Boris Johnson – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il radicalismo conservatore: il caso austriaco https://www.carmillaonline.com/2022/09/10/il-radicalismo-conservatore-il-caso-austriaco/ Sat, 10 Sep 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73767 di Armando Lancellotti

Natascha Strobl, Le nuove destre. Un’analisi globale del conservatorismo radicalizzato, LEG Edizioni, Gorizia, 2022, pp. 126, € 14,00

Quando Natascha Strobl – politologa e pubblicista viennese – dava alle stampe il volumetto recentemente tradotto in Italia da LEG Edizioni (Radikalisierter Konservatorismus. Eine Analyse) era l’estate del 2021 e il governo austriaco era ancora retto da Sebastian Kurz, leader della ÖVP (Österreichische Volkspartei), il Partito popolare austriaco. Si trattava del secondo governo guidato dal giovanissimo cancelliere federale, dal momento che il primo aveva preso il via a seguito della sua netta [...]]]> di Armando Lancellotti

Natascha Strobl, Le nuove destre. Un’analisi globale del conservatorismo radicalizzato, LEG Edizioni, Gorizia, 2022, pp. 126, € 14,00

Quando Natascha Strobl – politologa e pubblicista viennese – dava alle stampe il volumetto recentemente tradotto in Italia da LEG Edizioni (Radikalisierter Konservatorismus. Eine Analyse) era l’estate del 2021 e il governo austriaco era ancora retto da Sebastian Kurz, leader della ÖVP (Österreichische Volkspartei), il Partito popolare austriaco. Si trattava del secondo governo guidato dal giovanissimo cancelliere federale, dal momento che il primo aveva preso il via a seguito della sua netta e brillante affermazione elettorale del dicembre 2017, che aveva dato luogo alla coalizione “turchese-blu” con la FPÖ (Freiheitliche Partei Österreichs), il Partito della libertà austriaco, ossia la formazione di estrema destra portata alla ribalta della scena politica austriaca ed internazionale una ventina di anni prima da Jörg Haider. Il primo governo Kurz fu travolto nella primavera del 2019 dal cosiddetto “Ibiza-gate”, che vide coinvolti soprattutto gli esponenti della FPÖ, che nelle successive elezioni anticipate subì un ridimensionamento tale da vedersi esclusa dal nuovo governo; ma questo non riguardò il partito di Sebastian Kurz, che, forte di un nuovo solido successo elettorale, diede il via al proprio secondo mandato, guidando una colazione governativa con i Verdi. Nuove accuse e sospetti di corruzione hanno poi indotto il cancelliere Kurz alle dimissioni verso la fine del 2021, cosa che, ad oggi, non ha però impedito alla medesima coalizione tra Partito popolare e Verdi di continuare a governare la Repubblica austriaca.

Questa premessa si è resa necessaria per tratteggiare la cornice politica entro la quale Natascha Strobl elabora e propone le proprie interessanti analisi, indirizzate alla descrizione e alla comprensione del fenomeno del “conservatorismo radicalizzato”, di cui la ÖVP di Sebastian Kurz rappresenta un esempio significativo, che la studiosa austriaca esamina in parallelo ad altri e in Italia più conosciuti casi, quali quello di Boris Johnson e del partito conservatore inglese e quello statunitense di Donald Trump. L’aspetto più interessante del lavoro di Natascha Strobl consiste proprio nel tentativo di elaborare un modello teorico generale capace di inquadrare un fenomeno politico che va diffondendosi rapidamente in Europa, seppur con aspetti differenti a seconda dello specifico contesto nazionale, e che vede le forze politiche conservatrici spostarsi sempre più decisamente verso posizioni di estrema destra, della quale assumono e assimilano atteggiamenti, parti del discorso e del linguaggio politico, nuclei ideologici, che producono l’effetto della radicalizzazione del conservatorismo politico.

L’analisi della politologa viennese prende le mosse da una ricostruzione delle principali caratteristiche del conservatorismo “classico”, che come ideologia e visione generale della società si è contrapposta, a partire dal XVIII secolo e poi nel XIX, prima al liberalismo illuminista e poi al socialismo. Il conservatorismo è un’ideologia antiegualitaria, che imposta la propria visione della società sui principi della gerarchia, dell’ordine e della proprietà. In essa giocano un ruolo fondamentale il riferimento ai valori tradizionali, in particolare quelli della fede religiosa. «In breve, quindi, intendiamo per conservatorismo un atteggiamento antiegalitario, antirivoluzionario, classista, i cui valori più alti sono l’ordine e la proprietà» (p. 14).
I fascismi “storici” hanno condiviso molti dei principi del conservatorismo, del cui appoggio si sono avvantaggiati nella fase dell’ascesa al potere, ma a differenza di questo non sono antirivoluzionari, anzi, si propongono come portatori di un progetto di ricomposizione conservatrice della società (in opposizione agli stravolgimenti dei processi di modernizzazione liberali, democratici e socialisti), ma attraverso il sovvertimento rivoluzionario delle istituzioni politico statali, che non intende restaurare un regime precedente, bensì crearne uno nuovo, che però si richiama ad un passato originario, capace di fare da mito fondativo, secondo una visione palingenetica della missione politica: l’etnia o razza, la primigenia comunità popolare, ecc. Nel caso del nazismo, a cui Strobl fa maggiormente riferimento, è l’antisemitismo il baricentro attorno a cui ruota tutta la lunga serie di altre diseguaglianze e discriminazioni: antiziganismo, antislavismo, l’ostilità verso le diverse forme di disabilità fisico-mentale e di indisciplina sociale, l’antifemminismo, ecc. Pertanto, conclude Natascha Strobl, «Il conservatorismo è un’ideologia di dominio per la salvaguardia delle relazioni (di proprietà) esistenti. Il fascismo è un’ideologia che – attraverso un (certo) scambio delle élite di potere – vuole superare l’ordine politico esistente» (p. 16).

Il “conservatorismo radicalizzato” odierno è un fenomeno politico ibrido, che nasce dalle molteplici occasioni e forme di contatto tra il conservatorismo e l’estrema destra fascista. La conseguenza è un neofascismo strisciante, che, a differenza dei piccoli gruppi organizzati dell’estrema destra militante più ideologica – facilmente riconoscibili ed emarginabili o comunque marginali – è decisamente più presente di quanto si tenda a credere nelle forme di pensiero diffuse, nelle formule linguistiche più usate, negli atteggiamenti comuni e più frequenti, insomma in tutte quelle che possono considerarsi forme pre-politiche di vita sociale. Questa infiltrazione carsica delle idee di estrema destra è stata resa possibile, dalla fine degli anni ’60, in particolar modo dal fenomeno della cosiddetta Nouvelle Droite in Francia, che si è sforzata di abbandonare il riferimento vetero nostalgico diretto al nazionalsocialismo e al fascismo storici; si è posizionata in un differente campo di lotta e di azione, non solo quello della politica in senso stretto, ma quello “pre-politico” e lo ha fatto adattando ai propri scopi le teorie gramsciane sull’egemonia culturale, al fine di acquisire una posizione di forza a livello del discorso pubblico, che rendesse egemonici i principi, il linguaggio, la mentalità conservatori e fascisti. «Era nata la Nouvelle Droite come spettro ibrido o sovrapposizione tra l’estremismo di destra tradizionale (etnico e neonazista) e il conservatorismo borghese statalista» (p. 21). Anche recenti forme di estremismo di destra nostrane, come CasaPound, vanno ricondotte a quella svolta epocale all’interno del neofascismo del dopoguerra.

Il fenomeno sociologico correlato al conservatorismo radicalizzato è quello della “borghesia grezza” (Rohe Bürgerlichkeit), concetto formulato per la prima volta dal sociologo tedesco Wilhelm Heitmeyer, che – come Natascha Strobl riporta – così lo definisce nel suo saggio del 2018, Autoritäre Versuchungen: «l’attenzione non è sulla classe economica, ma piuttosto sul fatto che sotto un sottile strato di maniere civili e conservatrici (“borghesi”) si nascondono atteggiamenti autoritari che stanno diventando sempre più chiaramente visibili, soprattutto sotto forma di una retorica sempre più rabbiosa» (p. 23). Insomma, secondo il sociologo tedesco, la “borghesia grezza” abbandona definitivamente (ed in particolare in tempi di crisi come quelli attuali) valori quali la giustizia, l’equità, la solidarietà sociale e fa propria un’ideologia fatta di durezza, di rivendicazione e difesa della propria posizione di vantaggio, di disprezzo verso i gruppi più deboli, in nome dei principi di efficienza, utilità, convenienza. Se la violenza non è certo appannaggio di un’unica classe sociale – sottolinea Strobl – tuttavia quella della “borghesia grezza” si nasconde dietro ad una facciata di maniere civili e di comportamenti presentabili e conformi alle regole sociali, che ne favorisce la diffusione e l’affermazione sotto forma di un «conservatorismo molto sicuro di sé e consapevole del proprio potere e così (attraverso istituzioni, i circoli sociali e i media) ha una grande influenza sul clima sociale» (citato da W.Heitmeyer) (p. 24). I grandi partiti conservatori tradizionali, che si spostano sempre di più a destra, si avvantaggiano del fenomeno della “borghesia grezza”, che al contempo alimentano, assumendo elementi ideologici ed atteggiamenti propriamente fascisti e, quando conquistano la guida dei governi, provocando un evidente deterioramento delle istituzioni democratiche.

Natascha Strobl individua di seguito alcuni passi fondamentali attraverso i quali ritiene che sia possibile ricostruire e articolare il percorso di formazione e di sviluppo del conservatorismo radicalizzato: la violazione delle regole; la polarizzazione della scena politica; l’affermazione della figura del leader; la trasformazione antidemocratica dello stato; la messa in scena mediatica; il complottismo e la post-verità.

È opportuno distinguere tra le regole formali, cioè innanzi tutto la Costituzione e le leggi dello stato e le regole informali della vita politica, vale a dire l’insieme di consuetudini e di norme di decoro, moralità e buona educazione politica. I leader del conservatorismo radicalizzato violano programmaticamente e sistematicamente entrambe. Nel primo caso, spesso il vantaggio che si consegue è di molto superiore alle sanzioni previste per la violazione delle leggi. L’esempio a cui Strobl fa ricorso riguarda Kurz e il superamento dei limiti di spesa previsti dalla legge austriaca per la campagna elettorale nel 2017: la sanzione che la ÖVP dovette pagare fu di molto inferiore al vantaggio politico che ottenne, vincendo in modo netto le elezioni. Nel secondo caso, l’effetto che si produce come conseguenza della violazione continua delle regole non scritte dell’azione e del confronto politici è quello di diffondere l’idea che non debbano esserci più regole e che la trasgressione di esse sia comunque possibile, o addirittura lecita ed auspicabile.

Gli oppositori dei conservatori radicali – osserva la studiosa – si illudono che la denuncia delle violazioni delle regole informali e il richiamo al loro rispetto siano sufficienti per rimettere in ordine le cose, ma accade esattamente il contrario, in quanto le menzogne e le infrazioni delle norme del galateo politico rimangono del tutto senza conseguenze, o addirittura e più spesso producono conseguenze positive per chi le compie in termini di popolarità e consenso. «Come Trump, anche Kurz sa che non ci sono conseguenze di nessun tipo se non si fa “la cosa giusta”: gli appelli al decoro e all’onore rimangono inascoltati. Al contrario: il loro successo si basa proprio sul fatto che non fanno quello che si “dovrebbe” fare […]. Una bugia è una bugia, ma una bugia che viene ripetuta senza conseguenze diventa la verità» (pp. 38-39).

Il conservatorismo radicale rivendica per sé populisticamente la rappresentanza della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, che va a costituire il “noi” da contrapporre a “gli altri”, secondo una elementare logica dicotomica e manichea che produce polarizzazione nella società. Si tratta di uno degli aspetti che più evidentemente il conservatorismo radicalizzato ha assunto dall’estrema destra; nel fascismo storico e nel nazismo in particolare, a cui Strobl fa riferimento, la contrapposizione era concepita “biologicamente” come lotta tra il “noi” della comunità etnica-nazionale e “gli altri”, rappresentati soprattutto dagli ebrei e da altre categorie di nemici della razza. Osserva Natascha Strobl: «La versione neoliberale di una visione manichea del mondo è la divisione in operosi e pigri» e i secondi sono definiti tali «per bassezza o debolezza di carattere», a cui si aggiungono frequentemente caratteristiche etniche e di classe sociale. Sono i “chavs”, di cui parlava Boris Johnson nel 2005 sul Daily Telegraph, quando li definiva come il 20% della società inglese, che vive nei quartieri degradati e che vota Labour per ricevere elemosine assistenziali e, aggiungeva, sono «i grezzi, i perdenti, i ladri e i tossicodipendenti e i 70.000 detenuti delle nostre prigioni» (p. 40). Oppure si tratta dei “thugs” (teppisti) di Trump, termine usato dal presidente statunitense per indicare i neri dei quartieri degradati, considerati naturalmente inclini alla violenza, a cui vanno aggiunti i militanti di sinistra, le élite urbane a lui ostili, i musulmani e altre minoranze, che, tutti assieme, formano “gli altri”, dalle minacce dei quali deve essere difesa la working class americana, che Trump ha saputo in buona parte attrarre a sé. Si tratta, però, di una working class rigorosamente bianca e nazionale, minacciata dalla manodopera a basso costo dei migranti, i cui interessi dovrebbero convergere – nella prospettiva di Trump – con quelli della controparte, il capitale nazionale, messo in pericolo dalla concorrenza della globalizzazione finanziaria; i valori di riferimento condivisi ed accomunanti le due parti (capitale e lavoro nazionali e bianchi) sarebbero lo spirito di sacrifico, la cultura del lavoro, il saper “lavorare sodo”, che ancora sopravviverebbero nella provincia statunitense.

Anche Kurz dice qualcosa di simile – osserva Strobl – quando sostiene che a Vienna, in certe famiglie, solo i bambini si alzano alla mattina per andare a scuola, alludendo soprattutto agli stranieri e agli immigrati (pigri e disoccupati) che abitano la multietnica metropoli austriaca, a cui contrapporre e preferire l’incorrotto ambiente rurale, in cui si conserverebbero gli autentici valori nazionali, così come avviene nella provincia americana in opposizione agli ambienti metropolitani. La schiera dei nemici, degli “altri”, si infittisce poi con l’aggiunta degli antifascisti e dei militanti di sinistra in genere, degli stranieri, dei migranti, dei rifugiati, ecc. Il modo di rapportarsi agli oppositori del conservatorismo radicale, preso in toto dall’estrema destra fascista, è quello tipico dell’ordine del discorso complottista, che stereotipizza l’avversario, ne ingigantisce i presunti tratti pericolosi per la comunità dei “noi” e a lui riconduce la ragione di ogni problema o negatività.

Un altro punto fermo dell’estrema destra fascista che i partiti conservatori radicalizzati hanno fatto proprio riguarda la maniera di intendere la leadership politica e il suo rapporto con il partito stesso e con la base, che ricalca le modalità proprie del Führerprinzip fascista: il leader rappresenta in modo assoluto l’intera comunità dei “noi”, che a lui si affida, e scavalca, esautorandoli, gli organi interni e le strutture del partito tradizionale, per riassegnare il potere decisionale alla cerchia ristretta dei consulenti e dei collaboratori di sua fiducia ed esclusiva scelta. Per spiegare questo processo, Natascha Strobl richiama la teoria della “democrazia identitaria” di Carl Schmitt degli anni Venti del Novecento: «Secondo lui, la democrazia è l’unità spirituale tra chi guida e chi viene guidato. Le elezioni si tengono per acclamazione, cioè tramite un sostegno messo in mostra pubblicamente» (p. 58). Si tratta di un processo di “de-democratizzazione” del sistema politico in cui l’azione del popolo si riduce alla legittimazione pubblica del potere del leader-governante. I leader dei partiti conservatori radicalizzati, inoltre, tendono a presentare se stessi come le vittime di trame occulte e di complotti, tesi a diffamarli e a screditarli e come i portatori di “dure verità”, che altri non hanno il coraggio di pronunciare e che solitamente riguardano gli ambiti della giustizia sociale e della migrazione.

«Il pericolo dall’interno viene attribuito a presunti disoccupati pigri e ai migranti o ai rifugiati, mentre la minaccia dall’esterno è rappresentata dai nuovi movimenti migratori di massa che minacciano l’identità del paese. L’anello di congiunzione e l’immagine del nemico unificante è l’indefinita potente rete di attori politici e della società civile di sinistra che si annidano dietro ogni angolo e che controllano i media e persino ampie parti dello stato. […] Questo gioco non è nuovo. È la strategia del populismo di destra alla Haider. La novità è che la strategia di una figura di leadership superpolitica e sovrumana non è più invocata solo dall’estrema destra, ma è portata avanti dalle forze conservatrici» (p. 63).
I bersagli principali verso i quali si dirige l’azione politica del leader dei conservatori radicalizzati sono il sistema giudiziario, considerato attore protagonista delle trame complottiste della sinistra; il parlamento, mal sopportato in quanto strumento politico democratico obsoleto da scavalcare in direzione di un populismo che si regga sul rapporto diretto tra il leader e il popolo, che non necessita di mediazioni; lo stato sociale, da ristrutturare e smantellare, in ossequio alle idee guida del neoliberismo imperante, ma dietro la maschera della presunta tutela degli interessi del proletariato “nazionale”, insidiato da quello straniero e migrante.

Tra gli effetti più manifesti prodotti dal conservatorismo radicalizzato vi è la riforma antidemocratica dello stato. Osserva Natascha Strobl: «La separazione dei poteri, costitutiva del moderno stato nazionale democratico, viene così rapidamente e sistematicamente affievolita. Il cosiddetto quarto potere, i media, viene anch’esso costretto e sabotato, e lo stato sociale, la più grande conquista del movimento sindacale nel XX secolo, viene indebolito» (p. 63).
Il caso austriaco del governo “turchese-blu” del 2017 (ÖVP e FPÖ) guidato da Kurz è quello che Strobl analizza un po’ più nel dettaglio. La riforma del reddito minimo di cittadinanza prevedeva che l’erogazione completa fosse subordinata al possesso o conseguimento di un titolo di scuola dell’obbligo, di certi requisiti di competenza linguistica e di un numero massimo di figli. In questo modo a rimanere tagliate fuori erano un alto numero di famiglie straniere e di migranti. L’elemento apertamente razzista e discriminatorio serviva per affermare un punto fermo ideologico e soprattutto come “distrattore”, sia che lo si condividesse sia che lo si avversasse, capace di mettere in secondo piano il fatto che la piena attuazione di quella riforma avrebbe dato il via allo smantellamento del sistema sociale austriaco e a farne le spese sarebbero stati tutti i lavoratori e le fasce sociali più deboli, anche quelle bianche ad austriache.

Di fondamentale importanza per il successo del conservatorismo radicalizzato e del suo leader è la capacità di utilizzare i media per «praticare la politica in modalità di campagna elettorale permanente» (p. 76), che si regge sulla programmatica e continua costruzione di campagne scandalistiche. Così riflette Natascha Strobl: «Trump ha portato l’industria dello scandalo nel cuore della democrazia statunitense. Sebastian Kurz l’ha portata nel cuore della democrazia austriaca. Quest’ultimo ha il vantaggio di essere considerato un politico serio e rispettabile fin dall’inizio, con la sua tranquilla personalità e il suo modo di presentarsi. Kurz e Trump, tuttavia, adottano entrambi il gioco dell’estrema destra con vecchi e nuovi media. Un esagerato motivo di scandalo, divisivo e rivolto contro le minoranze, viene presentato come prova di una dura verità che finalmente qualcuno ha il coraggio di dire» (p. 80).

Il ricorso aggressivo e spregiudicato ai social media e l’adozione dell’ordine del discorso cospirazionista producono il fenomeno della “stan culture”. «Gli attori del conservatorismo radicalizzato non hanno più solo sostenitori politici, ma veri e propri fan, persino superfan – in contesti pop-culturali sono chiamati “stans” e l’attività corrispondente “to stan”. […] Applicato al campo della politica, questo significa che la gente non si limita più solo a votare per un partito o per dei candidati, ma li segue incondizionatamente. Questi fan […] si legano direttamente a una persona. Il privato e il politico si confondono, l’opinione personale, la conoscenza scientifica e le rivendicazioni politiche si mescolano in un’unica brodaglia. Tutto ciò che la persona oggetto del desiderio del fan fa è giusto, tutto ciò che dice è vero. Qualsiasi critica o opinione dissenziente è illegittima» (pp. 85-86). L’effetto che ne consegue è la creazione di un al di là della verità e della realtà, di una realtà parallela in cui si annullano le differenze tra verità e menzogna, tra spiegazione e stravolgimento della realtà delle cose. Nella dimensione della post-verità il leader del conservatorismo radicalizzato si trova e si muove a proprio agio e il caso statunitense di QAnon e di Trump costituisce l’esempio più esplicito di tutto ciò.

Nelle ultime pagine del lavoro di Natascha Strobl, non manca un riferimento storico – seppur solo abbozzato – a due casi tanto noti quanto importanti di “conservatorismo radicalizzato” del passato: la cosiddetta “rivoluzione conservatrice” tedesca del periodo di Weimar e l’austro-fascismo di Engelbert Dollfuss. Esempi di collaborazione, commistione e sovrapposizione tra conservatorismo e fascismo storico che non poco contribuirono al successo di quest’ultimo in area tedesca poco meno di un secolo fa. Con questo l’autrice non intende compiere una improbabile ed inverosimile sovrapposizione tra presente e passato e paventare un impossibile ritorno del fascismo nelle sue forme storiche, bensì dimostrare come il terreno di contatto tra fascismo e conservatorismo sia più esteso e più poroso di quanto non si possa immaginare e come, in un quadro globale di crisi economico finanziaria che si trascina dall’ormai lontano 2008, di crisi climatica pressoché irreversibile, di crisi sanitaria, di tensioni internazionali, geopolitiche e di guerra – tutti fattori dell’aumento a dismisura delle disparità ed iniquità sociali (internamente ai singoli paesi e tra le diseguali parti del mondo) – le forze conservatrici abbiano saputo affermarsi sulla scena politica, imboccando la via della radicalizzazione e dell’estremismo di destra. Processo per altro favorito dal fallimento epocale delle forze della sinistra di governo, che, abdicando al loro ruolo storico e abiurando i propri ideali, hanno sposato programmi e principi del neoliberismo imperante, lasciando alla destra campo libero di conquistare un crescente consenso popolare.

 

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Il nuovo disordine mondiale / 13: Guerra e ipocrisia. Un’invettiva. https://www.carmillaonline.com/2022/05/02/il-nuovo-disordine-mondiale-13-guerra-e-ipocrisia-uninvettiva/ Mon, 02 May 2022 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71645 di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway) “Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal [...]]]> di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway)
“Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal trionfo dell’ipocrisia che la sostituisce con la propaganda intesa come unica fonte di informazione.

Il primo esempio di tale ipocrisia, forse il più importante e fuorviante, è proprio quello di voler definire, all’interno del ben più vasto crimine costituito dalla guerra, quelli che dovrebbero essere i crimini di guerra da addossare a qualcuno dei partecipanti a un conflitto. Una questione di lana caprina che trasforma le violenze odiose e i soprusi ignobili che accompagnano, inevitabilmente, i conflitti tra Stati e imperialismi in colpe specifiche di cui occorre accusare una delle parti in guerra. Possibilmente quella che la parte avversa spera destinata alla sconfitta.

Dalla prima guerra mondiale e dal congresso di Versailles e, in particolare, dal secondo dopoguerra in poi gli sconfitti del macello imperialista devono risultare colpevoli di “aggressione” e crimini indescrivibili, proprio per giustificare la parte svolta dei “buoni”, ovvero i vincitori, nel corso del conflitto. Motivo per cui la Germania, stato aggressore secondo i parametri individuati a Versailles nel corso del processo di risistemazione dei confini europei dopo il primo conflitto mondiale, fu condannata a pagare le riparazioni di guerra agli stati vincitori. Non importava se i generali di questi ultimi avevano mandato al macello, fatto fucilare o condannato alla follia milioni di giovani in divisa.

Dopo la seconda guerra mondiale furono i “criminali” di un’unica parte, quella sconfitta e nazista e possibilmente anche i più insignificanti sul piano politico ed economico, a sedere sui banchi del processo di Norimberga. Lo fecero rassegnati, spesso indossando occhiali scuri per nascondere gli occhi chiusi dei dormienti e degli annoiati, consapevoli che su quegli stessi banchi non avrebbero mai preso posto gli ideatori dei bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki oppure i generali sovietici che avevano mandato all’assalto le proprie fanterie senza alcun riguardo nel trattarle come autentica carne da cannone. La colpa doveva essere soltanto degli sconfitti. I buoni trionfavano, nelle ridefinizione del mondo e nell’immaginario.

Anche se a proprio in “casa” dei buoni alcuni dei principali esponenti dei cattivi avrebbero trovato riparo come scienziati (Wernher von Braun, ideatore delle V1 e V2 tedesche utilizzate per bombardare Londra e poi responsabile del primo programma spaziale americano), spie (tutti coloro che furono messi a capo di settori dei servizi occidentali nella Germania Ovest e in America Latina, dove avevano trovato rifugio, dopo aver accumulato “esperienze” negli apparati polizieschi e militari nazisti) e così via. Grazie anche all’aiutino fornito in molti casi dal Vaticano.

Già, crimini di guerra, ma solo quelli di una parte, e guai a sostenere, come fece Hemingway, che la guerra è un crimine in sé. Guai a sostenere che chi si oppone alla guerra, non si schiera, si dichiara antimilitarista, pacifista e antimperialista lo fa perché sa già in anticipo che la guerra porta con sé soltanto dolore, violenza, morte e distruzioni che ricadranno quasi sempre e principalmente sugli strati meno agiati della società, sulle donne, sui bambini, sui giovani, sugli anziani e sui lavoratori.

Domenico Quirico, in un testo già citato nella puntata precedente di questa serie di interventi sulla guerra, ha giustamente affermato:

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale1.

Spesso chi parla con troppa facilità e superficialità di “crimini di guerra” sembra voler far credere, oppure credere egli stesso, che esistano guerre pulite, senza ricadute sui civili. Ammaestrati da un immaginario cinematografico di stampo hollywoodiano in cui al massimo sono gli “eroi” a morire. Ignorano, i sostenitori della guerra pulita e intelligente, possibilmente democratica, che dal secondo conflitto mondiale e per tutta la seconda metà del secolo appena trascorso sono stati i civili a subire il maggior numero di perdite, violenze di ogni genere e patimenti. In un crescendo in cui dalla Palestina a tutto il Medio Oriente, dal Vietnam a tutte le tragedie asiatiche fino alle guerre balcaniche (di cui i media si dimenticano sempre, fingendo che prima della guerra in Ucraina non vi siano più state guerre sul territorio europeo fin dal 1945) e passando per le tragedie infinite del continente africano e del sub-continente latino-americano sono stati milioni i civili uccisi, mutilati, stuprati, torturati. Di ogni genere e età, ma non sempre appartenenza sociale, poiché in fondo alla scala stanno sempre i poveri, i lavoratori, i senza riserve. Vittime della violenza del capitale sia in guerra che in pace.

Se poi qualcuno osasse ricordare le bufale che accompagnarono la caduta di Ceausescu, senza per altro voler affatto difendere la sua dittatura personale, con i cadaveri tirati fuori dalle fosse per dimostrare una strage mai avvenuta a Timisoara nel 1989, oppure ricordare che sulle pagine del «Guardian», quotidiano britannico tutt’altro che filo-putiniano, sarebbe apparsa un’inchiesta in cui si rileverebbe che diverse vittime di Bucha sarebbero state abbattute da proiettili ucraini2 o, ancora, ricordare come tre ben noti salotti televisivi (Piazza Pulita, Controcorrente e Porta a porta) abbiano utilizzato immagini tratte da un videogioco per illustrare la “struttura inespugnabile” dei bunker sottostanti alle acciaierie Azovstal di Mariupol, allora apriti cielo e caccia all’untore filo-putiniano e creatore di fake news anti-occidentali.

Guai a dire che il diritto che riconosce la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e imperiali è un diritto che non è tale, che è nato morto per disseminare la Morte in nome degli interessi nazionali, geopolitici e proprietari. Guai a dire soltanto che, anche nel contesto di un diritto internazionale segnato dal marchio di produzione capitalistico e borghese, chi invia armi ad un paese in guerra è cobelligerante di fatto. Tanto poi ci penserà la propaganda a spiegare che era inevitabile finire in guerra a causa dell’aggressività del nemico. E che le armi servono a disseminare la Pace. Anche quando, nelle parole di leader come Boris Johnson e dei media occidentali, non servono più a difendere la nazione “offesa”, ma ad aggredire e colpire l’ avversario. In casa, sul “suo” territorio.

Un “nemico odioso” che ci obbliga a scegliere tra il nostro meritato benessere e la rinuncia a qualche grado di fresco in estate e di caldo in inverno, mentre i nostri democratici governanti si arrovellano tra l’accontentare le richieste del socio di maggioranza a stelle strisce e le necessità, non della popolazione civile e reale, dei soci di minoranza (impresari, investitori, compagnie petrolifere e del gas, banchieri e finanzieri) che potrebbero subire gravi perdite nei loro interessi economici e manifatturieri.

Già, ma non chiamateli oligarchi. Loro no, loro sono altra cosa. Si nutrono di carne umana e di lavoro vivo, di prebende statali e interessi politico-mafiosi ma, non scherziamo, son mica russi!
Hanno giornali e televisioni, si son comprati giornalisti, intellettuali e politici di ogni risma, colore, sesso, età e origine sociale. Controllano il mercato azionario e delle materie prime, magari rivendendo le scorte accumulate ad altri paesi per approfittare degli alti prezzi causati dalla speculazione ancor prima che dalla guerra, ma no chiamateli oligarchi. No, magari squali e profittatori, come furono definiti dopo il primo conflitto interimperialista da coloro che seppero ribellarsi alla prima carneficina su scala mondiale.

Un “nemico odioso” che, nella vulgata propagandistica a favore della guerra, si annida in ogni Stato che non abbia accolto a braccia aperte la predicazione liberal-democratica troppo spesso associata al biancore della pelle e alla religione cristiana. Stati canaglia che perseguono interessi contrastanti con quelli del ricco Occidente. Nemici sicuramente nazionalisti, autoritari, fascisti e imperialisti e per questi motivi, appunto, non troppo diversi dai governi che ci vogliono armare in difesa dei propri interessi che qui, come nei paesi “nemici”, non coincidono mai con quelli della maggioranza della popolazione e della specie.

E non importa che i governi dei paesi democratici, come l’Italia, possano agire in piena libertà extra-costituzionale per fornire armi di ogni genere al novello alleato. Senza sentire la necessità di informare, almeno formalmente, quel parlamento che nella narrazione democratico-liberale dovrebbe costituire il cuore della democrazia rappresentativa. Ma non preoccupiamocene, poiché ogni guerra è stata dichiarata sempre sopra e oltre il dibattito parlamentare. La centralizzazione del potere riguarda anche, e forse soprattutto, questo: lo stato d’eccezione. E cosa può esserci di più eccezionale di una guerra, magari mondiale?

Motivo per cui anche il piagnisteo del pacifismo generico o di chi vorrebbe salvare almeno la facciata di sinistra di partiti scaduti da tempo, appartiene, in fin dei conti alla stessa ipocrisia. Quella che non denuncia mai le reali radici della guerra, delle mafie, della distruzione ambientale e sociale, dell’impoverimento e dello sfruttamento esercitato da una classe sociale ristretta sul resto dell’umanità.

Umanità che, soprattutto nel continente africano e in Medio Oriente, sarebbe condannata soltanto ora, secondo la vulgata ipocrita della propaganda di guerra, alla fame, a causa del conflitto scatenato dall’”odioso nemico” in Ucraina3. Minaccia cui la gestione capitalistica e imperiale dell’esistente intende rispondere con quelle scelte e tecnologie che proprio hanno contribuito a creare quella fame e quella povertà diffusa soprattutto in Africa. Magari suggerendo, proprio per l’Africa sub-sahariana, strategie innovative basate sulla digitalizzazione e il “miglioramento genetico” delle colture tradizionali4.

Umanità che non è più costituita da proletari o poveri, ma da “persone fragili”, in modo da disconoscerle qualsiasi caratteristica sociale riconducibile alle classi e ai loro conflitti nei confronti di una sempre più diseguale ripartizione delle ricchezze e delle risorse. Umanità che là dove alza la testa e si ribella al giogo infame dell’imperialismo, del sionismo e dei corrotti governi locali, non ha mai potuto usufruire dell’appoggio militare dei paesi che oggi foraggiano abbondantemente la “resistenza” ucraina. Umanità per la quale il presidente Mattarella non ha mai speso parole di elogio, non soltanto quando era sottosegretario alla Difesa ai tempi dei bombardamenti sulla Serbia e i Balcani. Umanità che quando si arma e resiste è definita dai nostri governanti come dagli altri governi occidentali non “resistente”, ma “terrorista”. Motivo per cui, a differenza degli “eroici” volontari che accorrono in difesa dell’Ucraina, non importa se nazisti o membri effettivi delle forze speciali americane e inglesi, quelli che vanno a combatter sul fronte del Rojava, pur in qualche modo riconosciuto dagli Occidentali in funzione anti-turca, al ritorno in patria devono sottostare a pesanti misure di sicurezza preventive. Come nel caso di Eddi Marcucci e tanti altri militanti italiani.

Affermazioni che nel loro insieme rendono evidente la necessità dello spaccio dell’ipocrisia trionfante, parafrasando l’eretico Giordano Bruno e la sua opera intitolata Spaccio de la Bestia trionfante (1584), opera filosofica di cui uno degli intenti principali resta fondamentalmente quello della polemica di Bruno contro la Riforma protestante, che agli occhi del Nolano rappresentava il punto più basso di un ciclo di degenerazione iniziato col cristianesimo. E in cui il termine “spaccio” sta per “cacciata”. Unica e definitiva degli antichi vizi che da secoli accompagnano la vulgata occidentale, razziale e cristiana del mondo.

(13 – continua)


  1. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

  2. Si veda: Francesco Borgonovo, Intervista a Toni Capuozzo – «La propaganda non è da una parte sola: il dubbio è un dovere», «La Verità», 28 aprile 2022, p.9  

  3. Si veda, a solo titolo di esempio: La guerra mondiale del cibo. Gli effetti alimentari del conflitto in Ucraina minacciano miliardi di persone fragili, «Scenari» n°5, a29 aprile 2022  

  4. Ancora su «Scenari» n°5: Roberto Pretolani, La tecnologia alimentare può salvarci dalle crisi; Mario Enrico Pè e Leonardo Caproni, Il matrimonio fra genetica e tradizione contadina.  

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Il nuovo disordine mondiale / 12: Vittorie perdute*. https://www.carmillaonline.com/2022/04/28/il-nuovo-disordine-mondiale-12-vittorie-perdute/ Thu, 28 Apr 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71617 di Sandro Moiso

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo) “Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod)

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata. Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del [...]]]> di Sandro Moiso

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo)
“Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod)

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata.
Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del mondo “autoritario”.

Ma guai a parlare di imperialismo, se non è quello russo-putiniano; guai a parlare di pace se non è quella dettata dai cannoni e dall’invio di armi; guai ragionare; guai uscire dal coro; guai smontare la propaganda bellica di entrambi le parti in conflitto.
Guai, guai, guai…
Basti invece cantare come i sette nani disneyani: Andiam, andiam, andiam a guerreggiar… (i nanetti di allora cantavano lavorar, ma che importa ormai ai nano-burocrati rappresentanti del capitale internazionale?). Oppure “Bella Ciao”, contro qualsiasi commemorazione della Resistenza che non si limiti ad esaltare l’unità nazionale e interclassista con i fascisti di un tempo e con quelli di oggi.

Così, nei libri di Storia futuri (stampati, online oppure semplicemente scolpiti nella pietra), come data di inizio vero del Terzo conflitto mondiale potrebbe essere ricordata non quella del 24 febbraio 2022 per l’invasione russa dell’Ucraina, ma quella del 26 aprile dello stesso anno. Giorno in cui, a Ramstein in Germania, il vertice Nato allargato ha, di fatto, dichiarato ufficialmente guerra alla Russia. Zelensky (autentico Renfield del vampirismo occidentale, ma tutto sommato personaggio secondario della catastrofe mondiale cui stiamo andando incontro), Boris Johnson (a caccia di una riabilitazione politica per la propria carriera e di un nuovo ruolo imperiale per il Regno Unito, costi quel che costi) e Sleepy Joe Biden (l’esibizione concreta del sonno della ragione che guida le scelte occidentali e della Nato) hanno scelto per noi, per la specie e l’umanità intera: basti leggere i titoli dei maggiori quotidiani del giorno successivo, il cui significato può essere sintetizzato con una frase di antica memoria: Alea iacta est (il dado è tratto).

Così mentre i russi avanzano poco a poco, conquistando i territori orientali ucraini e procedendo nell’opera di accerchiamento dei quarantamila soldati delle forze armate di Kiev attestati su quel fronte, i leader occidentali promettono, già intravedendola attraverso gli occhi spiritati di Zelensky, una vittoria in realtà piuttosto difficile da raggiungere e, in compenso, gravida di rischi già contenuti nelle stesse scelte che dovrebbero favorirla. Come, a solo titolo di esempio, l’ulteriore stanziamento di 33 miliardi di dollari richiesto da Joe Biden al congresso americano per la fornitura di altre armi all’Ucraina. Richiesta che fa inevitabilmente pensare alla previsione di una guerra di “lunga durata”.

Non tanto e soltanto per le parole già pronunciate in precedenza dal ministro degli esteri russo Lavrov a proposito del rischio di deflagrazione di una terza guerra mondiale e neppure per le minacce contenute nel discorso tenuto da Putin, a Pietroburgo il 27 aprile, con il riferimento al possibile ricorso ad armi per ora impreviste o sconosciute per l’alleanza occidentale. Ma anche, e forse soprattutto, per le crepe sempre più evidenti che tale dichiarazione di guerra aperta alla Russia rischia di aprire non soltanto tra i presunti alleati, ma anche con le altre potenze presenti sul pianeta. Cina e India in testa.

Come si afferma nell’editoriale del primo numero della rivista «Domino»:

Per gli esseri umani cogliere la profondità del momento storico che abitano è esercizio assai complesso. Travolti dalle circostanze, impegnati a sopravvivere, non percepiscono il frangente vissuto. Nel 476 d.C. nessuno si accorse che la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo avrebbe decretato la fine dell’impero romano d’Occidente – ammesso che sia accaduto sul serio1.

Così, se in Europa la questione delle forniture di gas ha già aperto un divario non secondario tra le richieste americane di sanzioni e gli effettivi interessi economici e produttivi di paesi come la Germania, l’Ungheria, la Slovacchia, la “neutrale” Austria e, anche, della timorosa e confusa italietta draghiana (in cui il peso dell’ENI, che avrebbe già deciso di pagare in rubli le forniture, non può affatto essere considerato secondario sia dal punto di vista economico che politico)2, nonostante le dichiarazioni dell’imperturbabile e insignificante Ursula von der Leyen, secondo la quale «l’Europa non si piegherà al ricatto (russo)», nel resto del mondo l’Occidente, per fingere una sua presunta aumentata influenza, ha dovuto accontentarsi di invitare al vertice di Ramstein paesi come la Liberia, la Tunisia, la Giordania, il Kenya e poco altro ancora.

Atterriti dall’aggressività russa, nei prossimi mesi i principali paesi europei aumenteranno grandemente la spesa militare. Su tutti, la Germania. Massimo esportatore relativo al mondo, tra i più capaci soggetti esistenti, da decenni Berlino è priva di reali forze armate – nelle parole dello Stato maggiore britannico, «i soldati tedeschi sono soltanto campeggiatori aggressivi». Dimensione innocua, utile per tranquillizzare i vicini, prossima a scomparire.
[…] Così il Regno Unito vorrà inserirsi nell’estero vicino della Germania, tornando a ergersi a principale sodale di polacchi e rumeni, come capitato in altri drammatici passaggi della storia.

Sebbene in questa fase salutino con soddisfazione il suo nuovo corso, presto gli Stati Uniti inizieranno a sospettare del satellite berlinese, troppo ingombrante per diventare bellicoso. Fino ad accendere la vecchia competizione bilaterale, soltanto parzialmente sopita con la seconda guerra mondiale. Al di là dell’appartenenza al medesimo fronte, Washington conserva una latente ostilità nei confronti della Repubblica Federale, memore d’aver faticosamente avversato ogni crescente potenza teutonica3.

Sbandierando poi la dichiarazione cinese che «nessuno vuole la terza guerra mondiale», i media italiani guerrafondai fingono una sorta di presa di distanza della Cina dalla politica russa, mentre è evidente che, pur nella sua ovvietà, la Cina non condivide l’attuale politica di aggressione verbale e militare portata avanti dai maggiori rappresentanti della Nato (USA e Gran Bretagna) nei confronti dei governanti e dei territori russi.

L’altro tema su cui si glissa, poi, è il fatto che il nazionalista Modi, in India, abbia di fatto respinto per ben tre volte la richiesta portata avanti, al più alto grado di rappresentanza politica, da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea affinché il suo paese abbandonasse la posizione astensionista nei confronti della condanna della condotta russa, tenuta fin dalla prima votazione alle Nazioni Unite nei primi giorni del conflitto russo-ucraino.

Rifiuto che pone l’India, una delle principali potenze economiche del globo e membro più che importante dei BRICS, in una situazione di attesa che, senza manifestare soverchie simpatie per Putin e la sua politica, si rivela comunque minacciosa per la tranquillità occidentale, la cui politica di intervento militare sempre più esteso si accontenta di giustificarsi attraverso la pretesa di un cambio della guardia in Russia, magari con la speranza di tornare ai tempi di El’cin, senza tener conto dell’autentico tsunami geopolitico che sia le scelte di Putin che proprie hanno e stanno contribuendo a sollevare su scala planetaria.

Ha dunque perfettamente ragione chi ponga l’esiziale domanda, al nostro governo come a quelli occidentali coinvolti, talvolta controvoglia come quello tedesco, nelle decisioni prese a Ramstein: quale vittoria si vuole perseguire? Ma, soprattutto: sono state messe in conto le conseguenze di una possibile sconfitta? A quanto pare, come per l’alterigia che accompagnò il generale Custer al disastro del Little Big Horn, NO.

Sconfitta che potrebbe derivare non soltanto dal differenziale bellico intercorrente tra l’arsenale nucleare russo e quello occidentale in Europa (qualcosa come dieci a uno, 2000 armi tattiche contro 200, secondo Lucio Caracciolo), ma anche dal fatto, che pur in caso di pareggio, le condizioni del continente europeo, soprattutto, potrebbero uscirne radicalmente modificate al ribasso (sia sul piano economico che sociale) a causa delle distruzioni che ne conseguirebbero.

Se tali distruzioni potrebbero già essere, in forma minore, anticipate dalla crisi economica derivante da un embargo del gas russo, paventata dalla gran parte degli imprenditori europei4, e dalle proteste sociali che ne deriverebbero, mentre già una parte significativa dei paesi mediorientali o affacciantisi sul Mediterraneo meridionale vede già accrescersi le spinte delle proteste di piazza per le difficoltà alimentari derivanti dal medesimo conflitto5, le conseguenze reali e finali potrebbero andare oltre qualsiasi previsione politica, economica o militare.

In questo senso, nonostante le minacce reiterate dell’Occidente ai due paesi che continuano ad acquistare il 70% delle loro armi dalla Russia e ad approfittare, oggi e in futuro, della necessità della stessa di vendere le risorse energetiche non più richieste da una parte dei paesi occidentali, India e Cina potrebbero uscire vincitrici da un conflitto destinato probabilmente a indebolire fortemente l’Europa, la Russia e, seppur con qualche differenza se riusciranno ad approfittare delle distanza dal teatro bellico, gli Stati Uniti stessi. Vincere senza muover un dito e senza sparare un colpo costituirebbe la massima realizzazione del pensiero militare orientale e cinese in particolare. Mentre, al contrario, si rivelerebbe un’autentica catastrofe per il capitalismo occidentale, i suoi apparati, le sue società, i suoi sistemi produttivi e le sue dottrine belliche.

Ipotesi non così peregrina se si considera come la Cina ha potuto sostituire gli americani in Afghanistan, dopo la loro precipitosa ritirata, occupandone le basi militari più importanti, come quella aerea di Bagram, oppure accaparrarsi i diritti di sfruttamento degli enormi giacimenti di terre rare, di cui quel paese è ricco, senza colpo ferire.

La minaccia poi contenute nelle dichiarazioni della von der Leyen durante il suo recente viaggio in India, nel tentativo di smuovere Modi dalle sue posizioni, ovvero quella che un embargo dei microprocessori prodotti a Taiwan, che realizza in proprio o su licenza più del 60% della produzione mondiale degli stessi, nei confronti della Russia potrebbe far sì che l’India, insieme alla Cina, potrebbe non più ricevere gli armamenti più sofisticati prodotti dall’industria bellica russa proprio per mancanza di quelli, potrebbe ottenere un effetto contrario a quello desiderato. Ovvero spinger la Cina, con l’avvallo indiano cosa impensabile fino a poco tempo fa, ad affrettare i preparativi per un’invasione dell’isola contesa all’influenza occidentale fin dal 1949.

Mentre, con una certa forzatura nel ragionamento, si continua ad affermare che Putin con la sua azione è riuscito a rendere più forte e collaborativa l’alleanza occidentale, ci si nasconde che in realtà è proprio l’azione occidentale a rendere possibili, magari anche solo momentaneamente, alleanze fino ad ora imprevedibili, come quella tra i due colossi asiatici. Soprattutto in un momento in cui, lo capirebbe anche il più asino degli strateghi, gli USA, nonostante la baldanza dei suoi rappresentati e del suo svanito presidente, non potrebbero impegnarsi su tutti i fronti destinati a svilupparsi a seguito del precipitare della situazione attuale. In cui anche il pesante riarmo giapponese, il più importante dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, esattamente come per quello tedesco, non significa soltanto allineamento agli ordini americani e occidentali, ma piuttosto l’apertura di una partita in proprio e a tutto campo.

Come sonnambuli, i rappresentanti occidentali riuniti a Ramstein, si sono avviati sul loro viale del tramonto, contenti oppure inconsapevoli di essere destinati a precipitare nel dimenticatoio della Storia, ma, esattamente come il loro avversario Putin, vilipeso, insultato e demonizzato insieme a tutto il popolo russo, ben determinati a cercare di difendere la propria posizione egemonica anche a costo della rovina e distruzione dei propri governati o di buona parte della specie umana.

Così come l’attorucolo Zelensky persegue orgogliosamente, stupidamente e neppure in nome dei reali interessi del popolo che si è trovato ad amministrare.
Con buona pace di tutti coloro in tutto ciò vogliono cogliere, ad ogni costo, un esempio di Resistenza, piuttosto che la demoniaca competizione imperialista che la sottende. Su ogni fronte.

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale. […] Nell’enunciazione di concetti primitivi, l’onore, il dovere riaffiora soprattutto una perfida tradizione irrazionalistica, uno sconclusionato dannunzianesimo fuori tempo: con la voluttà dell’esser eroe, il culto della morale guerresca, il vivo foco della lotta, e altri intrugli che infiammano i piccoli ribellismi borghesi di ogni tempo6.

* Il riferimento è a Vittorie perdute (Go Tell the Spartans), un film di Ted Post del 1978. Ambientato in Vietnam, nel 1964, narra le vicende di un contingente di soldati sud-vietnamiti e americani che si accingono a occupare la base abbandonata di Muc Wa. Dopo aver affrontato attacchi notturni di piccoli contingenti di Vietcong, vengono sterminati. Se sul Vietnam, fino al 1990, sono stati prodotto negli USA più di 100 film, questo, interpretato da un cinico e disincantato Burt Lancaster, è scritto benissimo, con divertito distacco, da Wendell Mayes, ed è uno dei meno noti, ma dei più sottili e dialettici tra tutti quelli realizzati sull’argomento.

(12 – continua)


  1. Punto di svolta in Ritorno al futuro, «Domino» n° 1, aprile 2022, p.7  

  2. Si veda: Vanessa Ricciardi, Putin comincia a togliere il gas e spacca l’Unione europea, «Domani», 28 aprile 2022  

  3. Punto di svolta, op. cit. p.9  

  4. Si veda anche soltanto il tentativo di tenere aperti i rapporti col mercato russo da parte dei maggiori calzaturifici italiani, che nei giorni scorsi in barba ai divieti hanno inviato una loro nutrita delegazione di rappresentanti in Russia  

  5. Si veda: Francesca Mannocchi, La guerra, la carestia e le rivolte del pane, «La Stampa» 23 aprile 2022  

  6. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

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Il nuovo disordine mondiale /3: i discorsi della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-3-i-discorsi-della-guerra/ Wed, 02 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70714 di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse [...]]]> di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse che hanno premiato le industrie produttrici di armi o collegate al settore degli armamenti e, infine, sulle ritorsioni di carattere economico adottate dall’Occidente nei confronti della Russia putiniana e delle loro possibili conseguenze sul piano interno russo e su quello militare, guerra nucleare compresa. Compreso, last but not least, un sintetico commento sul linguaggio di guerra dei media di ogni parte coinvolta e di quelli occidentali in particolare.

Linguaggio, propaganda e guerra sono assolutamente indivisibili poiché mentre le esigenze dell’ultima rimodulano obbligatoriamente i primi due elementi, questi, a loro volta, foraggiano e rivitalizzano in continuazione la stessa. In un girotondo in cui i termini tecnici perdono il loro reale significato, distorto a scopo propagandistico, e l’emozionalità sostituisce la razionalità di qualsiasi discorso inerente ai fatti reali. In cui la costante denigrazione e demonizzazione del “nemico” avviene in un contesto in cui, come già affermava Hannah Arendt ai tempi della guerra in Vietnam e dei Pentagon Papers, la “politica della menzogna” è destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale1.

Iniziamo, quindi, da ciò che con sempre maggior frequenza viene presentato come uno degli elementi certi del fallimento di Putin in Ucraina: la guerra lampo. Dopo sei giorni di guerra infatti, al di là della girandola di cifre, spesso iperboliche, sulle perdite e i danni subiti dai russi, ma molto più “contenute” per quanto riguarda quelle subite dalle forze ucraine, si sentono e si leggono sempre più spesso, ma lo si sentiva già dopo due o tre giorni, affermazioni riguardanti il fallimento militare russo nell’ambito della guerra lampo. Bene, cotali esperti e cronisti dimenticano due o tre cosucce riguardanti la stessa, sia sul piano storico che tecnico.

L’esempio classico di Blitzkrieg è sicuramente quello dell’occupazione tedesca della Francia nella primavera del 1940. Quell’operazione, che costituì l’esemplare applicazione dei metodi appresi dagli ufficiali tedeschi, durante la collaborazione tra Germania nazista e Russia staliniana dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alla scuola di guerra sovietica e da generali innovativi come Michail Nikolaevič Tuchačevskij (poi eliminato durante le grandi purghe staliniste del 1937), iniziò il 10 maggio 1940 e raggiunse il proprio risultato, occupazione del territorio francese a seguito della capitolazione del governo e delle armate schierate sullo stesso, il 22 giugno dello stesso anno.

All’incirca 45 giorni di quella che fu definita la guerra strana, balorda se non addirittura “buffa” (drôle in francese) per assumere il pieno controllo di un territorio appena un po’ più grande di quello ucraino attuale2. Durante la quale le colonne corazzate e meccanizzate tedesche si rifornivano direttamente ai distributori di carburante incontrati e sequestrati sul loro cammino, mentre le truppe britanniche venivano costrette ad evacuare rapidamente e disordinatamente le spiagge di Dunkerque tra il 27 maggio e il 2 giugno.

Vanno sottolineati questi aspetti perché alcune fonti di informazione mainstream hanno sottolineato come i mezzi russi abbiano “razziato” i distributori di carburante ucraini, scandalizzandosene. Mentre il vero scandalo, per l’occhio attento di chi un po’ di storia militare l’ha studiata, è dato dal diffondere l’idea che una guerra lampo possa durare 48 o 72 oppure 150 ore. Fatto ancora più scandaloso se si considera che le stesse fonti hanno appoggiato incondizionatamente guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan dover gli occidentali e la Nato sono rimasti impantanati per vent’anni senza ottenere alcun risultato se non la distruzione di economie, Stati e di un numero esorbitante di vite umane, soprattutto civili.

Diffondere, dunque, l’idea di un fallimento della guerra lampo russa a nemmeno due settimane dall’inizio costituisce per questo motivo soltanto un elemento propagandistico ad uso degli spettatori e lettori occidentali per tranquillizzarli sulle possibili conseguenze e i possibili sviluppi di una guerra appena iniziata. Così come l’insistere sulle difficoltà dell’avanzata russa significa nascondere il fatto che, dal punto di vista della dottrina militare russa, un avanzamento di 30-35 chilometri al giorno costituisce di per sé un fattore di successo, mentre nei primi giorni del conflitto le truppe russe hanno, in diversi casi, ampiamente superato le distanze effettivamente percorse. Senza dimenticare, infine, che l’intensificazione dei bombardamenti sulle reti di comunicazione e gli obiettivi sensibili distribuiti sul territorio ucraino potrebbero indicare che la “vera guerra” è iniziata solo ora.

Sullo scandaloso fatto, inoltre, che le operazioni militari russe continuino durante le trattative intavolate tra le due parti a partire del 28 febbraio, occorre semplicemente osservare che, storicamente, è proprio durante le trattative che le operazioni militari vengono intensificate dai contendenti, proprio per portare al tavolo delle stesse risultati destinati a porre i negoziatori su un piano di maggior forza. Naturalmente ignorando sempre il punto di vista della maggioranza dei civili, per cui la soluzione migliore è sempre rappresentata dalla cessazione delle ostilità o, come sta avvenendo anche oggi, dalla fuga per cercare rifugio in aree non ancora coinvolte dagli scontri e dalla guerra, alla faccia della retorica che vorrebbe tutti gli ucraini intenti a fabbricare molotov e ad arruolarsi nelle milizie volontarie. Tutto il resto è chiacchiera e, per giunta, nemmeno così tanto umanitaria come si vorrebbe invece dare a intendere.

Il solito rivoluzionario dagli occhi da tartaro affermava che «la verità è sempre rivoluzionaria» e per una volta tanto non aveva affatto torto. Perciò le righe che precedono e quelle che seguiranno avranno infatti questa intenzione, quella di disvelare, ancora una volta poiché ce n’è purtroppo bisogno, il cumulo di menzogne e falsità che coprono l’attuale conflitto e le sue possibili conseguenze future, mentre non hanno affatto quella di giustificare le imprese militari di Putin oppure enfatizzare le scelte del suo avversario Zelensky.

Se le fotografie dei danni apportati a numerosi mezzi russi attestano un uso massiccio di droni e armi tecnologicamente avanzate impiegate sul terreno dalle forze ucraine, fino ad ora probabilmente fornite dagli americani in precedenza (insieme ai droni turchi forniti da un’azienda specializzata in tale settore tra le più grandi del mondo, di cui proprio il genero di Erdogan è a capo ), è anche vero che la possibilità per i russi di creare colonne di mezzi lunghe decine di chilometri sulle strade ucraine attesta l’inagibilità dello spazio aereo per l’aviazione ucraina, così come dichiarato dalle fonti russe e come attestato dal fatto che alcuni aerei militari ucraina abbiano trovato rifugio in Romania.

Grande è il disordine quindi sul terreno dell’informazione e della propaganda, ma anche su quello delle alleanze, considerato che lo stesso Erdogan, che ha rifornito gli ucraini di droni, ha permesso un abbondante traffico di mezzi navali militari russi nello stretto del Bosforo che attraversa la stessa Istanbul, dividendola in parte europea ed asiatica. Il cui governo, nonostante le dichiarazioni di Zelensky che aveva dato per scontata l’idea di una Turchia vicina all’Ucraina, deve ancora accertare sul piano giuridico se quella in Ucraina sia davvero una guerra, mentre ha già affermato di non voler applicare sanzioni contro la Russia. Questione non del tutto indifferente se si considera che, non soltanto in teoria, la Turchia costituisce la seconda forza militare della Nato.

Rimanendo ancora sul terreno del linguaggio della propaganda e della necessità di creare consenso intorno alla guerra va notato come per Putin stesso le attuali operazioni militari non costituiscano un’aggressione militare, ma un’operazione “speciale” di ordine pubblico e disarmo internazionale, così come già tante guerre dichiarate dalla Nato e dall’Occidente hanno nel recente passato assunto la denominazione di “missioni di pace” oppure di “polizia internazionale”. Cambiano quindi i promotori, ma non il linguaggio utilizzato, cosa che dovrebbe sempre far drizzare le orecchie di chi ascolta tali fandonie, qualsiasi sia la fonte da cui sono espresse.

Il secondo elemento, che è stato prima anticipato, è quello del riarmo europeo, indice sia della frenesia di guerra che è sotteso sia al discorso sulla “pace” che della necessità di trovare uno sbocco produttivo sicuro per settori importanti dell’industria pesante, ma non solo, europea cui evidentemente la promessa del rinnovo del mercato dell’auto attraverso versioni ibride o elettriche della stessa non da ancora sufficienti garanzie di sviluppo dei profitti, mentre, soprattutto in Germania, fa già prevedere un’enorme riduzione di posti di lavoro nel settore, anticamera di possibili conflitti sociali che vanno sopiti ancor prima di un loro possibile inizio.

Da qui discende un passo che non bisogna esitare a definire “storico”: il riarmo tedesco annunciato dal cancelliere federale Olaf Scholz, con una previsione iniziale di spesa di cento miliardi di euro.
Una decisione che non può essere stata presa a sorpresa e soltanto a causa della situazione venutasi a creare sulle frontiere orientali, ma che deve covare da tempo nel governo e nella direzione economica del capitale tedesco. Decisione che prelude non solo alla necessità della “difesa” degli interessi tedeschi ad Est, ma inevitabilmente ad una ripresa, in chiave forse più aggressiva e marcata, della politica di potenza germanica, condotta fino ad ora soltanto con strumenti di ordine finanziario e legislativo oggi forse ritenuti non più sufficienti.

Considerazioni che non possono, oltre tutto, essere slegate dalla lentezza e dalle difficoltà che hanno invece caratterizzato qualsiasi provvedimento economico europeo nei confronti della pandemia e delle spesso drammatiche esigenze sanitarie, sociali ed economiche che ne sono derivate. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’andamento delle borse in questi giorni dove, solo in Italia sia Leonardo che Fincantieri, aziende coinvolte nel settore degli armamenti e della cantieristica militare, hanno visto crescere i loro titoli di più del 15% in un solo giorno.

Ancora più significativi appaiono, poi, i provvedimenti di ordine economico e militare presi da numerosi stati europei della Nato, italietta nostalgica in testa. Un autentico gettarsi a capofitto nella fornace della guerra, che richiama una somiglianza con l’affermazione marinettiana «guerra sola igiene del mondo!», che perde però la carica provocatoria del primo manifesto futurista e sembra assumere una carica messianica di risoluzione e cancellazione dei problemi politici ed economici, oltre che potenzialmente sociali, che attanagliano i governi, e in particolare e su tutti i fronti quello italiano.

Governo che, PD in testa, dopo aver posto ogni possibile e irragionevole fiducia nell’azione di un deus ex-machina come Mario Draghi, l’ha prima affondato nelle elezioni presidenziali e l’ha visto poi sparire dall’orizzonte internazionale, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni a favore del suo operato diplomatico venute da un “genio politico” quale Romano Prodi; unico tra i maggiori leader politici europei a non essersi recato a Kiev e Mosca, per lasciare il posto ad un tizio di nome Luigi Di Maio, inadeguato anche soltanto a preparare un caffè. Atto caratterizzato dalla tipica furbizia gesuitica ed italica che, nella sostanza, avvicina l’operato dell’attuale presidente del consiglio a un servilismo atlantico mai neppure lontanamente immaginato o voluto dalla DC di Giulio Andreotti più che a quello di un grande statista, come egli stesso si vorrebbe invece rappresentare.

Cosa che non gli ha impedito di rivendicare la necessità della riapertura delle centrali a carbone, e forse anche ad oli combusti, e la decisa affermazione della necessità di inviare altri soldati e mezzi ai confini orientali d’Europa e rifornire di armi il regime di Kiev, aggirando la legge 185 approvata nel 1990. Cose che, a parte le finte svenevolezze cattolicheggianti di Salvini sulla questione delle armi letali (ne esistono forse di non letali, a partire da scarponi e manganelli considerate le esperienze della Diaz e d ei detenuti massacrati troppo spesso tra le mura delle carceri italiane?) ha trovato tutti i rappresentanti della democrazia parlamentare uniti e saldi nell’urlare armiamoci e partite!3. Opposizione compresa, anzi più scalpitante che mai nel volersi rappresentare come degna erede del fascismo. E che proprio per questo, messa da parte la stagione della protesta contro il green pass, non si scandalizza certo più per l’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza fino alla fine di settembre per motivi legati alla difesa della sicurezza nazionale.

Andiamo in guerra ma non lo diciamo; spingiamo in quella direzione ma lo facciamo in nome della pace e della democrazia ci dicono i governanti europei ed in primis quelli nostrani. Sventolando un umanitarismo peloso che ricorda troppo le fake news che precedettero l’entrata nel primo conflitto mondiale, quando si raccontava sui giornali italiani che i soldati tedeschi, in Belgio, tagliavano le mani ai bimbi per poi inchiodarle sulle porte delle case. Oppure durante l’azione mercenaria in Congo, contro Lumumba e l’indipendenza africana, nel 1960, quando invece si raccontò che gli aviatori italiani uccisi a Kindu trasportavano giocattoli per bambini invece che armi per i ribelli secessionisti e filo-occidentali del Katanga che già si erano macchiati le mani con il sangue di Patrice Lumumba. Oppure, ancora oggi quando sulle pagine dei nostri quotidiani, appaiono le notizie di giocattoli esplosivi donati dagli “infernali” russi ai bambini ucraini. Benvenuti nel mondo della stampa democratica e liberale. Non soltanto italiana, se questo può consolare il lettore.

Liberale e democratica come l’Ucraina dove immigrati africani, asiatici e sudamericani devono lasciare il posto ai bianchi sui mezzi che possono portarli lontani dalla guerra (qui) oppure come i commenti sulla guerra in Europa, apparsi sui media occidentali, infestati di razzismo esplicito.

BBC: «E’ per me molto commovente vedere gente europea dagli occhi azzurri e dai capelli biondi venire uccisa» ( David Sakvarelidze – Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor,).

CBS News: «Qui non siamo in Iraq o in Afghanista, qui siano in una relativamente civilizzata città europea» (Charlie D’Agata – corrispondente estero)

BFM TV (Francia): «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo missili da crociera che ci piovono addosso come se fossimo in Iraq o in Afghanista. Riuscite ad immaginarlo?»

NBC TV: «Per dirla schiettamente, questi non sono rifugiati siriani, questi provengono dall’Ucraina… Sono Cristiani, sono bianchi, sono molto simili a noi» (Kelly Cobiella – corrispondente di NBC News dalla Polonia)4.

Benvenuti sotto le bandiere della democrazia e della libertà!
Benvenuti sotto le bandiere dell’umanitarismo e della pace!
Benvenuti sotto le bandiere di un leader, Zelensky, che in nome della patria chiama, di fatto, il parlamento europeo a scatenare un intervento contro la Russia.
Benvenuti sotto le bandiere del reggimento Azov, formato da volontari neo-nazisti e asserragliato a Mariupol.
Benvenuti nella prossima guerra mondiale, che la retorica odierna, da una parte e dall’altra non fa che preparare.
Benvenuti, quindi, all’inferno!
Motivo per cui non vi è modo di sistemarsi a fianco di una delle due parti in lotta, come tanto antagonismo confuso trova spesso così semplice fare, approfittando di discorsi e movimenti già apparecchiati da altri (ma con ben diversi fini).

Detto questo è utile sottolineare come tutte le sanzioni e tutti i provvedimenti presi o previsti fino ad ora dai paesi europei e della Nato, da quelle economiche alle forniture di arsenali militari, dallo schieramento di nuove forze militari ad Est al permesso per il transito di volontari per le milizie ucraine son tutti passibili di essere interpretati come azioni “belliche” di fatto. E la vergogna maggiore è data dal fatto che la stampa nostrana si sia permessa di tracciare paralleli tra l’odierno volontariato nazionalista e mercenario5, di stampo in gran parte fascista, destinato ad essere integrato nelle milizie ucraine e i volontari internazionalisti che accorsero in Spagna non solo in difesa della repubblica, ma anche con la speranza, poi tradita e distrutta dall’azione di Stalin e dei suoi accoliti italiani (Togliatti e Vidali), di portare la rivoluzione in Europa. Dimenticando, inoltre, il trattamento riservato ai volontari italiani tornati dal Rojava, quasi tutti indagati e di fatto trattenuti ai domiciliari per lunghi periodi.

In questo caso lo schieramento è conservativo, non perché si opponga all’autocrate Putin, ma perché intende rafforzare e ristabilire l’ordine europeo ed occidentale del capitale imperialistico. In ogni modo e in ogni caso. Non c’è attualmente alternativa sul campo. Chiunque vinca, marciando sui cadaveri delle vittime civili e degli illusi di ogni tendenza, lo farà in nome di interessi finanziari, militari, geopolitici, economici e militari che rappresentano la negazione di qualsiasi cambiamento radicale degli assetti politico-sociali presenti.

Tutto ciò, compreso l’esplicito tentativo di rovesciare Putin “dall’interno”, costituisce il vero pericolo futuro, ovvero quello di un conflitto allagato a partire da provvedimenti che, minando la stabilità economica ed interna della Russia, potrebbero portare il leader russo a giocarsi il tutto per tutto in una battaglia a tutto campo. Motivo per cui la messa in allarme del sistema di deterrenza nucleare russo, della flotta del Pacifico e dei bombardieri strategici russi, non costituisce soltanto un’ipotetica minaccia come ai tempi dell’affare dei missili di Cuba nel 1962. Allora, infatti, si avevano margini di trattativa e spazi ancora da conquistare che oggi non ci sono più, per nessuna delle due parti in causa.

Tutto si svolge infatti sotto gli occhi di due potenze nucleari ed economiche, Cina e India, che per ora si astengono in attesa di approfittare degli errori dei due contendenti. Non vi sono alleanze sicure date, anche perché il grande blocco asiatico è costretto comunque a fare i conti con la necessaria continuità di presenza sul mercato mondiale. Di modo che se i paesi dell’heartland (Eurasia e Asia continentale) sono oggi interessati a non perdere i vantaggi di una possibile intesa che vada dai confini europei della Russia alla Corea del Nord e dalla Cina all’Oceano Indiano, passando magari per l’Afghanistan, allo stesso tempo, soprattutto la Cina, devono anche tenere d’occhio i loro interessi finanziari e produttivi globali.
Nello stesso tempo, i paesi del rimland (terre che limitano ad Ovest il grande continente euroasiatico e che cercano di limitarlo attraverso il controllo dei mari e degli oceani circondandolo) e della talassocrazia6 hanno ormai troppi punti di frizione da tener sotto controllo. Non ultimi proprio quella Crimea e quella Taiwan di cui tanto si parla quando si parla di guerra.

L’attuale frenesia di guerra da parte europea, ancor più che atlantica, dimostra la debolezza che sta alle basi di tali scelte. Così mentre si parla ad ogni piè sospinto della debolezza e dell’isolamento di Putin, a livello interno ed internazionale, il capitale europeo, schiacciato tra Stati Uniti e Cina, esigenze energetiche e difficoltà di rinnovamento, rivela tutta la sua fragilità7 lanciandosi, quasi inconsapevolmente, in un’avventura che potrebbe deragliare in una catastrofe senza precedenti. Ad accorgersene sembrano essere soltanto alcuni esperti di geo-politica e affari militari, mentre certi filosofi della politica incitano alla creazione di un autonomo arsenale nucleare europeo basato su quello francese, tra gli applausi dei giornalisti embedded dei media nazionali8.

Per noi, a cent’anni dalle mobilitazioni contro la prima guerra mondiale, rimane un’unica certezza ovvero la necessità non di chiedere pace, democrazia e libertà, parole vuote di significato reale se non accompagnate da una reale eguaglianza sociale ed economica, ma di anteporre a tutte le menzogne che la preparano quella spontanea opposizione alla guerra imperialista che mosse i pochi e coraggiosi rivoluzionari anti-militaristi che si incontrarono a Zimmerwal e Kiental, nella neutrale Svizzera, nel 1915 e nel 1916. In tutto 42 delegati nel primo caso e 43 nel secondo, una più che esigua minoranza anche per allora. Ricordando sempre che il primo nemico è comunque e sempre in casa nostra, ma con l’unica e significativa differenza che, oggi, anche la Svizzera non può più essere considerata neutrale dopo i provvedimenti approvati nei confronti della Russia e delle sue banche.

(3 – continua)


  1. Si veda qui  

  2. 675.000 km quadrati per la Francia contro i circa 604.000 dell’Ucraina odierna  

  3. Si veda qui, sulla frenesia europea e italica, un interessante articolo del magazine on line AD Analisi Difesa  

  4. Per altre “perle” del genere si veda qui  

  5. Si veda il tariffario delle ricompense in denaro promesse da Vladislav Atroshenko, sindaco di Chernihiv nell’Ucraina settentrionale: per ogni blindato da trasporto distrutto la ricompensa sarà di circa 4.400 euro, per ogni carro armato il premio sarà di circa 6.000 euro, per una cisterna mobile circa 7.500 euro. Mentre per ogni soldato russo “ucciso o catturato” il primo cittadino promette 300 euro (Fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ucraina-soldi-a-chi-infligge-perdite-all-esercito-russo-il-tariffario-della-resistenza/ar-AAUsEjw?ocid=msedgntp)  

  6. Si veda qui  

  7. Tipico il caso di Boris Johnson che non esita ad indossare la mimetica da combattimento per far dimenticare ai suoi elettori lo scandalo dei covid party  

  8. Anche se oggi, 2 marzo, sia Olaf Scholz che il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, sembrerebbero iniziare a frenare su un più ampio coinvolgimento della Nato in Ucraina poiché, secondo lo stesso Wallace, una scelta del genere porterebbe direttamente alla Terza guerra mondiale. Mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, avrebbe avvertito l’Occidente che una terza guerra mondiale non potrebbe essere che nucleare.  

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Turn Left https://www.carmillaonline.com/2019/12/15/turn-left/ Sun, 15 Dec 2019 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56724 di Alessandra Daniele

Nazionalizzazione di infrastrutture e servizi – ferrovie, poste, telecomunicazioni, acqua, gas, energia elettrica – de-privatizzazione della sanità pubblica, università gratuite e detassate, aumento del salario minimo, case popolari, espropri azionari, tasse patrimoniali e sulle transazioni finanziarie: un partito con un programma del genere oggi in Italia alle elezioni si sarebbe fermato sotto il 2%. In Gran Bretagna è arrivato al 32% con più di dieci milioni di voti, piazzandosi al secondo posto, meno di 4 milioni di voti sotto ai Conservatori. Quello britannico però è un sistema elettorale maggioritario uninominale [...]]]> di Alessandra Daniele

Nazionalizzazione di infrastrutture e servizi – ferrovie, poste, telecomunicazioni, acqua, gas, energia elettrica – de-privatizzazione della sanità pubblica, università gratuite e detassate, aumento del salario minimo, case popolari, espropri azionari, tasse patrimoniali e sulle transazioni finanziarie: un partito con un programma del genere oggi in Italia alle elezioni si sarebbe fermato sotto il 2%.
In Gran Bretagna è arrivato al 32% con più di dieci milioni di voti, piazzandosi al secondo posto, meno di 4 milioni di voti sotto ai Conservatori.
Quello britannico però è un sistema elettorale maggioritario uninominale a turno unico, il meno rappresentativo in assoluto. The winner takes it all, quindi a Jeremy Corbyn del Labour è toccato sentirsi dare del perdente pure dai pidocchietti renziani del 4% virtuale, che l’hanno oltretutto accusato di correità nella Brexit.
In realtà è stata proprio l’ambiguità cerchiobottista di Corbyn sull’argomento a costargli la vittoria.
La sua cautela verso gli accordi con Bruxelles ha inevitabilmente finito per minare anche la credibilità delle sue pronesse in campo economico.
“Get Brexit done” è stato lo slogan vincente di Boris Johnson, che gli ha fruttato una fetta decisiva del voto degli operai, delle periferie, delle zone rurali, delle classi tradizionalmente laburiste.
Se Corbyn avesse avuto più coraggio, quella che è diventata la più clamorosa svolta a destra della storia britannica dai tempi della Thatcher, sarebbe potuta essere esattamente il contrario: una storica svolta a sinistra, fuori dall’Unione Europea e dal neoliberismo, perché, nonostante le cazzate raccontate dai sovranisti, è vano uscire dall’una senza uscire dall’altro.
Infatti, il risultato del voto britannico è stato festeggiato dai mercati mondiali fin dal primo Brexit poll.

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