Alla camera dei deputati ha invece parlato ininterrottamente per sei ore. Senza dire niente. Come sempre, a braccio: se dovesse riempire un pezzo di carta con le cose che dice davvero, il risultato sarebbe un foglio bianco.
Intanto, entrava in vigore il primo decreto del suo “Jobs Act”, che aumenta ulteriormente la precarietà del lavoro, rendendo milioni di persone ancora più facili da sfruttare e licenziare.
Renzi è considerato da molti italiani una speranza di cambiamento. L’ultima. I sondaggi gli danno ancora un consenso popolare superiore al 40%.
Renzi in realtà è un cazzaro. L’ennesimo. Quanto ci metteranno gli italiani ad accorgersene stavolta?
Sappiamo che alcuni non se ne accorgeranno mai.
Ci sono ancora milioni di italiani che votano Berlusconi, e che alle elezioni europee lo cercheranno sulla scheda, pronti a votare uno qualsiasi dei suoi figli – se candidati – solo perché ha lo stesso cognome.
C’è ancora chi vota Alessandra Mussolini per lo stesso motivo.
E c’è chi ha eletto Di Battista del M5S, il figlio segreto della coppia Bonolis – Laurenti.
Certi elettori grillini sono un interessante caso di cecità selettiva: si sono sciroppati tutte le dietrologie snocciolate da Grillo durante l’intervista a La 7, senza vedere come se ne servisse per cambiare discorso ed eludere ogni domanda di Mentana sul vero ruolo di Casaleggio nel M5S.
La settimana scorsa molti leghisti hanno invece votato per l’indipendenza del Veneto, paragonandolo alla Crimea, benché le stronzate che spara la Lega non producano abbastanza metano per un gasdotto.
Ci sarà sempre qualcuno che crederà a Renzi.
La cosiddetta luna di miele con la maggioranza del paese però non durerà in eterno.
Ultimamente l’emivita dei cazzari s’è ridotta notevolmente. Monti s’è smontato ben prima del previsto. Letta s’è squagliato subito come una di quelle bistecche gonfiate con gli estrogeni che sulla graticola si riducevano immediatamente a uno straccetto carbonizzato.
Renzi è un imbonitore tronfio e logorroico che la sta sparando troppo grossa. Si descrive come un “torrente impetuoso”, ma è soltanto un tombino intasato.
Quando le date del suo calendario del FantaCambio saranno passate tutte invano, le sue millantate riforme si saranno rivelate tutte per quelle cazzate reazionarie che sono, la maggioranza degli italiani s’accorgerà che la ricetta economica è sempre la stessa e sforna la solita merda, e così anche Renzi sarà bruciato. I suoi Quattro Salti in Padella finiranno nella brace.
Quale altro Coniglio Cacciaballe uscirà dal cappello del governissimo allora?
Il Toto Cazzaro è già cominciato, e non c’è praticamente nessuno nel PD di Renzi che non si stia già provando le sue scarpe. Dai presunti fedelissimi, ai nemici che hanno finto di arrendersi, agli ex amici che ha fregato.
E a Bruxelles già si ridacchia anche di lui.

]]>