Brexit – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un profeta per il XXI secolo https://www.carmillaonline.com/2020/01/08/un-profeta-per-il-xxi-secolo/ Wed, 08 Jan 2020 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57023 James Ballard, All That Mattered Was Sensation. Intervista e introduzione a cura di Sandro Moiso con un saggio critico di Simon Reynolds, Krisis Publishing 2019, pp. 218, 20,00 euro

[Dopo essere rimasta chiusa in un cassetto per quasi trent’anni, giunge finalmente al pubblico un’intervista di James Ballard realizzata nel 1992, in occasione del Noir in Festival di Viareggio, dal piccolo collettivo editoriale che all’epoca ruotava intorno alla video-rivista Fantazone. Unico e anticipatorio tentativo di portare in quegli anni il discorso sull’immaginario, anche politico, oltre le barriere della carta e gli ortodossi limiti [...]]]> James Ballard, All That Mattered Was Sensation. Intervista e introduzione a cura di Sandro Moiso con un saggio critico di Simon Reynolds, Krisis Publishing 2019, pp. 218, 20,00 euro

[Dopo essere rimasta chiusa in un cassetto per quasi trent’anni, giunge finalmente al pubblico un’intervista di James Ballard realizzata nel 1992, in occasione del Noir in Festival di Viareggio, dal piccolo collettivo editoriale che all’epoca ruotava intorno alla video-rivista Fantazone. Unico e anticipatorio tentativo di portare in quegli anni il discorso sull’immaginario, anche politico, oltre le barriere della carta e gli ortodossi limiti della Sinistra, istituzionale e non.
Così, a dieci anni dalla scomparsa di uno dei più importanti autori del Novecento inglese, le edizioni Krisis, in edizione bilingue e in una veste grafica come sempre stimolante ed affascinante, propongono le parole, espresse allora, che già ripercorrevano gran parte della carriera e del pensiero dello scrittore nato a Shangai nel 1930.
Qui di seguito si è pensato di sottolineare alcune delle riflessioni svolte da Simon Reynolds, uno dei più importanti critici post-moderni inglesi, sull’importanza di Ballard come anticipatore della realtà che oggi ci circonda.]

L’idea che la periferia generi le sue proprie forme di insurrezione – la borghesia infuriata contro lo stesso ambiente e stile di vita che ha creato per se stessa – è un tema a cui Ballard ritorna ripetutamente nei romanzi che ha scritto nelle ultime due decadi. Lo scenario è solitamente un ambiente di vita chiuso e protetto – le comunità circondate da cancelli di Pangbourne Village in Un gioco da bambini (Running Wild, 2005) e di Chelsea Marina in Millennium People (2003), o quelle dei villaggi turistici di Estrella de Mar in Cocaine Nights (1996) e Eden-Olympia in Super-Cannes (2000). Ma la ben pianificata sciatteria di questi ambienti sembra generare una corrente contraria di distruzione, sia nel caso che si tratti di una carneficina di genitori ad opera dei bambini di Pangbourne, di un incendio doloso a Estrella de Mar, dell’omicidio di massa in Eden-Olympia o di una strana forma di terrorismo della classe media rivoluzionaria che ribolle tra gli abitanti di Chelsea Ma­rina. Il suo ultimo romanzo, Regno a venire (Kingdom Come, 2006), è ambientato nella città immaginaria di Brooklands, che, come Shepperton, si trova all’estrem­ità occidentale della Greater London. Ballard immagina una nuova forma di fascismo che emerge dalla società dei consumi e dello spettacolo. Elementi di questo scenario – attacchi contro gli immigrati, sciovinismo convogliato in fanatismo per lo sport – anticipano misteriosamente l’esuberante irrazionalismo delle Leave Campaign e del Brexit-means-Brexit.
“Temo che questo sarà il futuro” ha detto Ballard nel 1988 parlando alla rivista The Face per un articolo intitolato Visions of Dystopia: “Tutto è controllato. Anche spostare una foglia sembra fuori luogo… Una volta ci si trasferiva in periferia, il tempo si fermava. Le persone misurano le loro vite attraverso i prodotti di consumo, i sogni che i soldi possono ac­quistare. Penso che sia più pericoloso. Le persone non hanno più nessun tipo di attaccamento”. In questo vuoto tutti coloro che riescono a offrire un senso e uno scopo, o a identificare un nemico comune, possono prendere il controllo, sfruttando gli istinti tribali che l’ambiente della periferia non può soddisfare. (pp. 73-74)

Lunedì 13 gennaio, alle ore 19 presso la Libreria modo infoshop, via Mascarella, 24/b – Bologna, si svolgerà la prima presentazione italiana del libro. Sandro Moiso, curatore del libro, ne parlerà con Francesco D’Abbraccio (Lorem / Krisis Publishing / Studio Frames).

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Turn Left https://www.carmillaonline.com/2019/12/15/turn-left/ Sun, 15 Dec 2019 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56724 di Alessandra Daniele

Nazionalizzazione di infrastrutture e servizi – ferrovie, poste, telecomunicazioni, acqua, gas, energia elettrica – de-privatizzazione della sanità pubblica, università gratuite e detassate, aumento del salario minimo, case popolari, espropri azionari, tasse patrimoniali e sulle transazioni finanziarie: un partito con un programma del genere oggi in Italia alle elezioni si sarebbe fermato sotto il 2%. In Gran Bretagna è arrivato al 32% con più di dieci milioni di voti, piazzandosi al secondo posto, meno di 4 milioni di voti sotto ai Conservatori. Quello britannico però è un sistema elettorale maggioritario uninominale [...]]]> di Alessandra Daniele

Nazionalizzazione di infrastrutture e servizi – ferrovie, poste, telecomunicazioni, acqua, gas, energia elettrica – de-privatizzazione della sanità pubblica, università gratuite e detassate, aumento del salario minimo, case popolari, espropri azionari, tasse patrimoniali e sulle transazioni finanziarie: un partito con un programma del genere oggi in Italia alle elezioni si sarebbe fermato sotto il 2%.
In Gran Bretagna è arrivato al 32% con più di dieci milioni di voti, piazzandosi al secondo posto, meno di 4 milioni di voti sotto ai Conservatori.
Quello britannico però è un sistema elettorale maggioritario uninominale a turno unico, il meno rappresentativo in assoluto. The winner takes it all, quindi a Jeremy Corbyn del Labour è toccato sentirsi dare del perdente pure dai pidocchietti renziani del 4% virtuale, che l’hanno oltretutto accusato di correità nella Brexit.
In realtà è stata proprio l’ambiguità cerchiobottista di Corbyn sull’argomento a costargli la vittoria.
La sua cautela verso gli accordi con Bruxelles ha inevitabilmente finito per minare anche la credibilità delle sue pronesse in campo economico.
“Get Brexit done” è stato lo slogan vincente di Boris Johnson, che gli ha fruttato una fetta decisiva del voto degli operai, delle periferie, delle zone rurali, delle classi tradizionalmente laburiste.
Se Corbyn avesse avuto più coraggio, quella che è diventata la più clamorosa svolta a destra della storia britannica dai tempi della Thatcher, sarebbe potuta essere esattamente il contrario: una storica svolta a sinistra, fuori dall’Unione Europea e dal neoliberismo, perché, nonostante le cazzate raccontate dai sovranisti, è vano uscire dall’una senza uscire dall’altro.
Infatti, il risultato del voto britannico è stato festeggiato dai mercati mondiali fin dal primo Brexit poll.

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Blackout https://www.carmillaonline.com/2019/03/31/blackout/ Sun, 31 Mar 2019 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51873 di Alessandra Daniele

La Mossa Kansas City della settimana è stata l’Inquisizione, completa di caccia alle streghe, e auto da fé. Mentre il parlamento italiano litigava su castraz¡one chimica e feti di gomma, quello britannico trasformava la Brexit in un episodio di Black Mirror, e in Venezuela il tragico blackout generale continuava a fare vittime, nel tentativo di mettere in ginocchio il paese, e separare dall’irriducibile Maduro l’esercito che ancora lo sostiene nonostante le minacce USA. Il Golpe Elettrico venezuelano potrebbe innescare quel genere di conflitto prima locale e poi mondiale che è [...]]]> di Alessandra Daniele

La Mossa Kansas City della settimana è stata l’Inquisizione, completa di caccia alle streghe, e auto da fé.
Mentre il parlamento italiano litigava su castraz¡one chimica e feti di gomma, quello britannico trasformava la Brexit in un episodio di Black Mirror, e in Venezuela il tragico blackout generale continuava a fare vittime, nel tentativo di mettere in ginocchio il paese, e separare dall’irriducibile Maduro l’esercito che ancora lo sostiene nonostante le minacce USA.
Il Golpe Elettrico venezuelano potrebbe innescare quel genere di conflitto prima locale e poi mondiale che è da sempre la naturale conseguenza delle derive nazionaliste planetarie.
Forse dopotutto non saranno le alterazioni climatiche a estinguerci.
Non abbiamo più tempo, e probabilmente non ce lo meritiamo nemmeno.
Invece di perderlo con le meschine zuffe da pollaio della politica nostrana, dovremmo chiederci quale apocalisse ci attenda, se quella ecologica temuta dalla generazione di Greta Thunberg, o quella nucleare, incubo delle generazioni precedenti.
Se l’ultima onda sarà causata dallo scioglimento dei ghiacciai, o dallo tsunami di un’esplosione atomica.
Invece preferiamo stordirci con le cazzate Grilloverdi.
Come quel reddito di cittadinanza che era stato promesso a 5 milioni di poveri, ma che la ridda kafkiana di restrizioni, obblighi, controlli e divieti ha finora reso accessibile soltanto a un decimo dei presunti destinatari. Il cui voto difficilmente basterà a salvare il Movimento 5 Stelle dal meritato tracollo che lo aspetta alle elezioni europee.
Non è vero però che Macron abbia fatto con la Cina affari migliori di Luigi Di Maio. Macron gli ha venduto 30 miliardi in airbus. Di Maio gli ha venduto l’Italia.
Intanto il PD ha deciso la sua strategia per recuperare consenso: scavalcare a destra Salvini. Accusarlo di non aver ancora espulso 600.000 immigrati come promesso, d’avere un controllo degli sbarchi e delle milizie libiche meno ferreo di quello di Minniti, di trascurare gli interessi degli imprenditori del Nord e le direttive di Confindustria, e naturalmente di ritardare la realizzazione del TAV.
Con un centrosinistra così non ci servirebbe una destra, ma ce l’abbiamo. Anzi, non abbiamo nient’altro.
Qualsiasi apocalisse ci dovesse capitare, per noi non sarà molto peggio che continuare così.

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Le nuove plebi globali dentro la crisi sistemica https://www.carmillaonline.com/2018/05/15/le-nuove-pelbi-globali-dentro-la-crisi-sistemica/ Mon, 14 May 2018 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45410 di Giovanni Iozzoli

Carlo Formenti, Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

Il nuovo libro di Carlo Formenti è essenzialmente una raccolta di articoli, dispiegati come anelli di un ragionamento continuo e coerente sulla crisi e suoi suoi attori sociali, maturato lungo il corso degli ultimi sette anni. Al centro della riflessione troviamo i due campi in cui si spaccano le società occidentali dentro questa stagione di trasformazioni accelerate: quello delle nuove oligarchie che stanno usando la crisi per concentrare ulteriormente poteri e ricchezza; e [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Carlo Formenti, Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

Il nuovo libro di Carlo Formenti è essenzialmente una raccolta di articoli, dispiegati come anelli di un ragionamento continuo e coerente sulla crisi e suoi suoi attori sociali, maturato lungo il corso degli ultimi sette anni. Al centro della riflessione troviamo i due campi in cui si spaccano le società occidentali dentro questa stagione di trasformazioni accelerate: quello delle nuove oligarchie che stanno usando la crisi per concentrare ulteriormente poteri e ricchezza; e quello delle nuove masse proletarizzate, che stanno manifestando una confusa e sempre più diffusa repulsione verso ideologie e prassi delle élite, senza che questa ripulsa maturi in direzione di un qualche progetto di alternativa di società.

La prima parte del libro raccoglie spunti di analisi – quasi una narrazione in diretta – che partono dal 2011 e si allungano fino al 2017. Le pratiche di un neoliberismo feroce e pervasivo, sono al centro di ogni riflessione: il loro incunearsi “microfisicamente” nel tessuto sociale, nella vita, nel bios, fino ai grandi scenari macro – la guerra, il ciclo economico, il rapporto finanza/produzione. Una cronaca in tempo reale del disastro della modernità capitalistica, che può essere letta e declinata a vari livelli.

Si può partire da un tema attuale – l’essenza delle ideologie workfare – a proposito della scelta inglese del 2012, di affidare ad agenzie private la gestione dei sussidi e la ricollocazione degli iscritti alle liste di collocamento:

Il principio del workfare (il sussidio di disoccupazione bisogna guadagnarselo, altrimenti si è passibili di sospensioni o decurtazioni dell’assegno) non è certo una novità, ma qui siamo in presenza di pratiche ancora più penalizzanti. Soprattutto perché il compito di gestire questo avvio al lavoro coatto non è affidato alla pubblica amministrazione bensì a contractor privati che funzionano di fatto come agenzie interinali e hanno il potere di decidere come e quando i soggetti “renitenti” siano passibili di sanzione. Per di più questi nuovi schiavi del XXI secolo non sono affatto utilizzati per svolgere lavori di pubblica utilità: puliscono uffici e abitazioni private, con il risultato che le imprese e gli individui presso i quali vengono “comandati” spesso licenziano i lavoratori che svolgevano in precedenza questo tipo di attività. Detto in poche parole: si sfruttano i disoccupati per creare nuovi disoccupati! A questo punto sorge una domanda: esiste una qualche differenza fra queste ignobili politiche e quelle dei governanti inglesi che, fra fine Settecento e inizio Ottocento, costringevano al lavoro coatto i “vagabondi” (cioè i poveri che rifiutavano di sottoporsi al regime schiavistico delle manifatture)? (p. 14)

E ancora, il tema della privatizzazione dell’istituzione carcere:

Da fonti di stampa apprendiamo che alcuni Stati americani avrebbero stipulato con le imprese dei contratti che li obbligano ad affidare alla loro gestione una quantità minima di detenuti. Insomma: le imprese pretendono che tutti i loro “letti” (per usare una metafora sanitaria) siano occupati, in modo da sfruttare al massimo la capacità produttiva della struttura. Naturalmente ciò impegna le amministrazioni pubbliche a condurre politiche ferocemente repressive anche nei confronti dei reati minori, onde poter fornire “carne fresca” ai carcerieri-padroni. (p. 18)

E il dramma sociale della sanità iperprivatizzata:

dopo la bolla del debito immobiliare, scoppiata nel 2008, e dopo quella del debito studentesco, che minaccia di scoppiare nei prossimi anni, sembra profilarsi una bolla del debito sanitario. Dentisti, dottori e altri operatori sanitari, in combutta con le società finanziarie, hanno infatti iniziato a offrire prestazioni a credito ai pazienti che non possono pagare. Chi cade in questa trappola si trova nelle condizioni di dover sborsare per anni rate gravate da interessi degni dei più efferati strozzini (fino al 30%). (p. 19)

Sulla diffusione dei corsi di laurea universitari on-line:

In un momento in cui l’università di massa è al centro di un duro attacco da parte dei governi neoliberisti, i quali, attraverso l’aumento delle tasse di iscrizione e il taglio delle risorse, cercano di ridurre il numero degli iscritti e di discriminare fra università di serie A (per formare le élite) e B (per formare una forza lavoro flessibile, disciplinata e destinata a svolgere attività esecutive e sottopagate), l’informatizzazione dei corsi è uno strumento ideale per agevolare il progetto: 1) corsi online e a basso costo per la maggioranza degli studenti, che così resteranno a casa evitando di creare pericolose concentrazioni umane (notoriamente nido di velleità sovversive); 2) disciplinamento mentale attraverso moduli didattici che incorporano idee e valori precodificati; 3) sontuosi profitti per le imprese che forniranno le infrastrutture hard e soft alle università digitalizzate. (pp. 20-21)

La sezione centrale del libro è dedicata alle trasformazioni del lavoro, dentro la durissima offensiva liberista che in occidente sta ridefinendo il rapporto salariato, i mercati del lavoro, le forme dello sfruttamento e quelle della resistenza sindacale. A tal proposito Formenti commenta la nascita di una grande associazione di tutela del lavoro freelance negli Usa, l’unica organizzazione sociale in rapido incremento:

la Freelancers Union non è un vero sindacato, bensì qualcosa di simile alle vecchie gilde professionali, un organismo che non ha – né rivendica – alcun potere di contrattazione con i padroni, ma serve a raccogliere fondi per finanziare servizi come l’assistenza sanitaria, che resterebbero altrimenti fuori portata per questi lavoratori “autonomi” […] un’alternativa “mercatista” al sindacato tradizionale: la Freelancers Union si concepisce infatti come un’azienda (sia pure non profit) nata per erogare servizi non ai membri di una classe sociale bensì a individui che vengono presentati come “imprenditori di se stessi”. Finché simili equivoci non verranno spazzati via, non ci saranno speranze di restituire ai lavoratori quel potere che, per sua stessa natura, non può essere che collettivo. (pp. 46-47).

E i rischi del “taylorismo digitale”:

Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituita da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie digitali – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori. Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le nuove tecnologie – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” in misura non inferiore di quanto la catena di montaggio facesse nei confronti del lavoro fordista. (p. 49)

Per arrivare alla degenerazione estrema delle vecchie figure dello sfruttamento salariato – il lavoro gratuito come estremo adattamento alla nuova organizzazione produttiva:

Finiti i tempi della gerarchia e dell’autoritarismo [Formenti cita tesi in voga nella sociologia del lavoro americana], viviamo in un’epoca in cui la prima preoccupazione dei capi non dev’essere più farsi obbedire, bensì fare in modo che i subordinati siano sempre più autonomi e capaci di decidere da soli. […] Secondo un altro articolo, esiste un sistema infallibile per creare questo clima di cameratismo, familiarità reciproca, condivisione ed entusiasmo per la “missione” comune: basta convincere i dipendenti a svolgere lavoro volontario (e gratuito) nei weekend e al di fuori del normale orario di lavoro. […] Tutto questo mi ricorda la campagna di arruolamento di migliaia di giovani volontari per l’Expo milanese, sedotti dal miraggio di un’esperienza che – garantiscono partiti, media, istituzioni e imprese – potrà offrire loro brillanti opportunità future di impiego. (pp. 57-58)

E sugli scioperi nel settore pubblico, commentando un articolaccio liberticida del «Corriere della Sera», a firma Dario Di Vico:

Il messaggio di fondo – cosa aspettiamo a metterli fuorilegge? – è chiaro, ma vale la pena di approfondirne alcuni aspetti. Partiamo dai titoli. Il pezzo di sinistra, quello che fa la cronaca dello sciopero, inalbera sopra a un titolo a effetto (Città in coda aerei a terra), un occhiello che recita: Lo sciopero delle sigle minori blocca i mezzi pubblici, frase che contiene un evidente paradosso: se le sigle sono minori, come mai riescono a bloccare i mezzi pubblici e a raccogliere elevate percentuali di adesione (a Palermo si è arrivati al 78%)? […] Vedrete che una formula per rendere gli scioperi illegali si troverà. Auspicabilmente con l’appoggio delle sigle confederali [che] esorta Di Vico, abbandonino ogni “pigrizia” e si facciano parte attiva per stroncare le velleità dei sindacatini. Un vero grido di guerra, condito da un appello demagogico agli “interessi dei più deboli” vale a dire precari e partite Iva che sarebbero i più danneggiati da questi scioperi. Di Vico recita questa litania un giorno sì e l’altro pure, come se i precari non fossero il prodotto – e le prime vittime – di quelle politiche economiche di cui lui è uno dei più solerti piazzisti. (pp. 62-63)

Tra l’altro la recentissima produzione normativa della Commissione di Garanzia, sta praticamente azzerando il diritto di sciopero per migliaia di lavoratori del trasporto pubblico locale, nel silenzio generale, come fosse una faccenda irrisoria e non un vulnus decisivo alla Costituzione.

La sezione più dolente – e spietata – è quella in cui Formenti descrive la parabola tragica e suicida di tutte le sinistre occidentali, dalla socialdemocrazia agli “tisprasiani” di ogni sorta. L’essersi candidati a gestire il progetto neoliberista, o aver sostenuto l’utopia di un “altra Europa possibile”, ha prodotto un terreno di macerie nel cuore di quelle società in cui, nei “trenta gloriosi”, era prosperata l’esperienza (e il mito) del patto sociale e del compromesso capitale-lavoro. Al tradimento dei partiti dell’Internazionale Socialista e del mondo progressista, segue, tra il 2016 e il 2017, un domino impressionante di sconfitte elettorali epocali: Hollande, la Brexit, Illary Clinton e Matteo Renzi, tutte tappe di una via crucis delle élite, anche intellettuali e accademiche, che avevano teorizzato per anni la “terribile bellezza e la geometrica potenza” della globalizzazione e delle sue mortifere politiche gestite in salsa social-liberale. E mentre le élite sociali manifestano una chiara incapacità di prevedere e controllare le scelte dei popoli, le sinistre politiche brancolano nel nulla.

In entrambi i casi le élite hanno manifestato tutto il loro disprezzo nei confronti dei proletari sporchi, brutti e cattivi che si sono ribellati ai loro diktat. Imitati, ahimè, dalle sinistre (anche radicali!) che hanno detto che non si può stare dalla parte degli operai inglesi perché sono egemonizzati dalla destra razzista e xenofoba. (p. 78)

Le sinistre “per bene” di ogni risma, negli ultimi anni, risultano scioccate e spiazzate da opinioni pubbliche che sono in totale “dissonanza cognitiva e valoriale”, rispetto alle loro fruste narrazioni. La vittoria di Trump negli Usa fa emergere questo sconcerto; Formenti riprende Mark Lilla e il dibattito tra gli allibiti progressisti americani dopo la vittoria di Trump:

l’ossessione per le differenze identitarie – e la retorica “politicamente corretta” che l’accompagna – che pervade da decenni scuole, media e università americane, scrive, ha prodotto una generazione di progressisti “narcisisticamente inconsapevoli delle condizioni dei soggetti esterni ai loro gruppi autocentrati”. Molti di costoro sono convinti che il discorso politico si esaurisca nella narrazione delle diversità e “non hanno praticamente nulla da dire in merito a questioni come le classi sociali, la guerra, l’economia e i beni comuni” […] Questo atteggiamento ha influenzato a tal punto i giovani giornalisti, intellettuali e operatori della comunicazione da renderli del tutto ciechi di fronte a ciò che non riguarda i temi identitari (p. 79)

Un panorama di macerie che però non è un vuoto (in politica non esiste questo concetto) quanto piuttosto un campo aperto, attualmente presidiato dalla galassia delle forze populiste. Su questo mondo, Formenti è molto esplicito:

non va dimenticato che il populismo, pur se si dichiara né di destra né di sinistra, è sempre ideologicamente orientato: può produrre ridistribuzione del reddito, solidarietà e amicizia fra i popoli, come è avvenuto per i populismi bolivariani, ma può anche produrre razzismo, nazionalismo e intolleranza, come avviene con i populismi alla Salvini e alla Le Pen. Detto altrimenti: il populismo è oggi il terreno su cui si gioca la sfida di un cambiamento radicale, con tutti i rischi relativi, mentre la democrazia reale3 è il terreno su cui germogliano oppressione, sfruttamento, dominio sulle masse popolari da parte dell’élite economica e politica (p. 77)

Quello di Formenti, in questi anni, è la traiettoria lucida, rigorosa e a suo modo iconoclasta, di un intellettuale che si è scisso definitivamente dal “progressismo”, dai miti “spinelliani”, da ogni idea di “campo democratico”, dal ripugnante “political correct” che diventa linguaggio religioso della modernità e cerca nell’individualismo solipsistico, nel civismo a chilometri zero, in una idea di libertà fondata sull’assimilazione acritica dell’american way of life, una sua qualche ragion d’essere:

è da qualche decennio che gli intellettuali più intelligenti nel campo della sinistra hanno avviato una riflessione in merito al fatto che, oggi, la critica della società capitalistica non può non accompagnarsi a una critica radicale dell’ideologia “modernista” e della sua grottesca variante postmoderna, il “nuovismo” (p. 83)

La raccolta si chiude con una sezione sanamente intitolata “Polemiche”. Qui l’autore sceglie di polemizzare “dentro” al suo campo, quello del pensiero critico. E i suoi bersagli sono certe sbracature “moltitudinarie” che non sanno più leggere la complessità della stratificazione e delle gerarchie di classe, coltivando il mito di una dimensione orizzontale della cooperazione produttiva già pronta per essere rovesciata come un guanto; o contro gli intellettuali radical che guardano al “popolo” come teppa reazionaria che si lascia ammaliare dai pifferai del populismo; o contro la volgarità di coloro che lanciano accuse di “rossubrunismo” ogni volta che si apre una riflessione seria sulle categorie (storiche non metafisiche) della sovranità nazionale. È la parte più densa del libro, quella forse meno accessibile al lettore occasionale, ma anche quella in cui la vis polemica e il solido retroterra di Formenti, gettano legna nel fuoco del dibattito politico e teorico contemporaneo. E Dio solo sa se ce n’è bisogno.

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Hanno pagato caro, ma non hanno ancora pagato tutto https://www.carmillaonline.com/2016/12/05/pagato-caro-non-ancora-pagato/ Mon, 05 Dec 2016 19:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35113 di Sandro Moiso

4-leader-sconfitti-no Si erano giocati tutto, convinti di vincere. Hanno stravolto i vertici delle TV di Stato per impedire qualsiasi infiltrazione di dubbi sulla bontà della loro proposta politica ed economica. Hanno contribuito a cambiare anche i direttori di testate giornalistiche della Destra per accaparrarsene i favori. Hanno mentito, falsificato i dati economici e della Storia. Hanno portato in palma di mano camorristi e mafiosi e i progetti delle grandi opere inutili che più stavano loro a cuore.

Hanno insultato, denunciato, perseguitato, minacciato, coperto di infamia chiunque manifestasse il desiderio o [...]]]> di Sandro Moiso

4-leader-sconfitti-no Si erano giocati tutto, convinti di vincere.
Hanno stravolto i vertici delle TV di Stato per impedire qualsiasi infiltrazione di dubbi sulla bontà della loro proposta politica ed economica. Hanno contribuito a cambiare anche i direttori di testate giornalistiche della Destra per accaparrarsene i favori. Hanno mentito, falsificato i dati economici e della Storia. Hanno portato in palma di mano camorristi e mafiosi e i progetti delle grandi opere inutili che più stavano loro a cuore.

Hanno insultato, denunciato, perseguitato, minacciato, coperto di infamia chiunque manifestasse il desiderio o anche solo l’idea di opporsi al loro progetto concentrazionario. Hanno promesso contratti pubblici che non contengono null’altro se non ulteriori fregature per i lavoratori. Hanno promesso denaro che non avrebbero mai avuto il coraggio di sequestrare davvero e in quantità adeguata per bonificare territori devastati da un’industrializzazione priva di regole.

Hanno preso per il culo milioni di giovani, lavoratori, disoccupati, inoccupati, pensionati sull’orlo del baratro con promesse inutili, ridicole e d offensive. Hanno riportato in auge i fasti mussoliniani e cercato di ridare fiato alle leggi promulgate tra il 1923 e il 1926.1 Hanno chiamato immaturi gli elettori che non la pensavano come loro. Hanno dichiarato che in alcuni casi è preferibile l’autoritarismo ad una democrazia che non giunga a realizzare i progetti della finanza internazionale e dei suoi lacchè.

Hanno mobilitato sessantottini putrefatti, lottacontinuisti venduti da decenni al miglior offerente, filosofi da strapazzo che discettando di moltitudini e populismi non hanno mai detto una parola chiara su ciò che occorreva davvero fare in questo referendum, spingendo così molti fiduciosi antagonisti a rincorrere stracci di ideologia e di bandiere come gli ignavi di Dante, senza nemmeno rendersi conto di ciò.

“Hanno” ho ripetuto, non “ha”.
Perché il bullo di Firenze non è stato altro che un pupazzo nelle mani di J.P. Morgan e dei grandi conglomerati finanziari. Prima di tutto questo, ancor prima che un rappresentante dell’europeismo. Sbandierato a tutto spiano per peggiorare le condizioni di esistenza e di lavoro di milioni di persone ancor prima che per rispettare alcune semplici norme di civiltà che pure in altri paesi ancora sussistono.

Un burattino sempre più disarticolato, petulante, odioso e animato dalle mani di altri che, almeno questo, alla fine hanno dovuto metterci la faccia: i grandi organi di informazione, finanziari e non; i banchieri di ogni nazionalità e risma; i giornalisti televisivi e i guru dell’informazione; i padri del Trattato di Maastricht; i grandi detentori di capitali già in fuga da anni e i manager capaci soltanto di trasferire la produzione e i marchi italiani all’estero.

Non vale la pena di citarli uno per uno, non per l’aberrante abitudine di usare il pronome “loro” dietro cui spesso si nascondono complottisti e seminatori di confusione che semplicemente servono da fasullo contraltare a coloro che abbiamo fin qui elencato, ma perché un antico e autorevole concittadino dell’ormai ex-primo ministro ci avrebbe suggerito: “non ragionar di loro, ma guarda e passa”.

Sono stati sepolti insieme al loro miserevole e piagnucoloso rappresentante.
E non lo sono stati dall’indicazione di partiti e movimenti sempre più contraddittori e opportunisti.
Non sono stati sepolti da una generica “ondata di destra”.
Sono stati respinti, cacciati, seppelliti da coloro che pensavano di aver ormai in pugno. Da coloro che pensavano di aver ormai completamente soggiogato, intimorito e piegato. Quelli che un’informazione ormai indegna di questo nome non sa che definire “populisti”. Ma questi “populisti” hanno votato, dal Sud al Nord.2

Sono tornati ad usare uno strumento di democrazia elettorale per sconfiggere l’antico e il morente. Come nel 1974, ai tempi del referendum sul divorzio e con risultati elettorali identici: 59% contro 41%. Soltanto che, paradossalmente, allora si era al culmine di una stagione di lotte che non aveva e non ha più avuto paragoni dal secondo dopoguerra ad oggi. Una stagione in cui le formazioni politiche di sinistra e di estrema sinistra si illudevano di avere un ruolo dirigente, mentre non erano altro che una funzione delle lotte in corso. Così come oggi gli sconfitti di cui non abbiamo fatto il nome, se non in un caso, non sono altro che una funzione del Capitale.

Non è stato colpito il cuore del sistema o, come diceva un tempo qualche formazione poi sconfitta dalla storia, dello Stato. Capitale e Stato non hanno un cuore o un centro, con buona pace di chi si ostina a seguire le vicende del Club Bilderberg o della Trilateral. Stato, club, grandi fondazioni internazionali sono anch’esse niente altro che funzioni del processo di valorizzazione del Capitale.
Un processo che, dopo aver fatto vittime e causato distruzioni in tre quarti del mondo per continuare ad ampliarsi e rimanere in vita, oggi è ritornato, con le conseguenze della globalizzazione e tutta la sua ferocia, là dove tutto era iniziato, nel cuore dell’imperialismo: Europa e Stati Uniti.

Ma lì ha resuscitato la sua nemica di sempre, la lotta di classe che, come l’Eroe mitico dai mille volti, gli si oppone in tutti i modi possibili: leciti e illeciti, dichiarati o confusi, pacifici e violenti, cinici e/o comunitari. Lì sta il nuovo. E lì è sempre stato.
E’ quello che Marx definì come “comunismo”: “il movimento reale che abolisce o stato di cose presenti”. Quello stesso Marx che, insieme al suo pari Engels, commise il suo errore più grossolano proprio nel Manifesto del Partito Comunista.

Laddove sull’onda dell’entusiasmo per le lotte di liberazione nazionale del 1848 europeo finì con l’attribuire meriti progressivi eccessivi ad una borghesia che non li aveva. Non li aveva perché ovunque li avesse avuti li aveva svolti sotto la spinta implacabile di masse anonime e diseredate che premevano e rappresentavano con la loro azione la rivoluzione sociale. Masse e compiti che avrebbe poi tradito subito dopo, appena si fossero placati i fervori rivoluzionari. A partire proprio dall’aprile del 1848 o del 1948, se vogliamo ricordare il tradimento e la sconfitta dell’unico movimento che abbia realmente dato origine all’attuale Costituzione italiana: quello armato e popolare resistenziale.

Ma quell’errore interpretativo di Marx ed Engels ancora si riflette nei vacui giudizi odierni sull’immaturità di coloro che si oppongono ai progetti “più avanzati” del Capitale. Nell’accusa di “conservatorismo” affibbiata tanto ai giovani che negli Stati Uniti hanno votato per Sanders come agli operai che hanno votato per Trump. La Modernità e il Progresso sembrano essere stati definiti una volta per tutte dalle necessità del Capitale e del suo Stato Nazionale e in tale chiave continuano a leggerla tanto i renziani ed i loro padrini, quanto le infinite sette di sinistra (da Lotta Comunista ai bordighisti, passando per tutte le sfumature del variegato microcosmo pseudo-marxista).

Ma questo voto non appartiene a nessuno. Lo ha detto bene Alessandra Daniele nell’articolo che precede questo. Non si illudano la Destra, la Lega, il Movimento 5 Stelle, la Sinistra del PD ed istituzionale di aver avuto davvero qualche merito nell’esito di questo voto. Certo, là dove ha vinto il Sì, Toscana ed Emilia, Massoneria e affarismo legato alle Coop hanno avuto qualche peso, ma non più sufficiente per governare un intero paese. Ed è anche straordinario lo scarso peso che Camorra e Mafia hanno avuto nel voto del Sud.

dosio-e-demagistris Si sono ormai troppo radicate nel Nord finanziario ed industriale per poter pesare ancora troppo sulle regioni meridionali. In compenso il tessuto sociale del Nord è risultato essere più restio ad accettare le infiltrazioni mafiose nelle più normali attività quotidiane. Occorre dirlo: c’è un mondo di persone per bene, nel senso migliore della definizione, soprattutto giovani, che non ci sta più ad accettarne i dettami. Né al Nord né al Sud e ciò costituisce una novità di non poco conto nella attuale economia politica. Soprattutto nella Napoli di Luigi de Magistris (che, non dimentichiamolo, alla manifestazione nazionale dei movimenti contro il No a Roma ha parlato dal palco insieme a Nicoletta Dosio), dove probabilmente sta succedendo qualcosa di inaspettato e positivo.

I giovani non hanno votato per lo Young Pop, così come era stato definito dalla rivista Rolling Stone. E se dopo la Brexit la propaganda mediatica aveva insistito, qui in Italia, su un voto espresso da vecchi delusi contro giovani speranzosi, il voto referendario ha invece dimostrato che la maggior parte dei Sì è arrivata da un elettorato di età superiore ai sessant’anni. Pensionati impauriti, militanti incartapecoriti e risparmiatori benestanti poco propensi a significativi cambiamenti sociali. Volevano la maggioranza silenziosa? L’hanno avuta. Ottenendo così il paradossale risultato che il giovane ed aggressivo rottamatore ha potuto, alla fine, far conto soltanto sull’elettorato più anziano.

Allo stesso tempo, però, l’analisi del voto ci dice che anche in Toscana il Sì ha trionfato a Firenze e ad Arezzo, ha vinto a Pistoia, Prato e Siena ma non nelle province di Pisa (dove ha sostanzialmente pareggiato) e di Lucca, Livorno, Massa e Carrara (dove ha vinto il No). Così pure il Sì ha vinto in Alto Adige, dove forse sarebbe ora di pareggiare i conti con la Storia, rimediando alla conquista italiana successiva alla Prima Guerra Mondiale e rendendo quei territori alla legittima nazione austro-tedesca. Poi stop e ben vengano le foto dei comitati per il No festanti in Piazza Maggiore a Bologna dove, per una volta è stata zittita l’anima pidista del capoluogo delle Coop, nonostante il risultato locale.bologna

Analisti politici e giornalisti asserviti cercheranno di attribuire percentuali di voto ai vari partiti o a Renzi, quasi si trattasse di proprietà private da spartire oppure di feudi divisi, come in Afghanistan, tra vicerè filo-occidentali locali privi di qualsiasi potere effettivo se non quello di rimanere rinchiusi nei loro fortini protetti da mercenari. Se questo è il disordine che alcuni temono ed altri minacciano ben venga. Per dirla con Mao, e almeno per una volta lasciatemelo fare, “grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”.

E non ci commuoveranno le lacrime e i discorsi patetici sulla famiglia e sul giocattolo rotto dei due Giulietta e Romeo delle tenebre dell’ormai ex-governo: ci muoveranno soltanto allo sghignazzo . Sì, proprio così, seppelliti da una colossale risata. In faccia al potere, ai fantocci del capitale e alle sue bamboline di pezza.

Ora arriveranno però le manovre e le minacce “più feroci” per intimorire ancora l’opinione pubblica e l’elettorato infedele. Le più prevedibili riguarderanno:

1) La minaccia del governo tecnico: quasi che del 2011 in avanti tutti i governi abbiano potuto essere qualcosa d’altro. Soprattutto l’ultimo.

2) Le banche. In un contesto in cui i piccoli risparmiatori sono già stati messi a dura prova dai provvedimenti europei (il bail in) e dalle spericolate operazioni di salvataggio messe in atto dal governo ai danni dei primi (Banca Etruria per citarne solo una), la minaccia che Monte dei Paschi possa saltare a seguito del voto appare davvero inutile e ridicola. Visto che, come affermano gli analisti finanziari, per MPS si tratta di “O tutto o niente. Non ci sono mezze misure nell’operazione di messa in sicurezza del Monte dei paschi di Siena, per come l’hanno pensata e organizzata i banchieri d’affari americani della JP Morgan in tandem con i super tecnici di Mediobanca. O tutti i pezzi del puzzle si incastrano al posto giusto e il Monte può ricominciare a crescere, oppure l’operazione di rafforzamento del capitale da 5 miliardi di euro salta e si dovrà ricorrere al tanto evocato spettro del bail in che prevede il sacrificio obbligatorio di azionisti e obbligazionisti della banca fino a un massimo di 13 miliardi di euro (l’8% di 160 miliardi di passività della banca). Come si è arrivati a questa situazione? I passaggi chiave risalgono al luglio scorso quando, a fronte di crescenti richieste da parte della Banca Centrale Europea sulla necessità di mettere in sicurezza del Monte dei Paschi, il premier Matteo Renzi, dopo numerose consultazioni in sede europea,ha scelto di non far intervenire lo Stato nel capitale della banca e dunque non procedere a un bail in, lasciando che la banca si affidasse alle cure di JP Morgan e Mediobanca. Insomma ha preferito la soluzione “privata” a quella “pubblica”, anche in seguito alle rassicurazioni che ricevette personalmente da Jamie Dimon, il gran capo del colosso americano, in un incontro riservato a Palazzo Chigi alla presenza di Vittorio Grilli, ex ministro del Tesoro del governo Monti e ora capo europeo proprio di JP Morgan”.3 Mentre le 8 banche a rischio di cui ha parlato il Financial Times nei giorni precedenti il referendum lo erano già prima, e da molto tempo.4

3) La gestione dei profughi e la difesa dei loro diritti davanti all’Europa. Certo, oggi che i “diritti umani” sembrano aver soffocato qualsiasi altra argomentazione,5 il governo Renzi sembrava essere il campione internazionale dei diritti umanitari. Bastava soltanto dimenticare non solo gli spropositati interessi delle Coop rosse e bianche nella gestione dell’”emergenza” (Buzzi e Carminati insegnano), ma anche il fatto che tale governo, impegnato nella Nato e impregnato di interessi petroliferi, è stato sempre comunque fautore di nuove guerre (Libia) e di spericolate alleanze con le forze che già sono alla base delle guerre che producono miseria , distruzione e profughi. Ma si sa, l’ipocrisia del potere non ha limiti.

4) Questioni quali: contratti , pensioni, promesse. Come dire “parole, parole, parole, soltanto parole”. Vuoti e fraudolenti, come quello per il pubblico impiego oppure autentici ladrocini a danno dei lavoratori come la proposta pensionistica denominata APE (unicamente destinata a favorire, ancora una volta, le banche). oppure le favolose proposte di lavoro per i giovani contenute nel job act e nell’uso dei vaucher per l’impiego.

5) La scomparsa di una sinistra di governo. Evviva! Considerato che è sempre stato questo tipo di Sinistra ad aprire le porte alla Destra e all’oppressione di qualsiasi autonoma iniziativa di classe e/o di lotta contro l’attuale modo di produzione. Con le parole odierne di Marco Damilano, vicedirettore dell’Espresso, “Con lui c’è il suo partito, il Pd, azzerato da una campagna elettorale one-man-show e ora di nuovo dilaniato dalle divisioni. La maggioranza di Renzi non esiste, né sui territori né nel Paese e forse neppure in Parlamento. La minoranza Pd nella società italiana è ininfluente. Il partito ridotto a comitato elettorale dell’americano Jim Messina, il guru che ha fatto perdere tutti i suoi clienti, ha perso ogni contatto con la realtà”. La marmaglia che ha circondato Renzi nel suo governo continua a blaterare di un 40% di votanti che lo avrebbero sostenuto per poi sostenerlo ancora in futuro. Nossignori, la maggioranza silenziosa che vi ha dato il voto per paura o per abulica fedeltà già non vi appartiene più e alla prossima tornata elettorale questo Pd difficilmente raggiungerà un risultato a due cifre.

6) La richiesta di una nuova stretta alla Legge di Bilancio da parte della commissione europea e i possibili diktat della BCE. Già, come se fosse una novità. Il pretesto sbandierato dal 2011 in avanti per tagliare i diritti dei lavoratori, il servizio sanitario, l’istruzione e peggiorare le condizioni di vita e di lavoro della maggioranza degli Italiani è operativo da cinque anni ormai e ha quasi smesso di fare paura. Continua a funzionare come giustificazione in alto, ma non altrettanto in basso. Il voto lo ha ampiamente dimostrato.

Certo, il cammino è ancora lungo, ma il sintomo di una ripresa di opposizione dal basso c’è stato in maniera evidentissima. Lo scontro infinito con l’impero finanziario e capitalistico è ricominciato e, anche se la finestra appena aperta potrebbe rapidamente rinchiudersi, sarebbe necessario non lasciarsi sfuggire l’occasione di rappresentare un’alternativa all’esistente. Un primo picchetto è stato piantato. Proviamo ora a delineare un tracciato che non ripeta gli inutili errori e gli esempi funesti del passato. E, anche se l’uomo di fumo ha pregato gli zombi di rimanere in sella ad un azzoppatissimo cavallo ancora per qualche giorno, non è detto che la partita non possa riaprirsi già fin dalle prossime ore.


  1. Vedasi in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2014/02/06/il-capotreno-trenitalia/  

  2. Si veda in proposito l’analisi dell’Istituto Cattaneo proposta in queste ore dall’Huffington Post: http://www.huffingtonpost.it/2016/12/05/cattaneo-referendum-voto-esclusi_n_13430786.html?1480960462&utm_hp_ref=italy  

  3. Giovanni Pons, https://it.businessinsider.com/mps-attende-il-referendum-ma-matteo-renzi-si-affida-a-jp-morgan/  

  4. “Le otto banche a rischio citate dal Ft sono: una grande (Monte Paschi), tre medie (Popolare Vicenza, Veneto Banca,Carige), e le quattro piccole banche che sono già state salvate nei mesi scorsi (Banca Etruria, Carichieti, Banca delle Marche e Cariferrara)” in
    http://www.ilgiornaledivicenza.it/territori/vicenza/financial-times-se-vince-il-no-8-banche-a-rischio-1.5314920  

  5. Si veda l’interessantissimo testo pubblicato da Nottetempo: Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, 2016 che sarà recensito su Carmilla la settimana prossima  

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Fuori dal tunnel: cattivi e primitivi https://www.carmillaonline.com/2016/11/09/dal-tunnel-cattivi-primitivi/ Wed, 09 Nov 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34410 di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, [...]]]> di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, per il filosofo, sociologo e semiologo francese “di uno scontro quasi antropologico tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi campo, conserva qualche tratto di un’alterità irriducibile”.

Anche se queste parole erano state scritte a seguito di una riflessione sull’allarme suscitato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, col passare del tempo è diventato sempre più evidente che le interpretazioni dei conflitti sociali e di classe date nel corso del ‘900 non sono più in grado di per sé di spiegare le dinamiche sottostanti ai movimenti reali che si oppongono all’attuale modo di produzione e di dominio e, ancor meno, di determinarne tattiche e strategie.

E’ un intero sistema di categorie e di ideologie che è in qualche modo fallito.
Le promesse implicite nel modello di sviluppo proposto dal capitalismo, in tutte le sue varianti occidentali e asiatiche oppure liberali o stataliste, hanno dimostrato la labilità e la fallacia dei loro presupposti, finendo però col riversare il proprio fallimento anche su tutte quelle ideologie che pur facendo del capitalismo l’obiettivo delle proprie critiche hanno comunque finito con il non abbandonarne i presupposti paradigmatici e continuato a condividerne nell’immaginario lo stesso territorio politico. Inclusa gran parte del marxismo, sia eretico che ortodosso.

Lo sviluppo, l’ampliamento della produzione industriale, il benessere legato al consumo di massa, sia di servizi che di beni materiali o immateriali, non solo non sono stati alla reale portata di tutti, ma anche là dove, pur in forme diverse, più ci si è avvicinati a tale obiettivo (Europa, USA, Giappone), tali valori paradigmatici e condivisi hanno mostrato la loro fragilità temporale, la loro vacuità e la loro sostanziale dannosità, ideologica e ambientale, trasformando un sorriso di rassegnata soddisfazione nel sogghigno squarciato del Joker.

In altre parole: i presupposti dell’espansione capitalistica e delle sue meraviglie sono venuti a mancare o, per lo meno, hanno mostrato non solo come queste fossero destinate ad una cerchia sempre più ristretta di investitori/sfruttatori, ma anche come tale gioco al rialzo (più investimenti, più produzione, più ricchezza per tutti, più investimenti, etc.) non fosse altro che un mantra ipnotico e devastante per la maggioranza della specie umana, sia in termini di realizzazione individuale che sociale.

Insomma se la visione socialista del mondo, sia nella sua variante socialdemocratica e riformista che in quella rivoluzionaria, è in qualche modo superata, lo è non perché è fallito il socialismo reale o perché una miriade di partiti e formazioni di sinistra ed ultra-sinistra è stata progressivamente sconfitta e/o riassorbita dall’avversario, ma piuttosto per il fatto che il loro presupposto storico-politico non si discostava troppo da quell’idea di progresso, di organizzazione politica partitica e di sviluppo che condivideva con il nemico a partire fin dall’Illuminsimo e dalle due grandi rivoluzioni del XVIII: quella francese e quella industriale. Progresso e sviluppo senza fine e al di là di ogni confine.

Che con la globalizzazione economico-finanziaria sembravano aver raggiunto il loro apice, ma che, con le attuali vittorie, per non dire trionfi, dei cosiddetti populismi dalla Brexit a Trump,1 vedono invece detonare tutte le loro contraddizioni in maniera asimmetrica e nel cuore del sistema. Movimenti sismici che sembrano trasmettere onde telluriche sempre più vicine e apparentemente imprevedibili, destinate a frantumare le certezze sia dei sostenitori dell’espansione basata sulla speculazione finanziaria e bancaria (da Renzi alla Clinton2) che di un antagonismo sociale talvolta ancora radicato in un immaginario politico che, come nel caso di “Born In The USA” di Springsteen per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti appena conclusasi, giova ormai di più alla causa della conservazione che a quella del superamento dell’attuale modo di produzione.

Per tutti questi motivi l’alterità irriducibile di un movimento come quello No Tav sviluppatosi nella e a partire dalla val di Susa, ormai da più di 25 anni, non può essere facilmente irreggimentata nelle interpretazioni classiche della sociologia e delle ideologie politiche. Infatti, anche se la componente anti-capitalista e ambientalista è sicuramente forte, è altrettanto vero che molti altri aspetti (locali, individuali, storici, geografici e culturali solo per ricordarne alcuni) concorrono a determinarne le caratteristiche e la combattività.

Non a caso due delle più recenti ed interessanti opere uscite nel corso degli ultimi mesi sono state pubblicate una, quella di Meltemi, nella collana Biblioteca/Antropologia e l’altra, quella di Ombre Corte, nella nuova collana Etnografie. Scelte non tanto determinate dagli editori quanto dalle metodologie utilizzate e rivendicate dai due autori per analizzare la forza e la capacità di resistenza, sviluppo ed offensiva dimostrate dal tale movimento nel corso degli anni.

Entrambi i testi si pongono, infatti, in una dimensione altra rispetto alla semplice rievocazione dei fatti e delle lotte oppure della ricostruzione delle vicende politico-economiche che hanno portato alla scelta e all’autentica truffa della realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci che proprio nella val di Susa doveva transitare.
Non siamo di fronte ad una semplice, per quanto ricca, oral history3 né, tanto meno, ad una appassionante ricostruzione della dialettica conflittuale venuta a realizzarsi tra lotte del Movimento e decisioni mafiose, imprenditoriali e governative.4

Una delle principali caratteristiche di tale movimento è infatti quella che vede, al di là delle simpatie e delle celebrazioni nei suoi confronti manifestatesi sia dentro che fuori i confini nazionali, il forte radicamento sociale e territoriale dei suoi militanti e delle loro ragioni porsi ben al di là dei normali limiti politici, sindacali, generazionali e di classe che hanno spesso determinato le caratteristiche dei movimenti del ’900.

Un movimento che non solo, come tutti i grandi rivolgimenti sociali della storia, ha prodotto una nuova cultura, nuovi valori, una nuova visione dei rapporti umani e politici, una nuova concezione di quelle che dovrebbero essere le scelte ambientali ed economiche, ma anche, e soprattutto, una irriducibile volontà di resistere per costruire una differente comunità umana.
Una comunità che oltre a riprendersi lo spazio intende, come afferma Wu Ming 1 in una delle più felici intuizioni del suo ultimo libro, riprendersi il tempo. Non poi, non dopo la fine della lotta e la vittoria, ma subito. Qui, ora e adesso. Dove spazio e tempo coincidono, come la fisica contemporanea ci ha da tempo avvisati.

fuori-dal-tunnel Come questo sia diventato possibile, nel corso dei venticinque anni di lotta in cui tale movimento si è dispiegato, non può essere soltanto una vecchia lettura politica a spiegarcelo; così l’antropologo Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, si sforza di penetrare il segreto di tale efficace resistenza creativa attraverso interviste e testimonianze raccolte sul campo che, più che elencare ancora una volta eventi e ragioni che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora la lotta, sono destinate a rivelarne l’intrinseca esperienza umana e comunitaria. Con i propri riti, le proprie narrazioni e le proprie riflessioni, individuali e collettive.

Scrive Aime: “A differenza dei movimenti di protesta del recente passato, quelli attuali non si costituiscono nella classica forma di partito, né cercano alleanze con i partiti esistenti, ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, vengono avversati dai partiti istituzionali, tanto di destra quanto di sinistra. E’ il caso del No-Tav, ma anche di altre realtà antagoniste simili.
Se in passato un movimento di protesta veniva in qualche modo accolto da una parte politica e le sue rivendicazioni trovavano una sponda istituzionale, oggi non è così o almeno non lo è nella stessa misura […] Destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, sono divenuti leggere sfumature di un modello pressoché consolidato, fondato sul profitto, che richiede un consenso generale di chi governa e in cui etica, ideali e valori non trovano più spazio. Come non trova più spazio riconosciuto la communitas […] La communitas in quanto anti-struttura ha il fondamentale compito di fungere da contrappeso al modello dominante. Quando tale contrappeso viene a mancare, il rischio è un senso di soffocamento, di oppressione tipico di una realtà mono-dimensionale, che progressivamente si chiude su se stessa […]Il caso della valle di Susa diventa allora paradigmatico di una comunità che propone un’alternativa e che la difende per oltre venticinque anni contro un fronte istituzionale quasi unanime formato da forze politiche tradizionalmente rivali tra di loro, ma accomunate da una identica visione che privilegia lo “sviluppo” e l’economia letti in un’ottica macro rispetto alle esigenze locali. Visto in una cornice più ampia il movimento no-tav esprime un disagio piuttosto diffuso nei confronti di un modello economico sempre più dominato da interessi ristretti, da una sempre minore redistribuzione e da un sempre maggiore attacco all’ambiente. Un disagio che il movimento è riuscito a organizzare in protesta e in proposta.
” (pp. 285-290)

Ecco allora che il titolo del testo, Fuori dal tunnel, ci dice molto, perché qui non si tratta più di analizzare ciò che accade nello scavo e per la realizzazione della “Grande opera di importanza strategica” ma, piuttosto, la proposta di uscita dal tunnel senza sbocco in cui l’attuale modo di produzione si è infilato, abbagliato soltanto dalle logiche del profitto e del dominio incontrastato.
Fuori dal tunnel , però, anche per l’attenzione che la vita comunitaria del Movimento merita, così come la meritano le riflessioni dei suoi militanti.

Io sono passato dal considerare il nemico e il combattere noi contro di loro a combattere me stesso, sono o il nemico, perché con le mie scelte e abitudini ho contribuito a creare il tessuto sociale per questo mostro che è nato e vive di vita propria nella totale indifferenza delle popolazioni, a causa di milioni di persone che hanno comportamenti che favoreggiano questa cosa5

Più volte, nelle conversazioni con attivisti No-Tav delle manifestazioni, mi sono sentito dire rasi del tipo: «In fondo ci si diverte anche». E questa è un’altra cifra caratteristica di questo movimento ed è un ulteriore dato che conferma la dimensione di communitas, perché l’ironia è una delle forme di comunicazione tipiche delle antistrutture. Gli scherzi, le battute, il sarcasmo hanno l’effetto di sovvertire la struttura dominante delle idee. «Il riso e gli scherzi, attaccando la classificazione e la gerarchia, sono ovviamente simboli atti a esprimere la comunità nel senso di rapporti sociali non gerarchizzati e indifferenziati» scrive Mary Douglas.6 Insomma, il burlone alleggerisce per tutti l’oppressività della realtà sociale, facendo piazza pulita del formalismo in generale.” ( pag. 157)

Come anche la lotta condotta da alcuni militanti contro i provvedimenti disciplinari presi nei loro confronti dalla Procura di Torino, e la vicenda di Nicoletta Dosio in particolare, ben testimoniano.
Rimane comunque il problema del tentativo in atto da parte delle istituzioni statali, forse unico nella storia delle lotte degli ultimi decenni in Italia, di criminalizzare un’intera comunità: quella della bassa val di Susa.

Osserva ancora Aime: ”Ogni conflitto nasce da una relazione ed è qui che nasce il pensiero relativista; dalla possibilità di conoscere ed eventualmente riconoscere la differenza. Laddove questo conflitto viene impedito o negato ci troviamo di fronte all’imposizione di un’unica verità dogmatica, che non prevede alternative, né spazi di traducibilità.
La mancanza di alternative possibili o ipotizzabili è a un tempo causa ed effetto di un’operazione di chiusura. Se ciò che pensiamo è il vero e l’assoluto, allora non esiste possibilità di declinarlo in altri modi, non sono possibili altri mondi, altre realtà. Pensando in questo modo, ci isoliamo da, impedendo l’accesso a chiunque sia portatore di cambiamento. Se poi quel qualcuno è tra noi, va espulso o messo a tacere.
” (pag.287)

cattivi-e-primitivi Proprio di questo aspetto repressivo di espulsione, reclusione e silenziamento del Movimento No Tav e dei suoi militanti si occupa invece il testo di Alessandro Senaldi edito da Ombre Corte. Ricercatore indipendente nel campo della sociologia della devianza e del mutamento sociale, impegnato nello studio criminologico dei movimenti sociali, l’autore, nell’affermare l’importanza scientifica del Movimento No Tav, dichiara che: “Il movimento in questione trova la sua particolarità nella sua storia e nei risultati raggiunti. Nato come movimento territoriale all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha saputo cambiare pelle con il mutare del tempo, adattandosi alle diverse fasi che la storia gli imponeva e bloccando, di fatto, la realizzazione dell’opera. Dopo venticinque anni dalla sua «fondazione» il dato che ci viene consegnato è quello di un movimento ancora in salute, che non ha pari nel nostro paese per costanza e quotidianità di iniziativa. Proprio la sua intergenerazionalità lo rende particolarmente interessante, in quanto, col tempo, ha assunto un ruolo totalizzante nel contesto valsusino, implementando una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie. Un movimento che orienta e accudisce le giovani generazioni, le fa crescere ed infine le conduce fino alla propria uscita dalla scena. Un movimento che si inscrive e sovrappone all’esperienza esistenziale dei singoli, arricchendola e fornendogli una nuova dimensione ontologica.” (pp. 7-8)

Per questi motivi si rivela particolarmente utile l’uso del metodo etnografico, proprio per analizzare sia le strategie e i discorsi messi in atto dalla compagine istituzionale per realizzare l’opera e fronteggiare il movimento che vi si oppone sia quelle messe in atto dalla controparte.
L’etnografia per Senaldi è una necessità: “La scelta del metodo etnografico è stata una scelta «dovuta». Quest’ultimo ha infatti peculiarità proprie, che ben si prestano allo studio dei diversi temi affrontati nella ricerca. Inoltre consente di muoversi con una certa libertà all’interno delle maglie strette del paradigma scientifico, in quanto respinge la formulazione rigida e preconcetta di teorie e fa procedere queste ultime di pari passo con la ricerca; favorisce peraltro l’impiego di un approccio trans-disciplinare che abbatte i confini tra aree di conoscenza.” (pp. 8-9)

Scelta che deriva oltre che dal percorso biografico e dalla militanza pluriennale all’interno del movimento No Tav del ricercatore, anche dal fatto che, come già affermava Danilo Montaldi,7 nel metodo etnografico “è possibile ritrovare espliciti fini «etico-politici». Questo perché «gli angoli visuali incidono in modo detrminante sulla rappresentazione, sulla narrazione e sulla creazione stessa della realtà».8 Questa considerazione è ben riferibile al caso della vicenda Tav, in cui vi sono almeno due divisioni diverse della «realtà dei fatti»: quella narrata dai diversi livelli di potere e quella del movimento che si oppone alla realizzazione dell’opera. La scelta metodologica è quindi determinata dalla necessità di fare emergere il punto di vista del movimento No Tav, le sue pratiche, le sue rappresentazioni e narrazioni; oltre che dall’occasione di «documentare l’esperienza di soggetti sociali trascurati dalla storiografia e dalla ricerca sociale».9 In sostanza «dar voce a chi voce non ha»”. (pag. 9)

Anche nel caso del testo edito da Ombre Corte, il titolo è rivelatore: Cattivi e primitivi. Due termini che riassumono inequivocabilmente l’immagine che i fautori delle Grandi Opere vogliono dare di coloro che a tali opere si oppongono.
Cattivi perché dannosi per gli interessi della Nazione e primitivi perché inadeguati e impreparati per le meraviglie della modernità. Tutto sommato un giudizio che accomuna i valsusini, ma anche tutta la storia dei movimenti di classe e anti-sistemici più radicali, a tutti quei popoli espulsi dalla Storia con la violenza della modernità.

La Storia, lo si sa, la scrivono i “buoni” e i “progressisti”; gli altri resteranno sempre tra i popoli senza storia o tra i vinti perché cattivi o inutili. Ma ciò che ha funzionato per secoli non è detto che debba funzionare obbligatoriamente ancora in futuro. Il mantra del cambiamento istituzionale, dal “Sì” al Referenduma alla TAV, ormai traballa insieme a tutto il sistema che li ha ideati e non ancora prodotti, mentre la partita è ancora tutta da giocare. Però su un campo di gioco e con regole totalmente differenti, come potrebbero dire i killer di Pulp Fiction ideati da Quentin Tarantino.

La ricerca di Senaldi si riferisce, principalmente, ad un periodo di osservazione e partecipazione ad iniziative, eventi, vita quotidiana, lavori e pratiche giornaliere riconducibile all’estate del 2013.
La parte centrale del mio lavoro è rappresentato da interviste non strutturate. Più precisamente ho raccolto delle «interviste in profondità» che cercavano di indagare la ricostruzione che gli attivisti danno dei dispositivi di controllo implementati, le dimensioni motivazionali e i mutamenti biografici e relazionali delle persone che partecipano alla lotta.” (pp. 9-10)

Grazie a tale metodo, ne deriva un coro di voci anonime, ma autentiche che delineano collettivamente le scelte, i discorsi e le strategie del movimento nel suo insieme. Fungendo così da perfetto contraltare al discorso e alle pratiche repressive istituzionali.
Non ci sono categorie di No Tav che non siano soggetti a tali pratiche poliziesche, e non si tratta di un provvedimento riguardante solo gli attivisti più duri. Durante la mia permanenza ho avuto modo di dialogare con alcuni attivisti appartenenti al gruppo «Cattolici della Valle», che, ridendo, mi hanno fatto notare come, essendo quelli che visitano più spesso il cantiere, andando a pregare lì ogni mattina, sono conseguentemente quelli più schedati e fermati dalle FF.OO. Qui […] pur essendo mantenute – soprattutto dal punto di vista pubblico – le pratiche discorsive di discernimento tra «buoni» e «cattivi», si assiste tuttavia a un evidente cortocircuito nel rapporto tra queste ultime e le pratiche del controllo poliziesco. Sarebbe a dirsi che nell’attacco a tutto campo delle tattiche antagoniste in questione, ritroviamo nuovamente la volontà di applicare una reductio ad unum del controllo ed estendere così lo status di non cittadini.” (pag.127)

Si dimostra in tal modo perché, così come gli antropologi che compiono ricerche sul campo in ambienti lontani dalle pratiche del mondo civilizzato oppure da quest’ultimo relegati al di fuori della legalità e del suo riconoscimento giuridico devono fare, oggi chi si occupa di lotte realmente antagoniste è altrettanto costretto a studiare il suo soggetto come “altro” dalla società che lo ha prodotto e che pur combatte, riportando il discorso su quella irriducibile, e andrebbe aggiunto inevitabile, alterità di cui si è parlato all’inizio di questa lunga recensione.

Alterità che, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi galoppini mediatici ed ideologici, non può e non vuole essere relegata in una sorta di “riserva indiana”, come forse anche qualche benpensante democratico vorrebbe intendere la lotta No Tav nel suo contesto. Anche perché, nonostante gli sforzi imponenti, “Anche sul versante giuridico, come su tutti gli altri livelli, il dispositivo sembra però in affanno. La sensazione è che la compagine istituzionale stia, rispetto ai soli confini geografici della Valle, tentando l’applicazione casuale dei dispositivi di controllo disponibili, attraverso un procedimento che potremmo definire di «trial and error». Un procedimento per il quale – anche a seconda delle fasi evolutive della lotta – gli attori preposti al governo della popolazione e al suo controllo affiancano ai dispositivi volti al disciplinamento (accumulando saper sulla società) quelli miranti alla neutralizzazione e all’espulsione dei non cittadini, insieme a tattiche di polizia e giudiziarie che puntano invece alla deterrenza. Questo affanno, questo tentativo di usare tutti i mezzi possibili dimostra la difficoltà che la compagine istituzionale avverte nel controllare e leggere la conflittualità sociale.” (pag. 160) Che, aggiungerei, non vuole e non sa più leggere finendo col credere soltanto più nel proprio discorso: farsesco e fuorviante allo stesso tempo.

contrees Due ottimi libri, interessanti e documentatissimi, per comprendere e andare oltre le letture ormai “istituzionalizzate” di uno dei movimenti più vivaci ed innovativi della realtà europea contemporanea. Mi permetto però, e soltanto a questo punto, di suggerire che, per capire a fondo le trasformazioni in atto nelle lotte più significative, sarebbe necessario anche la traduzione in lingua italiana dell’inchiesta parallela condotta attraverso cinquanta interviste a militanti NO Tav italiani e ad altri cinquanta militanti francesi della Zad di Notre-Dame-des-Landes, prodotta ed edita dalle compagne e dai compagni del Colletivo Mauvaise Troupe: Contrées. Histoire croisées dela zad et de la lutte No TAV dans la Val Susa, Éditions de l’éclat 2016, pp.412


  1. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

  2. Sulla scarsa credibilità elettorale e sull’inevitabile sconfitta della candidata democratica si veda ancora il mio https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  3. Come quella già efficacemente prodotta a cura del Centro sociale Askatasuna: A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav, DeriveApprodi 2013  

  4. Come nel caso dell’ultimo testo di Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi Stile Libero 2016  

  5. cit . in Aime, pp. 205-206  

  6. M. Douglas, Antropologia e simbolismo, il Mulino, Bologna 1985, pp. 76, 88  

  7. D. Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971  

  8. Gianfranco Carofiglio, L’arte del dubbio, Sellerio Editore 2007, pag. 15  

  9. Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza 2002, pag.XXXII  

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Voto Spericolato https://www.carmillaonline.com/2016/07/03/voto-spericolato/ Sun, 03 Jul 2016 21:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31608 di Alessandra Daniele

votoRiceviamo e pubblichiamo un’importante delibera UE:

In seguito al tragico risultato del referendum che ha sancito la dipartita della Gran Bretagna, l’Unione Europea ha deciso di dotarsi d’uno strumento del quale si discute da tempo, aggiornato apposta per prevenire il verificarsi di ulteriori disastri analoghi: la Licenza di Voto. A partire dalla sua contemporanea introduzione in tutti i paesi dell’Unione, per accedere al voto bisognerà innanzitutto frequentare un corso triennale di Economia e Finanza, condotto in Italia dal professor Mario Monti. Al termine del corso, l’elettorando dovrà superare un esame che [...]]]> di Alessandra Daniele

votoRiceviamo e pubblichiamo un’importante delibera UE:

In seguito al tragico risultato del referendum che ha sancito la dipartita della Gran Bretagna, l’Unione Europea ha deciso di dotarsi d’uno strumento del quale si discute da tempo, aggiornato apposta per prevenire il verificarsi di ulteriori disastri analoghi: la Licenza di Voto.
A partire dalla sua contemporanea introduzione in tutti i paesi dell’Unione, per accedere al voto bisognerà innanzitutto frequentare un corso triennale di Economia e Finanza, condotto in Italia dal professor Mario Monti.
Al termine del corso, l’elettorando dovrà superare un esame che consisterà in una prova teorica scritta e orale, e una prova pratica durante la quale dimostrarsi capace di riconoscere fra una serie di opzioni politiche quella più idonea a a favorire lo sviluppo economico e l’integrazione europea.
L’aspirante elettore dovrà inoltre esibire un certificato di sana e robusta costituzione fisica e mentale completo di mappatura del DNA, e dimostrare di poter disporre d’un reddito o una rendita sufficienti a garantire che non sia vulnerabile alla lusinghe del voto di scambio.
Una volta ottenuta la licenza, l’elettore sarà tenuto a votare secondo le regole comunitarie.
Fra le altre, saranno sanzionate le seguenti infrazioni:
Eccesso di velocità: voto espresso impulsivamente senza adeguata riflessione sulle implicazioni finanziarie.
Divieto di sosta: astensione non utile ad annullare un referendum dannoso per l’economia.
Senso vietato: voto contrario alle direttive europee.
In caso di voto spericolato, cioè fortemente lesivo della stabilità dei mercati, sì passerà al ritiro della licenza.
Sarà impossibile ottenerne la restituzione dopo tre infrazioni, e il rinnovo dopo i settant’anni.
In caso di esercizio abusivo di voto, cioè voto senza licenza, scatterà l’arresto immediato.
Sarebbe inutile però selezionare gli elettori senza selezionare i candidati.
Setacciare gli elettori più competenti, e farli poi scegliere fra candidati incompetenti.
Anche per essere eletti quindi occorrerà una licenza analoga. Naturalmente tutte le specifiche dei requisiti saranno più alte, in particolare il reddito o la rendita, che dovranno essere a prova di corruzione.
Oltre al diritto d’essere eletti senza limiti d’età, la Licenza di Voto Premium fornirà anche quello d’esprimere più d’un voto alla volta, e di aggiungere pareri su composizione e durata del governo.
Il numero di voti che sarà possibile esprimere dipenderà dalle fasce di reddito. Gli appartenenti alla fascia più alta potranno accedere a una Licenza di Voto Premium Gold che darà diritto a essere eletti direttamente premier, e ribaltare a proprio favore il risultato di qualunque referendum tenuto negli ultimi tre anni.

Questa democrazia a fasce, cioè fascista, sostituirà la democrazia vecchio stile, che va rottamata perché s’è dimostrata gravemente inadeguata alle esigenze del mercato e dello sviluppo economico.
Dopotutto è stata inventata dai greci, e s’è visto che fine hanno fatto.

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In and Out https://www.carmillaonline.com/2016/06/27/in-and-out/ Mon, 27 Jun 2016 13:26:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31529 di Alessandra Daniele

brexit4S’è svolto ieri il 142º referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ancora una volta ha vinto il Leave, con una percentuale del 96%. “Non vale – ha dichiarato il premier britannico – C’era traffico. Il portiere s’è mosso in anticipo. La prof aveva detto che spiegava. C’era la batteria scarica. La nipote di Mubarak. Le cavallette!” Il 143º referendum si svolgerà come di consueto domenica prossima.

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di Alessandra Daniele

brexit4S’è svolto ieri il 142º referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ancora una volta ha vinto il Leave, con una percentuale del 96%.
“Non vale – ha dichiarato il premier britannico – C’era traffico. Il portiere s’è mosso in anticipo. La prof aveva detto che spiegava. C’era la batteria scarica. La nipote di Mubarak. Le cavallette!”
Il 143º referendum si svolgerà come di consueto domenica prossima.

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Cesare e i Britanni https://www.carmillaonline.com/2016/06/26/cesare-e-i-britanni/ Sun, 26 Jun 2016 21:22:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31499 di Alessandra Daniele

beltorax“Un politico che non conosce il suo paese non merita di governarlo” ha sentenziato Ivan Scalfarotto a Omnibus. Si riferiva a David Cameron e alla Brexit, ma in realtà questo epitaffio s’adatta perfettamente anche a Matteo Renzi. Come Cameron, Renzi s’è giocato la carriera su un referendum, e come Cameron merita di essere sconfitto. I rintocchi del Big Ben scuotono quindi un’oligarchia politico finanziaria che lo merita ampiamente, il De-Cameron però, le dimissioni annunciate del porcofilo premier sono l’unico vero effetto positivo della Brexit per i britanni, che ansiosi di liberarsi di Cesare, ma anche delle presunte “invasioni barbariche”, alla fine [...]]]> di Alessandra Daniele

beltorax“Un politico che non conosce il suo paese non merita di governarlo” ha sentenziato Ivan Scalfarotto a Omnibus. Si riferiva a David Cameron e alla Brexit, ma in realtà questo epitaffio s’adatta perfettamente anche a Matteo Renzi.
Come Cameron, Renzi s’è giocato la carriera su un referendum, e come Cameron merita di essere sconfitto.
I rintocchi del Big Ben scuotono quindi un’oligarchia politico finanziaria che lo merita ampiamente, il De-Cameron però, le dimissioni annunciate del porcofilo premier sono l’unico vero effetto positivo della Brexit per i britanni, che ansiosi di liberarsi di Cesare, ma anche delle presunte “invasioni barbariche”, alla fine della procedura di cancellazione del loro account UE rischiano di ritrovarsi ad avere soltanto scambiato una serie di accordi commerciali antipopolari fra partners UE con un’altra serie di accordi commerciali antipopolari fra UE e GB, e come il Numero 6 nel finale di The Prisoner accorgersi che la fuga è illusoria finché il potere politico-economico resta nelle solite mani.
I democratici che in questi giorni invocano l’abolizione del suffragio universale, e il nostrano finanziamento ai partiti trasformato in “rimborso elettorale” dimostrano quanto poco Cesare sia incline a rispettare nei fatti il risultato di un referendum popolare.
Magari si sta già elaborando un nuovo status ad hoc per la Gran Bretagna: “Concorso Esterno in Unione Europea”.
Intanto però mentre a Bruxelles si discute, Roma viene espugnata.
Tre mesi fa sembrava ancora che nessuna delle opposizioni volesse vincere queste comunali, per paura di dover poi rimpiazzare il Cazzaro al governo troppo presto, prima d’avere una leadership convincente, una solida maggioranza, la possibilità di durare e non essere bruciati subito nel microonde dell’emergenza facendo la fine di Letta, e dello stesso Renzi.
Poi Renzi ha designato il referendum istituzionale come suo Armageddon, la Valle dell’Ultima Battaglia, suggerendo così che il suo governo sarebbe comunque sopravvissuto a una sconfitta alle comunali, o meglio sarebbe rimasto in carica anche da zombie (almeno finché i transfughi berlusconiani non avranno interesse a scatenare il loro Alfageddon).
Questo ha liberato le mani al Movimento 5 Stelle, ma non a Berlusconi, rimasto legato al governo Renzi dal destino delle sue aziende.
Così, mentre Berlusconi sabotava la destra silurando Mamma Roma Meloni e schierando a Milano un sosia di Ratman, il M5S ha giocato per vincere e ha vinto, approfittando delle comunali per collaudare la sua Next Generation appena sbucata dalla stampante 3D, e riuscendo in tutto quello che il Cazzaro aveva tentato e fallito sul piano dell’immagine per accreditarsi come l’unica speranza di rinnovamento possibile.
Il governo di Roma e Torino però potrebbe essere altrettanto logorante per il M5S quanto quello nazionale.
La Città Eterna in particolare ha da sempre l’oscuro potere di convertire alla romanità anche i barbari più veraci. Figuriamoci quelli virtuali.
Per anni il Movimento 5 Stelle non ha fatto che rastrellare consenso e metterlo in frigorifero, come se questo fosse il suo unico vero compito. Adesso gli toccherà buttarlo nella fornace capitolina, rischiando di bruciarselo tutto in una sola fiammata.
Alea iacta est.

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Outsiders vs. Establishment? https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/ Fri, 24 Jun 2016 20:00:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31312 di Sandro Moiso

Trump_cover Andrew Spannaus, Perché vince Trump, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 106 pagine, € 10,00

Andrew Spannaus, esperto di macroeconomia e geopolitica di origine americane, vive ormai da 18 anni in Italia e negli ultimi anni è spesso intervenuto nella discussione sulle cause e le conseguenze della crisi economico-finanziaria. Nell’istant book appena pubblicato da Mimesis, nella collana “Il caffé dei filosofi”, egli affronta in maniera agile e concisa il tema delle attuali elezioni presidenziali americane dedicando particolare attenzione ai motivi che hanno fatto sì, da un lato, che Donald Trump sia diventato il candidato repubblicano alla Casa [...]]]> di Sandro Moiso

Trump_cover Andrew Spannaus, Perché vince Trump, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 106 pagine, € 10,00

Andrew Spannaus, esperto di macroeconomia e geopolitica di origine americane, vive ormai da 18 anni in Italia e negli ultimi anni è spesso intervenuto nella discussione sulle cause e le conseguenze della crisi economico-finanziaria.
Nell’istant book appena pubblicato da Mimesis, nella collana “Il caffé dei filosofi”, egli affronta in maniera agile e concisa il tema delle attuali elezioni presidenziali americane dedicando particolare attenzione ai motivi che hanno fatto sì, da un lato, che Donald Trump sia diventato il candidato repubblicano alla Casa Bianca e, dall’altro, il relativo successo di Bernie Sanders nei confronti dell’attuale candidata democratica, e tutt’altro che sicura del successo nella corsa elettorale, Hillary Clinton.

Nell’analizzare le due “sorprese” della campagna elettorale svoltasi negli Stati Uniti nel corso degli ultimi mesi, Spannaus fa largo uso dell’aggettivo “outsiders” ovvero esclusi, almeno potenzialmente, e da qui fa derivare un’analisi, non sempre scontata, della società americana che li ha votati e che, allo stesso tempo, ha davvero escluso altri candidati dati per favoriti (all’interno del Partito Repubblicano) oppure limitato il successo di colei che vorrebbe ammantarsi del titolo di prima donna alla Presidenza degli U.S.A.

I due outsider settantenni di cui si parla non potrebbero essere, tra di loro, più dissimili: fascistoide, razzista, misogino il primo e dichiaratamente socialisteggiante il secondo. Ancora, mentre il primo è “un immobiliarista e star della televisione che predilige la provocazione e l’insulto per attirare attenzioni su di sé”, il secondo è “un vecchio attivista di sinistra che si batte da decenni per l’uguaglianza e contro le discriminazioni”. Eppure alla base del voto, sostanzialmente di protesta, che li avvicina ci sono elementi che affondano le radici nella stessa crisi economica e sociale che accomuna, di fatto da anni, le differenti componenti della società americana bianca dalla middle class in giù.

La prima comunanza tra i due outsider è data dal necessario rovesciamento del discorso politico operato da entrambi nei confronti dei discorsi ufficiali e ormai pluridecennali condotti dai loro rispettivi partiti. Tanto, infatti, il Partito Repubblicano e quello Democratico hanno difeso la liberalizzazione dei mercati e dei servizi, con tutta la relativa pletora di azioni destinate a dare alle banche (e alla finanza) sempre più libertà di iniziativa e di speculazione, tanto i due candidati indicano in Wall Street la fonte principale dei mali che attanagliano l’economia e la società americana.

Questo tema, e lo vedremo meglio in seguito, accompagna il dibattito economico e politico americano, anche a livello di classe dirigente, da molto tempo. “Da sempre esiste un conflitto interno agli Stati Uniti, tra la fazione più liberista, spesso alleata della vecchia potenza imperiale, la Gran Bretagna, e i nazionalisti che hanno utilizzato strumenti statali per avviare grandi periodi di progresso economico e sociale, da Alexander Hamilton ad Abramo Lincoln, da Franklin fino a Delano Roosevelt.1 Da circa quarant’anni, si può affermare senza paura di essere smentiti che la fazione liberista sta vincendo. Il modello del New Deal di Roosevelt è stato gradualmente smantellato, ed entrambi i grandi partiti hanno accettato la mentalità dei tagli al bilancio pubblico e del ruolo importante – spesso più importante dello stesso Governo – della finanza di Wall Street “ (pag. 59)

La conseguenza materiale, però, di tali scelte è stata che “in tutto questo la classe lavoratrice come esisteva nel periodo del dopoguerra ha infine pagato buona parte del conto. La divisione economica in atto vede consolidarsi una classe benestante che copre il 25-30% della popolazione; dall’altra parte c’è la maggioranza degli americani che non solo non fa progressi nelle sue condizioni, ma spesso va addirittura indietro.

È indubbio che oggi quasi tutti abbiano la possibilità di acquistare un numero considerevole di beni di consumo, soprattutto elettronici, dai televisori ai telefonini. Quando si parla di posizione economica però bisogna considerare quanto si lavora per ottenere quello che si ha; e le statistiche di lungo termine non sono confortanti. In media il potere d’acquisto reale della popolazione, quindi corretto per l’inflazione, è pressoché uguale a quello del 1979.
Cioè quello che si riesce a comprare con lo stipendio è rimasto uguale, in media, da 35 anni. In termini monetari, per eguagliare uno stipendio di 4,03 dollari all’ora del 1973, occorrono 22,41 dollari all’ora oggi. Le fasce più alte del Paese superano tranquillamente questa cifra; la classe media e bassa invece no. Infatti, il potere di acquisto reale della popolazione è rimasto uguale in media, il che significa che per alcuni settori della forza lavoro le cose vanno anche peggio.
Per dare un esempio, dal 2000 il 10% più ricco della popolazione ha visto un aumento del 9,7% della propria capacità di spesa; il 25% più povero invece ha visto una diminuzione del 3%. Per metterla in altri termini, si può calcolare il tempo che occorre lavorare per avere un certo tenore di vita. Ci sono studi che dimostrano che già tra gli anni Settanta e gli anni Novanta è aumentato enormemente il numero di stipendi necessari per acquistare certi beni primari: la casa, l’automobile, la lavatrice. Oggi si hanno più cose, ma bisogna lavorare di più per avere quello che si ha.
” (pp. 60 -61)

Accade così che, nell’affrontare il problema, entrambi i candidati finiscano con il puntare il dito sulla perdita di posti di lavoro nei settori forti, ovvero produttivi, dell’economia americana anche se poi le ricette sono talvolta contigue e altre volte molto distanti tra di loro. Per esempio, secondo Spannaus, all’interno del discorso di Trump il famigerato progetto di costruzione di un muro lungo la frontiera messicana (sicuramente costosissimo e quasi impossibile da realizzare) va visto più in funzione anti-NAFTA2 che in funzione di lotta all’immigrazione. Mentre in una parte del discorso di Sanders vi è più attenzione alla necessità di riabilitare quella divisione rigida tra banche commerciali e banche d’affari che il New Deal aveva imposto e la cui abolizione ha portato3 ai successivi disastri speculativi degli anni 2000.

coalSolo dal 2000 gli Stati Uniti hanno perso circa 6 milioni di posti di lavoro nel settore manifatturiero. Fa parte di un processo lungo che risale anche a prima del passaggio del NAFTA. A partire dagli anni Settanta iniziò una graduale trasformazione dell’economia americana in senso post-industriale. […] Il cambiamento che veniva presentato come necessario per evitare squilibri monetari diede il via a una nuova epoca dell’economia mondiale: dalla stabilità e dalla pianificazione, al sorpasso del potere dei mercati rispetto alle decisioni dei governi sovrani. Negli anni a seguire furono gradualmente smantellate le regole economiche del dopoguerra nel mondo transatlantico. Con la deregulation delle industrie aumentava la competizione sui costi; con la deregulation finanziaria i grandi capitali acquisirono un peso enorme, promettendo grandi guadagni a chi si poteva permettere partecipazioni azionarie nei mercati finanziari, guadagni che spesso erano legati all’indebolimento dell’economia reale.” (pag. 58)

La perdita di posti di lavoro nell’industria americana, con la sostanziale deindustrializzazione che ne è conseguita, a favore di una più ampia disponibilità e manovrabilità internazionale dei capitali ha fatto sì che entrambi gli avversari, Trump e Sanders, nel loro discorso politico abbiano manifestato la volontà di difendere la necessità di rilanciare la manifattura americana anche a costo di misure protezionistiche delle aziende straniere (ad esempio cinesi) o americane che abbiano scelto la delocalizzazione delle loro produzioni con il favore del NAFTA.

Anche se a livello di welfare e di altre politiche le scelte dei due candidati risultano essere estremamente differenti, è interessante qui sottolineare la vicinanza delle proposte dei due nel campo dell’economia industriale. Questo spiega anche perché entrambi i candidati non abbiano riscontrato soverchie simpatie tra le cosiddette minoranze che spesso hanno votato in blocco, là dove lo hanno fatto, per Hillary Clinton che dei discorsi spesso vaghi e inconsistenti su minoranze e genere ha basato parte del suo successo elettorale. Il polo di riferimento di entrambi gli outsider era infatti, anche se le frange nere più radicali hanno accolto e appoggiato Sanders là dove erano presenti, la working class bianca impoverita e privata di quei benefici economici di cui aveva goduto per anni.

Uno dei fattori principali dietro a questa difficoltà della classe media è proprio la perdita dei posti di lavoro ben pagati nel settore manifatturiero. Oggi molte più persone lavorano nei servizi, che di media pagano ben meno. Se negli anni Sessanta il 24% dei lavoratori era impiegato nelle manifatture, oggi, nel 2016, quella cifra è solo dell’8%. Questo settore contribuisce solo per il 12 per cento del Pil americano – percentuale decisamente più bassa di Paesi come l’Italia, la Germania e il Giappone. Negli ultimi anni il comparto ha visto una ripresa modesta, rispetto ai servizi e al retail, ma nonostante gli iniziali trionfalismi sul ritorno della manifattura americana in realtà il settore rimane ancora molto debole. Buona parte dei posti di lavoro che vengono creati sono invece in settori con salari bassi, come il commercio al dettaglio, i ristoranti, gli alberghi. Dunque a livello complessivo si assiste a un aumento della precarietà e un abbassamento dei redditi.” (pag. 61)

rust belt Ma questo spiega anche perché Sanders abbia potuto tranquillamente affermare che il voto dei minatori del West Virginia che lo ha premiato alle primarie (e forse avrebbe potuto aggiungere di tutta quella fascia di stati un tempo roccaforte dell’industria americana e da anni ormai trasformatasi nella Rust Belt – la cintura della ruggine), potrebbe passare in blocco a Trump nell’ormai certo scontro elettorale tra l’immobiliarista newyorkese e la Clinton, vista comunque come vera rappresentante egli interessi di Wall Street oltre che moglie di quel presidente che proprio gli accordi del NAFTA ha firmato nel 1994.4

Occorre poi sottolineare come Donald Trump non sia il rappresentante preferito dal Tea Party o dai movimenti conservatori evangelici, il cui vero rappresentante era l’ultra-conservatore e reazionario Ted Cruz. Guarda caso più attento a dialogare, talvolta rovesciandole, con le proposte contenute nel programma della Clinton. Mentre, allo stesso tempo, una parte dell’elettorato di quest’ultima è spesso caratterizzato dall’essere da sempre, o almeno negli ultimi decenni, abituato a condizioni di lavoro precarie e mal pagate, privo di quelle garanzie economiche ancora ricordate dalla white-male working class.

Vale la pena di soffermarsi così a lungo su questi aspetti della campagna elettorale americana e dei programmi dei due candidati proprio a causa delle similitudini che intercorrono tra il tipo di proposte portate avanti dai candidati outsider, o almeno apparentemente tali, nei confronti del capitalismo finanziario oggi dominante in Occidente al di là e al di qua dell’Oceano Atlantico. E contemporaneamente anche al complesso di relazioni e di conflitti, in seno alle stesse classi dirigenti europee e americane, che si manifestano anche attraverso la crescita dei cosiddetti populismi e della stessa uscita dall’Unione Europea, probabilmente non solo della Gran Bretagna. Uno scontro ormai ben visibile sia a livello nazionale, qui in Italia, che internazionale.5

Per anni gli effetti negativi del processo di deindustrializzazione dell’economia americana sono stati camuffati dalla grande crescita della finanza. Il trickle-down funzionava: giravano tanti soldi su Wall Street, i ricchi diventavano più ricchi e l’effetto indotto si sentiva a tutti i livelli. Nel 2007-2008 tutto questo crollò in modo violento. C’erano già stati crolli più piccoli in precedenza. Nel 1987 la Borsa di New York visse la sua giornata peggiore di sempre in termini percentuali, con un crollo del 22,6%, ovvero di 508 punti. Negli anni successivi iniziò la fase dei soldi facili, con immissioni enormi di liquidità nel mercato sotto la tutela di Alan Greenspan, l’allora capo della banca centrale americana, la Federal Reserve. L’esplosione di nuovi strumenti speculativi “derivati” avvenne negli anni Novanta, insieme alle teorie sull’importanza di diversificare il rischio. Ora le società potevano coprirsi contro i cambiamenti repentini nei mercati per i beni reali con contratti che rappresentavano una sorta di assicurazione. Solo che entro pochi anni la parte assicurativa – i derivati – diventò più grande della parte dell’economia reale che doveva essere assicurata. Infatti, dagli anni Novanta in poi il valore nominale dei titoli finanziari supera di circa 10 volte il valore del Pil mondiale Nel 2001 scoppiò la bolla della New Economy, provocando perdite in tutto il mondo, ma ben presto gli operatori di mercato trovarono un nuovo giocattolo, quello dei mutui.[…]. La bolla dei mutui subprime non va vista come un evento in sé, ma appunto come parte di questo processo più lungo di finanziarizzazione. La gravità del crollo non fu semplicemente il risultato degli errori e delle frodi sui mercati immobiliari, ma soprattutto del massiccio effetto-leva insito nel sistema finanziario grazie al meccanismo dei derivati: a un operatore bastava fornire una garanzia di appena il 4% o il 5% del valore nominale che andava a movimentare. Dunque con un dollaro di capitale si disponeva di uno strumento che ne valeva venti volte tanto. Permetteva di fare grandi guadagni su piccole variazioni nel mercato, ma anche grandissime perdite quando la direzione del mercato si invertiva. La risposta delle istituzioni pubbliche al crack del 2008 fu di correre a salvare il sistema. Si temeva la fine del mondo, una situazione in cui i mercati si sarebbero fermati, le banche sarebbero fallite, e l’economia sarebbe entrata in uno stato di caos totale. Con questa giustificazione furono fornite quantità enormi di denaro (elettronico) al settore finanziario. Da una parte con il programma pubblico denominato TARP, creato con uno stanziamento di 700 miliardi di dollari da parte del Congresso Usa; dall’altra la Federal Reserve si mosse per fornire cifre ben superiori, fino a oltre 10 trilioni di dollari tra prestiti a tasso essenzialmente zero e garanzie per chi rischiava il default.
Gli effetti del crack sull’economia reale sono stati devastanti. Quando Barack Obama arrivò alla Casa Bianca nel gennaio 2009 in America si stavano perdendo tra 700 e 800 mila posti di lavoro ogni mese. La Grande Recessione era iniziata, e nei media affioravano i resoconti di come banche e finanziarie avessero impostato un modello per defraudare la gente.
” (pp. 62 – 63)

Ma se tali effetti, come si è già sottolineato, sono stati devastanti per i lavoratori, un tempo, garantiti, altrettanto lo sono stati per le piccole e medie imprese che spesso costituiscono, non solo in Italia, il cuore pulsante delle attività economiche produttive. Anche a livello di distribuzione delle merci. E diventa così possibile spiegare perché, ad esempio, in Italia le Coop, soprattutto “rosse”, si siano trasformate da strumento di distribuzione e commercializzazione delle merci a strumento di raccolta di fondi (i capitali grandi, piccoli e anche piccolissimi dei soci) per le attività finanziarie, mentre l’economia tedesca, ancora, almeno apparentemente, impostata sulla produzione industriale sul continente europeo, spesso entri in conflitto con le politiche della Banca Centrale Europea più propensa alla difesa delle attività speculative e finanziarie. Tant’è che l’attuale uscita della Gran Bretagna dall’Europa, così vituperata a parole, potrebbe rivelarsi per la Germania un’occasione di rafforzamento della propria autorità economica e politica sul continente.

Risulta altresì evidente che la critica rivolta a Trump dalla cosiddetta “sinistra” benpensante, europea e americana,6 non ne tocca gli assunti fascisti reali (sostanzialmente il governo dei produttori di cui la Carta del Lavoro mussoliniana del 1927 fu il manifesto politico), ma sostanzialmente gli aspetti più platealmente provocatori e offensivi (proprio come nel caso dei populismi europei) per non dover rispondere sul piano economico delle proprie scelte, tutte fatte a vantaggio della finanza globale e di quella miserrima percentuale di speculatori internazionali che si accaparra ormai una quota rilevantissima di ricchezza mondiale.7

uto pia Il testo di Spannaus affronta ancora tantissimi altri elementi della campagna elettorale americana e sottolinea molte altre diversità, per esempio sulla guerra, dei due outsider nei confronti dei due partiti di riferimento, ma ciò che occorre qui infine cogliere è che, pur nella simpatia che Bernie Sanders può ispirarci e che ha ispirato tanti elettori e giovani americani che il Partito della Clinton non esita a definire “conservatori”, in assenza di un’autonoma azione di classe il mondo del lavoro, femminile o maschile, bianco o nero o immigrato che sia, è destinato, nonostante tutto, ancora a sottostare a scelte che prima di tutto, anche quando sembrano staccarsi drasticamente dai modelli politici ed economici dominanti, appartengono soprattutto a fazioni divergenti e in lotta della stessa classe dirigente. Come questo utile testo contribuisce, anche involontariamente, a dimostrare. Piaccia o meno.

brexit4 D’altra parte l’analisi del voto britannico, che ha determinato l’uscita del Regno Unito dall’Europa comunitaria, rivela che le aree ex-industriali ed ex-minerarie dell’Inghilterra e del Galles, ancora una volta piaccia o meno, sono risultate determinanti ai fini del risultato. Confermando così il contenuto di protesta di tale scelta, al di là del nazionalismo e del razzismo presentati come unica motivazione per i cittadini che hanno scelto l’uscita da parte dell’establishment economico, finanziario, politico e mediatico di Bruxelles. Il quale ultimo ha inutilmente cercato sul corpo e l’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox la giustificazione, cinica e inconsistente, a favore del remain (e della susseguente speculazione bancaria).
Eppure c’è uno slogan, partito dalla Valle di Susa, che dovrebbe far riflettere le classi dirigenti europee e i loro media asserviti, condotti (soprattutto dopo i dibattiti televisivi di giovedì sera) da comici da avanspettacolo, sul loro inequivocabile destino: “Non potete fermare il vento, gli fate solo perder tempo!


  1. Occorre qui sottolineare che già Marx, nei suoi scritti sulla Guerra Civile americana, interpretava il conflitto tra Sud e Nord in termini di scontro tra la classe dirigente del Nord che intendeva emanciparsi definitivamente sul piano industriale dalla dipendenza dalla Gran Bretagna e quella del Sud che continuava a dipendere dal Regno di Albione in termini di esportazione di materie prime agro-alimentari verso l’ex-madrepatria. Naturalmente la causa della liberazione dei neri risultava assolutamente secondaria, al di là delle leggende solo successivamente accreditate, visto che il proclama di Lincoln per la liberazione degli schiavi fu emanato soltanto nel 1863, un anno di pesanti difficoltà per gli eserciti del Nord  

  2. Il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio), è un trattato di libero scambio commerciale stipulato tra USA, Canada e Messico e modellato sul già esistente accordo di libero commercio tra Canada e Stati Uniti (FTA), a sua volta ispirato al modello dell’Unione Europea. L’Accordo venne firmato dai Capi di Stato dei tre paesi (il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il Presidente Messicano Carlos Salinas de Gortari e il Primo ministro del Canada Brian Mulroney) il 17 dicembre 1992 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1994. (https://it.wikipedia.org/wiki/North_American_Free_Trade_Agreement)  

  3. La divisione tra le attività bancarie di “retail” e “trading” risale all’epoca del New Deal, con la legge Glass – Stagall Act del 1933 adottata come risposta alla grande depressione del ’29 e rimasta in vigore per circa settanta anni. La separazione netta tra banche commerciali e banche d’affari è stata, poi, soppressa nel 1999 con il Gramm – Leach – Bliley Act, durante la presidenza di Clinton (http://www.avantionline.it/2014/01/banca-commerciale-o-di-investimento-un-divorzio-utile-anzi-urgente/#.V2ZHLdSLRkg)  

  4. Si veda, a proposito degli interessi che appoggiano la Clinton, sia nel Partito Democratico che in quello Repubblicano, https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  5. Ad esempio in un articolo, pubblicato su Il Giornale, del marzo 2015, le riflessioni di Spannaus sull’attuale Premier e le vere cause della crisi vengono così riassunte: ”Il Premier punta molto sull’appoggio dei settori che hanno interessi internazionali così da poter fare da una parte il “rottamatore” all’interno dell’Italia e “farsi bello”, e dall’altra rimanere attaccato alle stanze che muovono grandi interessi. Facendo un passo indietro poi Spannaus conferma che il disastro creato da Mario Monti e dal suo governo di tecnici ” non é stato casuale, bensì voluto”. Anche Monti e Amato lo hanno confermato. In soldoni ci hanno detto che l’Italia si sarebbe fatta finanziare il deficit dall’estero perché da sola non era in grado, e che quindi si riducevano i consumi dei cittadini. Quali sono le vere intenzioni? ” Ecco, l’intenzione è quella di sfruttare la crisi economica per rafforzare le strutture sovranazionali. Con Mario Monti si sono trasferite le sovranità dalle nazioni all’Unione Europea. Solo in periodo di crisi, approfittando del momento, questo é stato possibile” – afferma Spannaus. Il dramma é che la popolazione e il governo non hanno più alcun potere e le decisioni vengono prese a livelli più alti”.
    http://www.ilgiornale.it/news/cronache/mossa-voluta-crisi-mettere-ginocchio-italiani-1102028.html  

  6. Varrebbe ancora la pena di ascoltare oggi le ironiche parole della canzone “Love Me, I’m A Liberal” di Phil Ochs, il cantautore americano socialista che la compose alla metà degli anni Sessanta  

  7. Basti ricordare che i 62 individui più ricchi del mondo si accaparrano la ricchezza equivalente a quella di metà della popolazione del globo: 3 miliardi e mezzo di persone  

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