Bruno Arpaia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 08:49:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 «Io sono una forza del Passato»: accenti ambientalisti in Pasolini https://www.carmillaonline.com/2022/07/24/io-sono-una-forza-del-passato-accenti-ambientalisti-in-pasolini/ Sun, 24 Jul 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73076 di Paolo Lago

Se permettete, comincio con una piccola osservazione personale: penso che nella tipologia A della prova di Italiano dell’ultimo esame di maturità, un brano di Pasolini non ci sarebbe stato male (visto che quest’anno ricorre anche il centenario della nascita). Invece, gli studenti si sono ritrovati Verga e Pascoli. È bene chiarire: non ho niente contro Verga e Pascoli, un grande scrittore (un po’ conservatore e destrorso, ma vabbè) e un grande poeta, tra l’altro uno dei più amati dallo stesso Pasolini (che su Pascoli fece anche la tesi di laurea) [...]]]> di Paolo Lago

Se permettete, comincio con una piccola osservazione personale: penso che nella tipologia A della prova di Italiano dell’ultimo esame di maturità, un brano di Pasolini non ci sarebbe stato male (visto che quest’anno ricorre anche il centenario della nascita). Invece, gli studenti si sono ritrovati Verga e Pascoli. È bene chiarire: non ho niente contro Verga e Pascoli, un grande scrittore (un po’ conservatore e destrorso, ma vabbè) e un grande poeta, tra l’altro uno dei più amati dallo stesso Pasolini (che su Pascoli fece anche la tesi di laurea) e, tra parentesi, anche da me. L’aspetto più inquietante è che siamo nel 2022 e quelle tracce potevano essere tranquillamente le stesse di cinquant’anni fa. Inutile rinnovare le modalità dell’esame, inutile guardare continuamente al nuovo, quando al livello contenutistico dei testi proposti si rimane inesorabilmente indietro, in un ‘vecchio’ che non finisce mai di perseguitarci. Chi ha preparato quelle prove, evidentemente, proviene da luoghi ammuffiti e rivestiti di cancerosa burocrazia, la stessa dell’Italia degli anni Cinquanta. Quelle stesse prove puzzano di muffa e di cantina. Del resto, anche i programmi ministeriali puzzano di muffa: si potrebbe obiettare che, nei programmi di scuola, a Pasolini non ci si arriva nemmeno, per mancanza di tempo. E allora sarebbe venuto il momento di rivedere quelle programmazioni una volta per tutte. Non possiamo fermarci a Verga e Pascoli come cinquanta, sessanta, settanta anni fa.

Siamo nel 2022, anno che può riecheggiare il titolo del film 2022 I sopravvissuti (1973, di Richard Fleischer) e che ha già superato il futuristico 2019 in cui si ambienta Blade Runner (1982, di Ridley Scott). Ma siamo in un 2022 ben reale (in cui non sfrecciano astronavi e non si sono colonizzati nuovi mondi), afflitto da numerose problematiche che non lasciano indifferente nemmeno la letteratura, problematiche che Verga e Pascoli non si sognavano nemmeno. Forse chi ha preparato le prove di maturità non ha mai sentito parlare di ecocritica o ecocriticism, una nuova branca della critica letteraria di provenienza anglo-americana, che si occupa delle tematiche legate all’ambiente e all’ecologia. Siamo in un momento cruciale, in cui di fronte al surriscaldamento del Pianeta, di fronte all’inquinamento e all’emissione indiscriminata dei gas serra i governanti del mondo dovrebbero prendere decisioni immediate e irremovibili, smettendola di giocare alla guerra (che, tra l’altro, oltre a provocare la perdita di innumerevoli vite umane, sta devastando ancora di più l’ecosistema della Terra). Adesso, nel momento in cui sto scrivendo, l’Italia è investita da un’ondata di caldo e di siccità, il Po e i suoi affluenti sono in secca e la Pianura Padana sta sempre di più assomigliando allo scenario distopico, brullo e inaridito, descritto da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori  (2016). Inutile dire che l’inquinamento ambientale è un problema particolarmente sentito dalle giovani generazioni che, giustamente, se la sono presa con i cosiddetti ‘adulti’ (soprattutto i governanti di cui sopra, che sanno investire il denaro pubblico solo in cacciabombardieri) perché stanno facendo poco o niente per un mondo nel quale loro, i ragazzi di adesso, saranno gli adulti di domani. Ma gli adulti di oggi non sono stati capaci – sembra – di farsi «acrobati del tempo», come, in modo suggestivo, ha scritto Carla Benedetti1. E poi, c’erano tutte le proteste dei Fridays for Future, un grande movimento degli studenti delle scuole medie e superiori, che stava montando e si sarebbe ingrandito a dismisura se non fosse stato inesorabilmente interrotto dall’emergenza Covid, dal lockdown, dai vari divieti di ‘assembramento’. Tutto finito, tutto imploso in un mondo devastato da un incubo. Anche nelle programmazioni scolastiche, nonché nei testi da proporre alla maturità, non si può più fare finta che questi problemi non esistano e vivere, come abbiamo fatto fino a adesso, in una sorta di aurea età dell’innocenza, in una inconsapevolezza separata dalla realtà. E la scuola non dovrebbe mai essere separata dalla realtà.

Ma allora, che c’entra Pasolini con l’ambiente e l’ecologia? C’entra, eccome se c’entra. D’altra parte, ogni volta che si voleva ricollegare Pasolini a tematiche ecologiche e ambientaliste, si è sempre tirato in ballo il famoso riferimento alla scomparsa delle lucciole, contenuto nell’articolo uscito sul «Corriere della Sera» il primo febbraio 1975 col titolo Il vuoto del potere in Italia e poi ribattezzato, nella raccolta degli Scritti corsari, come L’articolo delle lucciole. Certo, il riferimento all’inquinamento c’è ma si tratta solo di un fugace accenno in forma metaforica. Perché per Pasolini, qui, la scomparsa delle lucciole è soltanto una metafora per indicare la trasformazione del potere in Italia, prima della scomparsa delle lucciole e dopo la scomparsa delle lucciole2. Gli accenti ambientalisti in Pasolini, dei quali però qui possiamo offrire solo un rapido affresco, vanno ben al di là di questo articolo. Tali accenti prendono forma soprattutto nell’interesse per la trasformazione dello spazio, dell’ambiente italiano operato da un «Potere senza volto»3 fautore di rapide trasformazioni sociali. Il poeta e scrittore si concentra sul periodo del cosiddetto boom economico, che investe l’Italia nel secondo Dopoguerra. La società dei consumi, secondo Pasolini, appare apocalitticamente come un «nuovo fascismo» il cui «fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»4. Come accennato, questo «Potere», oltre che omologare le coscienze degli italiani, secondo lo scrittore, distrugge anche lo spazio agrario e contadino dell’Italia preindustriale.

Nel titolo di questo intervento è riportato il verso «Io sono una forza del Passato», tratto dalle Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa (1964). Leggiamo i versi successivi: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli»5. Da questi versi, Pasolini potrebbe apparire come un reazionario, un conservatore. D’altronde, il suo immaginario poetico ha creato due veri e propri universi in contrapposizione: da una parte, un universo arcaico e mitico, altamente idealizzato, dall’altra la modernità industriale e lo sviluppo, condannati senza requie. Addirittura, in una poesia appartenente alla raccolta La nuova gioventù (1975), dal titolo La recessione, composta nel 1974, inneggia alla recessione economica provocata dalla crisi petrolifera del 1973 (con tonalità che ci fanno pensare alla lontana alla «decrescita» di Serge Latouche): un mondo senza più automobili, perduto nel silenzio, con la gente che va a piedi, con gli antichi palazzi che torneranno al loro antico splendore, con le fabbriche inquinanti che crolleranno. Eppure, se guardiamo al di là delle apparenze, il pensiero di Pasolini potrebbe apparire molto simile a quello di un lucido e disincantato studioso della contemporaneità come Robert Kurz. Per il benessere degli individui, per la loro liberazione dalla ‘gabbia’ astratta del valore e della merce (si tratta, in fin dei conti, della stessa società dei consumi criticata da Pasolini, delineata dallo studioso tedesco in termini più strettamente marxisti), secondo Kurz, «è necessaria un’anti-modernità radicale ed emancipatoria, che non si limiti ad idealizzare qualche epoca del passato o qualche ‘cultura diversa’, conformemente all’antiilluminismo o all’antimodernità borghese, occidentale e ‘reazionaria’, ma che tagli i ponti una volta per tutte con la storia fin qui data, una storia di rapporti feticistici e di dominio»6.

Questa contrapposizione di universi – da una parte quello arcaico e contadino, dall’altra quello industriale e dello sviluppo – nell’opera di Pasolini assume diverse tonalità di tipo ambientalista. Ad esempio, nella poesia Il pianto della scavatrice, appartenente alla raccolta Le ceneri di Gramsci (1957), a piangere e a urlare è la scavatrice, cieco strumento di quel «Potere senza volto», che sta modificando il paesaggio italiano: «piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, / chiuso in un decoro ch’è rancore»7. Il poeta fa riferimento alla costruzione dei nuovi quartieri alla periferia di Roma negli anni Cinquanta, alla distruzione della campagna, alla trasformazione dell’«area erbosa» in «cortile, bianco come cera». Questi sono anni in cui l’Italia ha veramente cambiato volto, è stata ricoperta di cemento ogni dove: un processo che poi ha continuato inesorabilmente anche negli anni successivi e che non ha lasciato indifferenti neppure altri scrittori e intellettuali come, ad esempio, Italo Calvino che, tramite la scomparsa delle foreste descritta ne Il barone rampante (1957), intendeva denunciare quella stessa cementificazione selvaggia presa di mira da Pasolini. Del resto, anche nel cinema dell’autore bolognese c’è sempre una contrapposizione di spazi: da una parte la campagna, dall’altra la città che sta inesorabilmente avanzando, con le sue mostruose periferie. Basti pensare a molte sequenze di Accattone (1961) o Mamma Roma (1962), in cui i personaggi sottoproletari si muovono in spazi quasi ‘infernali’ lambiti dai nuovi palazzoni (ambienti in mutamento presenti anche nella narrativa pasoliniana di quegli anni, soprattutto in Una vita violenta, del 1959). Si può ricordare anche Uccellacci e uccellini (1966), in cui i personaggi di Totò e Ninetto percorrono lembi di periferia romana solcati da nuove strade e circonvallazioni in costruzione, frammenti di collegamenti stradali che, probabilmente, andranno a costituire il nuovo «Grande Raccordo Anulare».

Pensiamo poi a Teorema, un film che esce nel 1968 contemporaneamente anche come romanzo. Il personaggio di Emilia (Laura Betti), la domestica della famiglia dell’alta borghesia milanese destrutturata dall’arrivo dell’Ospite sacro (Terence Stamp), una sorta di nuovo Dioniso, dopo la seduzione di quest’ultimo, abbandona lo spazio borghese della villa per recarsi al proprio paese di origine. Il piccolo paese appare come un lembo di campagna sopravvissuto all’edilizia avanzante, uno spazio che presto verrà sommerso e distrutto. Metaforicamente, Emilia si farà seppellire proprio in uno spazio liminale, là dove la campagna sta per essere aggredita dai palazzoni di periferia. Siamo in un cantiere edile, tutto d’intorno palazzi in costruzione e una scavatrice ferma, pronta a riprendere il suo lavoro di devastazione, una scavatrice che tanto somiglia a quella della poesia sopra citata. Sono passati poco più di dieci anni ma il processo di devastazione, per Pasolini, appare come interminabile. Un processo che ancora oggi sta continuando perché, come leggiamo in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, nei pressi delle grandi città, è praticamente impossibile trovare una casa di campagna che non sia vicino a tangenziali o centri commerciali: «Il possesso del verde, anche quello della propria casa, aveva a che fare molto di più di quanto la gente non volesse ammettere con tangenziali, centri commerciali, lottizzazioni insensate e quartieri dormitorio. Questa era la realtà»8. Emblematica è anche l’espressione «possesso del verde» usata da Sarchi: la campagna e la natura, a partire da quel boom economico che, secondo Pasolini, ha devastato l’Italia, si sono ormai trasformate in merci, acquistabili come i prodotti di un supermercato. L’ideologia del possesso sta ormai investendo anche gli spazi naturali.

Anche in Petrolio (postumo, 1992), il romanzo a cui Pasolini stava lavorando al momento della morte, vi sono diversi accenni a questa mutazione di spazi, foriera di sempre maggiore inquinamento. Nell’Appunto 3 d, Prefazione posticipata (Petrolio, non concluso dall’autore, è infatti costituito da una congerie di appunti), il personaggio demonico di Tetis inizia un lungo viaggio, dapprima a piedi e poi in treno. A un certo momento giunge lungo le rive di un fiume «dai rapidi argini pieni d’immondizia, che puzza acutamente. È tuttavia un’immondizia organica: mancano ancora completamente la plastica e il polistirolo»9. La scena è ambientata nel maggio 1960 e Pasolini tiene a precisare che, in quel tempo, ancora mancavano elementi inquinanti come la plastica e il polistirolo. Successivamente, nell’Appunto 62, Carmelo: la sua disponibilità e la sua dissoluzione, in una sequenza narrativa ambientata all’inizio degli anni Settanta, i personaggi di Carlo e Carmelo si ritrovano in un prato della periferia di Roma, descritto come pieno di immondizia e di rottami di macchine, intorno al quale si stagliano i palazzoni delle nuove periferie, tratteggiati come anonimi cubi di cemento, perduti nella caligine invernale. Si tratta di uno spazio descritto quasi come un nuovo inferno: «Più indietro ancora c’era un capolinea pieno di autobus, un cinema e, insomma, l’inferno»10. Anche l’Appunto 70, Chiacchiere notturne al Colosseo, mostra le strade romane notturne intorno al Colosseo come attraversate da immondizia e cartacce sporche trascinate dal vento. Le stesse immagini di una Roma notturna, percorsa da spazzatura vagante, vengono offerte da Goffredo Parise ne L’odore del sangue, scritto nel 1979 ma pubblicato solo molti anni dopo la morte dello scrittore. Parise offre uno scenario davvero ‘infernale’, uno spaccato di violenza urbana in cui il degrado ambientale diventa anche degrado sociale e morale, attuando anche un riferimento all’uccisione di Pasolini: «Erano non so più se le tre o le quattro, e Roma mostrava il suo volto notturno fatto sostanzialmente di spazzatura vagante, di qualche pantera della polizia, urlante, di ragazzi in giubbotti di cuoio che sfrecciavano rombando in motocicletta. Eccoli, erano loro i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini, quelli che avevano stuprato le ragazze del Circeo, quelli che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni “per scherzo”»11.

In Petrolio, l’Appunto 70 introduce la lunga catabasi infernale che l’autore descrive nella sequenza di appunti denominata come Visione del Merda. Il «Merda» sarebbe un giovane di borgata ormai completamente abbrutito dalla società dei consumi dei primi anni Settanta. Nel momento in cui il protagonista Carlo affronta questa «visione», appaiono nuovamente le immagini di palazzoni di periferia, costruiti in lembi di spazio che prima erano campagna. La stessa spazialità rigida e geometrica dei palazzi, dei cortili e delle strade che li accompagnano e che formano percorsi obbligati da seguire, sembrano contribuire a manovrare le coscienze degli italiani, ormai abbrutiti dalla civiltà dei consumi. Le stesse immagini ritornano in una serie di appunti (121-124) intitolati La nuova periferia: palazzoni allineati gli uni agli altri «in forme gemelle»12, «ripetizioni di una stessa forma»13, i cui cortili sono caratterizzati da «vuoto assoluto». Del resto, sia in Petrolio che in molte altre sue opere, Pasolini tratteggia l’immagine quasi apocalittica di un mondo che sembra giunto alla sua fine: a partire da La Rabbia (1963), un documentario di una straordinaria forza poetica e tragica in cui, fra le immagini documentaristiche montate, ritorna ossessivamente lo scoppio della bomba atomica, fino a certi scorci paesaggistici di Roma in Poesia in forma di rosa, ad esempio ne La realtà, in cui leggiamo: «Poi compare Testaccio, in quella luce / di miele proiettata sulla terra / dall’oltretomba. Forse è scoppiata, / la Bomba, fuori dalla mia coscienza. Anzi, è così certamente. E la fine / del Mondo è già accaduta: una cosa / muta, calata nel controluce del crepuscolo»14. Se le immagini della Rabbia raccontano una bomba ben reale e terribile, che ha seminato morte e devastazione, i versi della poesia riecheggiano una bomba metaforica, che sta cambiando ambienti, spazi e coscienze degli individui.

L’inquinamento ambientale, per Pasolini, è anche inquinamento estetico. In un documentario dal titolo Pasolini e… la forma della città (1974), il poeta inquadra con la macchina da presa l’antica città di Orte. Muovendo l’obiettivo della macchina, a un certo punto, compare nel campo visivo un palazzo cubico, di nuova costruzione, che rovina la silhouette degli edifici medievali di Orte. La massa della città – dice Pasolini – è deturpata da qualcosa di estraneo, qualcosa che violenta in maniera abnorme quel paesaggio che, come molti altri scorci medievali in Italia, è stato dipinto dai grandi pittori del Trecento e del Quattrocento. Quegli scorci, ma anche qualsiasi insignificante vecchio muro appartenente ad epoche passate – afferma il poeta nell’intervista – andrebbero difesi con lo stesso accanimento con il quale ci battiamo per difendere un’opera di Dante, Petrarca o Boccaccio. Come scrive Serenella Iovino, «lo sguardo di Pasolini al paesaggio è cioè quello di un’etica dei luoghi, alla ricerca dei valori che vi si sono depositati nei secoli»15.

Per concludere, tornando al filo conduttore da cui siamo partiti, cioè la prova di italiano della maturità 2022, penso che di tematiche legate al pensiero di Pasolini (in relazione o no a temi ecologici) da proporre a un giovane studente ce ne sarebbero state tante, eccome. Ma, forse, di fronte alla gravità di molte problematiche che investono la società attuale, quel «Potere senza volto» – per utilizzare la definizione di Pasolini – continua a nascondere quel suo volto inesistente sotto la sabbia, come uno struzzo. Riproporre un testo di Pasolini avrebbe voluto dire anche riproporre la figura di un intellettuale disposto a lottare sempre e a non accettare nessun tipo di compromesso con qualsiasi potere, una figura che nell’Italia di oggi assomiglia sempre di più a quella di un latitante. E poi, a quel «Potere senza volto», intriso di oscuri rigurgiti di fascismo, credo che la figura di Pasolini, al di là delle facili ‘santificazioni’ e ‘riabilitazioni’, risulti ancora alquanto indigesta. Qualsiasi potere tende sempre a manipolare le menti dei cittadini per allontanarle dai veri problemi, seri e stringenti (e qui torna fondamentale la lezione di Pasolini), ora più che mai, in un universo digitalizzato in cui gli intellettuali, se ci sono, sono troppo impegnati ad autopromuoversi sui social. Siccità, caldo, fiumi in secca, alluvioni, eventi climatici estremi: sembrano lo scenario perfetto che, in molti film e romanzi distopici e apocalittici, prepara la catastrofe finale. Ma è estate, divertiamoci e, se dobbiamo pensare a un serio, stringente problema, c’è sempre la crisi di governo a tenerci compagnia.


  1. Cfr. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi, Torino, 2021, p. 4. 

  2. Cfr. P.P. Pasolini, Scritti sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 199, p. 404 e seguenti. 

  3. Cfr. ivi, p. 313, l’articolo dal titolo Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, uscito sul «Corriere della Sera» il 24 giugno 1974 col titolo Il Potere senza volto. 

  4. Cfr. ivi, p. 318. 

  5. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 2003, p. 1099. 

  6. R. Kurz, Ragione sanguinaria, trad. it. Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 20-21. 

  7. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 848. 

  8. A. Sarchi, Violazione, Einaudi, Torino, 2012, p. 69. 

  9. P.P. Pasolini, Petrolio, ora in Id. Romanzi e racconti, vol. II, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, p.1180. 

  10. Ivi, p. 1496. 

  11. G. Parise, L’odore del sangue, Rizzoli, Milano, 1997, pp. 90-91. 

  12. P.P. Pasolini, Petrolio, cit., p. 1765. 

  13. Ibid. 

  14. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 1100. 

  15. S. Iovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Edizioni Ambiente, Milano, 2015, p. 105. 

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Un’Odissea post-apocalittica https://www.carmillaonline.com/2021/12/16/unodissea-post-apocalittica/ Thu, 16 Dec 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69662 di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi reali identificabili nel viaggio dell’eroe. D’altronde, si è sospettato anche che l’autore dell’Odissea si sia avvalso di un modulo narrativo e cosmologico assai diffuso nel Mediterraneo antico e definito dagli studiosi come «viaggio cosmico», in cui l’eroe di turno è chiamato a dimostrare le sue doti superumane percorrendo i territori più estremi e pericolosi dell’universo1.

Un’allusione al viaggio di Odisseo, ‘riambientato’ in un oscuro nord devastato da una catastrofica guerra, è stata attuata recentemente da Gianluca Di Dio col suo romanzo La Sublime Costruzione. L’allusione è una delle pratiche letterarie che, secondo Gérard Genette, rientrano all’interno della definizione di intertestualità perché essa si configura come «un enunciato la cui piena intelligenza presuppone la percezione di un rapporto con un altro enunciato al quale rinvia necessariamente l’una o l’altra delle sue inflessioni, altrimenti inaccettabile»2. Il viaggio di Odisseo diviene una sorta di macrotema al quale vengono attuate diverse allusioni che prendono corpo sotto le vesti di cinque tappe in cui incorrono i protagonisti del romanzo. Come accennato, nel futuro imprecisato narrato nel libro c’è stata una guerra catastrofica e il protagonista, Andrej Nikto, insieme all’amico Årvo Kettula, dalla sua devastata cittadina intraprende un lungo viaggio nella notte nordica a bordo di una gigantesca corriera bianca che conduce le persone verso una specie di fantomatico cantiere, dove si sta costruendo la «Sublime Costruzione» nel quale tutti potranno trovare un lavoro adatto a loro. Del resto, come avverte l’autore sotto la voce dell’io narrante Andrej, si tratta di una storia «simbolica, farneticante, totalmente esagerata». La ripresa del viaggio odisseico assume perciò tonalità simboliche che vanno a rappresentare «una storia comune, che non si distingue tra passato e futuro, una storia che ogni volta si distrugge per poi riaccadere di nuovo».

Il viaggio di Odisseo si trasforma nella peregrinazione post-apocalittica di Andrej e compagni, rappresentati quasi come dei migranti in fuga dal loro paese devastato dalla povertà e dalla guerra, nonché segnato da catastrofi ambientali provocate dalla stessa guerra. Come ci ricorda Marco Malvestio, sono due i modi con cui la fantascienza racconta le possibili catastrofi del futuro: distopia e romanzo post-apocalittico. Se la distopia evidenzia l’eccessivo sviluppo di alcuni tratti negativi di una società (come la sorveglianza di massa o l’inquinamento), il romanzo post-apocalittico «rappresenta la sopravvivenza di individui e/o società umane dopo un evento catastrofico»3. Rifacendosi al critico Heather J. Hicks, Malvestio nota come i tropi narrativi, in questo tipo di romanzi, siano più o meno sempre gli stessi: bande di sopravvissuti che si trovano a percorrere ambienti urbani distrutti circondati da campagne abbandonate mentre tutto intorno si trova una società regredita e imbarbarita, caratterizzata da una violenza estrema4. Lo stesso sfondo narrativo lo ritroviamo, ad esempio, in altri recenti romanzi italiani. Possiamo ricordare Sirene (2007), di Laura Pugno, che racconta un futuro in cui la società degli umani è costretta a vivere al buio e in città subacquee; Bambini bonsai (2007), di Paolo Zanotti, dove però la dimensione di abbrutimento e violenza è rivestita di toni fiabeschi; Qualcosa, là fuori (2016), di Bruno Arpaia, che racconta la migrazione del protagonista, fra violenze e sopraffazioni, in fuga da un’Italia devastata dall’inaridimento del suolo dovuto al cambiamento climatico; Pietra nera (2019), di Alessandro Bertante, in cui il protagonista deve compiere un viaggio dalle tonalità iniziatiche attraverso una Milano imbarbarita e una pianura padana disseminata di bande violente; Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende  (2020), del collettivo Moira Dal Sito, raccolta di racconti a cura di Wu Ming 1 che mostrano una comunità palafitticola nella bassa ferrarese del futuro, ormai inondata dall’acqua, in cui dominano barbarie e violenze ma anche una solida organizzazione comunitaria.

Nel caso de La Sublime Costruzione l’impianto post-apocalittico della narrazione, in virtù dell’allusione a un ipotesto come l’Odissea, subisce un travestimento dai tratti quasi epicizzanti, allontanati in una lontana e irraggiungibile dimensione epica. Rispetto alle altre narrazioni che seguono questi tropi narrativi, quella allestita da Di Dio possiede una marcata impronta onirica e visionaria. Tutto avviene come in un grande sogno all’interno di una notte polare e ghiacciata. La meta finale, quella «Sublime Costruzione» il cui cantiere può offrire lavoro a tutti, assume importanti tratti utopistici. Dopo l’apocalisse, perciò, c’è ancora spazio per l’utopia: un luogo dove finalmente si può ricostruire una vita all’insegna della normalità. Del resto, la presenza di questo cantiere che offre lavoro a tutti, nella città del protagonista, viene pubblicizzata con manifesti e volantini lanciati dai camion di passaggio. La dimensione utopistica di questo luogo potrebbe far pensare al «Teatro naturale di Oklahoma», sulla cui immagine si chiude il romanzo incompiuto e postumo di Franz Kafka, Amerika (1927). Come il cantiere, anche il «Teatro naturale di Oklahoma», un’enorme organizzazione con musicanti, attori, trombettieri, impiegati d’ogni sorta e che può offrire lavoro a tutti assume connotazioni utopistiche in quanto potrebbe rappresentare, per molti immigrati come il protagonista del romanzo, Karl, la realizzazione utopica di libertà all’interno del nuovo mondo americano.

I capitoli relativi alle cinque tappe che rimandano ai momenti narrativi dell’Odissea recano in esergo delle citazioni dal poema con il luogo testuale al quale si riferiscono. Nel capitolo quinto, intitolato Le pescatrici, si allude agli incanti delle sirene, presenti nel canto XII del poema; nel capitolo sesto, I sonnivori, il riferimento è all’episodio odisseico dei Lotofagi, nel cui paese voleva rimanere chi assaggiava il frutto del Loto; il capitolo settimo, I due colossi, riecheggia invece la sosta di Odisseo e compagni presso l’isola dei Ciclopi e l’incontro con Polifemo; il capitolo ottavo, La corruttrice prodiga, il più lungo e articolato, allude all’episodio di Circe; il capitolo nono, infine, riecheggia i momenti del poema in cui Odisseo incontra le anime dei morti nel paese dei Cimmerii.

Non è mia intenzione, qui, rivelare più di tanto sulla trama del romanzo e su come si configurano le trasposizioni in chiave post-apocalittica dei menzionati episodi omerici. Questo toccherà al lettore scoprirlo. Mi interessa, invece, analizzare la struttura del viaggio messo in scena dall’autore, all’interno del quale le tappe di matrice odisseica sono ben funzionali e opportunamente inserite. Lo spostamento, che costituisce il nucleo principale della narrazione, si configura come una vera e propria immersione amniotica in un mondo onirico, cadenzato appunto dal sogno e dal sonno. Non a caso, la gigantesca corriera bianca è un enorme contenitore di sonno e di sogno, dal momento che si configura come un grande dormitorio nel quale i «reclutati» per il lavoro al cantiere trascorrono il tempo sdraiati su una branda. La corriera avanza nella notte gelida e innevata come un vero e proprio essere mostruoso destinato a percorrere inenarrabili distanze disseminate di soste nel silenzio notturno dove, in lande devastate dalla catastrofe, possono celarsi i rischi più inaspettati. Allora, oltre che con il viaggio di Odisseo, si potrebbero scorgere delle consonanze anche con il viaggio di ritorno degli argonauti, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, nei momenti in cui il viaggio degli eroi si dirama su percorsi incerti e sconosciuti, quando «neppure sapevano / se navigavano sopra le acque / o nel regno dei morti» (IV, 1698-1699).

Il paesaggio è caratterizzato da esterni ed interni spogli e abbandonati, lande desolate o colline innevate disseminate di povere abitazioni, mentre le figure umane sembrano i simulacri di un’esistenza ormai incancrenita in un’abitudine all’orrore. Gli uomini e le donne che si trovano sulla corriera sono una sorta di automi che si muovono spinti più dal caso che dalla necessità di sopravvivenza, pronti a rivoltarsi gli uni contro gli altri per qualsiasi futile motivo. Per certi aspetti, la corriera assomiglia al treno che corre incessantemente nel mondo ghiacciato e devastato messo in scena dal film Snowpiercer (2013) di Bong Joon-ho: in esso l’umanità superstite è costretta a vivere secondo una rigida divisione in classi sociali ma dai vagoni dei più poveri partirà ben presto una inarrestabile rivolta. Sulla corriera de La Sublime Costruzione non ci sono poveri e ricchi o, meglio, i viaggiatori sono tutti dei poveri migranti che cercano una qualche possibilità di sopravvivenza dignitosa presso la «Sublime Costruzione». Nella motrice, invece, alloggiano i «reclutatori» (nonché dei «valletti» destinati alle mansioni pratiche), coloro che, per mezzo di un pervasivo controllo, sanno tutto sulla vita e le attitudini dei reclutati. Né mancheranno, come già accennato, delle vere e proprie lotte tra poveri, risse scatenatesi nei dormitori per i più futili motivi.

Il viaggio post-apocalittico affrontato dai personaggi del romanzo si srotola in un paesaggio onirico e lunare, devastato e ghiacciato, abbrutito nella sua totale disumanizzazione, simile a quello attraversato dall’uomo e dal bambino protagonisti de La strada (The Road, 2006) di Cormac McCarthy. Se quest’ultimo romanzo si riallaccia alla tradizione americana del ‘viaggio di formazione’ sulla strada (basti pensare a London e a Kerouac), in esso, come scrive Giuseppe Panella, «il mito sembra arrivato al capolinea e si congiunge con una visione devastata e livida di un mondo ormai giunto alla sua conclusione ‘innaturale’ per effetto di una non ben identificata e descritta epidemia inarrestabile»5. Il colore predominante nel paesaggio del romanzo di Gianluca Di Dio è il bianco: bianchi sono i campi e le strade innevate, bianca è la mostruosa corriera, «tutta completamente bianca». Nella parte finale della narrazione, dopo le innumerevoli peripezie, i protagonisti aspettano un’altra corriera ed essa si distingue da lontano proprio per il suo biancore quasi accecante: «Dal fondo del pendio sorse un rantolo felpato, e intravedemmo una chiazza di bianco luminosa scivolare sulla coltre, cancellata a tratti dai vortici dei fiocchi». Del resto, il Bianco – nota ancora Panella – «può essere ben più allucinante e devastante dell’emergenza della Nerezza»6, basti pensare all’orrorifico bianco accecante con cui si chiude la Storia di Gordon Pym (The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1837) di Edgar Allan Poe.

Nonostante la narrazione de La Sublime Costruzione rappresenti un viaggio simbolico e onirico, in esso è comunque presente la dimensione del corpo e del basso corporeo, in tutti i suoi aspetti, dalla rappresentazione del corpo degradato, piagato dagli stenti e dalla fatica fino all’evocazione della sfera sessuale e alla pressoché costante presenza del cibo e dei suoi scarti. I personaggi, infatti, durante le soste, si ritrovano spesso intorno a fuochi sui quali stanno cuocendo pezzi di carne sanguinolenta e la divorano facendola a brandelli in modo selvaggio. Anche se i corpi, come afferma Andrej Nikto, sono «incarcerati come fossili nel sedimento incoerente del pensiero», essi non perdono mai la loro preponderante dimensione fisica: copulano, si cibano in modo rozzo e disordinato, si colpiscono, si feriscono, sanguinano, sono sottoposti a sforzi fisici enormi. È il corpo a conferire una nota di colore ‘vivo’, quasi ‘carnevalesco’, all’interno dell’indistinto, glaciale sfondo bianco che avvolge la narrazione.

Del resto, il corpo è probabilmente l’unica ricchezza che questi migranti post-apocalittici possiedono come, d’altronde, i reali migranti contemporanei al confine fra Bielorussia e Polonia, imprigionati in un’apocalisse che sta avvenendo sotto i nostri occhi, rimbalzata ogni dove sui media, e di fronte alla quale siamo miseramente impotenti. Corpi di uomini, donne e bambini attanagliati dal freddo glaciale, in un altro apocalittico nord, costretti a viaggi inenarrabili, bloccati, esclusi, indesiderati, fra le macerie della catastrofe capitalistica. Ma la narrazione de La Sublime Costruzione si chiude con un accento di speranza, nell’immagine di una nuova creatura venuta al mondo, anche se si tratta di un mondo post-apocalittico: «fino all’ultimo dovremo apparecchiarci a un interminabile cammino di speranze. In questo viaggio astruso e senza ritorno, forse mostruoso, ma che immancabilmente dischiuderà la vita e la sua immancabile bellezza».

Che alla fine del viaggio ci sia, se non un’Itaca da raggiungere, almeno uno spazio di nuova vita e di nuova resistenza.


  1. Cfr. M. Bettini, C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino, 2010, p. 58. 

  2. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it. Einaudi, Torino, 1997, p. 4. 

  3. M. Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo, Milano, 2021, p. 20. 

  4. Cfr. ivi, pp. 20-21. 

  5. G. Panella, Il disastro prossimo venturo. Distopia, apocalisse, fantascienza: tra Saramago e Ballard passando per Cormac McCarthy, in N. Turi (a cura di), Ecosistemi letterari. Luoghi e paesaggi nella finzione novecentesca, Firenze University Press, Firenze, 2016, p. 231. 

  6. Ivi, p. 228. 

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L’uomo, l’ambiente e la letteratura. Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura https://www.carmillaonline.com/2018/03/01/luomo-lambiente-e-la-letteratura-le-relazioni-narrative-fra-ecologia-e-letteratura/ Thu, 01 Mar 2018 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43990 di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le [...]]]> di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le sue memorie, gli alberi non ci sono più o si sono drasticamente ridotti: «Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure» (I. Calvino, I nostri antenati, Mondadori, Milano, 2003, p. 303). Dopo la morte di Cosimo, il ragazzo e poi l’uomo che ha vissuto sugli alberi, gli stessi alberi sembrano non aver resistito, sono morti, sono stati tagliati. Il «barone rampante», infatti, era stato un po’ un simbolo della sinergia uomo-natura: come nota Gregory Bateson, almeno a partire dal XVIII secolo, si è creata una profonda frattura fra coscienza individuale umana e natura. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda del romanzo di Calvino si ambienti proprio nel Settecento, quell’epoca dei lumi in cui tale frattura ha iniziato a prodursi. Cosimo, diverso da tutti, è l’uomo che va in direzione opposta, che ‘ritorna’ alla natura. Bisogna inoltre ricordare che il romanzo è del 1957, in un periodo in cui l’Italia stava inesorabilmente e rapidamente mutando sotto la spinta del benessere e delle ricostruzioni postbelliche, e la penna di Calvino non è certo immune da uno spirito di denuncia nei confronti della società contemporanea, denuncia un po’ nascosta sotto il piglio fiabesco della narrazione.

Adesso, a schiarirmi le idee c’è un interessante e rigoroso saggio di Niccolò Scaffai che illumina in modo adeguato le complesse relazioni fra ecologia e letteratura, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, uscito recentemente per Carocci. Come spiega l’autore nell’introduzione, uno degli intenti principali del libro è quello di porre «al centro la relazione tra ecologia e letteratura facendo reagire la tematica ambientale con i dispositivi formali che ne definiscono la presenza nelle opere d’invenzione» (p. 14). Un importante dispositivo è, ad esempio, lo straniamento: per illustrare i danni prodotti dall’inquinamento sull’ambiente, un autore può farci guardare con occhi diversi gli effetti di alcune nostre abitudini quotidiane facendocele osservare dalla prospettiva di altri esseri, animali o creature fantastiche. Dispiegando su letteratura e ecologia uno sguardo comparatistico, Scaffai sottolinea dunque l’importanza, fra gli studi culturali, dell’ecocriticism, disciplina che, da una parte, interpreta la relazione tra uomo e natura presente in un testo, dall’altra tende a fare dell’opera letteraria uno strumento di diffusione per la coscienza ambientale. Basti pensare alla letteratura americana: opere importanti in questo senso sono Foglie d’erba (1855-92) di Walt Whitman o Walden ovvero Vita nei boschi (1854) di Henry D. Thoreau. All’interno della cultura americana, infatti, è presente in profondità l’aspirazione alla vita in una natura incontaminata, la wilderness. Un autore americano contemporaneo in cui è presente una forte componente ecologica è poi Jonathan Franzen, in cui grande rilievo ha l’esperienza stessa della natura. Ad esempio in Libertà (2010), la coppia protagonista, appartenente alla classe borghese, decide di trasferirsi in una località a diretto contatto con la natura all’insegna della riscoperta dei valori fondamentali, sulla scia del grande archetipo thoreauviano. La critica ecologia può poi fondersi con la geocritica, la quale studia la rappresentazione dello spazio nella letteratura. Ogni ambiente è infatti prima di tutto uno spazio e, come scrive il maggior esponente della geocritica, Bertrand Westphal, un punto d’incontro fra spazio e ambiente può essere intravisto nel momento in cui entrano in sinergia la «cultura guardata» e la «cultura guardante», in modo da creare uno spazio coabitato da una multifocalità di prospettiva.

La natura è poi presente all’interno della letteratura sotto forma di diversi topoi, come ad esempio il locus amoenus. Quest’ultimo è uno spazio caratterizzato da una vegetazione fresca e ombrosa, un corso d’acqua, il tutto attraversato da una leggera brezza e dal canto degli uccelli. Il locus amoenus è presente in tantissime opere della letteratura classica e medievale: in Virgilio, ad esempio, il paesaggio ben regolato assume quasi il simbolo del buon governo, all’interno di un gioco di metafore assai presente non solo nelle letterature classiche. Un altro importante topos è quello della primavera, connotato contemporaneamente da angoscia e bellezza, il quale vede la sua più importante presenza nelle letterature romanze. Se la natura si risveglia in aprile (il mese “che apre”), spesso e volentieri il poeta è angosciato e soffre per le pene d’amore infertegli da una insensibile dama. Si tratta comunque di una rappresentazione topica di lunga durata, se esso è presente, mutando nella forma, in poeti contemporanei come Montale, Pasolini o Zanzotto. Ad esempio, L’arca di Montale si apre con l’immagine di una tempesta – una vera e propria catastrofe atmosferica – la quale «ha sconvolto / l’ombrello del salice, / al turbine d’aprile». In Pasolini, invece, la primavera assume connotazioni dolorose soprattutto per la lontananza della persona amata, soprattutto nelle giovanili poesie in friulano e ne L’usignolo della chiesa cattolica. In Zanzotto, lo spazio del locus amoenus diviene poi lo spazio eletto dell’otium cum litteris, consacrato all’«autocoscienza della poesia» (Galateo in bosco).

Un capitolo del saggio di Scaffai è successivamente dedicato alla letteratura distopica e al tema dell’apocalisse. Quest’ultima è rappresentata in moltissimi romanzi contemporanei come un disastro ecologico che colpisce la terra, mentre gli esseri umani superstiti sono costretti a muoversi in uno spazio devastato e contaminato. Un genere contemporaneo in cui letteratura e ecologia entrano in stretta correlazione è l’ecothriller: «Il protagonista di un eco thriller, spesso un giornalista o uno scienziato (talvolta una coppia, in cui uno dei due personaggi, per lo più quello femminile, ha lo scontato ruolo di deuteragonista) deve fronteggiare e possibilmente sventare un’emergenza biologica e ambientale, scatenata, favorita o sfruttata da un antagonista (un’associazione segreta o semplicemente criminale)» (p. 114).

Un importante tema che attraversa la relazione fra letteratura e ecologia è poi quello dei rifiuti, intesi come oggetto di straniamento che porta a concepire l’esistente in forma di spazzatura. Ad esempio, in un romanzo in cui la tematizzazione dei rifiuti assume un ruolo preponderante, Underworld (1997) di Don DeLillo, il protagonista percepisce ogni oggetto, anche nuovo, «in termini di spazzatura», mentre quest’ultima assume connotazioni sacre e quasi feticistiche. Nella pièce teatrale di Daniel Pennac, Il sesto continente (2012), un personaggio intende trasformare la famigerata, gigantesca «isola dei rifiuti», (realmente esistente, individuata nell’Oceano Pacifico e composta per l’ottanta per cento da materiale plastico) in una attrazione turistica organizzando delle crociere. Essa viene così offerta al voyeurismo di massa dei croceristi, «testimoni di un “naufragio” ecologico di cui sono responsabili e vittime, oltre che spettatori» (p. 142). Anche Italo Calvino, ne Le città invisibili (1972), tematizza l’invasione della spazzatura all’interno dello spazio cittadino, anche stavolta con uno spirito di denuncia: come egli stesso scrive a proposito del libro, «Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili».

Nel Novecento letterario italiano un autore che ha affrontato da vicino tematiche ecologiche è senza dubbio Pier Paolo Pasolini. Oltre ad aver rappresentato poeticamente la trasformazione dell’Italia, anche in termini ecologici (basti ricordare il «pianto della scavatrice», nell’omonima poesia delle Ceneri di Gramsci, in cui la scavatrice ‘urla’ di dolore devastando i prati per la costruzione di nuovi quartieri di periferia, oppure la descrizione delle ‘devastate’ periferie romane nel postumo e incompiuto Petrolio), Pasolini, in un celebre articolo degli Scritti corsari, utilizza la metafora della «scomparsa delle lucciole» per indicare il mutamento del potere in Italia. Il potere che spadroneggia dopo la «scomparsa delle lucciole» è quello dei nuovi consumi, un regime forse più terribile di quello fascista, irreggimentatosi con il tacito consenso della classe politica democristiana degli anni Sessanta e Settanta.

Anche Paolo Volponi possiede uno spiccato sguardo ‘ecologico’, soprattutto ne Il Pianeta irritabile (1978), in cui è evidente il richiamo di scrittori come Huxley, Orwell, Asimov e Bradbury. La vicenda del romanzo si svolge a partire dall’anno 2293 nel territorio marchigiano caro all’autore ma il paesaggio è ormai irriconoscibile poiché il mondo è stato devastato da una grande esplosione atomica. I protagonisti di questa sorta di favola ecologica sono un babbuino, un’oca ammaestrata, un elefante e un nano. Quest’ultimo, l’unico umano del gruppo, si convertirà verso l’animalità rinunciando al linguaggio e estraniando in questo modo la dimensione umana da una natura che proprio dall’uomo era stata devastata.

Anche nei risvolti più contemporanei del romanzo italiano – ai quali è dedicato l’ultimo capitolo del ricco saggio di Scaffai – è possibile incontrare tematiche ecologiche. Ad esempio, in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, in cui il ‘ritorno’ alla natura dei protagonisti è oscurato dalla violazione e dai gravi danni inferti al territorio da parte del proprietario della casa che essi vogliono acquistare. Fra recenti esempi di fiction distopica si può invece ricordare Sirene (2007) di Laura Pugno, in cui la razza umana è costretta a rifugiarsi sott’acqua per sfuggire alle radiazioni solari che provocano terribili cancri alla pelle, o Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante, in cui in un futuro imprecisato, dopo la «sciagura» provocata forse da una grave crisi economica, quello che resta dell’umanità deve rifugiarsi in sperdute e incontaminate valli alpine o, ancora, Qualcosa là fuori (2016) di Bruno Arpaia, che racconta una Italia del futuro devastata apocalitticamente dal surriscaldamento globale.

Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura continuano perciò anche nella contemporaneità, anzi, sembra che si stiano intensificando sempre di più. E questo non può essere che un bene perché la letteratura, sfoderando la propria vocazione fantastica, onirica e visionaria forse riesce gradualmente a ricucire la frattura di matrice illuministica e tecnica creatasi fra coscienza umana e natura e a migliorare la vita in comune degli individui ricreando nuove e inedite relazioni d’amore fra di esse. Perché, come scrive Giorgio Caproni in Versicoli quasi ecologici, se «l’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore», dove ricomincia l’erba e l’acqua rinasce, l’amore ricomincia.

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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