Bordiga – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I comunisti sono matti ? https://www.carmillaonline.com/2023/10/11/i-comunisti-sono-matti/ Wed, 11 Oct 2023 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79137 di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro [...]]]> di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli pubblicata nelle serie dedicata alla Storia della Sinistra comunista e della dissidenza in Italia di «Pagine Marxiste».

Figure che si muovono tutte tra prometeismo, visionarietà e giochi di equilibrio spericolati tra assurdità e tragedie personali. Un bel catalogo di vite frantumate e disperse, nel corso del XX secolo, da un modo di produzione, da un ambiente socio-culturale e politico e dalle sue mode che definire distruttivo e devastante, tanto per il singolo individuo quanto per i milioni di altri che lo circondano, è ancora eufemistico e dall’implacabile scorrere di eventi tra i più drammatici che la Storia possa annoverare nei suoi annali (dittature, guerre mondiali, uso dell’arma nucleare, asservimento degli ideali rivoluzionari agli interessi del Capitale, tanto ad Ovest quanto ad Est e molto, troppo altro ancora).

Eventi che hanno causato traumi collettivi e singoli, individuali e sociali, largamente conosciuti oppure del tutto sconosciuti, ma che hanno segnato donne, uomini e generazioni in profondità. Come avviene appunto per la vita del “ferroviere rosso” Isidoro Azzario, di cui i due ricercatori militanti, Pellegatta e Lunardelli, ricostruiscono le drammatiche vicende, a metà strada tra le prime storie di Georges Méliès, il tramonto del duo cinematografico composto da Stan Laurel e Oliver Hardy descritto nel romanzo Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano e la tragedia del proletariato mondiale schiacciato e sconfitto dall’azione di fascismo e stalinismo nel corso degli anni Trenta.

Isidoro Azzario, nato a Pinerolo il 20 maggio del 1884, figlio di un simpatizzante socialista da cui apprese, secondo le sue stesse parole «i primi rudimenti del socialismo», attraverserà i primi, drammatici cinquant’anni del XX secolo vivendo in prima persona molti degli eventi che li avevano caratterizzati. Non solo qui in Italia, ma anche all’estero. In Sud America, dove fu inviato come rappresentante dei Ferrovieri rossi, e in Russia, dove fu delegato del Pcd’I al IV Congresso dell’Internazionale Comunista e dell’esecutivo allargato della stessa.

Tra i fondatori del Partito comunista d’Italia al congresso di Livorno del 1921, Azzario era stato assunto in ferrovia nel 1904, portando con sé sul lavoro non soltanto la preparazione tecnica acquisita con la frequentazione delle scuole tecniche in provincia di Torino, ma anche le qualità oratorie dimostrate nei suoi improvvisati discorsi contro il colonialismo italiano e a favore di Gaetano Bresci che avevano stupito e scandalizzato i suoi insegnanti mentre spronava i suoi giovanissimi compagni di scuola negli anni di Crispi, Bava Beccaris e ancora in quelli successivi.

Chiamato da Bordiga nella commissione sulla tattica che avrebbe dovuto occuparsi del programma di lotta da applicare tra il proletariato italiano, avrebbe poi interpretato “al meglio” quello stravolgimento del corpo del partito seguito al convegno clandestino alla Capanna Mara del maggio 1924 e successivamente, in quanto ex-sinistro, venne scelto durante il congresso di Lione del 1926 per portare l’affondo più duro contro la direzione della Sinistra, con tanto di autocritica.

In America Latina, in seguito a un riconoscimento o a una delazione, fu arrestato a Cali e rispedito in Italia e, probabilmente, durante il viaggio di ritorno in nave fu a lungo torturato e seviziato dai fascisti, fin quasi a fargli perder la ragione, anche se questo non fu sufficiente a piegarlo del tutto. Successivamente, come era già successo dopo il primo licenziamento per motivi politici subito ancor prima del 1921, Azzario fu reintegrato nei ranghi delle ferrovie e nel secondo dopoguerra avrebbe svolto ancor per pochi mesi la funzione di Capostazione in quel di Luino. Ma tutto questo viene ricostruito a posteriori nel testo qui recensito, poiché la narrazione prende avvio da Mercoledì 26 novembre 1958, quando:

all’ospedale Luini -Confalonieri di Luino, viene ricoverato nel reparto Medicina un anziano signore: alto, visibilmente denutrito, il viso cianotico, lo sguardo perso; spicca sul mento un lungo e curato pizzo bianco. Le sue condizioni appaiono subito serie: aritmia, difficoltà di respirazione, scarso orientamento nel tempo e nello spazio. Al personale sanitario conferma di chiamarsi Isidoro Azzario […] Nella cartella clinica i medici aggiungono che le condizioni psichiche del paziente non consentono una corretta raccolta dei dati anamnestici: disturbo bipolare, precisano1.

Azzario è in pensione da 11 anni dopo aver fatto il Capostazione sulla sponda lombarda del lago Maggiore, dove era giunto come sfollato da Milano, durante la guerra, insieme alla figlia e al genero che di quella zona era originario. La moglie era morta nel 1937 e Isidoro è accompagnato dal dolore di non aver potuto nemmeno partecipare al suo funerale a causa di un ottuso funzionario fascista che gli aveva impedito di lasciare l’isola di Ponza, ove era confinato, per il tempo necessario per partecipare alle esequie.

Anche se a Luino e Germignaga, dove risiedeva, molti lo conoscevano, quando viene ricoverato in stato confusionale e denutrito, l’ex-ferroviere rosso vive da solo, o quasi, da diversi anni dopo che la figlia era morta nel 1948 e il genero nel 1957. Da anni. però, aveva ripreso a frequentare la sezione locale del PCI in cui testardamente e ostinatamente aveva ripreso a professare la critica del partito stalinizzato e del fasullo socialismo reale tipica della Sinistra comunista e di Bordiga, cui tornerà ad essere associato dalla direzione locale del partito. Direzione di cui faceva parte Gianni Rodari che in quegli anni sarebbe stato uno dei giudici più fermi e intransigenti di ogni forma di dissidenza interna, soprattutto se anche lontanamente riconducibile alle posizioni della Sinistra.

Ma il motivo per cui tutti ricordano Azzario, in quegli anni, non è tanto l’intransigenza politica nei confronti del Partito togliattiano e dello Stato sorto dalla Resistenza e delle sue alleanze internazionali, quanto piuttosto per i voli pindarici riguardanti la posizione dell’uomo nello spazio, le reali dimensioni della Luna e la sua reale distanza dalla Terra; la curvatura dello spazio che permette altresì che il satellite terrestre non sia null’altro che il riflesso della stessa, insieme all’attenzione per i primi voli spaziali (in particolare per il lancio della prima sonda lunare sovietica, Lunik, lanciata il 2 gennaio 1959, ma che non entrò nell’orbita della Luna per un errore di circa seimila chilometri) e la televisione che egli riteneva superata dal fatto che presto gli uomini avrebbero potuto telepaticamente ricevere una propria “televisione mentale” senza l’uso di elettrodomestici o altri marchingegni tecnologici. Tutte riflessioni che egli sottoponeva agli infermieri e ai pazienti dell’ospedale, ma che in precedenza aveva fatto circolare a voce e a stampa, in opuscoli stampati insieme al genero e poi distribuiti con lui a Milano. Uno avvolto in un mantello nero di sapore ottocentesco e l’altro in un saio verde.

Una storia di disagio psichico che però era già iniziata dopo la disavventura sudamericana del 1927 e le torture subite dai fascisti. Così che, dopo esser stato all’epoca consigliere comunale a Cuneo, membro di spicco della Camera del Lavoro locale, redattore di giornali comunisti e militanti quali «il Sindacato Rosso», schedato dalle prefetture come elemento estremamente pericoloso e definito da Gramsci come oratore formidabile, freddo, preciso e impeccabile, a Regina Coeli, dove era stato rinchiuso in attesa del processo, era stato riconosciuto a stento dai suoi compagni di partito e di carcere.

Bollato dalle perizie psichiatriche come individuo affetto da paranoia espansiva e delirio cronico progressivo, avrebbe iniziato il suo calvario tra i manicomi e, dopo di questi, quello del confino a Ponza e alle isole Tremiti. Durante il quale elaborò complesse teorie astronomiche, scrisse di Bimanità e Trimanità e si dichiarò figlio illegittimi di Nietzsche, di cui in gioventù aveva letto gli scritti insieme a quelli di Karl Marx.

Il testo di Pellegatta e Lunardelli, che a questo punto si lascia che sia il lettore ad esplorare fino in fondo, si avventura dunque in un territorio oscuro, sospeso tra dramma e paradosso, tra tragedia e sempre involontaria comicità, che, però, non costituisce l’unico caso nella storia del movimento operaio italiano. E nemmeno solo del movimento operaio, soprattutto nel guardare allo spazio come luogo di fuga e liberazione. Per la mente e, forse, anche per il corpo.

Basterebbe, allontanandoci per un momento dal contesto della lotta di classe, pensare a uno dei jazzisti afro-americani più innovativi e visionari: Sun Ra. Nato come Herman Poole Bloun a Birmingham in Alabama nel 1914, dotato di notevoli doto pianistiche e gusto musicale fin da giovane, a seguito dell’imprigionamento per renitenza alla leva e dei maltrattamenti subiti nel 1942-43 a causa della sua obiezione alla guerra e al servizio militare, dopo essere stato esaminato dagli psichiatri del campo dove avrebbe dovuto prestare servizio civile, venne dichiarato “personalità psicopatica” anche se altamente “erudita ed intelligente”, e quindi congedato a tempo indeterminato.
Dopo di che assunse il nome d’arte, e non solo, che ne avrebbe collegato opera musicale, pensiero e immagine pubblica allo spazio (in particolare a Saturno) e all’antico Egitto faraonico, di cui si reputava discendente e, in qualche modo, erede delle conoscenze esoteriche.

Una divagazione, quest’ultima, apparentemente fuori luogo, ma che ci rinvia alla necessità umana di sognare e di cui il comunismo, “demone” come già lo definì il giovane Marx, scienza o programma che sia, spesso ha rappresentato soprattutto un grande e liberatorio esempio, sia sul piano collettivo che sul piano individuale. Sogni di cui, come già profetizzava Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, l’essere umano ha bisogno come dell’aria per vivere e la cui repressione parziale o totale può portare alla morte, se non fisica almeno psichica.

Un vecchio compagno bordighista era solito ripetere che i comunisti, per resistere in condizioni sociali, politiche e culturali controrivoluzionarie decisamente avverse, oltre ad avere una pelle da rinoceronte dovevano essere per forza dei drop out. Effettivamente l’autore della presente recensione di drop out nell’ambiente comunista ne ha conosciuti davvero tanti. Si intenda bene, però, qui non si parla degli internati nei manicomi staliniani e sovietici per reprimere la dissidenza e nemmeno dei partigiani rinchiusi in manicomio dopo il secondo dopoguerra mentre il guardasigilli Togliatti apriva le porte delle carceri ai fascisti per farli uscire (e magari, in molti casi, per entrare nei ranghi del PCI e dell’amministrazione statale)2.

Se ne vogliono qui ricordare soltanto alcuni, spesso riconducibili all’area cosiddetta bordighista, come ad esempio quello che, all’epoca cinquantenne, tra il 1976 e il 1977 a Torino, bazzicava gli ambienti del canagliume giovanile “rivoluzionario” legato alle precedenti esperienze di Lotta Continua, Potere Operaio e Lotta Comunista, proponendo loro opuscoli, testi e giornali provenienti dall’area della Sinistra comunista. Spiegando, però, a tutti coloro che lo ascoltavano che non sarebbe stato necessario agire fino a quando i morti accumulati per le strade non avessero raggiunto il davanzale della sua finestra. Finestra che era di fatto un abbaino di una soffittta posta al quarto o quinto piano di un edificio umbertino del quartiere San Paolo. Per non dare adito a dubbi di qualsiasi genere va qui chiarito che Zombie di Romero sarebbe uscito soltanto nel 1978.

Oppure un giovane compagno che, ancor ventenne agli inizi degli anni Ottanta, si rifugiò in un mondo tutto suo, da cui non sarebbe mai più uscito, in cui la Terza guerra mondiale era già iniziata e le bombe atomiche avevano cominciato a piovere su un’umanità spenta e incredula. O, ancora, un vecchio compagno di una nota azienda di Ivrea in cui i comunisti di sinistra che componevano l’intero consiglio di fabbrica erano stati espulsi dal sindacato, per mano di Fausto Bertinotti, quando si erano rifiutati, insieme a tutti gli altri operai, di solidalizzare col Governo e i servi del capitale, non aderendo allo sciopero dichiarato dopo il rapimento o il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel 1978. Tale compagno dopo essersi ritirato in pensione manifestò sempre più i sintomi di un forte bipolarismo che spesso lo rendeva inviso ad amici, ex-compagni e famigliari.

Sono solo alcune delle storie che, per quanto piccole e apparentemente insignificanti, non andrebbero prese sottogamba e nemmeno ridotte a semplici curiosità aneddotiche, ma come testimonianza di sofferenze e drammi umani seguiti alla sconfitta (momentanea o sempiterna non tocca qui stabilirlo) del sogno più grande che il capitalismo, fin dalla scoperta delle sue irrisolvibili contraddizioni di classe, ha contribuito a produrre nella mente e nella speranza di chi dal basso gli si è contrapposto senza infingardaggini e senza compromessi.

Almeno per questo Isidoro Azzario e tutti gli altri sperduti compagni che in tanti modi diversi hanno seguito il suo percorso, meritano la riconoscenza di chi li ha conosciuti o di chi ne sente parlare soltanto ora per la prima volta.
Questa è la memoria che val la pena di preservare, molto più di quella delle rimembranze istituzionali e mummificate degli infiniti giorni e delle infinite iniziative ufficiali dedicate alla conservazione di una memoria a senso unico. Per questo Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli hanno fatto benissimo a ricordarcelo attraverso il loro lavoro di autentica, non blasonata e tanto meno patinata “storia dal basso”3. Storia di militanti che, come nel caso di Azzario, troppo spesso sono stati volontariamente rimossi dai gestori dell’ordine della memoria e dai loro partiti, anche quando, questi ultimi, per lungo tempo si son dichiarati “comunisti”.


  1. M. Lunardelli, A. Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, p. 11  

  2. In proposito si vedano: A. Peregalli, M. Mingardo, Togliatti Guardasigilli 1945-1946, Colibrì, Milano 1998 e M. Franzinelli, N. Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli, Milano 2015  

  3. Alessandro Pellegatta, oltre ad avere scritto già un altro testo su una figura dimenticata e contraddittoria dell’anarchismo, Infinita tristezza. Vita e morte di uno scalpellino anarchico (pagine Marxiste), ha anche curato, sempre per le stesse edizioni, due volumi sull’azione dei rivoluzionari in provincia di Varese e all’isola d’Elba nell’immediato secondo dopoguerra ed è tra i curatori del Dizionario biografico del movimento operaio, reperibile qui  

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Esperienze estetiche fondamentali / 4: Th.W. Adorno https://www.carmillaonline.com/2023/04/27/esperienze-estetiche-fondamentali-4-th-w-adorno/ Thu, 27 Apr 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76742 di Diego Gabutti

Mai più tornato ad Avellino. Tra la stazione e la caserma c’era un lunghissimo viale. Mi sembra non fosse alberato, anche se non posso giurarlo. Era estate. Ricordo un largo marciapiede percorso da cittadini dall’aspetto rilassato. Avevano l’aria di poter passeggiare avanti e indrè senza fare nient’altro dal mattino alla sera, e senza mai annoiarsi (col tempo, letti molti libri sull’argomento, che interpretai come manuali, e stufo di spostarmi in automobile, avrei imparato anch’io l’arte del flâneur). Ricordo anche d’avere avuto l’impressione, mentre andavo per la prima volta dalla [...]]]> di Diego Gabutti

Mai più tornato ad Avellino. Tra la stazione e la caserma c’era un lunghissimo viale. Mi sembra non fosse alberato, anche se non posso giurarlo. Era estate. Ricordo un largo marciapiede percorso da cittadini dall’aspetto rilassato. Avevano l’aria di poter passeggiare avanti e indrè senza fare nient’altro dal mattino alla sera, e senza mai annoiarsi (col tempo, letti molti libri sull’argomento, che interpretai come manuali, e stufo di spostarmi in automobile, avrei imparato anch’io l’arte del flâneur). Ricordo anche d’avere avuto l’impressione, mentre andavo per la prima volta dalla stazione alla caserma, che Avellino consistesse di quell’unico viale affiancato da due singole file di case, di tre-quattro piani al massimo, oltre le quali, a destra e a sinistra, c’era subito la campagna aperta.

Nei cortili delle case, lungo la strada, ricordo un vasto spentolio di pomodori messi a cuocere in grandi marmitte alimentate a legna, su grandi falò. Altre vaste distese di pomodori se ne stavano al sole a seccare. Era evidentemente la stagione della salsa e dei pomodori secchi. Mai saputo che ce ne fosse una. Gli odori erano intensi, i colori accesi, il rosso una vampa. Mai visto prima niente di simile. Praticamente un altro pianeta. E in fondo al viale, la caserma.

Qui mi consegnarono (attenti, riposo, spall’arm) una divisa estiva da bersagliere, fez e tutto, compreso il cappellone di metallo piumato (anche se dire piumato, di quello sproposito di piume, roba da Ziegfeld Folies, è riduttivo). In libera uscita s’indossava il fez (rosso, il pon-pon blu madonna) che metteva allegria a bambini e burloni. Mi piaceva passeggiare per Avellino, il caffè era ottimo, idem le pastarelle, finché non saltò fuori che giù per il viale, quando capitava d’incrociare un ufficiale o anche solo un maresciallo, si doveva scattare sull’attenti, sbattere i tacchi e portare la mano a visiera sulla fronte. Marescialli e capitani non erano uomini ma caporali: per scacciare lo spleen, e spassarsela a spese delle reclute, non facevano che andare su e giù dalla stazione beandosi dei saluti militari. Personalità autoritarie calzate e vestite, accidenti a loro.

Fortuna che avevo con me il contro-incantesimo: una copia della Dialettica negativa di Theodor Wiesengrund Adorno, il fenomeno filosofico della prima metà della seconda metà del Novecento. Rilegato e con sovraccoperta, era un libro giallo canarino (colore per il quale anch’io, come Nero Wolfe, ho sempre avuto un debole).

Comprata qualche giorno prima, a Milano, alla Feltrinelli di Via Manzoni, dov’ero capitato per caso, sapevo perché mi ero portato in partibus infidelium la Dialettica negativa, summa del pensiero adorniano, appena tradotto da noi ma uscito in Germania sette anni prima, nel 1963. Era per consolarmi in quest’improvvisa curva a gomito della vita, adesso che mi toccava portare il fez come Totò nella parte del Turco Napoletano («Guarda Omar quant’è bello!») Politicamente radical, filosoficamente chic, giallo canarino, Dialettica negativa era un saggio tirabaci.

Cominciava così, con un incipit incantatorio che diceva: «La filosofia, che una volta sembrò superata, si mantiene in vita, perché è stato mancato il momento della sua realizzazione. Il giudizio sommario, che essa abbia semplicemente interpretato il mondo e che per rassegnazione di fronte alla realtà sia diventata monca anche in sé, diventa disfattismo della ragione, dopo che è fallita la trasformazione del mondo».

Monca. In sé. Disfattismo della ragione.

Non si poteva dir meglio – qualunque cosa, però, si volesse dire, e mica era chiaro. Che fosse colpa della traduzione? Delle virgole traballanti? Del tono incravattato e per così dire «animalescamente serioso», come altrove diceva lo stesso Adorno, diffidando forse un po’ anche di se stesso, oltre che d’interpreti e traduttori? O io duro?

Anni dopo, in una sorta di divorzio unilaterale musulmano, le Edizioni Einaudi ripudiarono la prima traduzione di Dialettica negativa, edita nel 1970, per sostituirla con un’altra, che apparve nel 2004. Colpita da un Verboten, della prima traduzione svanì ogni traccia.

Sempre con scarso riguardo per le virgole, lasciamo per un momento il senso da parte, adesso si poteva leggere questo nuovo incipit: «La filosofia, che una volta sembrò superata si mantiene in vita perché è stato mancato il momento della sua realizzazione. Il giudizio sommario, che abbia semplicemente interpretato il mondo e che per rassegnazione di fronte alla realtà sia paralizzata anche internamente, si trasforma in disfattismo della ragione, dopo che la trasformazione del mondo è fallita».

Non cambiava granché. Anzi, da come la vedo adesso, la nuova traduzione era meno sculettante e fascinosa della vecchia. Ma passons. Dopo la prima libera uscita, salutato il mio primo ufficiale e subito rientrato in caserma, ero corso ai ripari.

Giovane e convincente come il demonio, e se non bravo bidonista io allora babbioni loro, chiesi e ottenni di preparare il mio esame sulla Dialettica negativa dal comandante di compagnia (o comunque si dica) evitando l’addestramento. Mostrai il bel tomo, lo sfogliarono, e anche loro rimasero basiti. Non avevo nessun esame da preparare, naturalmente. Non ero neppure iscritto all’università. Furono tutti molto gentili. Mi venne riservato uno stanzone al primo piano, in fondo al cortile delle adunate.

Me ne stavo lì, cinque o sei ore al giorno, tutto solo, senza correre né saltare come gli altri bersaglieri, mai disturbato da nessuno, sonnecchiando e masticando caramelle gommose di liquerizia. C’era uno spaccio sempre aperto, e ogni tanto scendevo per una Coca, o un Buondì Motta. Leggevo la Dialettica, senza capirne una parola ma proprio per questo prendendoci sempre più gusto. Adorno era divertente, certamente malgré lui, ma comunque una vera sagoma, quando liquidava Heidegger per «l’oscurità, in cui nemmeno si formano più mitologemi come quello della realtà delle immagini». Oppure quando spiegava che «la filosofia non è scienza, né poesia di pensieri, come il positivismo con uno stupido ossimoro vorrebbe degradarla, bensì una forma mediata e distinta da ciò che è diverso da essa». Mitologemi! Oscurità! Che meraviglia!

Intendiamoci: vero che leggendola non si capiva granché: argomentazioni oscure, immagini belle e imperscrutabili. Ma la tesi, se non la sostanza, della Dialettica negativa era sotto gli occhi di chiunque si fosse preso il disturbo di dare anche soltanto un’occhiata, non importa quanto distratta, alla copertina del libro. C’era tutto lì nel titolo: «dialettica negativa» era praticamente uno spoiler.

Tesi, antitesi ma niente sintesi: Adorno predicava (anche se questa non è la parola giusta, però un po’ sì) una dialettica celibe, astratta e irriducibilmente teorica, persino un po’ astrattista, come le macchine dei surrealisti, queste e quella improprie all’uso. Negativa, la sua era una dialettica iconoclasta, e ai tempi (in primis) antisessantottesca, senza poster da venerare, tiranni da compiacere, popoli e classi da coglionare.

Era una dialettica che non si proponeva nulla di pratico o di concreto e che anzi si vietava ogni proposito (come diceva egli stesso altrove, proprio parlando d’evasione, dunque anche di queste pagine, a pensarci bene). Non c’era qui una delle sue agili acrobazie linguistiche seguite dall’oplà, come al circo, dopo che si sono esibiti i trapezisti macedoni, dopo la sfilata degli elefanti ballerini e la piramide umana. Niente lancia in resta. Niente «e ora a noi due, fellone». Era una dialettica senza l’elmetto calato sugli occhi. Era cioè una filosofia che negava puramente e semplicemente senso all’ambaradan della rivoluzione per finta (come la chiamava lui: sovietica, cinese, cubana, sessuale o variamente giovanile che fosse). Non potevi piegarla a schiamazzare nei cortei, a proclamare che la lotta continua, che l’utero è mio, che il vento dell’est prevale sul vento dell’ovest e altre bandiere al vento. Forse troppo negativa, la dialettica adorniana si perdeva così, diciamocelo, tutto il divertimento: jazz e rock’roll, cinema, radio, romanzetti, cartoni animati e insomma tutto ciò che, mentre la vita (notoriamente) non vive, almeno un po’ si sforza d’ammazzare il tempo. Adorno, tra le innumerevoli cose che detestava, naturalmente disprezzava in particolar modo che s’ammazzasse il tempo, benché fosse proprio per ammazzare il tempo che si dilettava col freudismo, la musica dodecafonica, l’arte d’avanguardia. Ma proprio questa sua particolare ottusità era la sua forza. Proclamando il primato Über Alles della teoria della Kultur, egli aveva fatto qualcosa, ai miei occhi, di eminentemente pratico: aveva classificato il militantismo e le fanfaronate gosciste in genere, cioè l’identikit nel quale non potevo evitare (ahimè) di riconoscermi, nello stesso repertorio flaubertiano di cui anche la Dialettica negativa, come tutta l’opera d’Adorno, era in qualche modo l’aggiornamento a quello che i marxisti chic avrebbero poi detto «secolo breve» e che lui, più opportunamente, avrebbe definito invece «dopo Auschwitz», l’inizio d’una nuova età del mondo. In Adorno c’era qualcosa di Bartleby, lo scrivano di Melville, e di Amadeo Bordiga, il comunista che non s’unì mai allo spettacolo. Come loro, anche Adorno, «preferiva di no». E così anch’io, che li approvavo tutti, per la loro negatività, con una passione da nerd.

Frugando nella biblioteca della caserma trovai Addio, Mr Chips! di James Hilton, una storia strappacore che invece, al contrario della Dialettica, suonava limpida, trasparente, cristallina e immediatamente comprensibile come una rima del Signor Bonaventura o una melodia di Lennon-McCartney, diciamo Penny Lane, o Eleanor Rigby. C’era nel romanzo questo timido professore. Hilton ne raccontava la vita dalla giovinezza all’età veneranda. Gli allievi, il college, l’alpinismo, gli affanni e la pensione, gli esami, la moglie troppo presto scomparsa. Ricordavo il film con Greer Garson e Robert Donat del 1939. Adorno, naturalmente, lo avrebbe detestato, come detestava un po’ tutto, a cominciare, lui musicologo, dal jazz. «Il cinema rende stupidi», diceva. Quanto a me, al film preferivo il romanzo.

C’era un gran caldo. Mai mangiato sbobbe più schifose; il profumo violento e speziato delle salse di pomodoro dava alla testa più del vino e del limoncello che la sera giravano nelle camerate torride. Mentre le altre reclute, per salire dal primo al secondo e al terzo piano, dovevano issarsi su per una corda, come fachiri, io usavo le scale.

Non li avevo con me, ma da tempo ero un fan dei Minima Moralia e della Dialettica dell’illuminismo. Quelli erano libri che si capivano, scritti in punta di penna, «poesia di pensieri» purissima, piacesse o spiacesse all’autore, anzi agli autori, visto che la Dialettica dell’illuminismo era firmata, oltre che da Adorno, da Max Horkheimer, del quale si diceva che, ricco sfondato com’era, si fosse comprato, pagando cash, l’Institut für Sozialforschung, poi detto Scuola di Francoforte, di cui era il plenipotenziario.

Chi ha letto da giovane gli aforismi di Adorno e la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer diventa magari un po’ snob ma almeno è vaccinato per sempre contro la volgarità delle ideologie radicali. Non ho orecchio per la musica, a meno che non sia musica pop per massaie e giovinastri (così come non ho orecchio per la narrativa alta, e leggo quasi esclusivamente romanzi in cui c’è minimo una galassia da salvare o il cadavere d’un assassinato dentro una camera chiusa dall’interno). Così non ho mai letto (sfogliato sì, un’occhiata veloce non si nega a nessun libro) i saggi di critica e filosofia musicale di Adorno. Può darsi che siano bellissimi. Anzi, lo saranno senz’altro e prima o poi, avanzandomene tempo, chissà che non mi decida a leggerli davvero. Ma l’Adorno macchinoso, ermetico, inesplicabile, che rimprovera agli altri il ricorso alle oscure trivialità del gergo filosofico, quando lui ne è un campione insuperabile e i suoi traduttori anche peggio, mi piaceva non perché m’impartisse chissà quale lezione di saggezza ma perché mi piaceva l’orrido: il Mulo Francis, Andy Wharol, gli «elseworlds» della DC Comics, La Chinoise di Godard e adesso anche la Negative Dialektic adorniana (tesi, antitesi, ma niente sintesi). In realtà, più che di Adorno, ero un tifoso dei suoi virtuosismi di prosatore, cioè dei Minima Moralia, tra i libri più belli mai scritti. Niente di personale. Erano affari estetici.

Pochi anni dopo – via da Avellino e dal servizio militare, di cui non mi resta neppure un souvenir, e non mi spiacerebbe avere nell’armadio il cappello piumato o almeno il fez, nonché ormai sposato e con figli pargoletti – io e il mio amico e compare Paolo Pianarosa, oggi malauguratamente scomparso, celebrammo i Mimima Moralia con un pamphlet stile Stanlio e Ollio intitolato Adorno sorride. Era un titolo che omaggiava insieme Adorno e William S. Burroughs («Tio Mate Smiles, The Chief Smiles, Old Sarge Smiles», da Wild Boys, apparso da noi nel 1973 come Ragazzi selvaggi). Oltre alla fissa per Adorno ne avevamo una anche per Burroughs. C’erano solo fisse, ai tempi. O gioventù!

Fu Elvio Fachinelli, psicoanalista e grande firma sessantottesca, a chiederci d’intervenire con un libretto satirico sulla polemica divampata nel 1977 a proposito di certi aforismi dei che non erano stati tradotti nell’edizione Einaudi del 1954. Fachinelli, che in quel livido crepuscolo del Sessantotto, dirigeva una rivista chiamata L’erba Voglio e la casa editrice omonima, aveva pubblicato, tradotti da Gianni Carchia, saggista e filosofo molto amico di Paolo, gli aforismi «censurati». Entrerei nei particolari, ma sono noiosi, quindi lasciamoli fuori.

Cesare Cases, pezzo grosso della casa editrice, e Renato Solmi, il traduttore dell’edizione sotto attacco, nonché co-curatore delle Meraviglie del possibile (come abbiamo appena visto) con Franco Lucentini, autori Cases e lui di libri memorabili, non la presero bene. Quale censura, allibirono Solmi e Cases all’uscita delle traduzioni di Cechia? Di che parlano questi qua?

E la presero anche peggio quando gli toccò leggere Adorno sorride, dov’erano spietatamente svillaneggiati, messi in croce e sbertucciati, benché Fachinelli, Carchia, Paolo e io avessimo torto e loro ragione, almeno a proposito degli aforismi soppressi. Magari si meritavano quella gran tempesta di frizzi e lazzi in quanto establishment culturale e icone, ai nostri occhi goscisti, dell’egemonismo stalino-gramsciano-berlingueriano che, sempre ai nostri occhi, ma non soltanto ai nostri, si stava divorando l’Italietta. C’era un che di zdanoviano nel catalogo Einaudi (come avrebbero messo in chiaro, beffeggiatori ben più temibili e puntuti di noi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini nel loro cult del 1979, A che punto è la notte, che fece il marxismo-einaudismo a brandelli). Si dice che Giulio Einaudi in persona, nei primi cinquanta, fu dissuaso dal pubblicare le opere complete di Peppone Stalin solo a un pelo dalla firma del contratto. Ma nessun einaudiano aveva censurato i Minima Moralia.

A che scopo censurarli, poi? Gli aforismi soppressi non dicevano niente di diverso da tutti gli altri. Avevamo un bell’inventare, Paolo e io, che fossero stati «sbianchettati» (come allora non si diceva ancora, ma c’eravamo quasi) perché in «aperta contraddizione» con la politica culturale del Pci, quale che fosse (Repubblica e l’Unità? il catalogo degli Editori Riuniti? Linus?) Non era vero. Ed era, anzi, una sciocchezza. Gli aforismi furono verosimilmente tagliati vuoi perché giudicati meno brillanti degli altri vuoi per sfoltire un libro troppo massiccio. Non fu bello, ma non fu neanche un crimine. Adorno, per quanto si dichiarasse ostile al socialismo reale, non era Solženicyn (che Umberto Eco, a proposito d’egemonismo stalino-gramsciano, aveva definito in quegli stessi anni «un Dostoevskij da strapazzo», e ciò proprio mentre l’autore di Arcipelago Gulag era nelle grinfie del KGB). Solmi e la redazione Einaudi non ricorsero alla guida pratica dell’Index Librorum Prohibitorum in versione bolscevica per cancellare con un Fiat Tenebris gli aforismi in eccesso. Ricorsero, più in piccolo e senza far danni, all’ambarabaciccicoccò. Ma Paolo e io trovammo divertente fingere indignazione.

Sul momento non lo capì nessuno, che per il senno di poi ci vuole tempo e pazienza, ma era cominciata l’età del falso sdegno, che presto sarebbe dilagato ovunque, come le armate degli zombie nei serial Netflix: questione morale, morte alla casta, politici ladri, democrazia canaglia, evviva e abbasso Berlusconi, il moralismo da talk show, populisti invasati, magistrati buoni e giusti, il fatto quotidiano. Fu il Sessantotto a cominciare, con le sue stizze da barzelletta, e certo anche Adorno, gran moralista, c’entrò per qualcosa. Un minimum di responsabilità tocca pure ai suoi interpreti e laudatores, tipo Paolo e me.

Non che lodassimo, e tanto meno interpretassimo, proprio Th.W. Adorno, la rock star della filosofia. Avevamo caricato a molla un pupazzo che somigliava al secondo violino dell’Institut für Sozialforschung ma che non era lui. Anche la somiglianza era vaga. Ci eravamo costruiti un Adorno che in parte poteva ricordare Clint Eastwood nei film (altra fissa) di Sergio Leone e in parte era un incrocio tra Bruce Lee e Fred Astaire. Un guerriero e un ballerino. Da come la vedevamo noi, questo particolare Adorno con la mascherina nera e un gran mantello da supereroe non s’occupava di filosofia. Quella era una copertura. Lui s’aggirava nei cataloghi editoriali, il solo campo di battaglia che riuscissimo a concepire, deciso a far piazza pulita dei filistei, come diceva Marx dei suoi e nostri nemici: i comunisti ortodossi, quelli eterodossi, da un lato György Lukács perché s’era venduto (il pidocchio) al realismo socialista, dall’altro Herbert Marcuse perché era un francofortese hippeggiante e New Age, la specie filosofica peggiore. Abusammo di questo Adorno action e immaginario fino a farne contemporaneamente un Pulcinella e un Matamoros.

C’inventammo Adorno, in quello scorcio di secolo popolato di lettori rococò, in cui non c’era libro sacro o profano che non rischiasse la maiuscola, come c’inventammo altri Libri e altre chimere: la Trilogia Nova di Bill Burroughs, l’Ispettore Callaghan e il Giustiziere della notte, i Fili del Tempo di Amadeo Bordiga, il cekista Blumkin, Gloria di John Cassavettes, i Warriors di Walter Hill, Walter Benjamin, Blonde on Blonde di Bob Dylan, Siegfried Kracauer, i manichei, per un po’ persino i Seminari di Lacan. Prima della realtà potenziata, con didascalie e sottotitoli visibili solo a chi indossa un visore o punta la fotocamera dell’iPhone sul QR code del monumento o dell’edificio storico, c’erano le biblioteche di libri (e autori) potenziati. Fu Adorno che pompammo di più, senza mostrare misericordia. Gli attribuimmo virtù ridicole e talenti inverosimili.

Dopo Avellino era stato tutto un crescendo. In una pagina d’Adorno sorride lo disegnammo mentre faceva roteare un randello dietro la schiena. Adorno, un pacifico professore tedesco intimidito dalle studentesse che durante le sue lezioni gli mostravano le tette per beffeggiarlo, era diventato uno squadrista. Me ne vergogno ancora.

Scomparso nel 1969, il poveretto non poteva difendersi dai suoi laudatores come, da vivo, non aveva potuto difendersi dalle studentesse in topless. Con me si prese, però, una rivincita postuma. Se anni prima, da militare, m’ero inventato un esame sulla Dialettica negativa, alla metà dei settanta me ne toccò davvero uno, con Gianni Vattimo, sulla Teoria estetica, di cui era appena uscita una traduzione sempre Einaudi, un testo adorniano se possibile ancora più oscuro dell’altro e altrettanto giallo canarino. Presentai all’esame una relazione. Vattimo la lesse, disse di non averci capito niente, zero, non una parola, e francamente ero perplesso anch’io, ma aggiunse che gli erano piaciute la prosa gaglioffa e le carambole dialettiche, complimenti.

Ebbi un 30 e lode al buio, come a poker. Lì per lì fui contento. Poi realizzai che il vero voto, come in una ghost story, me lo aveva dato Adorno con una randellata ectoplasmica. Mi aveva lanciato la maledizione dell’oscurità. E adesso ero come posseduto: lui avrebbe detto che avevo «introiettato» l’adornismo.

Leggendo i suoi Tre Studi su Hegel capii cos’era successo di preciso. Anche lui era stato posseduto, in giovinezza, da un filosofo che parlava oscuro, G.W.F. Hegel: «Gli ostacoli che le [sue] grandi opere frappongono all’intelligenza del testo, sono qualitativamente diversi da quelli che offrono altri testi famigerati per la loro difficoltà. È il senso stesso che in molta parte è in dubbio ci sia, e fin qui nessun’arte ermeneutica è riuscita a stabilirlo in modo incontrovertibile. Nella cerchia dei grandi filosofi Hegel è l’unico nel cui caso non si sa, alla lettera, e nemmeno si può convincentemente decidere di che cosa mai si stia discorrendo». Contagiato da Hegel, di cui aveva «introiettato» prosa gaglioffa e carambole dialettiche, anche Adorno era caduto sotto l’incantesimo dell’oscurità, che poi aveva trasmesso a me e agli altri suoi tifosi in giro per il mondo, certo pure alle studentesse sberflone di Heidelberg o Francoforte.

Era – inconfondibilmente – il principio del motivetto diabolico enunciato da Mark Twain in un celebre racconto: Oh fattorino dal ciuffo nero / fora il biglietto al… / fora il biglietto al… / al passeggeero! / Foralo bene, con diligenza / fin dal momento del… / fin dal momento del… / della parteeenza! (questa la remota versione Rai del motivetto satanico). Non puoi smettere di canticchiarlo fin quando non lo appiccichi a qualcun altro che comincia a canticchiarlo dopo averlo ascoltato da te. Personalmente non me ne sono mai sbarazzato del tutto. Quanto a Th.W. Adorno, non l’ho praticamente più letto, e non ne sento il bisogno. Ma vent’anni fa, nel 2003, il suo fantasma tornò a battere un colpo.

Su «Repubblica» del 12 febbraio, che lessi in un caffè sulle ramblas, a Barcellona, dov’ero finito con mia moglie per una breve vacanza, Cesare Cases citò Adorno sorride rievocando l’epoca sventurata «in cui si riteneva che la rivoluzione fosse stata mancata per un libro non tradotto». Fu allora che «due giovani sciagurati capirono che Minima Moralia era stato tagliato di circa un terzo (col consenso dell’autore) e menarono grande scalpore». Telefonai a Paolo dall’hotel. Anche lui fu contento d’essere definito uno sciagurato. Alla nostra età, già quasi veneranda, le soddisfazioni erano rare.

Mi ero portato a Barcellona, per svagarmi, gli albi di Cocco Bill pubblicati sul Giorno dei ragazzi nei remoti sessanta. Erano poi usciti, come supplementi del giornale, in otto albi separati, che io avevo smarrito da ragazzino e che avevo ricomprato in una libreria antiquaria, strapagandoli. Avevo lavorato più di dieci anni per il Giorno, ma quando ci arrivai io non era più un gran giornale, come all’epoca degli albi di Cocco Bill, ghiotti come pagine di Carlo Emilio Gadda («La cucaracia, la cucaracia! Cocco Bill è un diavolon! / La cucaracia,la cucaracia! Cocco Bill del corazon!»).

Avevo cominciato a rileggerli, passati quarant’anni, uno o due giorni prima, appena arrivato in Spagna. Tornai a rileggerli in un ristorante di Plaça Reial, sotto i portici, dove Sonia e io, quella sera, sedemmo dopo una lunga flânerie. Sul tavolo briciole di pane, una bottiglia mezza vuota di vino profumato, Repubblica con l’articolo di Cases, i resti d’un baccalà alla catalana e Kamumilla Cocco Bill.

Non c’era poi tutta questa differenza da Avellino, incalcolabili anni prima, quando smanettavo la Dialettica negativa cercando una password per craccare le tenebre della filosofia, inalavo zaffate di salsa al pomodoro, leggevo Addio, Mr Chips! ricacciando i lacrimoni e portavo il fez. A parte Cases, Cocco Bill e il baccalà, era cambiato ben poco.
Sciagurato, sorridevo.

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I comunisti della capitale… (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2022/11/08/i-comunisti-della-capitale-prima-parte/ Tue, 08 Nov 2022 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74522 di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si [...]]]> di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si segnala per la sua particolare lucidità di giudizio, e per il modo con cui tiene assieme la dimensione sociale e quella politica del fenomeno studiato – i “comunisti dissidenti” di Roma organizzati nel Movimento comunista d’Italia o Bandiera rossa -, il “locale”, il nazionale e il contesto internazionale.

Il triennio 1943-1945 è stato un momento particolarmente tumultuoso per l’intera società italiana. Crolla il fascismo. La classe capitalistica e la monarchia manovrano con grande abilità per non restare sepolte sotto le macerie del regime mussoliniano, che hanno per un ventennio supportato. L’Italia è spaccata in due. L’esercito italiano si va disfacendo dentro una “nazione allo sbando”. Tutto il territorio è occupato da eserciti stranieri: l’esercito tedesco in ritirata verso nord al di là della linea gotica, gli eserciti alleati in avanzata dal Sud. Sul piano politico-amministrativo, al centro-nord c’è la repubblica “sociale” di Salò sotto tutela dell’occupante nazista, che mescola una brutale ferocia con la demagogia “anti-capitalista” del fascismo delle origini. Nel Sud la monarchia dei Savoia ormai al tramonto cerca disperatamente di realizzare il passaggio più possibile indolore al campo anti-nazista, tenendo sotto stretto controllo il risveglio della vita sociale e politica a lungo compresse dal fascismo e disinnescando, anche con gli eccidi, il “pericolo comunista”. In due anni e mezzo si avvicendano ben sei governi. Le diverse componenti politiche del movimento proletario, che erano state decimate e disorganizzate dagli apparati repressivi del regime, riavviano la loro attività nel quadro di una intensificazione degli scontri bellici tra i fronti contrapposti, che getta le premesse di una (limitata) guerra civile. Il tutto mentre a livello internazionale si infittiscono a ritmo incalzante le trame e le conferenze tra le potenze che stanno per uscire vincitrici dalla guerra, volte a disegnare il nuovo ordine mondiale, con effetti a cascata sui singoli paesi, Italia inclusa.

La vicenda “locale” che Broder ci presenta è stata dominata in lungo e in largo da questi processi. A chi la guardasse oggi con un arrogante senno di poi, potrebbe apparire semplicemente come il vano annaspare di un pugno di militanti comunisti vittime delle proprie ingenue illusioni rivoluzionarie. Vissuta in presa diretta, invece, è la storia appassionante e drammatica, non limitata ai suoi fisici protagonisti, del tentativo di piccoli settori del movimento proletario italiano e internazionale di fare i conti oltre che con il fascismo, anche con il capitalismo. E di farli sfidando la repressione e il piombo dei nazisti, prima, soffrendo il controllo occhiuto delle polizie democratiche e gli attacchi politici senza tregua del PCI di Togliatti, poi. Il luogo in cui la vicenda si svolge è Roma, l’unica grande città italiana in cui le forze comuniste “dissidenti” hanno avuto una consistenza fino ad un certo momento paragonabile a quelle del PCI in via di rapida ricostituzione su basi completamente diverse dalle originarie del 1921. Forze comuniste “dissidenti” che, con la loro piccola Armata rossa, hanno dato un contributo perfino superiore a quello del PCI nella cacciata dalla capitale delle truppe nazifasciste nel periodo settembre 1943-giugno 1944.

Si deve a Silverio Corvisieri il lavoro più noto, in lingua italiana, sul ruolo svolto dal Movimento comunista d’Italia, o movimento di Bandiera rossa, nella resistenza romana – a cui contribuì con 2.548 militanti (il PCI con 2.336). Si tratta di un testo del 1968 che però, come osserva Broder, è più interessato all’attività militare di questi compagni che alla loro battaglia politica, alla loro resistenza alla politica di unità nazionale e alla loro critica della “degenerazione riformista” del PCI. Il tempo – sul metro del lungo periodo – consente oggi, anzi obbliga, a riconoscere loro di avere se non altro intuito il corso degli avvenimenti susseguenti alla fine della guerra in maniera incomparabilmente più corretta di coloro che li sconfissero e li denigrarono come affetti da infantilismo – questo, almeno per ciò che concerne il ruolo non proprio liberatorio degli Alleati anglo-americani, e gli effetti deleteri che la politica di unità nazionale con la borghesia avrebbe avuto sul proletariato.

Procediamo con ordine. Con una ben congegnata azione repressiva attuata in due momenti (gennaio 1923, autunno 1926), Mussolini e il suo partito-stato riuscirono a smantellare la direzione e i gangli fondamentali della macchina organizzativa del Pcd’I. E costrinsero all’espatrio centinaia di migliaia di proletari simpatizzanti per esso, o sua potenziale area di influenza. Alla messa fuori uso di questa macchina ancora in formazione, concorse pure la scatenata caccia ai trotskisti che si abbatté su Amadeo Bordiga e i suoi più stretti compagni di partito. Sicché al 1943, quando il fascismo inizia a vacillare sotto il peso delle sconfitte militari dell’Asse e degli scioperi operai nelle fabbriche del nord, ciò che rimane in piedi di realmente organizzato del movimento comunista degli anni ‘20 è poco, molto poco. Non esiste alcuna rete di collegamento interna alla penisola. Il centro direttivo del partito legato a Mosca è all’estero (a Parigi). La diaspora è ancor più slabbrata nel campo, assai ristretto, di quanti sono rimasti fedeli alla linea di Bordiga, anche per la sua categorica decisione di sospendere ogni forma di attività politica. Restano in piedi solo esili reti locali. La maledizione del localismo che per secoli ha afflitto e indebolito la borghesia italiana, pesa in questo frangente anche contro la riorganizzazione della classe operaia. Pur avendo alcuni tratti in comune, le dissidenze comuniste di Roma, Napoli, Torino e dell’alto milanese non riescono a coordinarsi tra loro. Anzi, a stento sono consapevoli delle rispettive esistenze e posizioni. Sicché la vicenda del Mcd’I – un nome che, al pari di Pcd’I (Partito comunista d’Italia, non Partito comunista italiano), rimanda a una concezione dell’internazionalismo proletario differente dall’inter-nazionalismo di matrice stalinista e togliattiana – resta una storia peculiare, separata, a sé stante. E questo faciliterà l’azione di quanti hanno operato per distruggerla fisicamente e politicamente, e cancellarne perfino il ricordo.

Con un’attenzione rigorosa e al tempo stesso empatica, David Broder ne ricostruisce la nascita negli “anni della cospirazione” (1939-1942), e ne descrive le radici sociali in un milieu che, data la struttura sociale della Roma fascista e imperiale, è più proletario e popolare che in senso stretto operaio. Gli insediamenti più significativi di Bandiera rossa sono nei quartieri popolari dell’Urbe e nelle borgate: San Lorenzo, Trionfale, Certosa, via Appia, via Tuscolana, via Casilina, Quadraro, Quarticciolo, Certosa. L’attività di questi compagni decisi a restare fedeli all’“autentica tradizione comunista” mette capo nel giugno del 1942 alla pubblicazione del giornale clandestino Scintilla. Tanto nei suoi pregi quanto nei suoi limiti, siamo dentro quel sottosuolo proletario comunista, quella “subcultura antagonistica” rimasta viva in militanti operai e proletari di lungo corso, messi in evidenza da Luigi Cortesi. Si tratta di marxisti autodidatti, carpentieri, elettricisti, ciabattini, grafici, espulsi dalle storie ufficiali del movimento comunista italiano del tempo insieme con i penetranti spunti politici contenuti nei loro abbozzi di analisi della guerra e del dopoguerra. Piccoli cammei disseminati qua e là nei testi a stampa che ci sono arrivati (meno sappiamo delle loro discussioni), che provo qui a mettere in sequenza.

Notevoli sono anzitutto il loro richiamo alla storia internazionale del proletariato rivoluzionario di cui si sentono parte, che fanno cominciare a Lione nel1831. Rivendicano in modo talvolta implicito, talaltra esplicito, mai esauriente, di essere in continuità con la prima fase della vita del Pcd’I, con le battaglie del biennio rosso, e con l’esperienza degli Arditi del popolo. Sorvolando sulle controversie interne al Pcd’I dei primordi, tale rivendicazione esprime l’aspettativa di poter portare a termine il lavoro lasciato incompiuto in quegli anni, arrivando a “fondare una repubblica sovietica sul suolo italiano”. Il più rilevante tratto distintivo di quest’area di compagni è il rifiuto della politica di unità nazionale prima e dopo la svolta di Salerno dell’aprile 1944. Anzi: il rifiuto di ogni forma di collaborazione con la borghesia italiana, di ogni confusione tra antifascismo e anticapitalismo, e tanto più della loro identificazione. Nessuna riabilitazione della classe dominante che ha portato l’Italia al fascismo, alla guerra, alla rovina! Bisogna stare fuori dal CLN, gli operai e i contadini non possono, non debbono gettare il loro sangue per le classi privilegiate. All’unità con la classe dei borghesi i “dissidenti” contrappongono la prospettiva politica dell’unità del fronte di classe. Al diavolo la bandiera tricolore, bandiera rossa! Colpisce anche l’inquadramento della seconda guerra mondiale come “scontro tra poteri imperialisti”, nazifascismo contro blocco a guida statunitense, espressa nel n. 2 di Scintilla. In tale scontro l’Urss è stata trascinata solo dall’aggressione esterna – e la forte diffidenza nei confronti dei “liberatori” anglo-americani, di cui non si dimentica la funzione di primo piano avuta nei tentativi di soffocare la rivoluzione russa nella culla. Questi militanti si rifiutano di vedere nei tedeschi in quanto tali il nemico, e valorizzano il sentimento anti-fascista e anti-nazista espresso dai migliori elementi dell’esercito tedesco, indirizzando ai soldati tedeschi dal retroterra operaio l’invito a rivoltarsi contro i propri generali. Se poniamo questa attitudine e questo invito di impronta internazionalista a confronto con la direttiva nazionalista del PCI di colpire i tedeschi quali che fossero, in quanto tedeschi occupanti; se li mettiamo a confronto con la logica altrettanto nazionalista che ispirò l’attentato di via Rasella; ci troviamo di fronte a due differenti modi di intendere la lotta al nazi-fascismo tra loro alternativi, corrispondenti, ove si vada ad indagare fino in fondo, a due differenti classi, perfino a due differenti prospettive storiche. Quella dei militanti del Mcd’I appare, quanto meno nei testi più maturi, rivolta alla “seconda guerra” da combattere una volta vinta quella al nazifascismo: la guerra contro il mondo capitalistico. Si tratta, affermano, di “trasformare la guerra contro il nazismo nella guerra contro tutto il capitalismo”. Rivendicano con orgoglio: “noi non siamo anti-fascisti, siamo comunisti”. Spriano nota che il loro simpatizzante Riccardo Tenerini, un giovane perugino, arriva a preconizzare per il dopo-guerra lo scontro tra il capitalismo anglo-sassone (i “poteri imperialisti”) e il proletariato mondiale nei seguenti termini:

Viene ora la seconda guerra: quella rivoluzionaria, quella che il proletariato deve combattere e vincere contro il mondo capitalista… La rivoluzione anticapitalista è in marcia, non si arresterà che ad eliminazione totale di ogni residuo del mondo attuale… L’ora della rivoluzione liberatrice è vicina… W Stalin, W l’Unione sovietica, patria di tutti i lavoratori. Evviva il Partito comunista d’Italia, evviva l’Internazionale comunista.

In maniera più sfumata e confusa la tematica della “doppia rivoluzione” è presente anche nei testi dei dissidenti romani. Ad esempio nel documento di fine 1944 intitolato “La via maestra”, il Mcd’I espone questa prospettiva, sebbene in una forma decisamente volontaristica:

[il nostro] movimento si distingue per la sua netta intransigenza, che non ammette ritardi né compromessi perché sostiene che l’ora della abolizione del capitalismo è suonata, e che il proletariato, per impedire la minaccia di nuove oppressioni e di nuove barbarie, deve conquistare il potere proprio in questo momento, in nome dei principi universali del comunismo.

Questi spunti eterodossi di matrice classista rivoluzionaria cozzano e si infrangono contro quella che David Broder chiama “idolatria” di Stalin e dell’Urss staliniana. Per i militanti di Bandiera rossa, infatti, la continuità tra la Russia di Lenin e quella di Stalin è un dogma. Anche se il loro stalinismo ha certi tratti sui generis (“an idiosyncratic Stalinism of their own”). Rifiutano di norma l’atteggiamento passivo insito nell’attesa “addavenì Baffone”, considerando la liberazione dal giogo capitalistico un compito del proletariato italiano. Reinterpretano a modo loro una serie di atti dell’Urss di Stalin, a cominciare dal patto Molotov-von Ribbentrop, giustificato dalla “ragion di stato”, e lo considerano non vincolante per l’Internazionale. I comunisti italiani, si sostiene, non sono “agenti di Mosca”. Collaborano con Mosca come con tutti i movimenti proletari del mondo, e perciò non sono affatto obbligati a “rivalutare” nazismo e fascismo, come invece per un tratto avvenne. Lo stesso scioglimento dell’Internazionale è presentato come il riconoscimento da parte di Stalin del grado di maturità raggiunto dai singoli partiti comunisti – un’interpretazione del tutto infondata, essendo chiarissimo, invece, che lo scioglimento dell’Internazionale è stato un passaggio ineludibile nel processo di appeasement tra l’Urss e gli Stati Uniti. Qui le spire dell’idolatria di Stalin e dell’Urss si mostrano in tutto il loro potere soffocante.

Per quanto incompleti e contraddittori siano, e lo sono, il valore degli spunti, delle intuizioni, delle anticipazioni del corso futuro degli avvenimenti, risalta meglio oggi a ottant’anni di distanza se li si pone a confronto con la funzione anti-proletaria e contro-rivoluzionaria svolta dagli imperialisti anglo-americani sia in Italia che ai quattro angoli del globo terrestre; con il carattere sempre meno “progressivo” acquisito dalla “repubblica nata dalla Resistenza” non appena si è ridotto il grado di attività e combattività della classe lavoratrice; con la decomposizione e la totale scomparsa del PCI togliattiano avvenute lungo la linea continua di deriva socialdemocratica temuta e denunciata in tempo reale da militanti del Mcd’I come Mucci, Poce, Cretara, Sabatini, De Luca (in questi giorni alcuni degli ultimi epigoni del PCI sono addirittura dediti all’abbraccio con forze di orientamento razzista e semi-fascista…). Riletti oggi, gli anatemi scagliati dagli Amendola, dai Secchia e dai loro accoliti contro questi “estremisti infantili”, “settari”, esponenti di una “vecchia opposizione pro-trotskista e bordighista”, agenti provocatori, e perfino “maschera della Gestapo” (!!!!), appaiono in tutta la loro miseria politica e morale. Anatemi da guardiani non tanto né solo dell’ortodossia stalinista, quanto della stabilizzazione borghese dell’Italia post-fascista sulla pelle del proletariato – la sola classe sociale che si batté contro il fascismo ascendente nei primi anni ‘20 e fu, con i suoi scioperi, il principale fattore interno della caduta del fascismo. La loro violenza verbale nei confronti di questi compagni, e di tutto ciò che in loro poteva suonare proveniente dalla tradizione della Sinistra comunista e dal leninismo di Lenin, si disvela nel suo carattere di disciplinamento forzato al nuovo ordine democratico nel quale al posto di comando c’è la stessa vecchia, impunita borghesia che aveva portato al potere il partito fascista.

Fine prima partecontinua

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Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 1 https://www.carmillaonline.com/2022/09/06/esclusione-sociale-e-capitalismo-globale-per-una-discussione-su-lotte-e-organizzazione-nel-presente-1/ Tue, 06 Sep 2022 20:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73685 di Emilio Quadrelli

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, [...]]]> di Emilio Quadrelli

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.» (K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista»)

Genealogia di un concetto

Tra i motivi che ci hanno portato alla stesura di queste note il ricorso al parlamentarismo, sia di gran parte della residualità comunista sia della galassia antagonista, ha giocato un ruolo non secondario. Attraverso la formazione di liste partitiche autonome o identificando, come nel caso dei 5 Stelle, un interlocutore dai decisi tratti “antisistema” il parlamentarismo continua a essere considerato un ambito importante, o perlomeno utile, per le masse subalterne.

Notoriamente il tema del parlamentarismo è stato oggetto di non poche contrapposizioni all’interno del movimento operaio e comunista. A partire da Lenin e dal suo Estremismo, malattia infantile del comunismo il “dogma” della partecipazione alle elezioni è stato moneta corrente per la maggior parte delle pur diverse anime del movimento comunista rispetto alle quali facevano eccezione le frazioni dei “comunisti di sinistra” e dei “comunisti consiliari” che con Lenin avevano rotto sin dai tempi del III Congresso dell’Internazionale comunista. In Italia, anche se non in chiave antileninista, il rifiuto del parlamentarismo può vantare una lunga, ancorché assai minoritaria”, tradizione grazie a Bordiga e all’area politica definitasi “sinistra comunista”.

Sull’utilità di presentarsi o meno alle elezioni si sono consumati fiumi di inchiostro all’interno di quella “nuova sinistra” sorta sull’onda del ’68. Proprio il ’68 e le sue pratiche avevano pesantemente posto sotto critica il parlamentarismo e le logiche che si portava appresso. È la lotta/non il voto/è la lotta che decide era stata la “linea di condotta” dell’altro movimento operaio il quale, insieme al parlamentarismo, aveva posto in archivio per intero la logica della delega e di tutte le forme di rappresentanza dal sapore istituzionale. Con ciò il parlamentarismo diventava qualcosa di superfluo non tanto per una questione di principio ma perché superato dalla materialità dei fatti. In questo, a ben vedere, vi era una totale adesione proprio alle argomentazioni di Lenin il quale non assolutizzava il parlamentarismo, ma lo giocava dentro la concretezza della fase politica. In un momento di ripiego partecipare alle elezioni aveva un senso ma, in una fase di attacco, non solo era insensato ma assumeva i tratti di un autentico tradimento, poiché non la Duma bensì la strada diventava il solo e vero ambito di lotta.

Con il ripiegamento del movimento di classe la questione del parlamentarismo tornò a farsi viva tanto da protrarsi sino ai giorni nostri. A nostro avviso questo dibattito si mostra del tutto privo di fondamento poiché non considera le differenze storiche tra la fase imperialista affrontata da Lenin e la fase imperialista contemporanea. Lenin agisce in un contesto nel quale è la borghesia stessa a includere i subalterni all’interno dei perimetri politici e statuali mentre, nel presente, assistiamo esattamente all’opposto. Per il potere politico le masse e il loro inserimento nel gioco istituzionale si è fatto del tutto privo di un qualche interesse tanto che gli elevati indici di astensione non sono forieri di alcuna preoccupazione. A differenza dell’epoca di Lenin, tutta incentrata sull’inclusione politica e sociale delle masse subalterne, oggi siamo dentro uno scenario completamente rovesciato: l’esclusione è la cornice entro la quale il potere politico ascrive classe operaia e proletariato ed è esattamente da ciò che occorre partire.

Il tema dell’esclusione sociale conosce oggi una fortuna inaspettata tanto da emanciparlo dagli angusti e ristretti ambiti disciplinari in cui, tradizionalmente, è stato ascritto. Mentre, classicamente, a occuparsi di esclusione sociale sono state discipline quali l’antropologia culturale, la sociologia della devianza e, in particolare negli ultimi anni, la sociologia della cultura oggi questa è diventata tema non secondario della teoria politica1.

Tutto ciò, già di per sé, è indicativo di quanto l’era attuale sia attraversata da un insieme di trasformazioni in grado di scompaginare per intero le coordinate concettuali di un’intera epoca. Non a caso gli stessi movimenti operai, proletari e comunisti che nei confronti dei temi dell’esclusione sociale hanno sempre nutrito interessi a dir poco vaghi, oggi sono costretti ad assumerla come uno degli aspetti centrali della condizione dei subalterni. Legittimo, quindi, domandarsi che cosa sia accaduto. Occorre, pur sommariamente, ricostruire la storia di un concetto.

Obiettivamente l’esclusione sociale ha sempre rimandato ai mondi della marginalità. Una marginalità che poteva essere ascritta a due ambiti. Il primo riconducibile direttamente al mondo dei poveri, il secondo a quello degli “anormali”. Per quanto, in non pochi casi, i due ambiti abbiano finito spesso con l’incontrarsi analiticamente occorre tenerli separati. Partiamo, pertanto, a definire l’ambito della povertà e a domandarci per quali motivi, i movimenti operai e comunisti, si siano sostanzialmente disinteressati dei poveri. Chi sono i poveri e in che cosa si distinguono dagli operai e dai proletari? Fondamentalmente in una cosa: questi non sono una classe sociale e, il che ne è l’aspetto decisivo, non sono, e né possono esserlo, una classe storica2.

A differenza del proletariato deputato a diventare agente della storia universale in quanto classe in grado di incarnare l’interesse generale, il povero consuma la sua esistenza dentro una dimensione mesta sia sul piano empirico sia su quello della scena storico–politica. Il povero, il marginale, l’escluso non sono in grado di rovesciare alcun rapporto di forza poiché, si potrebbe dire, la loro condizione si colloca fuori da una relazione dialettica ancorché nella dimensione servo – padrone3. Del resto, mentre è pensabile la dittatura operaia, proletaria e contadina, come forma statuale in grado di organizzare il potere di classe in un determinato territorio, a dir poco dadaista sarebbe un’ipotesi politica che fondasse la sua prospettiva sulla dittatura rivoluzionaria dei poveri4.

In poche parole, il marginale, il povero, il socialmente escluso incarnano sempre, almeno sotto il profilo economico e sociale, una disgregazione seguita ai processi di modernizzazione. Ciò che lo caratterizza è un sostanziale declassamento che lo fa precipitare ai margini della vita sociale5. Non a caso, il socialmente escluso, è per lo più estraneo all’ambito della produzione e la sua vita si dipana tra assistenza pubblica e/o religiosa o attività illegali di piccolo cabotaggio. Lo stesso disoccupato, in quanto esercito industriale di riserva6, ha ben poco a che spartire, indipendentemente dalle condizioni empiriche nelle quali può ritrovarsi, con il povero e il marginale. Solo nel caso in cui, in seguito al prolungato stato di disoccupazione, l’operaio vive un oggettivo processo di declassamento la sua iscrizione al mondo della marginalità diventa un fatto acquisito ma, per l’appunto, ciò è il frutto di un passaggio dentro un ambito sociale completamente diverso7. In quel caso, l’operaio declassato, si ritroverà in mezzo ad altri declassati provenienti dalle più svariate classi sociali. In poche parole l’esclusione sociale, classicamente, sembrava porsi fuori dai rapporti capitalistici di produzione.

Sotto tale profilo il capolavoro di Hugo è quanto mai esemplificativo. Il mondo dei miserabili raccoglie, al contempo, tutti i residui delle ere passate e le “vite di scarto”8 del presente, poiché escluse definitivamente dal ciclo di produzione capitalista. Questo mondo, sempre propenso a compiere un colpo di stato dal basso, non mira alla presa del Palazzo d’Inverno ma, ben più prosaicamente, al portafoglio di qualche malaugurato passante o, nella migliore delle ipotesi, agli arredi di qualche abitazione o negozio momentaneamente non custodito. In non pochi casi, il colpo di stato, è tentato o realizzato verso i propri simili per sottrargli le piccole fortune momentaneamente acquisite.

Nei confronti del potere politico e della polizia in particolare questi ambiti si mostrano a dir poco ossequiosi e sempre pronti a vendere qualcuno in cambio di un momentaneo salvacondotto, qualche moneta o per acquisire un piccolo credito da consumare in una futura occasione. In non poche occasioni, inoltre, i socialmente esclusi non si sono fatti problemi a svolgere il “lavoro sporco” per conto del potere legittimo, in funzione antioperaia e antiproletaria. Più modestamente come crumiri o con qualche pretesa in più in veste di novelli pretoriani, per l’insieme di questi motivi, agli occhi della classe operaia e del proletariato, sono sempre stati percepiti come corpo estraneo se non come veri e propri avversari del fronte di classe. Dalla Brigata dei Macellai sino ai mazzieri fascisti il rapporto tra movimento operaio e marginalità sociale non è mai stato particolarmente amorevole9.

Il secondo ambito tipico del socialmente escluso, come si è detto, è riconducibile a quell’insieme di comportamenti ascrivibili ai mondi dei cosiddetti anormali10. Un mondo quanto mai variegato che, attraverso i secoli, ha accolto nel suo grembo dal folle11 all’omosessuale. Il socialmente escluso, in questo caso, è sempre il frutto di un ordine discorsivo e di un effetto di potere dal duplice scopo: sperimentare in vitro tecniche di controllo e di disciplinamento il cui utilizzo, in un processo a cascata, può essere esteso ai più svariati ambiti sociali; uniformare i comportamenti e i costumi della popolazione al fine di rendere la nazione più forte e più sana12. Per sua natura il termine “anormale” è talmente polisemico da potersi, volta per volta, applicare a qualunque comportamento socialmente non convenzionale, in un preciso svolto storico. Come esempio non secondario può essere assunto l’ordine discorsivo che si è prodotto intorno all’omosessualità.

La messa al bando dell’omosessualità ha attraversato l’intera epopea in cui la potenza statuale coincideva con la forza della nazione. Epoca in cui, produzione ed esercito, potere economico e forza militare si fondano prevalentemente sul numero. In tale contesto la forza di una potenza statuale sarà direttamente proporzionata alla sua capacità industriale, quindi alla quantità di forza – lavoro salariata messa al lavoro, unita alla vastità della mobilitazione militare che il numero rende possibile. In tale scenario la necessità di una nazione ricca, per non dire abbondante, di prole rappresenta per il potere politico un obiettivo strategico irrinunciabile. L’omosessuale, suo malgrado, diventa colui che “oggettivamente” compie un atto di sabotaggio nei confronti del potere. Non procreando, l’omosessuale, depotenzia il patrimonio nazionale e statuale limitando obiettivamente le capacità di riserva, economica e militare, dello stato13.

Significativamente, nel momento in cui il paradigma industriale della guerra14 viene meno, l’ordine discorsivo intorno all’omosessualità comincerà a mutare15. L’emancipazione alla quale, nelle nostre società, la pratica omosessuale sembra andare incontro più che l’effetto di un improbabile processo di civilizzazione appare come l’effetto del mutamento di paradigma intervenuto dentro la forma guerra. Non è un caso, infatti, che l’ostracismo a cui l’omosessualità è tuttora sottoposta in determinate aree del mondo sia opera di sistemi statuali ancora pervasi dal paradigma della guerra industriale. Nelle nostre società “civilizzate”, tuttavia, l’ordine discorsivo intorno agli “anormali” non si è estinto ma ha semplicemente cambiato indirizzo o indirizzi cogliendo l’anormalità in quei comportamenti, come ad esempio nel caso degli ultras16, in qualche modo turbativi di un ordine sociale che, per definizione, è dato per pacificato.

Ma torniamo a occuparci della dimensione “strutturale” dell’emarginazione sociale. Andando al sodo se, come si è detto, non è il reddito in quanto tale a definire gli ambiti della marginalità e dell’esclusione, attraverso quale criterio diventa definibile l’ambito dell’esclusione sociale? Rispondere che la dimensione del lavoro, e in particolare del lavoro salariato, è stata a lungo la condizione necessaria e sufficiente al contempo per delimitare il campo dell’esclusione e della marginalità è certamente vero ma, a sua volta, tale condizione era il frutto di una reciprocità che ha fatto da sfondo alla modernità, ossia alla nascita del modo di produzione capitalista.

Parafrasando Schimtt potremmo facilmente sostenere che il rapporto borghesia e proletariato, per quanto improntato oggettivamente su un criterio di inimicizia, si è sempre dato dentro una relazione di eguaglianza: nemici sì, ma di pari grado e dignità. Ciò in qualche modo, del resto, era già presente in Marx. Che cosa significa, infatti, la nota affermazione presente nel paragrafo dedicato alla giornata lavorativa del primo libro de Il capitale: “Fra diritti eguali decide la forza”17, se non che la relazione tra capitale e lavoro salariato, sul piano storico, si pone dentro una cornice di eguaglianza e reciprocità? Nel rapporto tra proletariato e borghesia sembra rivivere quello jus publicum che aveva regolarizzato la guerra tra stati legittimi, ossia europei, sino al delinearsi della guerra imperialista18. Del resto la dialettica propria del modo di produzione capitalista non poteva che porre la questione esattamente in questi termini19.

(fine prima parte – continua)


  1. Nel Novecento l’interesse nei confronti degli ambiti dell’esclusione e della marginalità è stato un tema particolarmente coltivato dalla sociologia nordamericana e in particolare dalla “scuola etnografica” di Chicago, al proposito di veda R. Rauty, Società e metropoli. La scuola sociologica di Chicago, Donzelli, Roma 1995. Questo non è un caso poiché la presenza non secondaria di immigrati, estranei al ceppo bianco, protestante e anglosassone dominante negli USA, forniva al fenomeno dell’esclusione sociale e della marginalità numeri e consistenze di gran lunga superiori, e quindi socialmente interessanti, rispetto alle società europee la cui costituzione e formazione poggiava su delle popolazioni maggiormente omogenee. Inoltre, proprio nel Novecento statunitense, era presente un fenomeno come quello di una classe operaia mobile e flessibile che rappresentava un problema sociale e politico, molti di questi lavoratori erano infatti legati agli IWW, al proposito si veda F. Manganaro, Senza patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati Uniti, Odradek, Roma 2004 ma anche, benché collocato in una panoramica temporale più ampia, J. Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, Derive Approdi, Roma 1999, che doveva essere affrontato non solo in termini di ordine pubblico ma anche analizzati da un punto di vista sociale e culturale. Proprio intorno a questa figura sociale, non per caso, è stata costruita una delle opere di maggior rilievo della “scuola di Chicago”, N. Anderson, Hobo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli, Roma 1996. Un insieme di lavori che, pur assumendo il conflitto come parte costitutiva della vita sociale, ne perimetravano gli effetti dentro una cornice puramente antropologica e culturale glissando bellamente sulla sua dimensione politica. Sotto il profilo politico, invece, la questione dell’esclusione sociale è stata posta come semplice problema di governance delimitata agli ambiti della povertà. Al proposito si veda: G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Il Mulino, Bologna 1998  

  2. Sul concetto di classe storica si veda in particolare G. Lukács, “La reificazione e la coscienza del proletariato”, in Id., Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973  

  3. Oltre allo scontato riferimento al famoso passaggio hegeliano, G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1973 si vedano al proposito le argomentazioni weberiane, M. Weber, Economia e società, Vol. II, Edizioni di Comunità, Torino 1995, in relazione ai vincoli che legano, in un abbraccio mortale, servo e padrone nelle società preindustriali. Vincolo che, in ogni caso, è determinato da un determinato modo di produzione. Solo la rivoluzione industriale, l’avvento dell’economia monetaria e la relazione capitale lavoro salariato hanno sciolto i vincoli propri di un’era dominata, indipendentemente dall’odio o dall’amore che legava le parti, dalla gabbia del rapporto comunitario.  

  4. Significativa, al proposito, è l’alleanza tra proletariato e contadini poveri inaugurata, in quanto forma di governo, nel corso della rivoluzione russa. Il partito bolscevico, al fine di mantenere il potere dei soviet, cerca l’alleanza con una classe sociale che, in virtù della postazione che occupa dentro il ciclo produttivo, è classe economica e sociale a tutti gli effetti mentre del tutto inessenziali risultano, ancorché quantitativamente non irrilevanti, le masse impoverite presenti soprattutto nelle città. Ciò che diventa decisivo, per stipulare una politica di alleanza, è il ruolo e la funzione produttiva che una classe sociale è in grado di vantare ed esercitare. L’estraneità dei poveri al mondo delle produzione li rende, obiettivamente, privi di potere contrattuale nei confronti di qualunque forma di governo. Sull’alleanza del proletariato con i contadini poveri si veda, V. I. Lenin, “Tesi per il rapporto sulla tattica del partito comunista di Russia al III Congresso dell’Internazionale Comunista”, in Id., Opere, Vol. 32, Editori Riuniti, Roma 1967; “La Nuova Politica Economica e i compiti dei Centri di educazione politica. Rapporto al II Congresso dei Centri di educazione politica di tutta la Russia”, in Id., Opere, Vol. 33, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  5. Cfr. G. Simmel, “Il povero”, in Id., Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano 1989.  

  6. K. Marx, “Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva”, in Id., Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1994  

  7. Il mondo dell’esclusione sociale e della marginalità, pertanto, raccoglie in maniera indistinta resti e frattaglie di ambiti sociali che hanno perso qualunque tipo di identità. Il nobile decaduto, il commerciante fallito, il disoccupato cronico al pari del contadino sradicato e così via diventano le figure abituali dei mondi dell’esclusione. Ciò che li unisce, oltre a un comune risentimento nei confronti del mondo, è la perdita di ogni prospettiva storica. L’unico tempo in cui diventa possibile abitare è il presente mentre del tutto assente diventa la dimensione del tempo storico. Con ogni probabilità chi ha colto con maggiore lucidità il rapporto tra proletariato e tempo storico è stato Paul Nizan in I cani da guardia, La Nuova Italia, Firenze 1970.  

  8. Un’espressione che, nel presente, nei confronti soprattutto delle masse migranti ha conosciuto una certa notorietà, cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, Editori Laterza, Roma – Bari 2005. Si tratta, almeno questa è l’opinione di chi scrive, di un ipotesi decisamente fuorviante poiché, a differenza dei miserabili di Hugo, a tutti gli effetti scarti delle ere passate, le masse migranti attuali più che a una storia di ieri rimandano a una storia di un futuro divenuto in gran parte già presente. Queste, infatti, prefigurano al meglio la condizione proletaria media e necessaria a cui l’attuale modello di produzione capitalista aspira. Ben distanti dall’essere scarti queste rappresentano il corpo operaio massimamente produttivo e, grazie alle pratiche e ai dispositivi di segregazione, maggiormente docile. La loro salvezza ed emancipazione non sta in un “nuovo umanesimo” del quale l’intellighenzia progressista si fa paladina bensì nella loro organizzazione politica autonoma su basi classiste. Così come mai la merce sfamerà l’uomo, mai il culturalismo emanciperà i nuovi dannati delle metropoli.  

  9. Le vicende tedesche tra le due guerre, cfr. W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, sotto tale profilo ne rappresentano una più che significativa esemplificazione. Il problema che queste masse ponevano alle organizzazioni proletarie e di classe non è sfuggito al movimento comunista internazionale che, proprio nella Germania weimariana, si mostrò in tutta la sua complessità dando vita a un dibattito quanto mai vivo e intenso tra le menti più lucide e attente del movimento comunista internazionale. Una buona ricostruzione del dibattito che attraversò per intero il KPD e l’Internazionale comunista è reperibile nei capitoli che formano la seconda parte del testo di E. H. Carr, La morte di Lenin. L’interregno 1923 – 1924, Einaudi, Torino 1965.  

  10. M. Foucault, Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2000.  

  11. Al proposito si vedano M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1992; Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004  

  12. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988  

  13. Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998  

  14. Per una buona discussione di questo tema si veda R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009  

  15. Rispetto al passato, oggi, le nazioni più ricche e potenti si pongono il problema del controllo e della limitazione delle nascite invece che del loro incremento esponenziale. Non è secondario notare come, nelle società contemporanee, il grado di ricchezza, forza e potenza, avendo a mente come parametro la popolazione, sia dato dalla longevità piuttosto che dal numero delle nascite.  

  16. Cfr. AA. VV., Stadio Italia. I conflitti del calcio moderno, La casa Usher, Firenze 2010  

  17. K. Marx, Il capitale, Libro primo, pag. 269, cit.  

  18. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.  

  19. Mentre la borghesia, nei confronti delle classi aristocratiche, aveva potuto svilupparsi in maniera indipendente da queste tanto che, nel momento in cui decapita l’antico regime, la sua presa sul mondo, in senso economico, sociale e amministrativo può vantare uno stadio più che avanzato, paradigmatico al proposito il noto libello di E – J Sieyès, Che cos’è il terzo stato? Editori Riuniti, Roma 1992 nonché il classico, A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 1990, per cui la “rivoluzione politica” diventa l’atto conclusivo di un processo che, sul piano economico e sociale, aveva conosciuto una lunga gestazione nel corso della quale, le vecchie classi dominanti, avevano potuto “ignorare” la borghesia e considerarla come ceto sociale di grado inferiore, la natura del modo di produzione capitalista obbliga a una relazione di natura completamente diversa. Il proletariato, infatti, non è esterno ed estraneo alla borghesia poiché, in veste di capitale variabile, è la vera fonte del plusvalore. Non per caso, mentre l’estinzione delle classi nobiliari spalancano le porte al dominio della borghesia, il proletariato emancipandosi, ossia negandosi come classe, decreta la morte del modo di produzione capitalista e della borghesia.  

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L’anno degli anniversari / 1961 – 2021: Origine e funzione della forma partito / 1 https://www.carmillaonline.com/2021/11/02/lanno-degli-anniversari-1961-2021-origine-e-funzione-della-forma-partito-1/ Tue, 02 Nov 2021 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68909 di Sandro Moiso

Apparentemente è cosa da poco, un testo comparso su «Il Programma comunista» n° 13 del 1961, e molti si chiederanno perché dedicargli un anniversario. Il testo in questione, redatto da Jacques Camatte, militante francese della Sinistra Comunista, di cui si narra fu lo stesso Amadeo Bordiga a insistere per la sua pubblicazione sull’organo quindicinale del Partito Comunista Internazionale potrebbe, però, rivelarsi ancora utile per l’attuale disordinato, carente e, talvolta, asfittico dibattito sulle forme organizzative che molti militanti antagonisti da tempo cercano di sviluppare o perseguire intorno alle odierne realtà [...]]]> di Sandro Moiso

Apparentemente è cosa da poco, un testo comparso su «Il Programma comunista» n° 13 del 1961, e molti si chiederanno perché dedicargli un anniversario. Il testo in questione, redatto da Jacques Camatte, militante francese della Sinistra Comunista, di cui si narra fu lo stesso Amadeo Bordiga a insistere per la sua pubblicazione sull’organo quindicinale del Partito Comunista Internazionale potrebbe, però, rivelarsi ancora utile per l’attuale disordinato, carente e, talvolta, asfittico dibattito sulle forme organizzative che molti militanti antagonisti da tempo cercano di sviluppare o perseguire intorno alle odierne realtà di lotta.

Si è ritenuto pertanto utile farne una sintesi commentata su queste pagine, pur tenendo conto della distanza temporale e di linguaggio che separa il presente dal tempo in cui Origine e funzione della forma partito fu concepito. La lettura che se ne darà non terrà conto dei riferimenti specifici alle controversie dell’epoca (sia sociali che interne al Partito Comunista Internazionale), né tanto meno ai numerosi riferimenti alle polemiche con il movimento anarchico dell’epoca in cui Marx scriveva e ancora di quella in cui il testo fu elaborato da Camatte.

Ma ora si aprano le danze, affermando fin da subito che l’ABC del partito rivoluzionario non inizia da Lenin.
Il testo, infatti, costringe il lettore a misurarsi con le formulazioni riguardanti il problema organizzativo espresse principalmente da Marx ed Engels nel corso della loro vita e della loro lunga militanza nelle file della lotta di classe per l’abolizione del modo di produzione vigente. Vita politica che vide la formazione (e lo scioglimento) della Lega dei Comunisti, dell’Associazione Internazionale dei lavoratori (meglio conosciuta come Prima Internazionale), della socialdemocrazia tedesca come primo partito politico nazionale dei lavoratori e gli albori della Seconda Internazionale oltre che il fondamentale contributo dato alla già citata Lega dei comunisti con la stesura del Manifesto del partito comunista.

Nessuna di queste associazioni e partiti assunse mai, per i due sodali, un valore assoluto e definitivo; anzi, lo si vedrà, entrambi rivendicarono la capacità di chiudere o di criticare duramente ognuna di quelle esperienze una volta che queste avevano fatto il loro tempo perché superate dalla realtà dei fatti o travolte da polemiche interne che non facevano altro che dimostrare la morta gora in cui, periodicamente, il movimento operaio sembrava, e sembra tutt’ora, destinato a precipitare.

In effetti, dalle pagine di Origine e funzione della forma partito, emerge una concezione del partito che divide lo stesso in partito storico e partito formale. Divisione che portò conseguenze non secondarie all’interno dello stesso Partito comunista internazionale di cui «Il Programma Comunista» era portavoce e che, ancora, nel 1966 portò l’estensore originario ad allontanarsi dallo stesso.

L’idea di partito storico definisce la continuità che lo strumento di lotta dei lavoratori e dei rivoluzionari deve mantenere con gli elementi di programma già maturati nel corso delle esperienze precedenti della lotta di classe e delle formulazioni che l’hanno accompagnata nel tempo, facendo tesoro sia delle vittorie e delle “scoperte” teoriche che hanno contribuito a sollevarla oltre i limiti del rivendicazionismo immediatista e del sindacalismo, che delle lezioni da trarre dalle sconfitte e dagli errori pratici e teorici del movimento di classe nel suo lungo e faticoso divenire storico. Non per nulla la Sinistra Comunista, la corrente internazionalista che stava alla base sia di «Il Programma Comunista» che della riflessione del comunista francese, avrebbe sempre parlato delle necessità di trarre i giusti insegnamenti dalle lezioni delle controrivoluzioni.

Il partito formale definisce invece la forma, la struttura, che l’organo di lotta dei rivoluzionari assume di volta in volta, a seconda delle situazioni storiche, politiche, sociali ed economiche che vedono svilupparsi con gradi diversi di intensità la lotta del proletariato contro il capitalismo per il suo definitivo superamento e la piena affermazione del programma rivoluzionario.

Nella premessa generale al testo si afferma:

La tesi centrale che vogliamo affermare ed illustrare è la seguente: Marx ha tratto i caratteri della forma Partito dalla descrizione della società comunista.
[…] La lotta dell’embrione di proletariato durante la grande Rivoluzione Francese aveva indotto alcuni rivoluzionari (Varlet, Leclerc, Roux, i cosiddetti Arrabbiati) a ritenere che la rivoluzione non si effettuasse che a vantaggio di una categoria di uomini e non fosse la liberatrice universale. Poi, ma sempre alla stessa epoca, gli Eguali rimisero in questione la possibilità per la rivoluzione di emancipare l’umanità, e ne proclamarono necessaria una nuova, che non fosse condotta in nome della Ragione: “Chi ha la forza – dice Babeuf – ha ragione“.
[…] Appunto dall’osservazione della lotta del proletariato nasce in Marx e in Engels l’idea che la soluzione illuministica non è la vera, la reale, nel momento stesso in cui essi vedono dove la nuova soluzione si trova – nella lotta della classe proletaria. Essi si rendono conto che il problema dell’emancipazione dell’umanità non può essere risolto teoricamente perché non lo si è posto praticamente, perché i borghesi ragionano in nome di un uomo astratto, nella cui categoria il proletariato non entra. La liberazione dell’uomo dev’essere vista sul terreno pratico, e si deve considerare l’uomo reale, cioè la specie umana […] Sensibile a tutte le lotte pratiche e teoriche, Marx era al corrente delle opere di lottatori come lui: Engels, Moses Hess, i socialisti francesi, ecc. È così che, infine, si compirà questa somma, questa integrazione storica: il marxismo teoria del proletariato, teoria della specie umana. Essa apparirà in tutta la sua vigoria in piena fase eruttiva di sviluppo della società umana, la rivoluzione del 1848, col Manifesto dei Comunisti.
[…] Il nostro lavoro d’oggi consiste nel cercar di spiegare come l’intuizione geniale divenne realtà nel programma comunista; come questo programma fu proposto all’umanità per l’intermediario del proletariato; come Marx ed Engels lottarono per farlo accettare dall’organizzazione proletaria (lettera di Marx a Bolte, 29 nov. 1871: “La storia dell’Internazionale è stata una lotta continua del Consiglio Generale contro…le sezioni nazionali”); come trionfò nel 1871 con la Comune di Parigi, a riprova della sua necessità assoluta. Tutto questo noi studieremo per precisare l’origine e la funzione della forma-partito.

Il comunismo non si realizzerà dunque come espressione del dominio di una sola e nuova classe, il proletariato, ma con la liberazione dell’intera specie dal giogo capitalista. Infatti:

Il carattere del proletariato è di essere “una classe della società borghese che non è una classe della società borghese, una classe che è la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che possiede un carattere universale a causa delle sue sofferenze universali, e non rivendica nessun particolare diritto perché nessuna particolare ingiustizia gli è stata fatta, ma l’ingiustizia per antonomasia; una sfera che non può appellarsi a nessun titolo storico ma solo a un titolo umano […] Il proletariato non fonda la sua azione nella storia sul possesso di certi mezzi di produzione e quindi su una possibilità di liberazione parziale dell’uomo, ma sul non-possesso della natura umana, che esso vuole appropriarsi e in tal modo emancipare l’umanità (K.Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel). […] Così, la questione del divenire del proletariato è di sapere come saranno risolte le questioni delle classi, dello Stato, e dell’organizzazione della società futura. Inoltre, la borghesia tende a impedire il legame organico fra la classe e il suo programma, cerca di ridurla a una classe di questa società e quindi di farle abbandonare il suo programma. È qui che si colloca la questione del partito.

Sulle diverse interpretazioni della funzione dello Stato Marx esercita, con la solita chiarezza, una critica che non può lasciare adito a dubbi e ripensamenti in alcuna forma, affermando :

“Il suicidio è contro natura. Perciò lo Stato non può credere all’impotenza intrinseca della sua amministrazione, cioè di sé stesso. Può scorgere soltanto difetti formali, casuali, e tentare di porvi rimedio”. È qui definita in modo estremamente preciso la posizione degli stalinisti e dei vari democratici. Non contento di ciò, Marx schernisce i suoi avversari mostrandone l’impotenza: “Se tali modifiche sono infruttuose, ebbene, allora l’infermità sociale è un’imperfezione naturale indipendente dall’uomo, una legge divina, ovvero la volontà dei privati è troppo corrotta per corrispondere ai buoni intenti dell’amministrazione! E che tipi sono questi privati! Mormorano contro il governo ogni qualvolta esso limita la libertà, e pretendono dal governo che impedisca le conseguenze necessarie di tale libertà!”. […] Marx si beffa di queste illusioni mostrando che lo Stato è il potere organizzato di una classe dominante la società: “Infatti questa lacerazione, questa infamia, questa schiavitù della società civile sono il fondamento naturale su cui poggia lo Stato moderno, così come la società civile della schiavitù era il fondamento naturale dello Stato antico. L’esistenza dello Stato e l’esistenza della schiavitù sono inseparabili”. (Pariser Vorwärts, 7 agosto 1844: pubblicato in K.Marx, Un carteggio del 1843, Ed. Riuniti, Roma 1954).

E’ del 1844 il brano appena citato dagli autori nel paragrafo intitolato La natura dello Stato, ma in quello il moro di Treviri aveva già fatto definitivamente a pezzi qualsiasi ipotesi riformistica, stalinista o liberale (del tipo no green pass) che potesse contaminare in futuro il movimento proletario e rivoluzionario.

La miseria del proletario è di essere privato della sua natura umana. Questa critica supera il quadro ristretto di quella di Proudhon, che è un miserabilismo razionale e quindi un ragionare a vuoto sull’autentica miseria umana. I nostri stalinisti, con la loro teoria della miseria assoluta, sono i veri figli di Proudhon e di E. Sue. La rivendicazione del proletario si manifesta nella sua volontà di riappropriarsi della sua natura umana, e Marx definisce così il programma comunista: “L’essere umano (la natura umana) è la vera Gemeinwesen (comunità) umana“. Ciò significa che nella società comunista non esiste più lo Stato; il principio di autorità, quello di organizzazione e quello di coordinamento fra gli uomini, sono la Specie umana. È il ritorno al comunismo primitivo […] (in cui) l’individuo non era separato dalla specie. Stabilitasi la società di classe, la frattura fra i due termini si manifesta, e raggiunge il massimo dell’esistenza nel proletariato. È questa miseria che Marx esprime in tutta la sua universalità: “Come il disperato isolamento da essa (la natura umana, l’essere umano) è infinitamente più universale, insopportabile, pauroso, contraddittorio dell’isolamento dall’ordine politico esistente, così la soppressione di questo isolamento (programma comunista) e perfino una sua parziale riduzione, una rivolta contro questo isolamento (i proletari possono acquisire una coscienza di classe solo lottando e organizzandosi in partito) ha un’ampiezza infinita, così l’uomo è egli stesso infinitamente più che il cittadino dello Stato, e la vita umana infinitamente più che la vita politica […] Una rivolta industriale può essere parziale fin che si vuole; non perciò meno racchiude un’anima universale; la rivolta politica può essere universale fin che si vuole; non perciò meno essa cela sotto il suo aspetto più colossale uno spirito angusto”. […] E Marx prosegue: “Lo si è visto. Anche se si verifica in un solo distretto industriale, una rivoluzione sociale si colloca su un piano di totalità perché è una protesta dell’uomo contro la vita disumanizzata, perché parte dal punto di vista di ogni individuo reale, perché la Gemeinwesen (comunità, collettività) da cui esso si sforza di non essere più isolato, è la vera comunità dell’uomo, l’essere umano”. Il proletariato tende a contrapporre la sua Gemeinwesen, cioè l’essere umano, a quella del capitalista (Stato oppressore). Per giungere a realizzare tale opposizione reale, bisogna ch’egli si appropri questo essere, e non può farlo se non si organizza in partito, – partito che è appunto la rappresentazione di questo essere, la prefigurazione la cui vita è movimento per l’appropriazione di questo essere.

Motivo per cui:

Il proletariato deve conquistare il potere, ma per farlo non deve porsi sul piano dello Stato; non deve lottare per una forma di questo, che si pretenda più progressiva, contro un’altra, come quando lotta per una frazione della borghesia contro un’altra (per la democrazia contro il fascismo, ecc.). La sua azione deve essere esterna. Per fare la rivoluzione, il proletariato deve abolire l’opposizione fra individuo e specie, che è la contraddizione sulla quale lo Stato esistente poggia (finché vi sono individui, esiste il problema della loro organizzazione nella società, e quello del rapporto fra questa organizzazione e i veri bisogni della specie). Il proletariato non deve fare una rivoluzione dall’anima politica, perché questa “organizza… una parte dominante della società a spese della società”. E, prima di passare alla caratterizzazione della rivoluzione proletaria: “Ogni rivoluzione dissolve la vecchia società, in questo senso è sociale. Ogni rivoluzione rovescia il vecchio potere; in questo senso è politica”. La rivoluzione borghese è una rivoluzione sociale quando dissolve l’antica società; quando rovescia il vecchio potere è politica, ma afferma il suo: rivoluzione essenzialmente politica. Infatti, per erigere la sua organizzazione sociale, la borghesia doveva utilizzare un’organizzazione politica che doveva essere inseparabile da questa; perché? Perché i borghesi hanno fatto la rivoluzione per realizzare il tipo umano astratto: l’individuo isolato dalla natura e dalla specie; perché volevano liberare gli uomini dagli antichi vincoli feudali (dipendenza fra uomo e natura). Il problema era di definire quali sarebbero stati i legami fra gli uomini nuovi; perciò essi formularono i diritti dell’uomo, che furono realizzati solo quando la rivoluzione sfociò sul suo terreno pratico borghese, cioè quando perse la speranza di liberare effettivamente l’umanità (dopo aver schiacciato i moti dei sanculotti). Invece, per il marxismo l’uomo è la specie umana, l’uomo sociale che ha un legame umano con la specie e un legame umano con la natura (dominazione su questa). È evidente che lo Stato del proletariato non sarà un organismo speciale retto da regole ben definite, da un diritto qualunque, ma sarà l’Essere umano. “Il socialismo non si può realizzare senza rivoluzione. Esso ha bisogno di questo atto politico nella misura in cui ha bisogno di distruggere e dissolvere. Ma esso si scrolla di dosso il suo involucro politico non appena ha inizio la sua attività organizzativa, non appena persegue il suo proprio fine, non appena si rivela la sua anima”. È già qui espressa tutta la teoria del deperimento dello Stato. La rivoluzione compie un atto politico per finirla col vecchio mondo, ma, a partire da questo momento, si orienta verso l’instaurazione del regno dell’umanità sulla natura, dell’uomo sul pianeta; non ha più bisogno di una forma politica, poiché il suo problema non è di governare degli uomini; è la Specie, allora, che governa, domina, possiede.

Questo rende possibile all’autore e ai comunisti affermare che «per noi il capitalismo non esiste già più: esiste solo la società comunista». Ma come realizzare ciò che esiste già in potenza, il futuro che già agisce retroattivamente sul presente? Con quale strumento?

Il lavoro ulteriore di Marx consisterà nello studiare come ciò sia realizzabile. Passerà quindi a un’analisi precisa della società e fornirà le grandi linee della trasformazione socialista: proprietà della specie, distruzione del mercantilismo, ecc. Tutto ciò sarà precisato nel Manifesto, poi nello scritto della Comune e nell’Indirizzo Inaugurale dell’Internazionale (questione della distruzione dello Stato borghese e delle misure per limitare il “carrierismo”). Il partito rappresenta dunque la società futura. Non lo si può definire con regole burocratiche, ma col suo essere; e il suo essere è il suo programma: prefigurazione della società comunista della specie umana liberata e cosciente. Corollario: la rivoluzione non è un problema di forme di organizzazione. Essa dipende dal programma. Senonché è stato provato che la forma partito è la più atta a rappresentare il programma, a difenderlo. E qui le regole di organizzazione non sono prese a prestito dalla società borghese, ma derivano dalla visione della società futura.
[…] “Il proletariato proclama subito in modo chiaro il suo antagonismo con la società della proprietà privata. La rivolta slesiana comincia proprio là dove terminano le rivolte dei lavoratori francesi e inglesi, cioè con la coscienza d’essere il proletariato. L’azione stessa reca l’impronta di questa superiorità. Non vengono soltanto distrutte le macchine, queste rivali dell’operaio, ma anche i libri commerciali, i titoli di proprietà; e mentre tutti gli altri movimenti si volgevano essenzialmente contro il padrone di fabbrica, il nemico visibile, questo movimento si volge contemporaneamente contro il banchiere, il nemico nascosto.”
[…] La conoscenza non ci viene direttamente dai borghesi, come vorrebbero certuni: ci viene dalla lotta della nostra classe, non è una sfera particolare della nostra attività che assorbiamo passivamente dalla classe avversa; no, è qualcosa di vibrante e passionale, che il proletariato ha strappato al suo nemico di classe. Il giovane Marx aveva infinitamente ragione nel dire che le idee del comunismo, “che vincono la nostra intelligenza, che conquistano la nostra mentalità, alle quali la ragione ha legato la coscienza, sono delle catene delle quali non ci si può disfare, che non si possono strappare di dosso senza strappare il nostro stesso cuore; sono dei demoni che l’uomo non può vincere che sottomettendovisi”. […] Fin dall’inizio Marx mostra che il programma comunista non è il prodotto dell’individuo: la rivoluzione – diciamo noi – sarà anonima, o non sarà affatto.

Ma allora cos’è questo strumento collettivo che dovrebbe permettere a proletari e rivoluzionari di dirigere il percorso delle lotte nella direzione voluta, desiderata e già designata dal corso degli avvenimenti passati e futuri allo stesso tempo?

Il partito è un organo di previsione; se non è questo si discredita. Marx ad Engels, lettera del 18 febbraio 1865: “Come il partito borghese si è screditato e si è messo da sé nella pietosa situazione di oggi credendo fermamente che con ‘l’era nuova’ il governo gli fosse piovuto dal cielo per grazia del principe reggente, così il partito operaio si screditerà ancor di più immaginandosi che, grazie all’era bismarckiana o ad una qualsiasi era prussiana, per grazia del re, le allodole gli cadano in bocca bell’e arrosto. È assolutamente fuori dubbio che la fatale illusione di Lassalle di credere in un intervento socialista del governo prussiano sarà seguita da una delusione. La logica delle cose parlerà. Ma l’onore del partito operaio esige che esso respinga questi fantasmi prima che l’esperienza ne abbia mostrato l’inanità”. Perché? Ed ecco la caratteristica essenziale del proletariato: La classe operaia è rivoluzionaria, o non è nulla.

Ma è giusto domandarsi, a questo punto, come potrà avvenire la sua liberazione, insieme a quella della specie e la risposta contenuta in Origine e forma è inequivocabile:

mediante l’assalto rivoluzionario. E quale carattere avrà la rivoluzione? Sarà violenta.
Scrive Engels, già nel 1842, come inviato a Londra, alla Rheinische Zeitung, 10 dicembre 1842, sotto il titolo Le crisi interne: […] “In realtà, bastò una forza militare e poliziesca minima per tenere a bada le masse. A Manchester si sono visti migliaia di operai bloccati nelle piazze da quattro o cinque dragoni che ne impedivano l’accesso. La ‘rivoluzione pacifica’ aveva tutto paralizzato. Così, tutto finì in breve. Il vantaggio che tuttavia ne deriva per i non-possidenti rimane acquisito: la coscienza che una rivoluzione per via pacifica è impossibile e che solo una rivoluzione violenta delle odierne condizioni innaturali, un abbattimento radicale dell’aristocrazia nobile e industriale, può migliorare la situazione dei proletari.” Bisogna dunque educare le masse, per organizzare la rivoluzione? Ed ecco la risposta di Engels ne La Sacra Famiglia, cap. IV, II (nota marginale critica), nel 1844-45: “È vero che nel suo movimento economico la proprietà privata si avvia verso la sua dissoluzione, ma non lo fa che attraverso un’evoluzione indipendente da lei, inconscia, realizzantesi contro la sua volontà, prodotta dalla natura delle cose, unicamente perché essa genera il proletariato in quanto proletariato, la miseria consapevole della propria miseria intellettuale e fisica, la disumanizzazione che è cosciente della propria disumanizzazione e quindi si autosopprime. Il proletariato esegue la sentenza che la proprietà privata pronuncia contro sé stessa generando il proletariato, così come esegue la sentenza che il lavoro salariato pronuncia contro sé stesso generando la ricchezza altrui e la miseria propria. Quando il proletariato vincerà, non diventerà per questo la parte assoluta della società, perché vincerà solo in quanto sopprimerà sé stesso e il suo contrario, e allora tanto il proletariato quanto il suo contrario che la condiziona, la proprietà privata, saranno spariti.”
“Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato questo ruolo storico mondiale, non è, come pretende di credere la Critica Critica, perché considerino i proletari degli dei. È piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza della umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tutte le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperioso – espressione pratica della necessità -; proprio perciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non invano il proletariato passa per la dura ma tonificante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato, s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere. Il suo fine e la sua azione storica gli sono irrevocabilmente prefissati nelle sue condizioni di vita, come nell’intera organizzazione della presente società borghese”.
Ne risulta che il proletariato non esiste se non quando è rivoluzionario, quando ha la sua anima, il suo programma, e oppone il suo Stato, cioè l’Essere umano, alla società borghese. Altrimenti si avvilisce e la sua anima è borghese, una cosa della società borghese; allora non ha più vita, perché la sua vita è la rivoluzione.

Il proletariato non è un mero dato sociologico, è un dato politico ma soltanto quando si rivolta e nella rivolta anche solo per un momento prende coscienza della sua condizione reale. Ogni umanitarismo non serve ad altro che ad allontanarlo da se stesso, dal suo proprio essere che non può essere altro che rivoluzionario oppure nulla. Già nel Manifesto del partito comunista:

Classe, programma, partito e rivoluzione, tutto ciò è precisato. La classe non agisce e quindi non esiste se non quando si costituisce in partito, che a sua volta si caratterizza mediante il programma (e questo ne è l’anima); il partito può realizzare la sua missione storica solo attraverso una rivoluzione. Marx ed Engels non si sono accontentati di una “intuizione”; hanno dimostrato la realtà del programma. Ogni volta che la questione della lotta rivoluzionaria non era la questione fondamentale della loro attività, essi si rivolsero ai loro “studi teorici”, cioè al compito di precisare il programma. Essi hanno scoperto la legge generale; hanno poi precisato le leggi particolari. Questi studi non erano un arricchimento, ma un rafforzamento del potenziale del partito, ed essi li condussero in contatto con la lotta proletaria (questione dello Stato e Comune di Parigi), precisando il tal modo la descrizione della società comunista e quindi anche i metodi per arrivarvi.[…] Prodotto della storia, il programma poteva nascere solo dalla lotta del proletariato. […] Si tratta ora di sapere come esso si è imposto, perché in determinati periodi il proletariato lo abbandona, e quali sono le condizioni perché lo ritrovi: il problema, dunque, della formazione del partito e della sua ricostruzione.

Proprio dagli scritti di Marx ed Engels è possibile trarre, a grandi linee, una storia dell’evoluzione delle varie forme partito e dei motivi del loro successo e della loro sconfitta:

La prima fase è la fase settaria. Si legge in Le pretese scissioni del 1872: “La prima fase nella lotta del proletariato contro la borghesia è contrassegnata dal movimento settario. Esso ha la sua ragion d’essere in un’epoca in cui il proletariato non è ancora abbastanza sviluppato per agire come classe. Pensatori individuali criticano gli antagonismi sociali e ne danno soluzioni fantastiche che la massa degli operai avrebbe solo da accettare, diffondere, mettere in pratica. […] Queste sette, lievito del movimento all’origine, gli sono di ostacolo non appena esso le supera; allora diventano reazionarie. […] Perché il programma potesse essere difeso da un’organizzazione, il movimento doveva aver superato lo stadio suddetto. Occorre a questo proposito considerare due punti:

1) Il legame fra organizzazione-partito e programma-partito

2) Quali sono le situazioni, quali i momenti favorevoli alla fondazione del partito.

Primo punto. Nella sua lettera a Freiligrath del 23-2-1860, Marx ha precisato questi elementi: “Osservo anzitutto: dopo che, su mia richiesta, la ‘Lega’ fu disciolta nel novembre 1852, io non ho appartenuto, né appartengo, ad alcuna organizzazione segreta o pubblica: dunque il Partito, nel senso del tutto effimero del termine, ha cessato di esistere per me da otto anni. Si tratta qui del Partito come raggruppamento di uomini, come organizzazione. E qui si colloca il secondo punto con la domanda: perché si scioglie questa organizzazione? Marx risponde con la spiegazione che si tratta di un periodo di rinculo, di una fase controrivoluzionaria. […] In questi periodi il partito si riduce ai soli compagni i quali hanno rifiutato in un modo o nell’altro la vittoria della classe avversa, che molti militanti teorizzano volendo fare ad ogni costo qualcosa per “uscire dalla situazione”. Per Marx ed Engels, la storia non è che una continua trasformazione della natura umana: […]“Si può, in mezzo ai rapporti e al commercio borghese, restare al di sopra della spazzatura? È solo in questo ambiente ch’essa è naturalmente al suo posto… L’onesta infamia o l’infame onestà della morale solvibile… non vale per me un soldo più dell’irresponsabile infamia della quale né le prime comunità cristiane, né il club dei Giacobini, né la stessa nostra vecchia Lega, non si sono potuti liberare completamente. Ma, in mezzo ai traffici borghesi, ci si abitua a perdere il senso della rispettabile infamia o dell’infame rispettabilità”. […] E nella stessa lettera Marx ricorda di aver risposto solo dopo un anno ai dirigenti della associazione comunista di New York che lo sollecitavano a riorganizzare la vecchia Lega, e di avere infine scritto loro che dal 1852 non era più in rapporto con nessuna associazione, “ed ero fermamente convinto che i miei lavori teorici servivano la classe lavoratrice più della mia entrata in associazioni che hanno fatto il loro tempo. Nella ‘Neue Zeit’ – aggiunge – sono stato ripetutamente attaccato a causa di questa ‘inattività'”. È questo ritiro dall’azione (che è volontà deliberata di rifiutare l’azione sul terreno borghese quando quella autonoma del proletariato non è possibile) che attirò su Marx le accuse di “inattività” di cui sopra, così come la Sinistra (Comunista) è stata ieri ed è oggi accusata di “inattività” perché si rifiutava e si rifiuta di lasciarsi attirare – in nome di un attivismo ad ogni costo – nel turbine della corruzione borghese.

Ma allora il partito può scomparire? Sì, per quanto riguarda quello formale ovvero il prodotto di una situazione storica, politica, sociale e insurrezionale data (e poi superata).

Ciò posto, Marx precisa che cos’è la vita del Partito: “La Lega, come la Società delle Stagioni di Parigi e cento altre società, non è stato se non un episodio nella storia del Partito, che nasce spontaneamente dal suolo della società moderna”. In altre parole, la formazione dell’organizzazione è un prodotto storico degli antagonismi di questa società: se la classe è stata battuta, se quindi la sua organizzazione ha perso il suo carattere rivoluzionario rigettando il suo programma, o se è stata distrutta nella lotta, l’organizzazione riapparirà spontaneamente; il partito ricompare quando i contrasti sociali sboccano nella sua esplosione sulla scena della storia. Ma il partito non è una nozione differenziale, una organizzazione la cui vita dipende dagli alti e bassi della lotta di classe. Ecco la sua nozione integrale: “Ho cercato di eliminare – conclude Marx a Freiligrath -il malinteso che mi farebbe intendere per ‘partito’ una Lega morta da anni o una redazione di giornale sciolta da dodici anni. Io intendo il termine ‘Partito’ nella sua larga accezione storica”, cioè come prefigurazione della società futura, dell’Uomo futuro, dell’Essere umano che è il vero Gemeinwesen dell’uomo. È l’attaccamento a questo Essere, che nei periodi di controrivoluzione sembra negato dalla storia (come oggi la rivoluzione sembra alla generalità un’utopia), è questo attaccamento che permette di resistere. La lotta per restare su questa posizione è la nostra “azione”. Alla seduta del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti del 15 sett. 1852 Marx aveva detto: […] “Voi potete anche conservare la grande massa dei membri della Lega. Quanto a sacrifici personali, io ne ho fatti quanti chiunque, ma per la classe, non per le persone; quanto all’entusiasmo, non ne occorre affatto per appartenere a un Partito che si crede che arriverà al governo. Mi son sempre infischiato dell’opinione momentanea del proletariato. Noi ci votiamo a un Partito che, proprio nel suo interesse, non deve ancora arrivare al potere”.

(Fine della prima parte) – continua

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L’immaginario di un secolo (tutt’altro che breve) https://www.carmillaonline.com/2021/06/17/limmaginario-di-un-secolo-tuttaltro-che-breve/ Thu, 17 Jun 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66628 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone con la sua ultima raccolta di scritti. Un secolo che supera certamente i cento anni canonici, visto che le radici del suo immaginario si allungano almeno fino alla metà dell’Ottocento, mentre i suoi rami più lunghi si protendono fino al primo ventennio di quello attuale. Un percorso temporale caratterizzato tanto da numerosi “fin de siècle”, mai definitivi, quanto da altrettanti ripetuti inizi.

Una coazione a ripetere e ripetersi che sembra, di fatto, la base reale di ciò che viene definito spesso come post-moderno e che, a sua volta, guardando con attenzione ai personaggi e ai miti ri/proposti da Gabutti con il suo solito stile beffardo, non fa altro che rimodellare un immaginario definito una volta per tutte (o quasi) dal medesimo modello sociale e di produzione affermatosi nello stesso periodo su scala planetaria.

Simile per molti versi a due delle raccolte di testi più belle di Geminello Alvi1, con cui condivide l’attenzione per personaggi come Emilio Salgari, Amadeo Bordiga, J.R.R. Tolkien e Charlie Chaplin, Maschere e pugnali se ne distacca per la capacità dell’autore di sintetizzare in ogni occasione una enorme quantità di osservazioni di carattere letterario, filosofico, politico e fantastico mantenendo dritta la barra della fantasia scatenata come forza e utopia liberatrice dalle miserie del vivere quotidiano. Affiancando però, a differenza di Alvi, i personaggi reali a quelli altrettanto vividi prodotti dalla fantasia di autori di ogni genere, e suggerendo così al lettore che la vita possa essere essenzialmente null’altro che un sogno, tra i tanti che l’immaginario, sia individuale che collettiva, finisce col produrre e riprodurre in continuazione.

Problematica che ben si adatta ad una collana, DELIRIA, della casa editrice Write Up e diretta da Marco Vettorato, il cui intento è quello di sottolineare che: « Ricordare è sempre immaginare. Ci sono realtà entro le quali l’ignoto prende forma: dietro la razionalità dubitante c’è il genio creativo, c’è il lato fantastico della ragione che non riesce a distinguersi dalla follia sognante ».

E’ un enorme favoliere quello che Gabutti ci propone con le sue pagine, che racchiudono la Storia del lungo Novecento nella sua dimensione più autentica: quella della affabulazione letteraria e della narrazione, sia che questa si presenti come singola o collettiva, tossica o innovativa oppure , ancora, “realistica” o “fantastica”. Una grande narrazione, spesso destinata a ripetersi con trame ed eroi, malvagità e miracoli, speranze e deliri che solo apparentemente esplodono dal “nulla” come novità. Si tratti di ideologie oppure di catastrofi, di violenza, di incubi, sogni o avventure tutto finisce col confluire in una gigantesca e continua ricostruzione e distruzione del mondo che le ha prodotte. Una sorta di demiurgo impersonale, prodotto da migliaia o milioni di personalità, che come afferma l’autore a proposito dell’opera di Tolkien:

non si limitò a inventare nuove storie e neppure semplicemente raccolse quelle tramandate dalle
nonne e dalle antiche tradizioni letterarie. Organizzò un intero universo che agisse da cornice perfetta e smisurata per quell’idea di fiabe che lo divorava […]
Diede forma a un intero mondo, anzi a un intero cosmo, completo di storia, di lingue vive e morte, di popoli e di specie animali, con una geografia e uno scenario culturale perseguiti fin nei dettagli […] Quindi lo farcì di storie e accadimenti, di saghe celesti e d’ombre tenebrose, fino a comporre un quadro immane e labirintico, così vertiginoso e dettagliato da stordire chi troppo a lungo vi avesse fissato lo sguardo. La Terra di Mezzo divenne così un mondo storico, non meno reale di quelli testimoniati nei libri di scuola, persino altrettanto orribile e pericoloso2.

Letteratura, giornali, cinema e fumetti contribuiscono così a creare e ricreare quel “mondo reale” in cui, più che vivere, fantastichiamo di vivere e in cui, per esempio, la Cina romantica e mitica di Edgar Snow

In balia di briganti, artisti di strada, orfani, prostitute e «intellettuali borghesi al servizio del popolo»; percorsa da sinistri signori della guerra e da generali comunisti simili a «soldati di Cromwell» (per citare Beppe Fenoglio) «col fucile a tracolla e la Bibbia nel tascapane», è stata per un po’ – prima di Piazza Tien An Men e d’Alibaba.com – l’equivalente radical dell’Inghilterra vittoriana, della Contea di J.R.R. Tolkien o della Parigi di Balzac: una terra immaginaria e un modello sociale, un miraggio nel deserto e un’utopia3.

Un’azione continua di costruzione e decostruzione dell’immaginario e, in fin dei conti, del mondo che vede quella che un tempo fu sbrigativamente liquidata come sovrastruttura rivelarsi come parte fondante della struttura e dell’ordine del discorso che la regge. Sia nell’arte del governo dell’esistente che del suo rovesciamento utopico. In un secolo in cui Batman e Stalin, Hitler e Superman, Sauron e Bordiga possono direttamente o indirettamente scontrarsi su piani che rinviano alle antiche saghe, rinnovandone i fasti con la potenza della stampa e dei massa media, del digitale o del technicolor.

Nuovi eroi, nuovi dei malvagi e nuove terre di mezzo o lande selvagge popolano continuamente l’immaginario della modernità; nuovi pericoli la minacciano e nuovi salvatori, in mutande e costume attillato oppure nel grigiore di giacca e cravatta si propongono per la salvezza della stessa.
Generali in divisa e drag queen piene di lustrini percorrono con la stessa naturalezza il palco dell’immaginario del ‘900. Si tratti di San Remo e della TV di oggi oppure della Berlino della fine degli anni ’20. I demoni di Dostoevskij possono essersi trasformati tanto negli hippy sbiellati al seguito di Charles Manson quanto negli esaltati combattenti dell’ISIS oppure riposare sotto le spoglie dell’impiegato cantato da Fabrizio De André in una delle sua ballate più celebri.

Un territorio, quello dell’immaginario di questo lungo secolo, in cui le funzioni dell’autore e dello spettatore, dello scrittore e del lettore, magari quest’ultimo insaziabile e compulsivo (come nel caso di Philip José Farmer citato nel testo), finiscono col fondersi in un’unica figura destinata a inventare e reinventare il mondo in continuazione. In uno scambio di ruoli, spesso involontario, in cui non si capisce più davvero chi crei e perché o, al contrario, perché distrugga per poi rifondare.
Alla fine sembrerebbe essere James Ballard, di cui Gabutti è gran conoscitore, a muovere i fili della faccenda anche se è l’unico a cui non sia stato destinato neanche un capitolo4.

Ma, sospendendo un’interpretazione che potrebbe farsi un po’ “ingombrante”, chi scrive questa recensione deve assolutamente rimarcare come la lettura del libro di Gabutti si riveli, ancora una volta, non solo stimolante ma anche estremamente divertente. Basterebbe infatti soltanto il capitolo dedicato alla ricerca da parte dell’autore della casa in cui sarebbe nato Nero Wolfe in Montenegro per fondere in una girandola di invenzioni e peregrinazioni (autentiche) la realtà con la fantasia, lo humour con la letteratura e la vita dello scrittore con quella del suo personaggi preferito.

Sono più di 160 i soggetti dell’antologia di recensioni, spunti di riflessione e articoli che ci vengono proposti nelle 450 pagine del libro (cui ne vanno aggiunte altre 15 soltanto per l’elencazione dei testi citati): da Bob Dylan a Ian Fleming, da Hugo Pratt a Marx e Engels oppure da Lord Greystoke (Tarzan) a Star Wars passando per Kerouac e Lucky Luciano, Orson Welles e Raymond Chandler.
In un’autentica enciclopedia che non dovrebbe mancare nella biblioteca di chiunque si occupi dell’immaginario del ‘900 e della funzione mitopoietica e creatrice della letteratura e della affabulazione mediatica.

“Ti passano un pezzo di carta coperto di lettere e numeri e tu devi tirarci fuori una partita di baseball. Crei il clima, dai un corpo ai giocatori, li fai sudare, brontolare, gli fai tirar su le brache a strattoni, ed è straordinario, pensa Russ, quanto trambusto concreto, quanta estate e quanta polvere la mente sia in grado di sollevare da una singola lettera latina piatta su un foglio.” (Don Delillo, Underworld)


  1. Geminello Alvi, Uomini del Novecento, Adelphi, Milano 1995 e G. Alvi, Eccentrici, Adelphi, Milano 2015  

  2. Diego Gabutti, Tolkien 2 (vita, morte e miracoli) in D. Gabutti, Maschere e pugnali, Write Up Books, Roma 2021, pp. 114-115  

  3. D. Gabutti, Edgar Snow in op. cit., p. 97  

  4. “In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger?
    Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale.” James Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, p. 37  

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Una cronaca di lotta proletaria dall’isola del ferro https://www.carmillaonline.com/2020/09/02/una-cronaca-proletaria-dellisola-del-ferro/ Wed, 02 Sep 2020 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62521 di Sandro Moiso

Alessandro Pellagatta, Cronache rivoluzionarie a Portoferraio. I comunisti internazionalisti e la lotta del proletariato elbano contro lo smantellamento degli altiforni (1944-1951), Quaderni di Pagine Marxiste, Milano 2020, pp. 96, 8 euro

Non molti di coloro che oggi visitano l’isola d’Elba per una vacanza più o meno lunga possono sapere o anche soltanto lontanamente immaginare le lotte, nei settori minerario e siderurgico, e la composizione sociale proletaria che ne hanno caratterizzato la storia fin dall’Ottocento. Tutti intenti a rimirare le sue spiagge oppure le ville napoleoniche, i turisti, anche quelli virtualmente di sinistra, ignorano una storia caratterizzata, [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Pellagatta, Cronache rivoluzionarie a Portoferraio. I comunisti internazionalisti e la lotta del proletariato elbano contro lo smantellamento degli altiforni (1944-1951), Quaderni di Pagine Marxiste, Milano 2020, pp. 96, 8 euro

Non molti di coloro che oggi visitano l’isola d’Elba per una vacanza più o meno lunga possono sapere o anche soltanto lontanamente immaginare le lotte, nei settori minerario e siderurgico, e la composizione sociale proletaria che ne hanno caratterizzato la storia fin dall’Ottocento.
Tutti intenti a rimirare le sue spiagge oppure le ville napoleoniche, i turisti, anche quelli virtualmente di sinistra, ignorano una storia caratterizzata, dall’unità d’Italia in avanti fino agli anni Ottanta del XX secolo, prima, dallo sfruttamento della forza lavoro coatta dei detenuti nelle saline (nella rada di Portoferraio) e nelle miniere di ferro a cielo aperto (tra Rio Elba e Rio Marina) e, successivamente, di una forza lavoro “libera” seppur coatta, proveniente in gran parte sia dal Nord che dal Sud dell’Italia, nelle miniere di ferro della zona di Capoliveri e del suo monte Calamita e negli stabilimenti siderurgici dell’ILVA di Portoferraio.

Certo molti conoscono la storia “antica” dello sfruttamento del ferro elbano sia da parte degli Etruschi che dei Romani, ma nessuno (o quasi) ricorda un’epoca in cui la presenza anarchica e comunista segnò le politiche e le iniziative dal basso di una popolazione che per secoli ben poco ebbe a che fare con il mare e con il turismo. Turismo, prima di élite (negli anni Sessanta e Settanta) e poi di massa (a partire dagli anni Ottanta), che con il suo illusorio benessere ha stravolto non solo il paesaggio ma anche il tessuto sociale (e politico) della terza (per grandezza) delle isole mediterranee italiane.

Ricordare qui gli episodi che caratterizzarono le lotte a cavallo tra XIX e XX secolo, in particolare il lungo sciopero del 1911, oppure figure come quella di Pietro Gori e, successivamente, dei numerosi antifascisti elbani, sarebbe troppo lungo.
Per questo motivo la seconda edizione del testo di Pellagatta, riveduta e ampliata in maniera significativa rispetto a quella del novembre 2005, è già di per sé utile al fine di rammentare al lettore quelle vicende passate e i personaggi che ad esse contribuirono.

Ma il testo, che si dilunga particolarmente sul periodo 1945-1951, ha il suo punto di forza (e forse di attualità) proprio nel raccontare le lotte condotte nel secondo dopoguerra dal proletariato elbano per impedire la chiusura degli altiforni di Portoferraio che avevano costituito, dalla loro apertura fino alle distruzioni del secondo conflitto mondiale, una linea di produzione importante della società ILVA, che prendeva il nome (lo ricordino ancor oggi gli operai impegnati nelle lotte odierne negli stabilimenti della stessa società di Taranto e di Genova) proprio da quello più antico dell’isola più grande dell’arcipelago toscano.

“Dopo la fine del primo conflitto mondiale il mancato adeguamento degli impianti rilevati dalla società ILVA, le mutazioni della domanda interna, la crescente concorrenza di altri stabilimenti e gli scontri al vertice della borghesia industriale portarono a un declino lento ma costante degli altiforni di Portoferraio. I pesanti bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale contribuirono a rendere inutilizzabile il complesso industriale.
Nel 1945 l’attività industriale a Portoferraio è praticamente ferma. Se inizialmente ciò è dovuto principalmente agli effetti dei danneggiamenti bellici, questi poco a poco finiscono per rappresentare di fatto un alibi teso a rafforzare una serie dis celte politiche miranti allo smantellamento degli impianti siderurgici.”1

E’ proprio dalla volontà di smantellare definitivamente gli impianti che prende avvio un ciclo di lotte che, seppur sconfitte, ebbero almeno il merito di segnalare non solo la protervia imprenditoriale, sorda a qualsiasi domanda proveniente da maestranze già duramente provate dalla guerra e dalle politiche fasciste, ma anche la fine di qualsiasi possibilità di fare affidamento su una risoluzione governativa e parlamentare della crisi. Non solo, ma anche quello di far venire pienamente alla luce la politica sostanzialmente collaborazionista del PCI togliattiano e dei sindacati.

A svolgere la funzione della voce fuori dal coro fu appunto la rappresentanza significativa di militanti del Partito comunista internazionale, di tendenza bordighista, che tenne alto il vessillo dell’iniziativa proletaria e rivoluzionaria nei confronti dei padroni, dello Stato e dei suoi finti avversari democratici di sinistra. Ed è questa la parte del libo che oggi, come non mai, può far riflettere sulle voci disperse di una tradizione rivoluzionaria che sia il PCI di Togliatti che la successiva sinistra extraparlamentare degli anni Settanta contribuirono a rimuovere dall’orizzonte del discorso politico e dell’iniziativa operaia in Italia.

Ma un altro discorso che è sotteso a quello principale è quello di un conflitto imperialista che, pur nelle ridotte dimensioni dell’isola, fu vissuto in tutte le sue sfaccettatura più infernali per la popolazione civile. Dall’affondamento di un traghetto di collegamento con l’isola ad opera di un sommergibile britannico, ai bombardamenti, prima anglo-americani e poi tedeschi dopo l’8 settembre, su Portoferraio e i suoi stabilimenti che causarono non solo la distruzione degli altiforni ma anche di una parte significativa del porto e del centro storico della ‘capitale’ elbana, con centinaia di morti tra i civili. Non ultimi, infine i morti, le violenze e gli stupri, che i si verificarono sull’isola dopo lo sbarco delle truppe ‘liberatrici’ francesi.

Fu in questo contesto di sofferenze che si sollevò la voce e la protesta dei lavoratori elbani e delle loro famiglie. Inascoltate e sconfitte, grazie anche ad un apparato politico e sindacale che già da tempo aveva scelto la via dell’unità e dell’interesse nazionale rispetto a quello proletario che avrebbe invece dovuto difendere. Unica voce diversa, appunto, quella di quei militanti che non avevano tradito la tradizione rivoluzionaria di Livorno nel 1921 e che ancora nei primi giorni dopo l’8 settembre avevano caratterizzato la stampa distribuita lungo il litorale tirrenico toscano, caratterizzata dagli evviva per il Pcd’I e Bordiga (volantini e fogli oggi conservati presso la Biblioteca Franco Serantini di Pisa), provenienti dalla base di un Partito che ancora doveva digerire la svolta di Salerno.

La vecchia Sinistra Comunista parlerebbe ancora oggi delle “lezioni delle controrivoluzioni” da cui apprendere gli insegnamenti per le lotte attuali e future. Basti appunto pensare alle lotte odierne all’ILVA di Taranto e alle speranza riposte in un suo salvataggio, riconversione o adeguamento alle norme sull’inquinamento industriale. Autentiche fanfaluche con cui i governi, i partiti politici e i sindacati asserviti continuano a riempire le orecchie e le teste degli operai coinvolti.

Ma infine anche un grido d’allarme per chi nella chiusura degli stabilimenti inquinanti crede di vedere la via principale per la risoluzione del problema ambientale.
L’isola d’Elba è lì a dimostrarlo, ancora oggi, con lo stravolgimento edilizio del suo panorama, con l’inquinamento del suo mare a causa di scarichi fognari insufficienti e sversamenti di navi e petroliere, con la velenosità dei fumi provenienti dalla vicina Piombino (dove gli stabilimenti e gli altiforni furono spostati per poi essere rivenduti in anni recenti a società di ogni nazionalità, risma e tipo di disonestà imprenditoriale) e molti altri problemi che ancora tradiscono, se analizzata da vicino e con più attenzione, la sua immagine da isola dei sogni.

Il testo di Pellagatta, ben documentato e attento, ci è d’aiuto ancora una volta sulla strada del disvelamento di un passato che, purtroppo, ancora non passa. L’eterno presente di un modo di produzione che è già morto ma che ancora cerca di riproporsi come unica soluzione possibile dei mali da esso stesso creati.


  1. A. Pellagatta, Cronache rivoluzionarie a Portoferraio, pp. 31-32  

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O tutto o nulla. I vecchi, i giovani, la guerra e la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2020/02/19/o-tutto-o-nulla-i-vecchi-i-giovani-la-guerra-e-la-rivoluzione/ Wed, 19 Feb 2020 20:46:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58053 di Sandro Moiso

Luca Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 290, 22,00 euro

“O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico “ (Vecchiezze in «Avanti», 13 luglio 1916 )

Il testo di Luca Gorgolini, nel ricostruire le vicende della gioventù socialista italiana dall’inizio del XX secolo fino alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, ha certamente [...]]]> di Sandro Moiso

Luca Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 290, 22,00 euro

“O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico “ (Vecchiezze in «Avanti», 13 luglio 1916 )

Il testo di Luca Gorgolini, nel ricostruire le vicende della gioventù socialista italiana dall’inizio del XX secolo fino alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, ha certamente più di un merito.
E non soltanto nell’ambito della storiografia politica.
Riesce infatti a ricostruire il clima sociale e politico di un ventennio in cui, all’interno di uno stesso ceppo socialista o socialisteggiante, si vennero a creare le condizioni sia per la formazione di una nuova formazione politica rivoluzionaria che di un movimento politico e sociale di estrema destra.
Entrambe le esperienze infatti, sia dal punto di vista organizzativo che ideologico, rappresentavano sicuramente un approccio alla politica di massa impensabile soltanto qualche decennio prima.

Entrambe le correnti, sia quella destinata a dar vita nel 1921 al Pcd’I che quella destinata ad animare le origini del fascismo mussoliniano, presero vita in un contesto in cui le contraddizioni sociali ed economiche, oltre che imperialistiche, sviluppatesi a partire dal tumultuoso sviluppo del moderno capitalismo industriale e finanziario in Europa e in America, sarebbero sfociate da un lato in forme di lotta di classe e reazioni politiche di parte proletaria difficilmente esperite in precedenza (anche solo per il crescente numero di lavoratori coinvolti) e dall’altro nella prima e violentissima carneficina mondiale, definita poi, in seguito e disgraziatamente, come Grande Guerra.

Ma un elemento di importanza capitale che l’autore sottolinea e risottolinea continuamente, a ragione, è sicuramente quello dello scontro generazionale che si sviluppò all’interno della compagine socialista, non solo a livello nazionale.
Elemento fondamentale di uno scontro che vide protagonisti, all’interno del movimento socialista internazionale e nel Partito Socialista nato in Italia nel 1892, da una parte i fondatori di tali esperienze, rinchiusi sempre più all’interno di un’azione parlamentare che, spesso, non rispettava certo il mandato della base sociale che avrebbero dovuto rappresentare e che faceva del riformismo l’orizzonte ultimo della propria azione, e dall’altra una generazione più giovane e sensibile dal punto di vista politico e sociale che chiedeva un radicale stravolgimento di quell’impostazione, ormai destinata a rinviare all’infinito qualsiasi reale mutamento all’interno dell’ordina sociale ed economico esistente.

Giovani contro adulti e rivoluzione contro riformismo e parlamentarismo: questi furono i due binari lungo cui si svilupparono le battaglie interne alla compagine socialista. Battaglie cui lo sviluppo delle politiche imperialistiche e coloniali avrebbero poi aggiunto un fattore determinante: quello dell’antimilitarismo di classe contrapposto ad un più blando pacifismo, destinato sempre e solo a sfociare nell’appoggio alle politiche dei governi liberali e nella comune difesa (tra forze borghesi e pretese proletarie) dell’interesse della Nazione e della Patria.

Per quanto riguarda le vicende italiane, che sono al centro della ricerca di Gorgolini ma senza dimenticare le dinamiche internazionali sugli stessi temi, certamente sia la guerra di Libia che la susseguente partecipazione, o meno, al primo conflitto mondiale furono determinati e dirimenti per definire i soggetti impegnati nella lotta e i programmi che questi avrebbero portato nell’agone politico.

Non c’è certo da stupirsi se a lottare contro il servizio militare, le compagnie di disciplina, le condizioni di vita in caserma e il massacro prevedibile, e poi di fatto avvenuto, sui campi di battaglia fossero di fatto i militanti più giovani, i proletari, i contadini e le donne: erano infatti questi soggetti a cogliere con certezza il fatto di essere destinati in prima persona, sia al fronte che a casa, ad essere toccati pesantemente dalle politiche e dalle scelte militariste e imperialiste messe in atto dalla borghesia italiana.

I parlamentari socialisti non nutrivano eccessivi timori personali in questi termini e potevano quindi crogiolarsi in un’insipida posizione neutralista che, nel corso del primo conflitto mondiale, sarebbe poi sfociato in quel né aderire né sabotare che li avrebbe condotti in seguito a bloccare l’azione rivoluzionaria messa in atto dai proletari e dai soldati italiani nell’anno più buio della guerra, il 1917, sia nelle città che al fronte (Torino, agosto 1917 – Caporetto nell’autunno dello stesso anno) e richiesta a gran voce dai rappresentanti più attivi della Federazione Giovanile Socialista.

Una contrapposizione generazionale che, nei fatti, diventava autentica contrapposizione di classe e che vide la formazione di una frazione intransigente, anche all’interno del Partito, che da un lato avrebbe dato vita, in nome dell’unità dello stesso, alla corrente poi detta massimalista e dall’altro a quella frazione che avrebbe poi dato vita alla scissione di Livorno nel 1921. Anche in questo caso, il testo affronta la questione della differenza di età tra le due frazioni e sottolinea come fossero i giovani e i giovanissimi, tranne quelli appartenenti sostanzialmente alla federazione di Reggio Emilia, a spingere in direzione di un’azione autonoma e rivoluzionaria, libera da qualsiasi fardello parlamentare e da alleanze con le forze moderate, sia che si definissero queste ultime repubblicane o radicali quando non addirittura liberali.

Il testo ha grandi meriti: quello di chiarire come inevitabilmente il Partito nato dalla scissione livornese non avrebbe potuto essere altro che astensionista in campo parlamentare e per questo fosse destinato a scontrarsi, nel 1922 (anche se quella data non rientra nel periodo preso in esame) con le indicazioni dell’Internazionale Comunista. Il percorso parlamentare era stato esperito del tutto nella storia del socialismo italiano e si era rivelato per quell’enorme bugia e bagno di opportunismo panciafichista (termine coniato dagli interventisti mussoliniani e nazionalisti, ma ben adatto a cogliere l’essenza dei comportamenti dei parlamentari socialisti) che avrebbero soltanto continuato ad illudere una parte del proletariato italiano (specialmente quello operaio del Nord) e a rimandare all’infinito qualsiasi ipotesi di trasformazione radicale della società, anzi opponendosi a quest’ultima come ad un nemico mortale.

L’altro è quello di cogliere nella svolta mussoliniana, dall’opposizione anti-militarista all’interventismo, non la causa agita da un deus ex-machina (lo stesso Mussolini) in grado di determinare, quasi da solo, una grave frattura nel movimento socialista e un tradimento “sicuramente” maturato all’esterno del Partito Socialista, ma la conseguenza di un’incoerenza politica, nata all’interno degli stessi partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale, che aveva portato quelli più importanti (ad esempio quello tedesco e quello francese) a votare per i crediti di guerra fin dal 1914.

Confusione e tradimento che nel non avere abbandonato i concetti di Patria e Nazione in nome di un più severo e radicale internazionalismo fece sì che nell’ora dell’intervento anche numerosi “giovani”, non ultimi Gramsci e Togliatti, sposassero per un più che lungo momento la causa dell’azione militare a favore o in difesa della Patria. E’ proprio in tale contesto che l’autore sa dipingere la figura di Amadeo Bordiga come strenuo difensore di un’intransigenza non fine a se stessa, come troppo spesso è stata dipinta dai successivi e stalinizzati detrattori, ma assolutamente necessaria per salvare l’azione politica antagonista al capitale e rivoluzionaria dalla palude del nazionalismo e del collaborazionismo interclassista. Spesso travestito, come capita ancora oggi, da missione di soccorso o da raccolta di fondi per i presunti aiuti umanitari (all’epoca messi in atto nei confronti dei profughi che avevano dovuto lasciare i territori italian dopo Caporetto e che la frazione dei giovani intransigenti si rifiutò di appoggiare e sostenere).

L’azione repressiva del governo, soprattutto dopo Caporetto, che colpì duramente i rappresentanti della frazione intransigente e soprattutto della sua ala giovanile (carcere, compagnie di disciplina o della morte, ripetuti richiami alle armi, morte al fronte), non fu sufficiente a vincerne la spinta rivoluzionaria, così come i precedenti tentativi di eliminare la Federazione giovanile come se si trattasse di una serpe in seno non servì al gruppo parlamentare socialista per distruggere la corrente rivoluzionaria che in essa si rifocillava ed animava.

Certamente l’azione del gruppo parlamentare e l’inanità “unionista” della corrente massimalista impedirono, nel biennio rosso, una più radicale azione politica a guida degli operai, dei reduci, dei contadini e di giovani in rivolta, ma non impedì che alla fondazione del Partito Comunista d’Italia l’età media dei cinque membri dell’Esecutivo del nuovo partito, nato dalle basi poste dalla nuova Internazionale, fosse di 31 anni: Bordiga (n.1889), Fortichiari (1892), Terracini (1895), Grieco (1893) e Repossi (1882).

Un libro importante, pur nella sua sintesi, quello di Gorgolini; utile non soltanto dal punto di vista storiografico, ma anche da quello di chi oggi si interroghi seriamente sulle prospettive di un movimento estremamente variegato come quello che, sia a livello internazionale che nazionale, oggi si va riformando e agitando ad ogni latitudine. In vista di una guerra civile già messa in atto dai differenti governi dell’esistente, ma tutti uniti dall’istanza repressiva anti-popolare e anti-proletaria, che molti ancora non vedono appellandosi ad inutili istanze umanitarie, riformistiche, parlamentari e nazionali.
Che, oggi come allora, appannano lo sguardo antagonista e l’azione di contrasto alle politiche del capitale, finanziario e non. Purtroppo, anche tra i giovani.

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L’estate del 1964 ( o giù di lì e oltre) – 2 https://www.carmillaonline.com/2016/01/21/lestate-del-1964-o-giu-di-li-e-oltre-seconda-parte/ Thu, 21 Jan 2016 22:07:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27926 di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per [...]]]> di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per il cinema. Ma quei due, per i quali il West era solo un pretesto per parlare di anarchia e di rivoluzione e di uso delle armi per riparare ai torti dei potenti, furono un’altra cosa. Dei maestri. Che aprirono la strada ad un breve periodo in cui i pistoleri dell’Ovest sembravano avere le fattezze dei rivoluzionari cubani e latinoamericani. Soprattutto quando ad interpretarli erano chiamati Gian Maria Volonté o Warren Oates.

Nell’autunno del 1964 entrai nella scuola media unica, che era stata avviata con la riforma scolastica entrata in vigore il 31 dicembre 1962 con effetto dall’anno scolastico successivo. Grazie a ciò, nel giro di pochi anni raddoppiò il numero degli allievi frequentanti le scuole medie superiori. I numeri valgono più delle ideologie per spiegare i fenomeni sociali. Anche per il’68.
Che ci trovò, per così dire, pronti.

Pochi venivano da un inquadramento partitico o da un indottrinamento politico.
Sicuramente leader e leaderini avevano seguito quel percorso, ma furono pochi e grande era il disordine che regnava sotto il cielo di quei giorni.
Tutti si buttarono a pesce per abbrancarci e molti di noi sfuggirono a stento alle sirene che volevano richiamarci verso il PCI o verso i marxisti-leninisti dalle varie linee nere e rosse.

Ma quando ci avvicinarono noi avevamo già assaggiato le carezze dei calci dei moschetti, dei manganelli o delle catenelle delle manette. Sparate dritte sulla faccia o sulla testa. Oppure, se ci era andata bene, soltanto sulla schiena.
Ma eravamo incoscienti e piuttosto ostili a quella disciplina che volevano inculcarci, a tutti i costi, a calci in culo. L’unica cosa che ci interessava davvero era render pan per focaccia. A fascisti e polizia.

La teoria arrivò più tardi, mica subito.
L’azione precede la parola e poi ne richiede l’uso per spiegarla.
E le parole precedono le idee. Le parole spiegano l’azione e, in seguito, le idee che ne derivano creano il mondo. Anzi, creano la visione del mondo.
Ma nella materialità del mondo è l’azione che fa la differenza. Tutto il resto arriva dopo.

Marx affermò chiaramente che la classe operaia o lotta o non è.
Insomma la classe si fa tale in quanto agisce. Soltanto dopo pensa e riordina le sue azioni e le sue strategie. Quei teorici del partito che volevano portarci la coscienza da fuori, non si rendevano nemmeno lontanamente conto che il fenomeno era in realtà completamente rovesciato. Infatti potevano intravedere la coscienza grazie all’azione esercitata dalla classe e soltanto così innamorarsene.

Allo stesso tempo cercare di definire la classe o l’appartenenza ad essa in termini politici a partire da elementi non biografici, ma esclusivamente economici e sociali rischia di far cadere in un realismo sociologico che può forse funzionare per i grandi numeri, ma non per i percorsi individuali o generazionali.

In realtà per capire a ritroso la storia di una scelta complessa come quella di diventare militanti rivoluzionari occorre, un po’ come fece Walter Benjamin con la sua ricostruzione dei passages parigini, ricercare corrispondenze, collezionare ritagli casuali e tracce; giungendo cioè a creare quella che il filosofo tedesco chiamò una “fantasmagoria dialettica”, in cui quelle scarse e sparse testimonianze e ricordi, opportunamente assemblati e giustapposti possono, soli, rendere l’immagine della tempesta personale che fu scatenata da eventi tra i più disparati e che avrebbe accompagnato e prodotto avvenimenti meglio indirizzati una volta raggiunto un diverso ordine interiore.

giù la testa Gli avvenimenti, i più diversi tra di loro, ci possono avviare verso un percorso rivoluzionario prima di averne piena coscienza. Soltanto dopo questo primo passo sarà possibile razionalizzare le scelte e indirizzare gli sforzi verso un comune obiettivo. Vale per l’individuo e vale per l’azione di classe o di un partito rivoluzionario o preteso tale. Che non può esistere se non è preceduto dall’azione spontanea dei movimenti sociali. Dopo li potrà comprendere, anticiparne alcune scelte e, magari, guidare momentaneamente, ma non li potrà mai e poi mai creare.

Quei movimenti non si possono inventare. Sono la manifestazione fenomenica di un inconscio collettivo profondo. Nutrito di sogni, bisogni, parole, suoni, desideri, istinti, inconsapevole a se stesso fino a quando non si presenta un elemento scatenante: una crisi, un licenziamento, una promessa non mantenuta, una speranza infranta, un maltrattamento inaspettato o di troppo. E ciò avviene in un momento preciso, lungo come il decennio dal’68 al ’77 oppure brevissimo, come il tempo di uno sparo.

Ma in quel momento tutto si illumina, tutto diventa chiaro, tutto risplende di luce propria anche se chi cercherà di prenderne la testa vorrà appropriarsi di quella stessa luce, finendo col risplendere di una luce riflessa. Come un satellite che gira intorno ad un astro vero. Paradossalmente attratto dal moto di rotazione del corpo celeste di superiori dimensioni e allo stesso tempo, presuntuosamente, convinto di determinarlo. Mentre la fine del movimento e della rotazione costante di quel corpo ne segnerà l’inevitabile caduta o dispersione nell’immensità del cosmo.

Ed è per questo che ciò che fa scoppiare una rivolta o una rivoluzione una prima volta può non funzionare una seconda. Ed è ancora per questo che i partiti che sopravvivono all’esperienza che li ha generati sbagliano sempre nel comprendere i fenomeni successivi.
Si aspettano ciò che è già stato e non capiscono che, molto probabilmente, non si ripeterà più. Almeno con la stessa intensità, violenza e determinazione.

Ed è infine per questo che i partiti rivoluzionari di un tempo sono destinati a diventare i partiti della conservazione, se non addirittura della controrivoluzione nelle successive stagioni della storia.
Così, spesso, hanno finito col barattare i principi generali a cui si ispiravano pensando che fossero quelli ad essere sbagliati; senza rendersi conto, invece, che era la loro attesa che aveva tempi diversi da quelli del treno della storia. Che pur sarebbe prima o poi passato, ma non per quella stazione e con quegli orari.

Ho scritto da altre parti che eravamo come giovani treni lanciati in corsa.
Noi eravamo saliti su quel treno, lo avevamo acchiappato al volo; eravamo diventati quel treno.
Ne eravamo contemporaneamente i passeggeri e la locomotiva e continuammo a correre.
Fino a quando deragliò o fu fatto deragliare.
Dal treno potevamo vedere o intuire la destinazione, ma non potevamo controllare i binari.

mexican train Mi vengono in mente le immagini dei treni durante la rivoluzione messicana. Stracarichi di armati, donne, bambini, cavalli.
Come al solito quelle immagini ci erano giunte mediate dal cinema di Leone e di Peckinpah. Su quei treni là gente ci viveva, non viaggiava soltanto.
Intorno a quei treni si combatteva, si moriva, si vinceva e si perdeva.
Forse da lì mi è venuta l’idea di quella nostra definizione. Che mi piace ancora.

Mi piace soprattutto l’immagine di quei treni fermi, ma con le locomotive sbuffanti.
Esprimono ciò che è ancora solo in potenza e non ancora in essere; anche se lo fanno già prevedere.
Oggi mi sento ancora sullo stesso treno, ma forse ha imboccato un binario morto.
Oppure i passeggeri sono scesi tutti o quasi e hanno deciso di prenderne un altro. Forse a quella stazione di cambio ero addormentato oppure guardavo distrattamente da un’altra parte.

Eppure, eppure…
Ricordo che, quando quel treno era in corsa, nelle ultime fermate ci eravamo scontrati fermamente con il PCI. Il vero garante dell’ordine. Democratico si diceva allora.
Ed oggi vedo giovani dei centri sociali e precari e lavoratori scontrarsi con gli eredi di quel partito e con il loro governo. Anche oggi si chiamano “democratici” o, tra poco, Partito della nazione.

Superata questa immagine del treno?
Dovrei parlare di rete o di reti? In fondo in rete scrivo ed invio i miei messaggi in bottiglie di byte.
Ma ho i capelli bianchi e nel mio immaginario quei binari che si perdono verso l’orizzonte, sui quali si corre trascinati da una macchina pulsante, mi affascinano di più.
Anche se, quando parlo con i miei allievi, mi accorgo che non possono più vivere le stesse mie emozioni. Ed io le loro.

Ma il problema posto dal superamento di questo modo di produzione orrendo permane.
E una parte della teoria già prodotta potrebbe ancora servire.
A patto di sapere dove si cela la classe oggi, quali sono i suoi comportamenti, quali le sue azioni.
Autentiche e non scimmiottate.
Dove trovare l’equivalente della classe operaia quando questa, qui in Occidente, è stata ridotta ai minimi termini, dispersa, convogliata verso rivendicazioni miserabili ed egoiste?

Gli operai che trovavo alle porte della FIAT negli anni settanta avevano, quasi sempre, la stessa mia età. Avevamo molti gusti in comune e lo stile di vita non era così distante. Come sarebbe stato possibile non intenderci, al di là del volantino o del giornale distribuito davanti ai cancelli?
Anche loro erano già stati dipinti come teppisti. Prima in piazza Statuto poi in corso Traiano.

Il giovane rivoluzionario è sempre dipinto come un teppista o un delinquente.
Oppure come un terrorista, anche se ha contribuito soltanto al sabotaggio di una betoniera.
E’ facile perdere la fiducia dopo una certa età.
E’ facile scoraggiarsi e rinunciare.
Non è vero che si continui a credere per auto-consolazione, sarebbe più facile lasciar perdere.
Guardare scorrere le immagini del film del mondo staccando l’audio.
Oppure non guardarle proprio, rivolgendo lo sguardo ad uno schermo grigio di cui abbiano preventivamente sabotato ogni funzione.

Ma c’è un demone, un virus che ci ha infettato il sangue. Tanto tempo fa.
Che non ci permette di guardare da un’altra parte.
Che ci obbliga a cercare di capire, ancora. E ancora. E ancora.
Chissà se si sentivano così quei vecchi compagni della sinistra dissidente che, in pochi, cercarono di trasmetterci l’odio per lo stalinismo e la grande truffa dei socialismi nazionali?

wild bunch 3 Chissà se sentivano così quei vecchi partigiani che prendevano la parola alle manifestazioni anti-fasciste dei primi anni settanta?
Erano mica più vecchi di noi adesso, eppure sembravano così anziani e, talvolta, lontani.
Si sentiva così mio padre quando, dopo anni di diverbi con me per le mie scelte politiche, prese una sera il telefono per minacciare il vice-questore di Torino che, a sua volta mi aveva minacciato insieme a mia madre?

Come si sentiva mia nonna quando si ricordò, durante la ristrutturazione della casa di campagna, di fare sparire da un camino in disuso le armi che mio padre si era portato a casa dopo la Resistenza?
Quelle stesse con cui lei, donna di campagna ma dallo sguardo fermo e deciso, aveva minacciato il negoziante borsanerista che cercava di arricchirsi sulle spalle dei compaesani subito dopo la fine del conflitto, mostrandogli gentilmente la bomba a mano che portava nelle tasche del grembiule?
Cosa di cui, quest’ultima, mia madre, donna di tutt’altra pasta, si vergognò sempre tantissimo.

Abbiamo provato tutti le stesse cose, in tempi e forme diverse?
Siamo tutti anelli di una stessa catena?
Di cui, secondo i periodi, cambia soltanto la forma e la forgiatura?
Abbiamo sempre gli stessi nemici, dal volto cangiante ma dagli stessi modi e comportamenti?
Come diceva il titolo di un film di vampiri capitalisti dei tardi anni settanta: Hanno (solo) cambiato faccia?

hannocambiatofaccia A volte si rischia veramente di sentirsi come criceti destinati a far girare all’infinito la stessa ruota.
Forse, una volta spogliati degli orpelli ideologici, intellettuali e politici , lo siamo davvero. Tutti.
Vittime di una invisibile e superiore “livella” che ci condanna, ancor prima di morire, ad un personale inferno di ripetizioni di atti, gesti, parole e pensieri. Tutti apparentemente così importanti, tutti quasi sicuramente futili. Come maschere di un teatro e di un copione che neppure Pirandello avrebbe osato o saputo immaginare.

Comunque il passato era poco più che un sogno e il suo influsso sul mondo era ampiamente esagerato. Perché il mondo veniva rinnovato ogni giorno ed era solo l’attaccamento degli uomini alla sua svanita esteriorità che poteva fare del mondo un’ulteriore esteriorità […] Vedere le cose come stanno è uno sforzo. Cerchiamo dei testimoni ma il mondo non ce li fornisce. E’ questa la storia, la storia che l’uomo costruisce da solo con ciò che gli viene lasciato. Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti. Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” (Cormac McCarthy)

(Fine seconda parte – continua)

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