Bruno Fortichiari – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La guerra: una questione divisiva, ma dirimente https://www.carmillaonline.com/2022/07/20/la-guerra-una-questione-divisiva-ma-dirimente/ Wed, 20 Jul 2022 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72976 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini… Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini…
Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano fermarsi, a meno di non risalire alle cannonate del 1898 e a Bava Beccaris, saltando a piè pari, o quasi, una stagione straordinaria di lotte e contraddizioni di classe e nella classe: quella intercorsa nel secondo decennio del ‘900, tra l’avvento di Mussolini alla direzione dell’«Avanti», la Prima guerra mondiale e la formazione del nucleo giovane e intransigente che avrebbe costituito una delle componenti più radicali della Sinistra socialista.

Bene hanno dunque fatto i compagni di «pagine marxiste» a ripubblicare in un unico volume due testi di Mirella Mingardo già precedentemente apparsi in altra edizione (Mussolini, Turati e Fortichiari. La formazione della sinistra socialista a Milano 1912-1918, edizioni Graphos, 1992 e 1919-1923. Comunisti a Milano. La Sinistra comunista milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi dalla formazione del Pcd’I all’ascesa del fascismo, pagine marxiste, 2011) rivolti a sottolineare l’importanza che la componente milanese di sinistra del Partito Socialista ebbe nelle lotte e nelle riflessioni che precedettero e accompagnarono lo sviluppo della frazione rivoluzionaria all’interno dello stesso. Fino e oltre la scissione di Livorno nel 1921 che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Entrambi i testi erano da tempo esauriti e vengono oggi riproposti in un’edizione riveduta, ampliata, corretta e corredata da un vasto apparato di note biografiche cui hanno contribuito i redattori dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà.

La lettura si rivela immediatamente stimolante non soltanto dal punto di vista storico, ma anche propriamente politico, poiché quelle battaglie e quei fatti, soltanto apparentemente lontani nel tempo, servono ancora a mettere in evidenza carenze, errori e contraddizioni del nostro tempo. Così, anche se in precedenza non sono mancante le opere storiografiche destinate a ricostruire il travaglio politico e i conflitti sociali di quegli anni, i due testi di Mirella Mingardo permettono di ricostruire e collocare gli stessi temi ed avvenimenti in maniera tale da costituire ancora un termine di paragone per quelli attuali.

Prima di procedere nell’analisi dei contenuti, quello che occorre forse sottolineare è che la narrazione dei passaggi che portarono alla scissione del PSI e alla fondazione di un partito comunista rivoluzionario spesso ha privilegiato tre località “forti” per lo sviluppo della corrente più radicale del socialismo italiano di inizio ‘900 mettendo in risalto Torino, Napoli e Milano spesso nell’ordine qui appena esposto.

Se Napoli, descritta fin dall’Ottocento come la “polveriera d’Italia”1 e successivamente come uno dei principali centri di origine del Comunismo e del Fascismo2, aveva visto la presenza determinante di Amadeo Bordiga tra i giovani militanti che avrebbero intrapreso e guidato la lotta per la rivoluzione e il comunismo, curandone in particolare l’impostazione teorica, Torino, definita in un classico della storiografia del movimento operaio italiano come “operaia e socialista”3, ha fondato il suo primato, oltre che sulla combattività della sua classe operaia e del suo proletariato, sulla presenza di Antonio Gramsci, nonostante i tentennamenti che questi ebbe (insieme a Togliatti, all’epoca decisamente “interventista”) nei riguardi dell’opposizione ferma e radicale nei confronti del primo conflitto imperialista.

In entrambi i casi, però, le sezioni locali del partito socialista erano rimaste in mano alle posizioni riformistiche, mentre soltanto a Milano la sezione, fin da prima della guerra era stata diretta dalla frazione di Sinistra dello stesso partito. Il dubbio a cui si perviene, quindi, è che tale spostamento del baricentro della ricostruzione storiografica a favore di Torino sia stato dovuto, in un ambito di ricerca a lungo dominato dalla storiografia e dagli storici legati a doppio filo al PCI, alla necessità di far crescere a dismisura, dopo la sua morte, la figura e il ruolo svolta da Gramsci, e dall’«Ordine Nuovo», nella nascita e nella formazione del Pcd’I: sia per fornire a Togliatti una copertura autorevole per giustificare le sue infinite giravolte e tradimenti all’ombra della (tutt’altro che amichevole) figura di Gramsci4, sia per sminuire, se non proprio denigrare o rimuovere, le figure di Amadeo Bordiga e dell’ancor più odiato, se possibile, Bruno Fortichiari.

Bruno Fortichiari che si rivela essere, nell’ambito della ricerca di Mirella Mingardo, un autentico e intransigente promotore dell’organizzazione non soltanto del lavoro politico della sezione socialista milanese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma anche dell’opposizione internazionalista alla stessa, una volta scoppiata. Insieme alla sua figura brilla, nell’ambito dell’ organizzazione e dell’agitazione svolta in senso internazionalista e antimilitarista, quella di Abigaille Zanetta (1875-1945), maestra socialista e agitatrice temutissima dalla prefettura milanese e dai vertici moderati e parlamentari socialisti dell’epoca.

Non a caso una donna, in una città e in un’epoca in cui, dall’Italia dei campi e delle fabbriche fino agli scioperi delle giovani operaie di Pietroburgo che diedero inizio alla rivoluzione di febbraio in Russia nel 1917, le donne lavoratrici di ogni età, con o senza famiglia, svilupparono azioni di lotta collettiva che pesarono enormemente sulle politiche dei partiti e le scelte, spesso repressive, degli Stati. Soprattutto prima e durante il primo vero macello imperialista che, oltre tutto, qui in Italia era stato già anticipata dalla guerra di Libia e dall’opposizione che nei confronti di questa si sviluppò in ambito socialista e anarchico.

Se tutta la ricerca sulla Sinistra socialista milanese è profondamente interessante nelle due parti che la compongono, per ragion di brevità, in questo contesto, si è valutato di soffermare maggiormente l’attenzione sulla prima parte, quella che si ferma al 1918 con la fine della guerra.
Periodo burrascoso che vedrà l’ascesa di Benito Mussolini e il suo conseguente allontanamento dal partito, l’affermazione di Fortichiari e dei compagni a lui più vicini alla guida della sezione socialista di Milano e, infine, anche il progressivo attestarsi della componente riformista, guidata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, su posizioni sempre più collaborazioniste con gli interessi del governo e del capitalismo italiano.

Il fatto veramente interessante, nella ricostruzione e analisi di quegli eventi e personaggi, è dato dal fatto che fino a quando la battaglia interna e sulle piazze sarà condotta sul piano della lotta economica e dei diritti dei lavoratori oppure della validità del suffragio universale o, ancora, della corruzione dei quadri parlamentari socialisti più orientati alla collaborazione filo-governativa o la loro appartenenza alla Massoneria, tutte le componenti riusciranno comunque a trovare un equilibrio, per quanto conflittuale, che permetterà alla struttura partito di procedere nel suo cammino. Anche se, come afferma l’autrice:

Sin dai primi mesi del 1912 la divisione già presente nell’ala destra del partito si rivelò insanabile, sia nel convegno nazionale contro la guerra organizzato a Milano dai riformisti di sinistra, che nel dibattito avvenuto alla Camera per ratificare il decreto reale di annessione della Libia. In questa sede i contrapposti interventi di Bissolati (che pur criticando l’impresa libica manteneva il suo appoggio al Ministero Giolitti) e di Turati (che espresse l’opposizione della sinistra alla politica governativa) sancirono pubblicamente la scissione fra i due riformismi5.

Di tale situazione poterono approfittare da una parte la Frazione rivoluzionaria, che nel giro di poco tempo riuscì a conquistare la maggioranza delle sezioni di un certo rilievo, anche se, come si afferma ancora nel testo, «l’ascesa dei rivoluzionari fu soprattutto “il frutto di uno sforzo di carattere organizzativo” che non corrispondeva ad un radicale rinnovamento “di idee e di programmi”»6. Dall’altra lo stesso Mussolini che, dopo esser da poco rientrato nelle fila del partito, al successivo XIII congresso del Partito Socialista, tenutosi a Reggio Emilia il 7 luglio del 1912, riuscì ad ottenere l’espulsione dal partito dei deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, individuati come rappresentanti della destra riformista.

Episodio che, dopo il tentativo fatto da Bonomi di presentare le scelte parlamentari della destra come sforzo di riconciliazione con lo Stato per «imbeverlo della forza operaia e popolare» in attesa di porre fine al «divorzio tra capitale e lavoro», sancì la prima significativa scissione nella storia del Partito Socialista7.
In tale contesto occorre cogliere l’affermazione delle forze più giovani e intransigenti del partito raccolte in buona parte nella federazione giovanile, ma anche «lo sviluppo di nuove forze sociali che la lunga depressione e la guerra libica avevano contribuito a creare»8.

Mentre già il primo conflitto mondiale andava accumulandosi a livello economico, militare e politico, fu possibile un breve periodo in cui le forze radicali interne al Partito socialista, il sindacalismo rivoluzionario e quello della Confederazione Generale del Lavoro poterono convivere, anche se in maniera spesso conflittuale, con l’ala riformistica del partito stesso.
Ma il colpo di pistola di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe significato non solo l’avvio di un conflitto tra imperi non più procrastinabile, ma anche il processo che avrebbe dato inizio al disfacimento della Seconda Internazionale e dello stesso partito socialista italiano.

Ed è proprio nel corso dell’anno che separò l’inizio delle ostilità tra le forze della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, che tutti i nodi vennero al pettine, dimostrando come la questione dell’atteggiamento da tenersi nei confronti della guerra imperialista sia sicuramente estremamente divisiva ma, anche, dirimente più di qualsiasi altra sul piano delle politiche riformistiche, nazionaliste oppure rivoluzionarie.

Fa bene la Mingardo a sottolineare come Mussolini, indicato sempre come unico e vero traditore delle posizioni neutraliste del partito italiano, fosse in realtà in buona compagnia sia all’estero, dove i partiti socialisti tedesco e francese furono prontissimi ad approvare i crediti di guerra, sia in Italia dove sia all’interno del Partito che tra le altre forze di opposizione, sindacali e finanche anarchiche, furono tantissime le “conversioni” alla causa della guerra.

La prime contraddizioni inizieranno a manifestarsi proprio durante la cosiddetta “settimana rossa”, quando nel giugno del 1914, preceduta dagli scioperi dei ferrovieri e delle sigaraie, si sviluppò a partire da Ancora un movimento insurrezionale, che si estese in breve tempo ad altre regioni e che metteva insieme l’antimilitarismo con la protesta sociale per le condizioni salariali e di vita. Come annota la Mingardo:

Gli scontri sanguinosi della città marchigiana e la protesta spontanea che a macchia d’olio si estese in tutta la penisola non furono soltanto la reazione alla lunga serie di eccidi che distinsero l’Italia post-unitaria, ma rappresentarono nuovamente l’esplosione di una latente e disordinata carica rivoluzionaria delle forze proletarie.
Se sorprendente è l’assenza del partito, colto alla sprovvista dalla vastità del moto, ancor più sorprendente è l’assenza di Mussolini […] Il paese si rivolge al partito e al giornale, invoca una parola d’ordine, più volte preannunciata, “ma dietro la carta stampata dell’«Avanti!» non c’è niente”9

Citando Bozzetti, autore di Mussolini direttore dell’«Avanti!», aggiunge poi ancora: «Dopo aver predicato per anni la guerra, dopo aver identificato nel militarismo il nemico numero uno, dopo aver seminato l’odio contro le istituzioni militari […] quando scocca l’ora X Mussolini non è al suo posto»10.
L’ex-rodomonte socialista iniziava così a mostrare di che pasta fossero fatte le sue “radicali” affermazioni e a scivolare lungo il pendio che ben presto lo avrebbe portato tra le braccia dell’interventismo, del nazionalismo patriottardo e del militarismo stesso.

Il contesto in cui finirono col confrontarsi le differenti e irriducibili posizioni sulla guerra si rivela, attraverso le pagine del libro, non molto diverso da quello odierno, soprattutto per quanto riguarda il malessere che ben presto iniziò ad esplodere tra le classi popolari oltre che per il lento scivolamento verso la stessa proprio di quelle posizioni che pur volendosi “neutraliste” iniziarono a manifestare un atteggiamento decisamente anti-teutonico, pur dichiarandosi ancora non favorevoli ad un’entrata in guerra. Insomma un neutralismo che manifestava, nella sostanza una particolare avversione per uno dei contendenti del conflitto: quello austro-ungarico.

Posizione che iniziò a rivelare come le dichiarazioni indipendentiste e patriottiche di irredentisti come Cesare Battisti spingevano, inequivocabilmente, alla guerra nei confronti degli usurpatori delle “terre italiane”. Come afferma in un suo testo Luigi Cortesi, citato dall’autrice:

Questi atteggiamenti (anti-teutonici-NdR) ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filio-intesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti11

Mussolini nel frattempo, infiammando l’«Avanti!» con titoli come L’orda teutonica scatenata in tutta Europa, spingeva nella stessa direzione, oltre tutto rendendo ancora più evidente la sua tendenziosità nella cronaca bellica in cui, nonostante l’agosto del 1914 si fosse rivelato un mese di disfatte per gli eserciti dell’Intesa, i titoli del giornale socialista davano l’impressione che in realtà stessero vincendo. L’antitriplicismo però non era patrimonio del solo Mussolini poiché

da destra a sinistra il disorientamento percorreva il partito. Accanto alle dichiarazioni di alcuni riformisti (quali Treves12, Turati, Mondolfo, Graziadei) favorevoli alla “neutralità relativa”, emergevano le conversioni dei sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Decio Becchi, Livio Ciardi; dell’anarchica Maria Rygier13.

Mentre i partiti della cosiddetta sinistra finivano con lo schierarsi per un aiuto reale alle democrazie occidentali, l’unica voce a levarsi chiaramente contro la guerra fu quella di Amadeo Bordiga che, in un articolo pubblicato sull’«Avanti!»14, denunciava «le simpatie di “molti compagni” verso l’Intesa e demoliva le artificiose distinzioni tra guerra di offesa e guerra di difesa. La borghesia di tutti i paesi era la vera responsabile del conflitto o, meglio, lo era “il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica” aveva “ingenerato il sistema dei grandi armamenti”»15.

Bruno Fortichiari, collocandosi su altrettanto chiare posizioni intransigentemente antimilitariste e anti-imperialiste, poneva sullo stesso piano i blocchi contendenti, poiché l’Italia non doveva assolutamente lasciarsi «sedurre dalle sirene della Duplice Alleanza e della Triplice Intesa che indubbiamente prevedeva e attendeva l’aggressione per soffocare la Germania militarista e imperialista sì, ma anche forte concorrente nel campo industriale e coloniale»16.

Ma il testo edito da «pagine marxiste» ci rinvia al presente non soltanto dal punto di vista delle contrapposizioni ideologiche e politiche.

I paesi del vecchio continente non poterono sfuggire alla crisi generale che investì l’Europa allo scoppio della grande guerra. Sin dall’estate del 1914 l’economia italiana si trovò a fare i conti con il blocco navale inglese che impediva l’accesso nel Mediterraneo alla flotta della Triplice. Il provvedimento comportò l’aumento vertiginoso dei noli marittimi e “l’interruzione totale del traffico via mare da e per la Germania e l’Austria-Ungheria, e la più stretta dipendenza dall’Inghilterra per i rifornimenti”.
La mancanza di materie prime o il rallentamento nella loro fornitura, i provvedimenti governativi sulle restrizioni del credito e del commercio con l’estero, ebbero un’immediata ripercussione nell’economia: alle gravi carenze del mercato corrisposero il rialzo del costo della vita e l’aumento preoccupante della disoccupazione […] A peggiorare le condizioni di vita della sempre più numerosa popolazione disoccupata, contribuì la lievitazione del prezzo del pane. L’aumento incontrollato dell’alimento base fece scoppiare ovunque il grido di rivolta17.

Tumulti si ebbero a Bari, Caltanisetta, Napoli, Palermo, Catania, Pisa, Molfetta, Bitonto, Faenza con una forte presenza femminile all’interno delle stesse, spesso violente, manifestazioni affrontate con violenza superiore da parte dello Stato e con la dichiarazione dello stato d’assedio in alcune città coinvolte. Mentre, allo stesso tempo, il Governo e le forze di polizia permettevano e giustificavano le manifestazioni interventiste, spesso gonfiate artificialmente nei numeri ad uso della propaganda a favore della guerra.

Milano sia nel 1914 che nell’opposizione alle “radiose giornate di maggio” del 1915 fu spesso in prima linea con i suoi proletari, le lavoratrici e anche le donne della campagna circostante che protestavano sia per il peggioramento delle condizioni di vita che per il fatto che mariti e figli fossero stati richiamati o chiamati per la prima volta alle armi, aggravando così le già difficili condizioni economiche famigliari.

Di fronte all’inevitabile, la direzione del partito indirizzò al proletariato l’ultimo e drammatico manifesto inteso a separare le proprie responsabilità da quella delle correnti che avevano voluto la guerra. La lotta veniva rimandata al dopo, alla fine del conflitto. Il partito intanto si poneva “in disparte” – come scrisse l’«Avanti!» del 24 maggio 1915 – lasciando che la borghesia facesse la sua guerra18.

Fingendo una patina di nobiltà morale, la dirigenza socialista nazionale abbandonava definitivamente al suo destino un proletariato ancora combattivo che, però, avrebbe potuto essere indirizzato soltanto da un’organizzazione totalmente dedita al rovesciamento rivoluzionario dell’esistente, cosa che, certamente, il PSI non era e non voleva essere nella maggioranza della sua rappresentanza parlamentare e intellettuale.

Ma a gettare ancora benzina sul fuoco mai spento delle braci insurrezionali e rivoluzionarie giunsero nel 1917 le notizie provenienti dalla Russia e dalla rivoluzione che si era andata sviluppando colà. Fu così che nel maggio dello steso anno a Milano e poi ad agosto a Torino tornarono a svilupparsi violente azioni di massa contro la guerra, in cui la classe operaia, ancor prima dei militanti del partito fu in prima linea e sulle barricate.

E proprio a Milano, durante quelle manifestazioni portate avanti in maniera estremamente dura proprio dalle donne, Turati ebbe modo di osservare quaanta fosse la distanza che ormai separava l’ala riformista dalle masse che pretendeva di rappresentare in parlamento.
«Vogliono far la pelle ai signori – scrisse infatti ad Anna Kuliscioff – fra i quali, beninteso, siamo anche noi»19.

Prima della spesso e oggi fin troppo bistratta scissione del 1921 a Livorno, a rompere con il riformismo del PSI fu prima di tutto il proletariato delle grandi città industriali oppure trasferito al fronte e in divisa nel 1917.
Poi, nel novembre dello stesso anno, arrivò anche la risposta di migliaia di soldati italiani che autonomamente, e ancora una volta lasciati soli e privi di qualsiasi indicazione politica, abbandonarono il fronte e le trincee a Caporetto. Mettendo in pratica, senza magari neppure conoscerla, la parola d’ordine che era corsa lungo i fronti di guerra a partire dalla Francia: Facciamo come in Russia!

Ma la direzione nazionale del partito e Turati in particolare avrebbero continuato a procedere sulla linea di una sempre più stretta collaborazione col Governo in carica, sventolando la bandiera della “necessaria solidarietà” nei confronti dei profughi in fuga dal territorio profondo 70 chilometri in cui erano penetrate le truppe della Duplice, occupandolo. Un vero record nello sfondamento delle linee, visto che all’epoca la guerra permetteva di avanzare al massimo di qualche centinaio di metri al giorno.

La mobilitazione governativa e poliziesca affinché lo scontento interno non raggiungesse i soldati delle trincee si era già manifestata precedentemente, mentre i ferrovieri trasportavano verso le truppe al fronte i volantini inneggianti alla protesta e alla rivolta che la Sinistra intransigente cercava di diffondere a tutti i livelli. Nelle fabbriche, d’altra parte, il clima era diventato irrespirabile per le maestranze, poiché anche i lavoratori dovevano ormai rispondere ad un’autentica mobilitazione e militarizzazione del lavoro, in cui anche gli scioperi avrebbero potuto esser trattati come tradimento e diserzione.

Michele Fatica, citato dalla Mingardo, ha scritto in proposito:

Niente poteva essere più ben accetto alla borghesia industriale quanto la riduzione dell’operaio salariato alla condizione di lavoratore forzato. I dipendenti delle aziende dichiarate ausiliarie passano sotto la giurisdizione militare, quindi gli scioperi e le assenze ingiustificate vengono configurati come reati di ammutinamento o di diserzione20.

Dopo Caporetto alla vigilanza poliziesca e militare si aggiunse l’appello dei riformisti e di Turati alla collaborazione per un “governo di unità nazionale” per superare il ”difficile momento”. In antitesi con le affermazioni di Abigaille Zanetta, che aveva sostenuto che i socialisti dovevano «guardare a tutto ciò che si agita e si muove nelle masse, col proposito di assisterle, solidarizzare con esse, per averle collaboratrici al raggiungimento dei nostri ideali», Turati aveva già precedentemente affermato che «”solo l’isterismo e l’impulsività” potevano consigliare movimenti di folle, mentre l’azione del partito socialista doveva esser guidata “dalla riflessione e dalla ragione”»21.

Nell’estate precedente Caporetto, Lazzari (segretario del PSI dal 1912 al 1919) aveva rivendicato al partito “una tradizione di miglioramento sociale e di bontà” che non permetteva di contestare “il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese natio”, mentre dal fronte della futura frazione comunista la Zanetta

si soffermò sull’annoso dibattito riguardante il rapporto tra socialismo e patria e, negando a quest’ultima la propria “essenza”, sostenne “la necessità di demolirla”. L’oratrice inoltre affermò che la pace non doveva essere il fine ultimo del partito, anzi, a guerra conclusa, questo doveva “approfittare dei momenti di debolezza della classe capitalista per abbatterla” e facilitare l’avvento del socialismo22.

Bordiga già in precedenza aveva negato che compito del partito fosse quello di risolvere i problemi creati dal capitalismo stesso e che questo era impossibilitato, per proprie dinamiche, a risolvere.
Tutte queste affermazioni dimostrano che l’opposizione di sinistra era ormai passata ad una «matura scelta di classe che la guerra aveva contribuito a far emergere»23.

Lo spazio concesso da un articolo e da una recensione impediscono di approfondire maggiormente l’analisi di un testo che si rende indispensabile per chiunque voglia non solo approfondire la storia del movimento operaio e della Sinistra Comunista, ma anche per tutti coloro che, nella confusione oggi imperante sul tema della guerra, vogliano trovare un modello comportamentale e di analisi che superi con un subitaneo colpo d’ala tutte le inutili discussioni su guerra di aggressione o di difesa “dei patri confini”, diritti “umani” e tutte le altre infingardaggini liberal-democratiche che offuscano la reale funzione della guerra nella stagione, non ancora finita, degli imperialismi che già avevano infiammato i fronti europei di inizio ‘900, ottenendo però allora una ben diversa risposta politica e di classe. A Zimmerwald, Kienthal, Pietrogrado, Milano e Caporetto.

Poiché oggi come allora, la guerra tra stati e imperi, a differenza di quanto troppo spesso si afferma o si crede, non costituisce affatto un’eccezionalità in regime capitalistico, l’azione contro la stessa non può essere guidata ad un’impossibile unità di intenti tra forze agite da interessi diversi tra di loro, ma soltanto da una chiara visione del suo divenire e del necessario superamento delle contraddizioni insite nel modo di produzione che l’ha generata come inevitabile conseguenza della sua sfrenata ricerca di controllo delle ricchezze, dei mercati e delle risorse disponibili a livello planetario (lavoro umano compreso).


  1. Si veda: Giulio De Martino, Vincenza Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori Editore, Napoli 2004  

  2. Si veda ancora: Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971  

  3. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1958  

  4. Si vedano: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, (a cura di Chiara Daniele), Einaudi, Torino 1999 e Giancarlo Lehner, La famiglia Gramsci in Russia, Mondadori, 2008  

  5. M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 25-26  

  6. M. Mingardo, op. cit., p. 26  

  7. op. cit., p. 27  

  8. Ibidem, p. 26  

  9. Ibid., p.99  

  10. G. Bozzetti, Mussolini direttore dell’«Avanti!», Feltrinelli 1979, pp. 160-163 cit. in Mingardo, op.cit., p. 99  

  11. L. Cortesi, Le origini del PCI. Vol. I Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza 1977, pp. 86-87, cit. in Mingardo, op. cit., p. 108  

  12. Che avrebbe dichiarato che la neutralità non era “un dogma, un imperativo categorico” e che “il vantaggio che oggi si conclama domani può non ravvisarsi più”. Non neutralità “passiva” dunque, ma “attiva ed energica” in La nostra neutralità, «Critica Sociale» (rivista teorica del partito diretta da Filippo Turati), 15-31 agosto 1914  

  13. M. Mingardo,op. Cit., p.109  

  14. A Bordiga, In tema di neutralità. Al nostro posto!, «Avanti!», 13 agosto 1914  

  15. M. Mingardo, op. cit., p. 111  

  16. B. Fortichiari, Abbasso la guerra!, «La Battaglia Socialista», 12 settembre 1914 cit. in Mingardo, op. cit., p.115  

  17. ibidem, pp140-141  

  18. ibid., p. 166  

  19. F. Turati-a. Kuliscioff, Carteggio, vol.IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, p. 501, lettera del 3 maggio 1917, cit. in Mingardo, op.cit., p. 206  

  20. M. Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, p.428 cit. in Mingardo, op. cit, p.210  

  21. Mingardo, op. cit., p.213  

  22. ibidem, p.225  

  23. ibid., p.226  

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L’anno degli anniversari /1921 – 2021 : Nascita del PCd’I https://www.carmillaonline.com/2021/09/01/lanno-degli-anniversari-1-1921-2021/ Wed, 01 Sep 2021 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67842 di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), Livorno Ventuno. A cent’anni dalla scissione di Livorno. La nascita del Partito Comunista d’Italia, Milano, aprile 2021, pp. 270, 10 euro

Giangiacomo Cavicchioli, Emilio Gianni (a cura di), PCd’I 1921. 100 anni. 100 militanti del Partito Comunista d’Italia, edizioni Lotta Comunista, Milano, dicembre 2020, pp. 304, 10 euro

Degli anniversari che sono giunti a scadenza nel corso del 2021 quello del centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921, è stato forse uno dei meno ricordati [...]]]> di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), Livorno Ventuno. A cent’anni dalla scissione di Livorno. La nascita del Partito Comunista d’Italia, Milano, aprile 2021, pp. 270, 10 euro

Giangiacomo Cavicchioli, Emilio Gianni (a cura di), PCd’I 1921. 100 anni. 100 militanti del Partito Comunista d’Italia, edizioni Lotta Comunista, Milano, dicembre 2020, pp. 304, 10 euro

Degli anniversari che sono giunti a scadenza nel corso del 2021 quello del centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921, è stato forse uno dei meno ricordati e/o pubblicizzati, in un contesto in cui sempre più memoria e retorica pubblicitaria, ancor più che pubblica, sembrano coincidere, soprattutto tra i confini politico-culturali di un’italietta semper giolittiana. Così, come affermano i curatori di uno dei due testi dedicati all’argomento che si vogliono qui proporre all’attenzione dei lettori:

Il centenario della nascita del PCd’I, nonostante i “de profundis” sul comunismo cantati a più riprese da destra e da “sinistra”, ha comunque sollecitato sul tema iniziative editoriali ed articoli di vario genere.
“Il Fatto Quotidiano”, sponsor di una nuova “alleanza progressista” tra PD e M5S, ha colto l’occasione di riallacciarsi a quell’evento per incanalarlo subdolamente nel filone (interrotto) di un PCI “nazionale” e genuinamente “riformista”, che con la sua nascita avrebbe riscattato un riformismo socialista storicamente privo di “passione” e della “centralità delle masse”. Gli articoli di Giovanni De Luna (8/01/2021) e di Gad Lerner (15/01/2021) vanno esattamente in questa direzione. Livorno 1921 costituirebbe insomma una tappa fondamentale della opposizione coerente al fascismo, e la base della Resistenza armata ad esso; nonché la lontana fonte della Costituzione repubblicana (da difendere anche oggi) in nome dei diritti delle classi più povere. Su tale “patrimonio” si vorrebbe “rivitalizzare” qui in Italia un “nuovo riformismo” (senza riforme), adatto alla “gestione equa” di questa crisi epocale del capitalismo. E’ un togliattismo di “ritorno”, ad uso e consumo di politiche borghesi lontane mille miglia dai propositi dei comunisti del ’21; nonostante gli articolisti sopra citati si peritino di non cadere nelle infami “vulgate” secondo cui –ad esempio- la scissione comunista avrebbe “aperto la strada alla vittoria del fascismo”…
Non potendo in questa sede occuparci di una critica più dettagliata di queste ed altre “rivisitazioni” della nascita del PCDI, ci preme solo mettere in evidenza come la “fede rivoluzionaria che animò i fondatori” del partito –DI QUEL PARTITO, E NON DI QUELLO DI TOGLIATTI- fede che Gad Lerner dichiara di apprezzare, non diventerà mai un accessorio del riformismo (vecchio e nuovo).
Essa è un patrimonio esclusivo dei comunisti perché è legata alla lotta per rivoluzionare l’attuale sistema sociale. Su ciò le distanze tra riformisti e rivoluzionari rimangono incolmabili. Esattamente come a Livorno nel 19211.

Oggi, infatti, ricordare quell’evento non significa soltanto celebrare la nascita di un vecchio arnese partitico ormai morto, da molti anni a questa parte, a causa di un male incurabile. Significa piuttosto marcare la distanza che separò, e ancora separa, i giovani rivoluzionari internazionalisti che diedero vita alla scissione di Livorno2 da coloro che, tradendone origini e prospettive, riportarono quel giovane partito, tra le altre cose nato astensionista, sui binari del nazionalismo, del politicantismo elettoralistico e del riformismo borghese travestito da “comunismo”. Soprattutto significa ricordare quale autentico disastro abbiano rappresentato le successive svolte e giravolte della Terza Internazionale stalinizzata.

Il frutto delle rivoluzioni sorte dalla tradizione più avanzata del movimento operaio e del marxismo più genuino, oltre che delle feroci lotte di classe sviluppatesi prima, durante e subito dopo il primo grande macello imperialista, nell’arco di poco meno di un decennio, sostanzialmente tra il 1926 (Congresso di Lione, per quanto riguarda il PCd’I) e il 1936 (anno di inizio dei grandi processi di epurazione moscoviti), sarebbe stato soffocato e sottoposto ad una brutale e mostruosa trasformazione politica ed economica, repressiva e mortale per coloro che osarono coraggiosamente contrapporvisi, che avrebbe partorito, prima, l’allineamento di tutti i partiti comunisti alle direttive di Stalin e della burocrazia bolscevica e, dopo, la separazione nazionalistica di partiti non più “fratelli”, ma divenuti ormai espressione dei singoli interessi nazionali e borghesi.

Così la blasfema teoria del “socialismo in un solo paese” riuscì a spacciare lo sviluppo industriale ed economico di stampo capitalistico e, susseguentemente, imperialistico come socialismo, se non addirittura per comunismo, mentre i suoi tentacoli avvelenati si sono protesi fino ai nostri giorni, viste le numerose cantonate che vengono ancora prese, anche in ambienti non sospetti, nei confronti della Cina, del suo Partito dominate e della sua economia.

Un effetto mortifero che ha contribuito più di ogni altra reazione o controrivoluzione fascista alla sconfitta o, per lo meno, ad un radicale ridimensionamento dell’originale ideale comunista.
Nelle analisi contenute nei due testi è possibile ricostruire quelle lontane origini del partito che avrebbe dovuto essere della Rivoluzione e che, grazie alle svolte “tattiche” qui appena accennate, si sarebbe invece trasformato in uno dei principali strumenti della Reazione e della Controrivoluzione.

Entrambi i testi ricostruiscono, con ricchezza di dati e documenti (per questi soprattutto quello curato dai compagni della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), i percorsi collettivi, individuali e di classe (soprattutto) che portarono alla scissione di Livorno, ma quello che colpisce di più, in tutti e due, è la ricca raccolta di biografie di militanti, spesso sconosciuti o dimenticati, che diedero vita, forza e ragioni a quella esperienza.

Nei due testi è infatti possibile seguire le vicende personali e politiche di circa duecento militanti (soltanto le storie di 22 di essi coincidono tra le due ricerche) che alla causa dedicarono, e spesso sacrificarono, la propria vita. Vite spesso rapite dalle malattie, dal carcere, dalla miseria, dai fascisti, ma ancor di più dalla brutale repressione ed eliminazione fisica degli stessi operata dagli agenti dello stalinismo, sia in Russia (per quelli che lì avevano sperato di trovare rifugio contro la barbarie fascista o nazista) sia all’estero (per quelli che avevano magari preferito riparare in Francia e/o andare a combattere nelle fila dei militanti rivoluzionari in Spagna).

Militanti che il testo edito da Lotta Comunista trae da un campione più ampio, utilizzato per una dettagliata analisi della composizione sociale e di classe del partito originario, con tabelle che riguardano la provenienza regionale, le leve anagrafiche (età), lo stato sociale delle famiglie di provenienza, la scolarizzazione (scarsa), la professione, l’attività politica o sindacale svolta al 1921 e poi dal 1926 al 1945, l’emigrazione e la partecipazione alla guerra di Spagna e alla Resistenza e per finire l’attività politica svolta ancora dopo il 1945. Oltre che una drammatica ultima tabella in cui vengono elencati i numeri degli uccisi dal fascismo, dal nazismo, dal franchismo e dallo stalinismo.

Se il testo edito da Lotta Comunista è più attento al dettaglio sociologico e a sottolineare la giovane età dei protagonisti della scissione, ma più lineare nella ricostruzione e difesa di quella seminale esperienza, il testo edito nella collana collegata ai Quaderni di Pagine Marxiste, è un po’ più interessante dal punto di vista della riflessione politica attuale, contenendo apporti diversi (non secondario quello di Mirella Mingardo, tratto dal suo 1919-1921 Comunisti a Milano, dedicato alla Sinistra milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi) che focalizzano l’attenzione sulle principali esperienze che diedero vita al Partito, in primo luogo quella di Amadeo Bordiga e del gruppo collegato al giornale «Il Soviet» di Napoli. Non mancando di svolgere un’attenta riflessione su quanto ci sia ancora da valorizzare oppure ripensare dell’attività pratica e teorica svolta dal Pcd’I e dai suoi militanti in quell’epoca.

Due testi in qualche modo complementari che, anche per il costo contenuto, possono tranquillamente affiancarsi nella biblioteca di tutti quei militanti, soprattutto giovani, che non si vogliano accontentare della ripartenza da zero ad ogni occasione di cronaca o di dibattito e azione politica. Entrambi vivamente raccomandati da chi ha scritto queste note.


  1. Comunisti del ventuno, Introduzione a AA.VV. (a cura della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), Livorno Ventuno. A cent’anni dalla scissione di Livorno. La nascita del Partito Comunista d’Italia, Milano, aprile 2021, p. 23  

  2. Sul tema si veda anche qui  

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Il pensiero di Gramsci: un’eredità controversa https://www.carmillaonline.com/2014/07/15/pensiero-gramsci-uneredita-controversa/ Mon, 14 Jul 2014 22:10:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16082 di Sandro Moiso gramsci

Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00

A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.

Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata [...]]]> di Sandro Moiso gramsci

Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00

A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.

Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata alla trentina di Quaderni compilati durante la sua lunga detenzione carceraria dipende da molti fattori. Non ultimo l’artificiosità delle scelta che fecero pubblicare le sue lettere e i suoi quaderni in forme diverse e in tempi molto lunghi a partire dal secondo dopoguerra1 .

Certo è che Gramsci è stato sicuramente uno dei punti di riferimento del pensiero politico degli ultimi sessant’anni e, anche, uno degli uomini di cultura, “di sinistra”, più studiati in Italia e all’estero. Ciò è sicuramente indice della fecondità del suo pensiero, ma, anche, senza dubbio della sua contraddittorietà e complessità. Anche se in tutto questo, va qui subito chiarito, ha pesato non poco, fin dagli anni successivi alla caduta del fascismo, l’opera di recupero e canonizzazione messa in atto nei suoi confronti dallo stesso Palmiro Togliatti.

Alberto Burgio, docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Bologna, si occupa di Gramsci ormai da molti anni. Gli ha dedicato opere e articoli che da soli basterebbero già a riempire una biblioteca sull’argomento e, forse proprio per questo, con quest’ultima opera ha voluto realizzare una corposa ed importante sintesi del pensiero politico di quell’uomo dagli occhi chiari “da sognatore” che sempre avevano colpito quello che è stato considerato, spesso a torto, uno dei suoi grandi avversari all’interno del Partito Comunista delle origini: Amadeo Bordiga.

Diviso in diciotto capitoli, di cui circa la metà costituiti da rielaborazioni di articoli precedenti, il libro affronta tutte le maggiori questioni politiche e filosofiche poste dal pensiero gramsciano, sia durante il periodo di militanza “libera”, prima nel Partito Socialista e poi nel Partito Comunista di cui fu uno dei fondatori, sia nel periodo della detenzione, attraverso i Quaderni dal carcere e, in misura minore, le lettere.

La teoria o le teorie di Gramsci sono qui ordinatamente suddivise in due tempi, prima e durante il carcere, e per temi.
Così, nella prima parte i temi principali finiscono con l’essere quelli della coscienza di classe e del suo manifestarsi nel soggetto, della sua rappresentanza politica attraverso la democrazia e/o la rivoluzione e, in fine, quello della anticipazione e previsione dei tempi . Temi che è impossibile vedere separati da quella che fu la riflessione sulla crisi e sui compiti del Partito Socialista, portata avanti sulle pagine, soprattutto, de L’Ordine Nuovo (fondato nel 1919) e attraverso l’esperienza delle lotte operaie che accompagnarono la prima Guerra Mondiale e poi, successivamente alla stessa, l’occupazione delle fabbriche e il Biennio Rosso.

Temi che, però, accompagneranno ancora la sua riflessione all’interno del Partito Comunista e durante la sua brevissima permanenza effettiva ai vertici dello stesso dopo il congresso di Lione, tra il gennaio del 1926 e il novembre dello stesso anno quando fu arrestato e condannato a vent’anni di galera dai tribunali del regime.
Argomenti, comunque presenti, in maniera nemmeno troppo sotterranea, anche in tutta la sua elaborazione successiva, che costituisce non solo la “seconda parte” del libro, ma quella decisamente più cospicua (12 capitoli su 18) del testo.

Qui entrano in gioco le categorie “gramsciane” più note: la società civile, la “quistione dell’egemonia”, le rivoluzioni passive, il cesarismo, la transizione, l’americanismo e il fordismo oltre che l’analisi del fascismo come “razionalizzazione regressiva”, quella del Risorgimento e del pensiero di Machiavelli applicato alla storia d’Italia e della sua lotta tra le classi. Dove si rivela, come afferma fin dalla prima riga Burgio, tutta l‘inattualità di Gramsci.

Inattuale perché lontano dai discorsi politici, mediatici e filosofici odierni. Tutti così superficiali e privi di rigore. Improntati al facile consumo parolaio, a differenza del discorso gramsciano spesso intricato nella ricerca di un rigore oggi non più di moda. Discorso spesso sviluppato in solitudine quasi assoluta. Lontano dal Partito e, spesso, dalle sue scelte, sempre più indirizzate dal formalismo e dall’autoritarismo dell’Internazionale stalinizzata. Un discorso che spesso, soprattutto nella prima parte, è lontano da Marx e più vicino alla tradizione idealistica del Croce.

Ma inattuale, forse, anche per la canonizzazione imposta, come si è già detto prima, a partire da Togliatti che volle, in qualche maniera, potersi presentare al suo ritorno in Italia, a capo del Partito Comunista (diventato) Italiano, come legittimo erede del suo pensiero e che ha fatto sì che si sviluppasse, a partire dal 1950, uno dei più importanti istituti di ricerca politica legati alla sinistra istituzionale: la Fondazione Antonio Gramsci, divenuta poi Istituto Gramsci nel 1954. Istituto che dal 1994 conserva l’intero Archivio storico del Partito Comunista Italiano, dall’anno della sua costituzione (1921) all’anno del suo scioglimento (1991).

Insomma una autentica rifondazione delle stesse origini del Partito Comunista Italiano che, rimuovendo le scomode figure di Amadeo Bordiga e Brunio Fortichiari ( solo per citare due nomi desaparecidos per un lungo periodo dalla storiografia piccista), faceva del comunista sardo il “vero” fondatore del partito stesso, trasformandolo in una sorta di santo protettore della sua linea e delle sue scelte . Ciò, naturalmente, poco toglie alla figura di Gramsci, ma molto è servita ad alimentare una lettura del suo pensiero che è andata dalla convenienza politica più sfacciata, per giustificare ad esempio la “svolta” del compromesso storico fino a recenti, e ancor più forzate letture, in chiave liberale. Complicando quindi, e di molto, la questione dell’effettiva valenza del suo pensiero.

Eppure come si fa a non cogliere, oggi, tutta l’attualità di una riflessione su una borghesia pavida: “Prodotta secoli addietro «dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale»” (pag. 374) oppure sul fatto che “Sul piano politico-storico, l’alto prezzo pagato dal paese all’attitudine antipopolare di gran parte della sua borghesia ( i Quaderni parlano di un «egoismo gretto, angusto, antinazionale») è nientemeno che la mancata formazione di quella volontà collettiva senza la quale è impossibile, secondo Gramsci, dare vita ad uno Stato moderno forte e dotato di adeguate potenzialità di sviluppo” (pag. 375).

Per Gramsci “ogni rivoluzione passiva risulta da un rapporto di forze che permette al dominante di dirigere (volgendole a proprio vantaggio) trasformazioni divenute inevitabili” così che “la rivoluzione passiva è il «documento storico reale» della debolezza dei subalterni. Dell’insufficiente forza d’urto delle classi sociali subordinate e, in primo luogo, dell’inadeguatezza delle loro élites politico-intellettuali, incapaci di ordinare, potenziare e finalizzare quella forza, dando alle domande di mutamento uno sbocco pienamente rivoluzionario” (pp. 370 – 371). E anche se l’analisi riguarda soprattutto le élites risorgimentali è chiaro che la riflessione di Gramsci , qui sintetizzata da Burgio, non poteva non riferirsi ai compiti posti all’organizzazione di classe nell’ora del dominio fascista.

I Quaderni inquadrano il fascismo nel contesto analitico relativo alla rivoluzione passiva. Al pari del «nuovo industrialismo» americano – ma con un sovrappiù di brutalità e violenza militare tipico del bonapartismo – il fascismo rappresenta un paradigma della forma novecentesca di rivoluzione passiva, cioè un intervento restaurativo privo di valore progressivo. Concepito e realizzato al solo scopo di arginare gli effetti distruttivi della crisi e di prolungare le sopravvivenza della forma sociale capitalistica (la sua «durata»)” (pag. 393).

Il fascismo, come il fordismo e l’americanismo, doveva rispondere ad impellenti esigenze di programmazione e pianificazione della produzione, ma esattamente come le altre due forme ancora doveva svolgere la sua funzione di mantenimento dell’ordine economico-sociale borghese e dello sfruttamento di una classe su un’altra. In questo contesto, all’interno della produzione industriale moderna, taylorizzata, Gramsci individuava però le condizioni di quella che potrebbe essere la moderna autonomia operaia ovvero la capacità dei lavoratori di esercitare la loro egemonia sulla società attraverso forme di controllo della produzione e di autogoverno dei produttori.

Una posizione parzialmente proto-consigliarista, che già in passato si era scontrata, questa sì davvero, con le posizioni bordighiane. Nel febbraio del 1920, “commentando le manifestazioni di massa («movimenti spontanei e incoercibili») e le lotte del lavoro in corso nel paese, Gramsci scrive che esse «hanno, per i comunisti, valore reale in quanto rivelano che il processo di sviluppo della grande produzione industriale ha creato le condizioni in cui la classe operaia acquista coscienza della propria autonomia storica, acquista coscienza della possibilità di costruire, con l’ordinato e disciplinato lavoro, un nuovo sistema di rapporti economici e giuridici che sia basato sulla specifica funzione che la classe operaia svolge nella vita del mondo». Non si tratta di concessioni alla retorica rivoluzionaria, ma di un ragionamento da prendersi alla lettera. Nel senso che l’idea di un sovvertimento generale della gerarchia dei poteri a partire dalle trasformazioni dei processi industriali è sottesa all’intera analisi di quello che i Quaderni chiameranno «nuovo industrialismo»” (pp. 332 – 333).

Il testo di Burgio solleva quindi tante questioni quante effettivamente ne deve sollevare una attenta lettura dell’opera di Gramsci, di cui rappresenta un ottimo compendio, ma per non tediare oltre il lettore occorre fermarsi a questo primo, superficiale approccio propositivo.
Uno degli appunti che si possono fare al lavoro sul “sistema gramsciano” è forse quello di una accettazione un po’ troppo passiva della vulgata togliattiana della distanza tra Gramsci e Bordiga (tra i quali rimase sempre una grande e reciproca stima ed amicizia a differenza di quanto avvenne tra il primo e Togliatti con cui i rapporti si erano chiusi molto presto) che servì, prima, durante e dopo il fascismo a giustificare le giravolta del Partito Comunista e del Comintern e del Cominform, pubblicando sia la corrispondenza che gli stessi Quaderni dal carcere in modo da far corrispondere una continuità di intenti tra il pensiero gramsciano e le scelte politiche del Migliore2.

Qualche nota di carattere storico in più e qualche ulteriore riferimento a qualche opera recente sui reali rapporti tra Gramsci e Togliatti3 non avrebbero guastato e avrebbero contribuito a liberare una volta di più Gramsci dalle catene interpretative che gli sono state imposte, non solo dal fascismo, a partire dal 19264 .
Catene che ne hanno spesso fatto una sorta di monolito, appianandone le contraddizioni (ad esempio il suo prolungato idealismo di stampo crociano così evidente, anche se negato, nella prima parte del libro di Burgio) e banalizzandone anche gli aspetti più contraddittori ma gravidi di spunti di riflessione.

Però negli ultimi due capitoli del testo in questione l’autore apre due significative parentesi sui legami tra il pensiero di Gramsci e quello di Antonio Labriola e di Benedetto Croce fornendoci ulteriori dati per comprendere una figura in eterno bilico tra determinismo e idealismo che, più che attraverso Marx, era giunto ad una più definita dialettica materialistica non solo attraverso gli spunti forniti da Lenin e dalla Rivoluzione d’Ottobre, ma anche attraverso il confronto, talvolta anche duro ma mai scorretto, con un rivoluzionario più vicino al determinismo marxista come Bordiga. Citato, purtroppo, nel testo solo e sempre in chiave negativa così come la tradizione del PCI togliattiano ci voluto tramandare fin dagli anni del Comintern.

Il testo di Alberto Burgio ha sicuramente il pregio di riordinare sistematicamente un pensiero magmatico, a tratti onnivoro e difficile da seguire attraverso la ragnatela di rimandi filosofici, economici, storici e culturali che derivavano spesso, soprattutto nei Quaderni, dalla solitaria lettura impostagli dalla condizione di carcerato; ma, talvolta, lo fa con una eccessiva determinazione nel volerne garantire l’intima coerenza, perdendo così l’occasione, ed è questo l’altro appunto che gli si può fare, di renderlo più vitale e attuale sottolineandone le contraddizioni e tutte le differenti influenze a cui fu sottoposto nella sua evoluzione storica reale, liberandolo dalle incrostazioni dovute ad una lettura, troppo spesso, a senso unico e di carattere quasi agiografico.


  1. Basti pensare che solo a partire dal 1975 furono pubblicati, a cura di Valentino Gerratana, i Quaderni nel loro effettivo ordine cronologico. Mentre per un’edizione quasi integrale delle Lettere dal carcere è occorso ancora più tempo. Infatti la prima edizione del 1947 ne conteneva 218, mentre altre 77 inedite furono pubblicate nel 1964 e ancora 119 l’anno successivo. L’ultima edizione, uscita nel 1995 ne comprende 494 in tutto.  

  2. Ad esempio, nella prima edizione delle Lettere dal carcere qualsiasi riferimento a Bordiga era stato espunto sistematicamente  

  3. si veda ad esempio: Chiara Daniele, a cura di, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Einaudi1999  

  4. In quell’anno Bordiga, il 22 febbraio, aveva presenziato al VI Plenum allargato dell’Internazionale Comunista e aveva chiesto conto della situazione venutasi a creare all’interno del partito russo ai danni dell’opposizione e della società nel suo insieme. Il 14 ottobre di quello stesso anno l’Ufficio Politico del PC d’I, capeggiato da Gramsci, aveva scritto al Comitato centrale del partito comunista russo più o meno sugli stessi temi. Ventiquattro giorni dopo Gramsci veniva arrestato in Italia e nel 1929 Bordiga veniva definitivamente espulso come deviazionista trotzkista dal partito di cui era stato uno dei fondatori e il primo segretario. Il nome di Togliatti non compare né tra quelli che si riunirono nel 1920 come frazione astensionista e comunista, né tanto meno tra i fondatori del partito Comunista a Livorno nel 1921  

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