Brandizzo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una seria riflessione sull’utilizzo delle terre alte https://www.carmillaonline.com/2023/09/20/lezioni-per-le-terre-alte/ Wed, 20 Sep 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78788 di Sandro Moiso

Maurizio Dematteis, Michele Nardelli, Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa, con una prefazione di Aldo Bonomi e una postfazione di Vanda Bonardo, DeriveApprodi, Roma 2022, pp. 302, 20 euro

Quelli che seguono sono ricordi di un breve soggiorno turistico sulle Dolomiti di qualche anno fa: i pascoli arrossati e resi inutilizzabili dall’uso della neve artificiale sopra Canazei in Val di Fassa; la miriade di impianti di risalita situati tra il passo Sella e quello del Pordoi; i rifugi [...]]]> di Sandro Moiso

Maurizio Dematteis, Michele Nardelli, Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa, con una prefazione di Aldo Bonomi e una postfazione di Vanda Bonardo, DeriveApprodi, Roma 2022, pp. 302, 20 euro

Quelli che seguono sono ricordi di un breve soggiorno turistico sulle Dolomiti di qualche anno fa: i pascoli arrossati e resi inutilizzabili dall’uso della neve artificiale sopra Canazei in Val di Fassa; la miriade di impianti di risalita situati tra il passo Sella e quello del Pordoi; i rifugi trasformati in alberghi di lusso, i cui ristoranti fanno a gara nell’attirare i turisti non per le escursioni a quote relativamente praticabili da quasi tutti (a patto di aver un minimo di attrezzatura adatta), ma per i menù proposti da chef variamente stellati.

Cui si aggiungono le code infinite sui sentieri dovute, più che alla difficoltà alpinistica, all’inadeguata preparazione degli escursionisti e alla miserabile attrezzatura riscontrabile nelle scarpe da ginnastica indossate da molti o di quelle a tacco alto indossate da alcune “eleganti” signore. Il tutto condito dalle liti, sfioranti talvolta l’autentica rissa, per il posto a sedere ai tavoli dei rifugi all’ora di pranzo.

Un bel quadretto davvero di turismo alpino, sotto lo sguardo impassibile della Marmolada che quest’anno, dopo la rovinosa valanga staccatasi dal suo ghiacciaio nel luglio 2022 (che causò 11 morti tra gli alpinisti coinvolti), ha raggiunto ad agosto la temperatura di 13,3 gradi a 3.343 metri di altitudine. E, soprattutto, un significativo punto di partenza per iniziare a parlare di un libro decisamente interessante, riguardante lo sfruttamento del territorio alpino in una fase di riscaldamento globale come quello che stiamo attraversando. Come afferma, infatti, nella sua prefazione Aldo Bonomi:

Questo testo, che nel sottotitolo induce una certa idea crepuscolare dello sviluppo, è molto di più di una fotografia della lunga coda del modello di industrializzazione turistica della montagna italiana costruita intorno alo sci di massa nel corso della seconda metà del Novecento. E’, altresì, un variegato racconto polifonico, corredato da un’ampia rassegna di dati statistici, della complessa metamorfosi indotta dall’Antropocene, che ha nelle terre alpine e appenniniche uno straordinario e articolato laboratorio di una modernità costretta, causa il progressivo esaurirsi della materia prima che sosteneva le sue logiche estrattive, a fare i conti con i limiti che i cambiamenti climatici impongono alla logica degli investimenti che ne stanno alla base1.

Un testo che nel narrare esperienze comunitarie, storie di sfruttamento e iper-sfruttamento ambientale, fordismo turistico inizialmente soltanto alpino ma in seguito anche appenninico, intende muoversi tra il “non più” di ciò che è sempre più difficile sostenere dal punto di vista dei costi economici, sociali e ambientali e il “non ancora” della speranza di continuare a vivere nelle terre alte sulla base di una nuova coscienza più adatta ai luoghi e ai tempi.

Testimonianza di un cambiamento di paradigma di sviluppo turistico che, ancor prima che fare i conti con le modificazioni morfologiche e climatiche indotte dall’innalzarsi delle temperature, ha dovuto e deve fare i conti prima di tutto con l’affermarsi di un turismo inteso come industria globale. In cui l’apertura internazionale dei mercati e la diversificazione dell’offerta di territori e occasioni da “consumare” ha significato, come afferma ancora Bonomi: «un innalzamento progressivo dell’asticella degli investimenti infrastrutturali necessari a mantenere le posizioni acquisite, determinando una prima grande scrematura delle tante stazioni cresciute sullo sci di massa»2.

Sarà forse per questo motivo che, tra le tante narrazioni di esperienze locali proposte dal libro, siano state spesso le piccole località turistiche, come ad esempio Prali in Piemonte, a doversi porre il problema di come sopravvivere comunitariamente ai cambiamenti in atto (nei gusti, nelle proposte e dal punto di vista climatologico). Anche se il panorama delle proposte, delle resistenze e delle resilienze alpino-sciistiche si articola intorno a un panorama che si spinge dalle Alpi Occidentali a quelle Orientali, passando da Cortina e le velleità olimpiche di devastazione previste per il 2026 e, perpendicolarmente all’asse ovest-est a quello appenninico.

Un comparto industriale che vive di innevamento artificiale in un momento in cui la ritirata o la scomparsa dei ghiacciai, piccoli e grandi, che l’alimentavano si fa via via più evidente. Come ha affermato in una recente intervista Claudio Smiraglia, docente di geografia fisica all’Università di Milano e per molti anni presidente del Comitato glaciologico italiano:

In alta quota le montagne perdono compattezza, si sgretolano, si aprono voragini. Le studio da mezzo secolo e non ricordo mutamenti così rapidi come quelli che si stanno registrando negli ultimi anni […] Gli effetti sono spesso drammatici perché ci sono sistemi di rocce tenuti saldi da due elementi. Il primo è esterno: il ghiacciaio che le sovrasta le blocca. Il secondo è interno: il permafrost, l’acqua ghiacciata penetrata all’interno delle fessure della roccia fa da collante. Con un innalzamento della temperatura come quello che stiamo sperimentando questi due elementi di coesione spesso vengono meno […] il paesaggio cambia a velocità straordinaria. Prendiamo il ghiacciaio dei Forni, sopra Bormio, in Valtellina. Fino a due anni fa ci si arrivava tranquillamente. I turisti facevano l’ultimo mezzo chilometro passando su un tappeto di detriti e arrivavano a toccare il ghiaccio. [..] Vicino al ghiacciaio dei Forni c’è il Bivacco Meneghello, un posto in cui ho dormito tante volte. Poche settimane fa è crollato tutto il dosso roccioso che lo sosteneva. Ripeto: è l’intero paesaggio alpino a trasformarsi sotto i nostri occhi. […] Nell’arco di una trentina di anni i ghiacciai alpini sotto i 3.500 metri scompariranno se, come appare molto probabile, il ritmo di riscaldamento resterà costante o peggiorerà3.

Va qui ricordato, per sottolineare l’entità del cambiamento, che il ghiacciaio dei Forni, citato nell’intervista, è il secondo ghiacciaio delle Alpi italiane dopo quello dell’Adamello e che fino al 1995, prima cioè che il ghiacciaio dell’Adamello venisse riclassificato in un unico corpo glaciale, era il più grande ghiacciaio vallivo italiano e l’unico di tipo himalayano, originato da tre bacini collettori con tre lingue glaciali distinte confluenti a quota 3000 m in un’unica lingua di ablazione che nel XIX secolo si spingeva nel fondovalle fino a quote prossime ai 2000 m.

Un tale drastico mutamento non solo spinge a considerare, come afferma ancora Smiraglia nel corso della sua intervista, che: «Le regole sulla sicurezza in montagna vanno totalmente riscritte. E il problema è che non le conosciamo ancora, stiamo imparando a nostre spese: sono gli errori che insegnano. Stiamo scoprendo che comportamenti che potevano dire sicuri fino a 10 o 20 anni fa oggi creano rischi consistenti». Ma anche a riconsiderare le possibili ricadute su tutto il settore del turismo alpino e della vita sociale sulle terre alte. Come afferma Maurizio Dematteis:

Quando risalgo le valli alpine della mia regione, il Piemonte, mi fa male vedere la ruggine dei vecchi impianti di risalita abbandonati nei valloni laterali, tra rovina e incuria. Sono il simbolo di un turismo alpino ormai al tramonto, molto più, ad esempio, dello sci di fondo. Perché lo sci da discesa ha bisogno di infrastrutture pesanti e impattanti, per nulla adattabili ai cambiamenti di cui è da sempre soggetta la montagna. Penso che nel nostro paese ce ne sono a centinaia, piccole medie stazioni sciistiche dismesse, costruite a 1000 metri o poco più, che hanno resistito finché hanno potuto e poi sono state costrette a gettare la spugna. Anni di battaglie nell’inseguire una chimera di sviluppo insostenibile che si allontanava sempre di più, tra la diminuzione delle giornate con la neve,l’aumento delle spese e gli sciatori che svanivano. Gli sforzi per trovare sovvenzioni pubbliche, le offerte al ribasso e le costose manutenzioni che hanno fatto lievitare i debiti dei gestori degli impianti fino all’insolvenza. Perché sono proprio queste realtà figlie di un dio minore che oggi per prime fanno le spese del cambiamento « cultural-economico-ambientale», spesso lasciandosi alle spalle le macerie di un tempo che fu. Sono il simbolo di un sistema di crescita infinita che oggi è ormai al tramonto, un sogno interrotto che ha cullato e illuso le comunità delle terre alte4.

In questa riflessione sta un po’ tutto il senso della ricerca di una via di uscita che non può certo essere quella delle grandi stazioni di incrementare gli investimenti, “sparare” più neve artificiale e spostare gli impianti più in alto. E che, forse, non può nemmeno più essere quella di un turismo alternativo a base di trekking, mountain bike e sci di fondo.

Il “fallimento” dello sci di massa costituisce un po’ lo specchio del fallimento di un modo di produzione e di consumo obsoleto, dannoso e vorace basato sullo sfruttamento e l’estrazione di valore e ricchezza da ogni possibile risorsa (dalla forza lavoro a quelle ambientali come la terra e l’acqua). Il simbolo, paradossalmente come la strage di operai sulla linea ferroviaria a Brandizzo, di un mondo che non può più reggersi sui soliti, mortiferi e superati paradigmi della crescita economica e dello sviluppo.

Forse, ripensare le terre alte significa, soprattutto, ricordare che proprio lì è nata migliaia di anni fa l’agricoltura5 e che lì la specie ha trovato rifugio dai pericoli di vario genere che si annidavano e si spostavano più velocemente nelle valli e nelle pianure. Oggi, in un tempo di guerre e riscaldamento planetario, ancora una volta e in tal modo, le montagne dovrebbero essere ripensate e liberate da tutto ciò che è inutile. E questo libro, nonostante qualche perdurante abbaglio sull’economia del turismo alpino, si rivela davvero utile per iniziare a ripensare non solo un modo di produzione, ma anche il consumo turistico dei territori e delle risorse ad esso collegato. Senza il primo il secondo non potrà infatti continuare ad esistere (e viceversa).


  1. A. Bonomi, Prefazione. Terre alte, laboratori di comunità in M. Dematteis – M. Nardelli, Inverno liquido, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 5  

  2. Ivi, p. 8  

  3. A. Cianciullo, Claudio Smiraglia: “Studio le Alpi da mezzo secolo, mai vista una ritirata così veloce dei ghiacciai”, «Huffington Post» 28 Agosto 2023  

  4. M. Dematteis, L’origine. La montagna fra il non più e il non ancora in M. Dematteis – M. Nardelli, op. cit., pp. 12-13  

  5. Sul tema si veda: Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona, recensito qui  

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Contro l’etica e la disciplina del lavoro che uccide https://www.carmillaonline.com/2023/09/15/contro-letica-e-la-disciplina-delle-stragi-sul-lavoro/ Fri, 15 Sep 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78816 di Sandro Moiso

Sandro Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 190, 14 euro.

La recensione di questa indagine di Sandro Busso, edita dal Gruppo Abele, arriva per esclusiva colpa del recensore un po’ in ritardo, ma d’altra parte non vi potrebbe essere momento migliore per segnalarne l’importanza e indicarla come validissimo strumento per riflettere su quanto sta accadendo quasi quotidianamente nei cantieri e nelle fabbriche, a partire dalla strage di lavoratori avvenuta sui binari della stazione ferroviaria di Brandizzo.

Spesso, su Carmillaonline, chi [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 190, 14 euro.

La recensione di questa indagine di Sandro Busso, edita dal Gruppo Abele, arriva per esclusiva colpa del recensore un po’ in ritardo, ma d’altra parte non vi potrebbe essere momento migliore per segnalarne l’importanza e indicarla come validissimo strumento per riflettere su quanto sta accadendo quasi quotidianamente nei cantieri e nelle fabbriche, a partire dalla strage di lavoratori avvenuta sui binari della stazione ferroviaria di Brandizzo.

Spesso, su Carmillaonline, chi qui scrive ha sottolineato l’hybris, l’arroganza e la tracotanza, di un modo di produzione che pur di soddisfare le proprie ambizioni di guadagno non si preoccupa minimamente della salvaguardia della specie e dell’ambiente in cui dovrebbe soprav/vivere. Un distruttività che in nome del profitto e del “lavoro” non si perita nemmeno di salvaguardare o proteggere chi, per salari spesso da fame, si adatta ad accettarne le logiche e le richieste legate a una necessità di estrazione di plusvalore e plus-lavoro che risponde soltanto agli interessi immediati del capitale e dei suoi miserabili funzionari.

Anzi, si potrebbe dire che proprio dallo sfruttamento selvaggio della forza lavoro deriva quello dell’ambiente e delle sue risorse, tra le quali, è bene non dimenticarlo mai, il lavoro umano e l’intelligenza ad esso applicata sono forse da annoverare tra le principali per il prosieguo della specie e della sua riproduzione.

Però è proprio sul concetto di “lavoro” che lo scontro deve e dovrà farsi, così come è già avvenuto in passato, particolarmente cruento nel prossimo futuro. Proprio per liberarlo da ogni ambiguità e ogni residua permanenza di intesa tra interessi del Capitale e interessi della specie e della classe lavoratrice. Ed è proprio intorno a questo punto che la riflessione di Sandro Busso, professore associato di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino, che insieme a Eugenio Graziano aveva già curato l’edizione italiana di Disciplinare i poveri. Paternalismo neoliberale e dimensione razziale nel governo della povertà di Joe Soss, Richard C. Fording e Sanford F. Schram (Mimesis Edizioni 2022, recensito qui), si rivela particolarmente efficace.

In un testo destinato a portare la riflessione sulla necessità di ridurre l’orario lavorativo, più che ad aumentarlo a dismisura per chi già lavora escludendo dal circuito del lavoro regolare un numero sempre più ampio di giovani, donne e lavoratori di vario genere e provenienza, e su quella di migliorare le retribuzioni ad esso collegate, l’autore sembra non dimenticare mai, nemmeno per un momento, l’autentica lezione, o se si vuole il filo rosso, che corre lungo tutta la storia del movimento operaio: quello della lotta non “per il lavoro”, ma “contro il lavoro salariato” e lo smisurato sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Occorre qui ricordare che a caratterizzare la classe operaia e la sua funzione di innovazione rivoluzionaria, per Marx, non era tanto l’orgoglio del lavoro, ma la necessità di liberarsi proprio dalle catene di quel lavoro che la schiavizzava, abbruttiva e sfruttava senza sosta. Come ebbe infatti a ricordare più volte il rivoluzionario originario di Treviri, «la classe o lotta o non è». Affermazione non tanto apodittica, quanto chiarificatrice del fatto che per l’antagonismo sociale il termine classe nella sua essenza non costituisce una categoria sociologica, ma politica.

Nella classe sociologica il lavoratore e la lavoratrice sono individui dispersi in conteggi dal carattere puramente alfanumerico (occupati, disoccupati, etc.), di volta in volta valutabili attraverso il plusvalore prodotto (di cui è il PIL nazionale a render conto) oppure come vittime di uno sfruttamento “eccessivo ed erroneo”. Mai come protagonisti della propria esistenza collettiva e autori della trama del proprio futuro insieme a quello della specie.

Basterebbe riferire le frasi fatte piene di lacrime di coccodrillo, gli stanchi riti delle istituzioni e dei sindacati per cogliere questo aspetto, così come è stato fatto nei giorni successivi alla strage sul lavoro di Brandizzo, per comprenderlo al meglio. Si piangono gli oggetti e si ignorano i soggetti, comodamente liquidabili con le frasi di circostanza ammantate di pietà i primi, ma non riconoscibili e forse addirittura innominabili i secondi.

Troppo spesso si pensa, infatti, che il rifiuto del lavoro sia stata una bella e originale invenzione o teorizzazione dell’autonomia operaia degli anni ’70, dimenticando che il rifiuto del lavoro salariato, delle sue stimmate sociali, culturali, economiche e politiche e dell’interiorizzazione delle sue logiche è stato, già nel passato, l’elemento centrale delle lotte operaie più avanzate. Là dove i braccianti di Captain Swing incendiavano macchine e stalle dei proprietari terrieri che erano anche i datori di lavoro agli albori dell’Ottocento; là dove i minatori e ferrovieri americani impugnavano i winchester contro le squadre armate della Pinkerton e l’esercito federale alla fine del XIX secolo e là dove i giovani operai degli anni ’60 e ’70 lanciavano sanpietrini e molotov contro le forze dell’ordine che intervenivano per riportarli alla disciplina di fabbrica: là si manifestava la classe nel suo significato politico ovvero nel suo rifiuto di una condizione di sottomissione che proprio nel lavoro “ben disciplinato e organizzato” e nei suoi implacabili ritmi produttivi riconosceva spontaneamente il volto del suo avversario storico: il capitale.

Capitale che proprio intorno all’esaltazione del lavoro e del suo valore etico, dall’epoca del protestantesimo medioevale fino alla Rivoluzione industriale e dopo, aveva visto costituirsi la classe che ne avrebbe rappresentato gli interessi e l’essenza: la borghesia.

Per comprendere come l’etica del lavoro sia a pieno titolo da considerare come il prodotto di processi sociali, e non un immanente comandamento morale insito in ognuno di noi, è necessario tornare […] a quelle civiltà classiche che vedevano nel lavoro un’attività squalificante da riservare unicamente a chi si trovava ai livelli più bassi della stratificazione sociale. Solo adottando una prospettiva temporale così è possibile cogliere come la rappresentazione positiva del lavoro sia un fenomeno culturale estremamente recente e sostanzialmente riconducibile alla rivoluzione industriale del XIX secolo […] Il concetto di valore morale del lavoro è ovviamente di molto precedente l’industrializzazione, e il suo processo di estensione è almeno in parte graduale […] quell’impianto valoriale era diffuso in un ambiente estremamente ristretto e dinamico che si collocava (temporalmente) «tra il feudo e la fabbrica»: era il credo del capitalismo preindustriale […] il binomio grazia-ricchezza rendeva quell’etica un tratto distintivo dei «salvati»1.

Un tale «stato di grazia» attribuibile al lavoro lo si può, in fin dei conti, riscontrare anche in slogan triti e ritriti, e oggi decisamente populisti, spesso con un fondo di intrinseco razzismo, come «Chi non lavora non mangia!». Ispirato sicuramente in origine dall’odio contro la borghesia e gli imprenditori, ma che rischia di rivoltarsi contro la stessa classe lavoratrice quando questa, come in passato e ancor ai nostri giorni, pencola sempre più tra lavoro e non lavoro, tra proletariato occupato e proletariato marginale (lumpenproletariat).

Quello che succede a metà del XIX secolo è un processo di «astrazione», in cui tutti i lavori divenivano nobili, indipendentemente dal prestigio o dalla ricchezza che ne poteva conseguire, ma unicamente per l’atto in sé. Questa estensione rispondeva a un obiettivo politico: utilizzare la dimensione morale per giustificare le condizioni di lavoro di una crescente massa di proletariato e dunque garantirsi la sua «collaborazione» senza bisogno di eccessi di coercizione […] Le prescrizioni dell’etica del lavoro sono incredibilmente stabili nel tempo, non mutano a seconda dei soggetti che la predicano e comportano sempre «l’identificazione e la dedizione sistematica al lavoro salariato, l’elevazione del lavoro a centro della vita e l’affermazione del lavoro come un fine in sé»2.

Come dire che il proletariato deve fare di necessità virtù e di ciò accontentarsi, come la deriva sindacale e delle politiche di sinistra sembra predicare e aver fatto sua ormai da decenni. Anche al di là di una riflessione non solo di classe, ma anche di genere. Busso, infatti, sottolinea ancora, grazie alle le ricerche della studiosa femminista Kathi Weeks, come le due strategie del femminismo delle prime due ondate:

tanto quella che si è concentrata sull’ingresso delle donne in tutte le forme di lavoro salariato, quanto quella mirata a ottenere il riconoscimento sociale e la pari responsabilità degli uomini per il lavoro domestico non salariato non abbiano problematizzato il lavoro, ma anzi l’abbiano considerato una leva materiale e simbolica imprescindibile.
Un meccanismo analogo può essere rintracciato adottando altri sguardi. A ben vedere, per quanto eretico possa sembrare, possiamo pensare che il valore in sé del lavoro sia uno dei pochi tratti ad accomunare operai e borghesi o che si ritrova su entrambi i lati della lotta di classe o nelle retoriche tanto di progressisti quanto di conservatori. Addirittura, la si trova al centro della lotta generazionale: giovani desiderosi di dire la loro nel mondo del lavoro contro anziani che rimproverano una mancanza di etica e di spirito di sacrificio. Il risultato è una chiusura dello spazio discorsivo che porta con sé la scomparsa delle alternative3.

Alternative che, oggi, si riferiscono solo e sempre all’interno dei diritti individuali distribuiti dall’ordine liberale del mondo e in cui tutti devono essere oggetto di legge ma non soggetto di cambiamento radicale e definitivo dell’esistente (delle sue stragi, distruzioni e guerre).

Ed è esattamente questo meccanismo che rende l’etica del lavoro uno strumento disciplinare molto efficace, che lo trasforma in un elemento che accomuna tutti e genera identità collettiva occultando come i benefici che ha portato non sembrano essere per nulla equamente diffusi. In fondo , riprendendo un aforisma attribuito al sindacalista statunitense Lane Kirkland, «se il duro lavoro fosse davvero una cosa così preziosa, i ricchi lo avrebbero tenuto tutto per loro»4.

Su queste note si rende necessario chiudere la recensione di un testo utile e ricco di spunti che, alla luce di avvenimenti come quelli legati alle sempre più frequenti morti sui luoghi di lavoro, occorrerebbe leggere con estrema attenzione. Specie se si è giovani, donne, lavoratori precari o disoccupati, disposti a tutto pur di avere un lavoro, anche a costo della vita stessa. Poiché la morte, che ormai troppo spesso attende in agguato chi lavora, non è un errore di percorso o «un oltraggio alla convivenza civile» come ha affermato la più alta carica dello Stato in occasione della morte dei cinque operai a Brandizzo, ma l’estrema espressione di quello sfruttamento mascherato da norma universalmente condivisa che costituisce altresì la base della più incivile forma di convivenza sociale.


  1. S. Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 91-93  

  2. S. Busso, op. cit., pp. 93-94  

  3. Ivi, pp. 94-95  

  4. Ibidem, p. 95  

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