Bologna – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Bologna cowboy https://www.carmillaonline.com/2025/04/07/bologna-cowboy/ Sun, 06 Apr 2025 22:01:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87512 di Mauro Baldrati

[Si pubblica di seguito un estratto di Bologna cowboy pubblicato poche settimane fa per i tipi di DeriveApprodi. Mauro Baldrati, l’autore, ambienta nella Bologna del 2047 un giallo che contiene un noir. L’agente speciale Nicodemo riceve l’incarico di identificare dei resti umani rinvenuti in una fossa anonima. Da un dattiloscritto emergono le vicende di un giovane fotografo che realizza un servizio durante la manifestazione seguita all’omicidio di Francesco Lorusso nel 1977. LC]

A dire il vero Toni Rinaldi, detto Jimi Hendrix di Romagna, non era mai stato un gran politico. Frequentava l’ambiente, i centri sociali, era amico coi compagni e [...]]]> di Mauro Baldrati

[Si pubblica di seguito un estratto di Bologna cowboy pubblicato poche settimane fa per i tipi di DeriveApprodi. Mauro Baldrati, l’autore, ambienta nella Bologna del 2047 un giallo che contiene un noir. L’agente speciale Nicodemo riceve l’incarico di identificare dei resti umani rinvenuti in una fossa anonima. Da un dattiloscritto emergono le vicende di un giovane fotografo che realizza un servizio durante la manifestazione seguita all’omicidio di Francesco Lorusso nel 1977. LC]

A dire il vero Toni Rinaldi, detto Jimi Hendrix di Romagna, non era mai stato un gran politico. Frequentava l’ambiente, i centri sociali, era amico coi compagni e le compagne, ma non riusciva a gettarsi col corpo e con la mente nella vera militanza politica. Alle manifestazioni c’era. Aveva anche portato le bandiere e retto gli striscioni, partecipato a qualche presidio davanti alle fabbriche, distribuito volantini. Ma svolazzava qua e là, si perdeva dietro alla musica, il cinema, i libri, le vacanze.
Insomma, diciamolo: più che altro voleva divertirsi, senza escludere un certo cazzeggio.
E si perdeva dietro Milonga, che in quel periodo era la sua luce blues.
Infatti, nel dicembre di quel bisbetico 1976 era avvenuta una straordinaria operazione di meticciato nella dura frontiera di Mezzaluna, tratto di pianura ravennate a venti chilometri dal mare Adriatico.
Il gruppo di Jimi, ex hippies e poeti country, un po’ disperso ma ancora unito nonostante la frattura del servizio militare che li aveva sequestrati per 15 mesi (i più sfortunati per due anni, in marina) si fuse con un gruppo di ex marxisti leninisti, a loro volta un po’ dispersi per le continue scissioni e reciproche accuse infamanti, ma riuniti in un collettivo in area Manifesto. D’altra parte come potevano due gruppi alternativi al P.C.I., che aveva più dell’80% dei voti a Mezzaluna, restare estranei? Come potevano ignorarsi?
L’incontro produsse nuove scoperte, nuove amicizie. Gli ex m-l erano più anziani, e quasi tutti fidanzati, mentre gli ex fricchettoni erano praticamente tutti single. D’altra parte Jimi e i suoi avevano notato da tempo che nel mondo politicizzato giravano ragazze carine, mentre per i poeti teorici della liberazione sessuale, nessuna pioggia sulle contrade occidentali.
Insomma, questo meticciato fu vantaggioso soprattutto per gli ex freak.
Le ragazze militavano nei movimenti femministi, alcuni ultra radicali, benché tra le loro file regnasse una discrepanza tra l’agire politico e quello privato. Femministe che manifestavano con cartelli del tipo Dito, dito, orgasmo garantito, oppure Cazzo, cazzo, orgasmo da strapazzo, alla sera si ritrovavano col fidanzato, con altra coppie di fidanzati, come vecchie mogli e vecchi mariti in un monotono rapporto borghese.
Gliene parlò una sera la fidanzata storica di un loro leader, Kocis, detta Milonga. Erano alla Casa delle Aie, il grande ristorante nei pressi di Cervia in un palazzo settecentesco che fu una “pignarola” (edificio adibito al magazzinaggio e alla lavorazione delle pigne). Dopo una cena abbondante a base di enormi piatti di tagliatelle, spezzatino con funghi e polenta, il tutto innaffiato con gargantuesche bicchierate di Sangiovese, Jimi e Milonga uscirono a prendere una boccata d’aria e a fumare una sigaretta.
Milonga gli piaceva, era un po’ rotondetta, con un caschetto di capelli neri, sempre allegra, ironica. Ogni volta che uscivano tutti insieme si trovavano vicini, uno di fronte all’altra. Se Jimi la guardava incrociava sempre i suoi occhi che lo fissavano. E viceversa.
Era una serata di metà gennaio, fredda e limpida. Si appoggiarono a uno steccato e guardarono la luna. Una mezzaluna, alta nel cielo sereno.
“Lo sai da quanto tempo siamo fidanzati io e Kocis?” disse Milonga, all’improvviso.
“No. Da quanto?”
“Otto anni” disse, chinando la testa.
Restarono qualche secondo in silenzio. A Jimi sembrava di avvertire il rumore della sua mente presa in un vortice di pensieri.
“Otto anni” ripeté. “Ero una ragazzina. Non mi sono più staccata da lui.”
Jimi ascoltava il tono della sua voce. Sembrava triste. O rassegnato.
“Siamo come sposati” continuò. “Anzi, siamo sposati. Stiamo sempre insieme, a parte quando io sono a Bologna all’università. Lui mi raggiunge spesso, dopo il lavoro. Dormiamo insieme e al mattino presto lui esce per tornare a Ravenna, nell’ufficio del sindacato.”
Jimi guardava davanti sé, nella notte stellata, la massa oscura della pinetina al di là della veranda. Soffiava il fumo della sigaretta che tremolava nervoso nell’aria gelida. “Ne parliamo spesso, con le compagne, durante i meeting. Critichiamo questa contraddizione tra la battaglia per emancipare noi stesse dal potere dell’uomo, che per quanto si dichiari comunista alla sera pretende il rilassamento del guerriero per poi girarsi dall’altra parte e ronfare come un orso. Siamo le compagne, siamo le fidanzate, in un rapporto chiuso e reazionario. Capisci?”
Fidanzamento? Non era pratico.
“Insomma, benché abbiamo fatto nostro lo slogan che il personale è politico, in realtà i due piani continuano a essere distinti. E in conflitto.”
Jimi respirò una boccata di aria fresca e spense la sigaretta. Non aveva nulla da dire. Di sicuro non desiderava consolarla.
“Otto anni” disse Milonga, sottovoce. “Una vita.”
Gli piaceva il suo profilo, il suo naso piccolo, il viso rotondo incorniciato dai capelli lisci. Per la prima volta erano soli, dopo innumerevoli incroci di sguardi e chiacchierate a bassa voce dietro ai tavoli dei ristoranti.
“E tu Jimi? Sei fidanzato?” chiese, con un sorriso allusivo. Sapeva bene che non lo era.
“Ehm, no. Ora no.”
Chissà, forse lo disse con un tono impacciato e buffo, perché lei rise e gli sferrò un pugno nello stomaco che lo fece piegare in due, più che altro per la sorpresa. E si trovò a pochi centimetri dalla sua faccia. Allora l’abbracciò, la strinse e le loro bocche si unirono.

[Le foto pubblicate appartengono a una documentazione sulle subculture giovanili realizzata da Mauro Baldrati tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, inserita nel libro]

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Il comune-azienda e le devastazioni della “crescita” https://www.carmillaonline.com/2024/05/14/il-comune-azienda-e-le-devastazioni-della-crescita/ Tue, 14 May 2024 20:45:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82506 di Mauro Baldrati

Una nave dei folli alla deriva. Questo sembra il nostro paese, ormai travolto da una sequenza impressionante di involuzioni e di malattie che lo divorano dall’interno. L’allineamento acritico con le politiche guerrafondaie e di riarmo, guerra contro i poveri e i diversi, la censura, il controllo del governo sui media e – presto – sulla magistratura, lo smantellamento di ciò che resta della costituzione, l’invio di squadristi nei consultori per terrorizzare le donne che vogliono, o devono abortire, politiche “ambientali” in favore dei cacciatori, aumento verticale delle disuguaglianze e molto, molto altro ancora.

E laggiù nelle terre di [...]]]> di Mauro Baldrati

Una nave dei folli alla deriva. Questo sembra il nostro paese, ormai travolto da una sequenza impressionante di involuzioni e di malattie che lo divorano dall’interno. L’allineamento acritico con le politiche guerrafondaie e di riarmo, guerra contro i poveri e i diversi, la censura, il controllo del governo sui media e – presto – sulla magistratura, lo smantellamento di ciò che resta della costituzione, l’invio di squadristi nei consultori per terrorizzare le donne che vogliono, o devono abortire, politiche “ambientali” in favore dei cacciatori, aumento verticale delle disuguaglianze e molto, molto altro ancora.

E laggiù nelle terre di mezzo, le ultime roccaforti delle amministrazioni progressiste annaspano per non farsi sostituire dalle truppe corazzate del Cartello fascio-leghista. Ma è una resistenza atipica, una resistenza partecipativa, che sembra lanciare questo messaggio: vedete, anche noi facciamo i bravi, anche noi siamo dei moderni fautori della crescita.

E allora vediamo di analizzare un po’ questa bestia vorace, uno dei Dioscuri generati dal padre Zeus/capitalista.

Senza la crescita -– ovvero senza la continua espansione, una tendenza che non può mai fermarsi – il sistema capitalista è destinato a crollare. Si salva con le guerre, ovvero distruggere per poi ricostruire, e quindi “crescere”.

Ma se scendiamo i gradoni della piramide della sussidiarietà, anche nelle amministrazioni locali questa divinità da molti anni ha iniziato a dettare legge. E tra queste, soffermiamoci sulla “città più progressista d’Italia”, Bologna.

Poiché, in ossequio del citato Dioscuro, i comuni, tutti, hanno abbandonato la vocazione di enti che si occupano del bene pubblico, i servizi, le manutenzioni, e si sono trasformati in aziende guidate da amministratori-manager, sembra che l’obiettivo sia trovare continuamente occasioni di crescita. E quando il meccanismo di puntamento individua il bersaglio si alza potente la musica wagneriana dei cantieri, le macchine scavatrici, i camion, i martelli pneumatici, e poi investimenti, contratti!

Ci siamo gà occupati di un progetto violento che l’amministrazione precedente a quella attuale ha elaborato, infilandolo di straforo in un’altra mega operazione – il nuovo stadio: la distruzione di un grande bosco all’interno della città, in zona Prati di Caprara, qui. L’ottica aziendale della crescita considera l’aspetto ambientale come oggetto di sfruttamento e di profitto, e l’abbattimento di un bosco è uno degli effetti collaterali inevitabili. Al posto di questa foresta doveva – deve? – sorgere il solito palazzo di appartamenti di lusso, con la foglia di fico di una piccola quota di “edilizia sociale”, e una scuola che è stata definita assolutamente inutile da parte dell’associazione di cittadini che, con una dura battaglia e una raccolta di migliaia di firme è riuscita a bloccarlo. Almeno per ora, perché il tempo lavora dentro, il tempo lavora per “loro”.

Poi ci sono le caserme militari dismesse. Di nuovo possibili magazzini pieni di occasioni di crescita, con ristrutturazioni, nuove costruzioni di… cosa? appartamenti di lusso, con la solita foglia di fico dell’edilizia sociale. Il caso più famoso è l’ex caserma Mazzoni, destinata a diventare una cittadella fortificata all’insegna dell’ordine e del decoro borghese, al riparo dagli sgradevoli segnali puzzolenti della povertà, i senzatetto, gli immigrati, i pazzi.

Oggi un altro evento si inserisce nel quadro descritto, questa volta elaborato dall’attuale amministrazione: una scuola elementare, la “Besta”, all’interno del parco Don Bosco: il progetto è di demolirla per ricostruirla più in là nel parco, abbattendo 42 alberi ad alto fusto. Un altro effetto collaterale un pochino doloroso, ma inevitabile per un obiettivo “elevato”. Di nuovo si è formato un comitato cittadino, composto, secondo l’amministrazione supportata dai media locali, da “violenti”, che si sono opposti, proponendo una ristrutturazione sul posto, che salverebbe gli alberi e avrebbe un costo pari alla metà della nuova costruzione. Ma l’amministrazione procede con una protervia che lascia interdetti: non solo la ristrutturazione non garantirebbe i requisiti della sismica e della termica – affermazione contraddetta dal comitato – ma sarebbe addirittura migliorativa dal punto di vista ambientale (ovvero dell’abbattimento di 42 alberi). Anche qui per l’accanita resistenza dei cittadini il progetto è stato bloccato. Ma il tempo…

Ora trasferiamoci in uno dei comuni più ricchi della cintura metropolitana bolognese, Casalecchio di Reno. Qui siamo nel gioco duro. Qui si fa sul serio. Casalecchio potrebbe diventare un modello di crescita, di sfruttamento scientifico dell’ambiente. E che ambiente. La natura è stata generosa, il territorio è ricco di verde, è attraversato dal fiume Reno, circondato da un grande, bellissimo parco, il parco della Chiusa (Talon), e altri boschi e boschetti sparsi. Proprio il Talon in passato fu oggetto di un progetto pericoloso, la realizzazione di tre villette ottenute da tre case coloniche, bloccato dalle proteste e dalle polemiche. Ma un’azienda può fermare la dinamica che la qualifica? Può tollerare che enormi aree siano lasciate intatte, esenti da progetti espansionisti? Può davvero rinunciare alla potenza della sua musica wagneriana? Così, più di dieci anni fa, ha preso forma un vero e proprio Godzilla edilizio. Lungo la via Ronzani, sulla sponda sinistra del Reno, un vasto terreno di proprietà di una cava dismessa, la Sapaba, entrò immediatamente nell’ottica espansionista del comune azienda (che per muoversi ovviamente ha bisogno dell’apporto delle aziende edili): un colossale edificio residenziale con la realizzazione di 300 appartamenti. Immediatamente l’efficiente apparato aziendale entrò in azione. Su quel terreno sorgeva un grande bosco, fatto di vegetazione spontanea e alberi ad alto fusto, che fu raso al suolo fino all’ultimo giunco. Poi fu realizzato un vasto altipiano perfettamente livellato che doveva sostenere l’edificio. Ci furono proteste, e anche allarmi, perché la zona era, ed è soggetta al rischio inondazione. Ma il meccanismo, una volta attivato, non si ferma. Non può farlo. Però avvenne un fatto non previsto. Il delirio post berlusconiano della continua espansione era in realtà la famosa “bolla” speculativa, che sembrava inarrestabile, per cui ogni metro quadrato era un’occasione di costruire. Ma come sappiamo la bolla scoppiò, i costi delle case precipitarono e molti progetti si arenarono. Come il Godzilla Sapaba. Intanto il territorio di Casalecchio ci ha rimesso un bosco. Però però… ora la crescita ha ripreso vigore, e il Godzilla non sembra morto, ma solo in sonno, e il tempo, il tempo…

Ma andiamo avanti, perché la crescita ha bisogno di andare avanti, sempre. Adiacente all’area ex Sapaba esiste un grande edificio dismesso che fu una sede operativa dell’Hatù. Una specie di balocco di lusso per il team comune-azienda e il socio costruttore. Così si è configurato un altro progetto, l’ennesimo condominio composto da 100 appartamenti, ovviamente di lusso con la foglia di fico eccetera. Purtroppo non si sta formando nessun comitato cittadino che si opponga a questo nuovo evento. Regnano indifferenza, forse rassegnazione. C’è qualche divisione tra la maggioranza che guida il comune, come una lista frazionista del partito di maggioranza PD, che – probabilmente per motivi elettorali, visto che in giugno sono in programma le elezioni per il rinnovo del consiglio comunale – mette in discussione il mostruoso Godzilla e l’ex Hatù, che potrebbe invece essere destinato a studentato. Un progetto sociale condiviso anche dalla lista Potere al Popolo, che si batte in eroica solitudine contro la devastazione ambientale operata dai futuri, titanici cantieri wagneriani.

E non è finita qui. In centro a Casalecchio era presente da anni un albergo dismesso, il Pedretti. Quale migliore occasione per attenuare il carico del traffico apocalittico che opprime la città, attraversata dalle vie Porrettana e Bazzanese, provenienti da Porretta, Sasso Marconi, Bazzano, che ogni giorno vi riversano migliaia di auto dirette a Bologna? Quale meravigliosa opportunità di creare un polmone verde, demolendo l’edificio e piantumando altri alberi oltre alla decina già esistenti?

Non scherziamo. L’area a di proprietà privata. Quindi il progetto è privato. E per tutti gli eventi ricorre sempre lo stesso mantra: i progetti sono stati approvati, i contratti sottoscritti. Premesso che la situazione normativa-contrattuale è alquanto complicata e pare che nessuno abbia la conoscenza dello stato attuale, la potestà dei suoli non compete ai privati, ma al comune. Lo dice la legge urbanistica, approvata addirittura durante il ventennio, la 1150 del 1942. Il privato per costruire deve chiedere il permesso di costruire al comune, che dopo una serie di valutazioni può concederlo o rifiutarlo. Per esempio con una valutazione negativa della CQAP (Commissione per la Qualità Architettonica e per il Paesaggio), o per una VIA (Valutazione di impatto ambientale). Sul suolo dell’ex Pedretti, abbattuto nel 2019 (insieme ad alcuni alberi ad altofusto, ma sono quisquilie) è in programma un palazzo di nove piani per 37 appartamenti, più una galleria commerciale al piano terra. La quale costituisce un ulteriore disagio per la città. Infatti ovunque avanza la tendenza di chiudere i negozi di vicinato, soppiantati dai grandi store e superstore, determinando così una desertificazione dei centri città, riducendoli a dormitori. Dunque quale CQAP può dare parere favorevole per il Godzilla 1 e 2 e per il troll Pedretti? Quale VIA può permettere l’impatto sul traffico di 447 nuovi appartamenti in una realtà come Casalecchio? Poiché ciò è avvenuto il comune-azienda è complice della devastazione del suo territorio. In nome di cosa? Ma che domande. Della crescita!

Un piccolo grande fenomeno Casalecchio. Infatti, oltre a essere attraversato da un’autostrada come la Bologna-Firenze, per cercare di risolvere il dramma del traffico ha pensato, desiderato, progettato un nuova autostrada da affiancarle, la Nuova Porrettana. Così questa cittadina di 36.000 eroici abitanti sarà equiparabile a megalopoli come Città del Messico, Tokyo, con un’autostrada di 10-12 corsie che solca il centro abitato in continua espansione.

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Lotte e infiltrati in salsa bolognese https://www.carmillaonline.com/2024/03/15/lotte-e-infiltrati-in-salsa-bolognese/ Fri, 15 Mar 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81517 di Giovanni Iozzoli

Valerio Monteventi, Lo sgherru dell’autunno caldo, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 388, € 22,00

Che succede se uno scrittore-militante mette le mani su una vecchia raccolta di rapporti polizieschi riservati, che raccontano le lotte operaie e studentesche di un territorio? E che succede se questi rapporti rappresentano un fedelissimo resoconto giornaliero di quelle lotte – di parte sbirresca, ovviamente –, attraverso cui è possibile ricostruire l’ethos e il pathos di una stagione irripetibile? Succede che lo scrittore medesimo – Valerio Monteventi – ricama un romanzo interessantissimo, in cui il confine sottile tra documentazione storica e fiction risulta praticamente indistinguibile.

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di Giovanni Iozzoli

Valerio Monteventi, Lo sgherru dell’autunno caldo, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 388, € 22,00

Che succede se uno scrittore-militante mette le mani su una vecchia raccolta di rapporti polizieschi riservati, che raccontano le lotte operaie e studentesche di un territorio? E che succede se questi rapporti rappresentano un fedelissimo resoconto giornaliero di quelle lotte – di parte sbirresca, ovviamente –, attraverso cui è possibile ricostruire l’ethos e il pathos di una stagione irripetibile? Succede che lo scrittore medesimo – Valerio Monteventi – ricama un romanzo interessantissimo, in cui il confine sottile tra documentazione storica e fiction risulta praticamente indistinguibile.

In quei resoconti, stilati con caparbia precisione e con un non comune zelo poliziesco, la dovizia di particolari si mescolava alla declinazione latina dei verbi e all’uso abbondante della congiunzione et. Si puntava l’obiettivo su scioperi e picchetti, scontri coi crumiri e incontri tra operai e studenti fuori dalle officine. Le indagini o anche solo le semplici curiosità riguardavano cortei interni e cortei in strada, risse tra fascisti e antifascisti, contestazioni a capi e dirigenti. Lo scenario era quello delle fabbriche in lotta, delle università e degli istituti medi superiori. (…) Il grosso del lavoro di inchiesta aveva portato nel paniere poliziesco denunce, soffiate e delazioni. Il maggior numero delle spiate riguardava la Ducati Elettrotecnica, il più grande stabilimento operaio bolognese dove, in mezzo a una composizione di forza lavoro soprattutto femminile, nacque il primo comitato di base della città e dove scoppiarono due vertenze aziendali durissime. La periodicità quasi giornaliera di quelle schede mi convinse della presenza di un infiltrato dentro alla fabbrica di Borgo Panigale. (p.7)

Questa intuizione muove l’istinto del romanziere: uno storico avrebbe “semplicemente” classificato e analizzato il materiale; uno scrittore intravede dietro alla massa di documenti le traiettorie esistenziali di personaggi tanto immaginari quanto plausibili. C’era davvero un infiltrato alla Ducati negli anni dell’autunno caldo? Era lui a redigere quei rapporti quasi quotidiani che finivano sulla scrivania del Prefetto e adesso stavano ammuffendo dentro vecchi imballi presso l’Archivio di Stato? E chi era questo infiltrato, che aveva lasciato tracce di sé così copiose e documentate?

La Ducati Elettrotecnica – oggi Ducati Energia – fu il contesto operaio in cui l’autunno caldo bolognese espresse i suoi punti più alti di conflittualità: lì nacque il primo Comitato di base in un territorio super presidiato dal sindacato confederale; lì si registrarono le più solide relazioni tra il movimento studentesco e il mondo operaio; quella fu l’azienda pilota della contrattazione aziendale, le cui acquisizioni faranno da guida nelle relazioni industriali per anni. È per queste ragioni che l’anonimo estensore di quei rapporti insiste tanto nel raccontare il contesto produttivo, oltre che quello vertenziale. Alcuni passaggi più che verbali evocano frammenti di sociologia del lavoro. E per le medesime ragioni, l’autore del romanzo colloca il suo infiltrato proprio “dentro” al cuore della fabbrica: se sei uno spione devi infilare le mani nella produzione materiale, prima che in quella di soggettività e conflitto.

Il mestiere dell’infiltrato è “anticipare” le mosse dell’intelligenza collettiva, prevenirne le intuizioni, capire quali punti della catena produttiva subiranno l’attacco operaio; e leggere le intersezioni, sempre più dense, tra il “dentro” e il “fuori”, tra la fabbrica e la città, tra la composizione operaia e un nuovo segmento di gioventù proletaria, scolarizzata, ribelle, irriducibile alla disciplina del lavoro. Monteventi racconta bene dell’incontro tra queste due anime conflittuali: i picchetti in comune, la critica al sindacato confederale, la nascita di Lotta continua e di Potere operaio – tutti passaggi rievocati anche grazie alla voce quotidiana di quei resoconti polizieschi.

Nasce così la figura di Oronzo “lo sgherru”, che si fa assumere in Ducati, con la complicità della Direzione compiacente, pur essendo in realtà un poliziotto in servizio presso la squadra dell’Ufficio politico della Questura di Bologna. Un “finto” operaio che però deve lavorare per davvero ogni santo giorno in linea, per sostenere il suo ruolo di infiltrato solerte. Dopo il primo faticoso approccio con la professione – è un proletario salentino che aveva scelto la divisa proprio per non finire in fabbrica o con la zappa in mano –, lo “sgherru” comincia a macinare rapporti su rapporti. Il suo capo, l’ipocondriaco Lotorto, esige sempre più dettagli, sempre più incisività, sempre più intuizioni: la sua squadra di infiltrati (ce ne sono altri che girano tra l’università e le piazze di movimento) costa cara al Ministero degli Interni, e deve produrre documentazione a ciclo continuo, per giustificare la sua esistenza.

Monteventi inserisce spesso frammenti delle schede originali all’interno della trama. Servono a dare “verità” ad un’opera che di fantasioso ha ben poco, intrecciando il vero e il verosimile in ogni pagina. Ad esempio, nelle preoccupazioni poliziesche è spesso evocata la figura di uno “studente rompicoglioni”, sempre presente in tutti gli scenari di lotta bolognesi – tal Bifo –, evidentemente già all’epoca molto apprezzato dalla Questura. Così come sono storicamente autentiche, con nomi e cognomi, le tristi figure del neofascismo felsineo, che nella “rossa Bologna” mettevano in campo squadre di mazzieri armati, alcuni dei quali poi finiranno dentro le inchieste sullo stragismo. Dallo sfondamento dei picchetti operai alla strage dell’Italicus il passo sarà breve e le carriere dei “neri” bolognesi vengono ben tratteggiate nel libro.

Il racconto procede spedito in una specie di gioco di specchi: l’infiltrato fa il suo lavoro e scrive rapporti, raccontando dal suo punto di vista l’iniziativa operaia. Lo scrittore, mezzo secolo dopo, riprende e utilizza quel materiale, mettendolo al servizio della memoria di classe. L’infiltrato racconta se stesso, nella finzione narrativa, attraverso i suoi rapporti, le sue spiate, il suo incunearsi nei contesti di movimento. Ma se nulla sappiamo di quella figura – invenzione letteraria o realtà –, le tracce del “suo” lavoro sono vive, scrupolose, autentiche e rese oggi disponibili alla fruizione collettiva. Insomma, una lettura avvincente sia per gli amanti della narrazione, sia per gli appassionati della ricerca storica.

È curioso e sorprendente che sempre tra gli atti della Prefettura custoditi presso l’Archivio di Stato siano state rinvenute qualche anno fa schede in cui si documenta la sorveglianza esercitata dalla Questura sugli internazionalisti negli anni Settanta dell’Ottocento, circa cento anni prima delle vicende raccontate in questo libro. E in particolare su un giovane romagnolo trapiantatosi allora in città: Giovanni Pascoli. (p. 8)

Si può provare a ricomporre pezzi di memoria collettiva – usando tutte le risorse, anche i vecchi archivi di Polizia – contro ogni apologia della smemoratezza. Non c’è futuro senza radici, non può darsi inchiesta operaia oggi, senza le acquisizioni preziose dei cicli di lotta passati. E gli archivi istituzionali, a volte, parlano quanto quelli di movimento: e possono raccontarci della Ducati Elettrotecnica – o del sovversivo Pascoli – se solo le mani sapienti di scrittori coraggiosi e ricercatori onesti riescono a trarne analisi e storie.

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Schiavi nella città più libera del mondo, di Laura Carroli https://www.carmillaonline.com/2022/02/16/schiavi-nella-citta-piu-libera-del-mondo-di-laura-carroli/ Wed, 16 Feb 2022 21:30:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70540 Agenzia X, Milano 2021 pagg. 312 € 16

di Mauro Baldrati

“Il punk è un vulcano in piena attività e sta eruttando lapilli e lava, cambia continuamente la geografia del paesaggio”

Laura Carroli è stata la cofondatrice di uno dei più rappresentativi gruppi punk non solo bolognesi. I Raf Punk sono nati sull’onda d’urto del movimento politico-artistico-esistenziale della fine degli anni Settanta, spinti dal motto punk do it yourself! Non sprecare tempo e energie cercando riconoscimenti dal sistema, suona la tua musica, registra i tuoi dischi, pubblica le tue storie sulle punkzine e [...]]]> Agenzia X, Milano 2021 pagg. 312 € 16

di Mauro Baldrati

“Il punk è un vulcano in piena attività e sta eruttando lapilli e lava, cambia continuamente la geografia del paesaggio”

Laura Carroli è stata la cofondatrice di uno dei più rappresentativi gruppi punk non solo bolognesi. I Raf Punk sono nati sull’onda d’urto del movimento politico-artistico-esistenziale della fine degli anni Settanta, spinti dal motto punk do it yourself! Non sprecare tempo e energie cercando riconoscimenti dal sistema, suona la tua musica, registra i tuoi dischi, pubblica le tue storie sulle punkzine e mandali tutti all’inferno. Era uno stile di vita, un brand internazionale, convulso, creativo. In questo libro, attraverso “la storia dei Raf Punk”, quella golden age di ribellione, di fuck the power, c’è tutta. Chi l’ha vissuta la ritroverà con una vivacità e un effetto presenza straordinarie. Rivivrà quel tempo, forse perduto, o forse no; ritroverà i suoni, la velocità, ma anche la rabbia, la voglia di vivere. L’autrice ci ha messo dentro se stessa ed è riuscita anche a diventare personaggio/narratore collettivo. E’ un testo storico, ma anche un romanzo appassionante e divertente. Si staglia in modo originale sullo skyline di altri libri similari, testi memorialisti e a loro modo estremi come La mia vita hard-core di Harley Flanagan per lo spazio dedicato anche ai sentimenti, l’amore, il sesso. Laura Carroli l’ha detto, in una intervista in piazza del Nettuno a Bologna: “Ho raccolto e letto i libri scritti su quel periodo, sono tutti di autori maschi. Infatti si avverte una certa esagerazione maschile, lo spazio dedicato soprattutto agli eventi, le risse, le avventure. Io ho voluto scrivere un testo diverso. Ho voluto metterci dentro anche altro.” E se vogliamo cercare un confratello letterario troviamo singolari affinità elettive con Just Kids di Patti Smith, la poetessa rock amata dall’autrice, tanto da organizzare un viaggio in autostop a Londra per un suo concerto. Ma poi tutto cambia, tutto gira nel vortice punk. Patti Smith arriva a Bologna e “in quell’occasione la città era stata invasa da capelli lunghi, cappelli con larghe tese, torsi nudi, collanine freak e cannoni fumanti, lei aveva inneggiato al papa, quel nazista anticomunista e reazionario. Ora ci sputo sopra!”

Il punk era a suo modo un movimento purista, in quanto stile di vita totale e comunitario; era una società laterale, alternativa, senza contatti col mondo borghese perbenista né tanto meno col mercato. La musica era al centro di tutto, suonare per esprimersi, per picchiare sulla batteria, per stare insieme. Per cui i gruppi che arrivavano al successo, e lo cavalcavano, rendendo duttile e malleabile la loro musica, cessavano di essere punk e venivano insultati, disprezzati. L’esempio più eclatante, narrato col solito effetto presenza, furono i Clash con London Calling: opportunisti traditori del punk, duramente contestati a Bologna.

Schiavi nella città più libera del mondo contiene eventi, fatti collettivi, tanta politica anarco-pacifista, ma anche divertimento, una carrellata di personaggi originali, incontri epici, il primo concerto dei PIL, i Dead Kennedy a Perugia, i soggiorni a Londra, sempre alla ricerca di dischi e concerti, tanto che si poteva saltare la cena per non rinunciare all’ultimo disco dei Crass. E poi la punkaminazione in Germania, a Berlino a bordo della Dyane 6 così carica che il fondo rischiava di sfregare sull’asfalto. Riviviamo i disastri dei primi festival punk, incastrati in una città ostile, sprezzante e ottusa. Ed è anche – si può dire? – un testo governato da una certa grazia femminile, che riscatta il machismo di altri memoriali simili. Non solo epica strong, ma un’attenzione ai dettagli, il gusto punk per l’abbigliamento, i giubbotti di pelle, i capelli, come affermazione di eleganza do it yourself nella città grigia e omologata. Un inserto fotografico, composto da istantanee scattate in varie situazioni, spesso sgranate o sghembe, ne amplifica l’effetto visionario e ci fa letteralmente saltare dentro a quel tempo e a quegli spazi. Infine c’è un altro aspetto collaterale che colpisce: La città più libera del mondo, con la sua subcultura borghese e bottegaia, confrontata con quella di oggi, sembra preistorica: concedeva spazi per suonare, sale ai punk e agli anarchici, il Baraccano, il Cassero; punti di ritrovo dove si organizzavano concerti, sale prove, manifestazioni. Oggi è talmente libera che i centri sociali vengono sgomberati e tutti gli spazi pubblici non istituzionali affidati ai costruttori che realizzano porzioni di cittadelle semifortificate dove regnano sovrani l’ordine e il decoro.

Di seguito pubblichiamo un estratto del libro, un volantino che fu affisso in varie parti della città.

PUNK INCONTRIAMOCI!

A te che pur vivendo tra questo cumulo di pietre fredde e scostate chiamato Bologna, tra altri 400.000 bipedi zombi, senti che qualcosa non funziona, ma continui a gironzolare per la strada senza meta, annoiandoti da solo a casa tua o collettivamente a casa di amici, o fai trascorrere il tempo davanti a un bar bevendoti le idiozie dei coglioni del posto, o peggio cominci a pensare che le pere siano l’unica soluzione, o fai solo quello che dice il partito, o leggi Popster-popstars “cosa posso fare oggi?” e finisci immancabilmente in una fottutissima discoteca, a te NON VIENE MAI VOGLIA DI VOMITARE, vomitare su tutte queste cose, la scuola, la discoteca, la caserma e tutte quelle cose che ti rubano tempo restituendoti solamente valanghe di noia? Credi forse che la noia NOIA sia solo nei dischi dei BUZZCOCKS ADVERTS o sia invece tutto ciò che ti succede ogni giorno??? Questo perché vivi in una stupida città dove la sera non sai cosa fare, il sabato e la domenica non sai dove andare e così pure tutti gli altri giorni, semplicemente perché NON C’E’ NESSUN POSTO DOVE ANDARE.

Non pensi mai che ci sono moltissimi altri kids con questo tuo stesso problema, questa maledetta angoscia che ti succhia tutte le energie vitali, non pensi che unendoti a loro potresti fare almeno un piccolo passo verso la soluzione della faccenda???? Non credi che potresti frequentare persone con le tue stesse idee, i tuoi stessi casini, che ascoltano la tua stessa musica, che hanno i tuoi stessi bisogni, invece di SPRECARE TEMPO con quelli che conosci solo perché abitano nel tuo palazzo o sono in classe con te o “sono delle fighe ma non ci stanno”??? O pensi che si possa ascoltare gli ANGELLIC UPSTARTS come si ascoltano i merdosi Supertramp, i fottuti Dire Straits, poi andare a ballare in discoteca, regalare l’anellino alla fidanzata, mettere il vestitino che dice la mamma o quello che va di moda, studiare “perché-così-sono-sempre-pronto”, dire che quella è una puttana perché “va con tutti”, andare a vedere Alien e tutti i successi-merdate, magari in prima visione, o comperare la vespa perché ce l’hanno tutti????

Se sei uscito da questo circolo vizioso o se non ci sei mai entrato e non vuoi prendere THE SHIT THEY GET sai che dobbiamo vederci-unirci trovarci e sai che facendo ciò potremmo tentare di fare qualcosa per smuovere questa situazione di merda, come trovare un locale dove fare concerti o qualsiasi altra cosa. Dato che per il momento non esiste un luogo preciso dove incontrarci, telefona il più presto possibile a Giampaolo 892352, Laura 517480, Oddone 562030, Stefano 362254, Paolo 371158
DON’Y GET THE SHIT THEY GET DIAL JOIN US

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“Diabolik”, un’estetica dello spazio sovversiva https://www.carmillaonline.com/2021/12/27/diabolik-unestetica-dello-spazio-sovversiva/ Mon, 27 Dec 2021 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69800 di Paolo Lago

Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione [...]]]> di Paolo Lago

Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione cinematografica tratta dal fumetto di Angela e Luciana Giussani, diretta da Mario Bava (1968), iniziava con l’inquadratura di due palazzoni cubici che rappresentavano una banca. L’estetica e la rappresentazione dello spazio, nel film dei Manetti Bros., appare sapientemente giocata su un contrasto ed un’alternanza di spazi stretti, angusti e ‘tunnellizzati’ e di spazi caratterizzati invece da ariosità ed aperture. Se l’eroe, già nelle tavole dei fumetti delle sorelle Giussani, si muoveva in luoghi angusti, stretti e cunicolari, il film sembra giocare su questa opposizione in modo nuovo ed inedito.

Lo sfondo dell’immaginaria città di Clerville si trasforma nella greve rappresentazione iconica e monumentale dell’oppressione di un potere rigido e geometrico. L’auto di Diabolik, nelle prime sequenze, percorre uno spazio cunicolare e ‘tunnellizzato’, serrato da case grigie e tetre che sembrano quasi appartenere ad una distopica società del futuro gravata da una pervasiva e crudele dittatura. Possono venire in mente certe sequenze de I cannibali (1970) di Liliana Cavani, in cui vediamo le strade di una grigia Milano del futuro ricoperte di cadaveri, silenziose e allucinate. La Clerville di Diabolik è ricostruita fra Bologna e Milano (nella fattispecie, le immagini dell’inseguimento iniziale sono state girate a Bologna, fra gruppi di palazzoni anni Cinquanta e Sessanta1) e, soprattutto nei momenti in cui assistiamo agli inseguimenti notturni, appare come una città abbandonata, segnata quasi da una catastrofe post-apocalittica. E allora si potrebbe pensare anche agli sfondi urbani romani ‘svuotati’ e catatonici (soprattutto un raggelato Eur) che incorniciano gli spostamenti dell’unico sopravvissuto a una terribile epidemia che ha trasformato tutti gli altri esseri umani in vampiri, in L’ultimo uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona.

L’estetica dello spazio che sta alla base del film dei Manetti Bros. inquadra i palazzi degli anni Cinquanta e Sessanta (secondo una didascalia che compare all’inizio del film ci troviamo a Clerville, alla fine degli anni Sessanta) come se fossero dei vuoti monumenti alla solitudine e alla desolazione, come in certi momenti di L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. Se in quest’ultimo film i palazzoni del boom economico italiano rappresentavano l’emblema di un potere che, in nome dell’edilizia selvaggia, cominciava a devastare gli spazi verdi delle città, nel film dei Manetti Bros. i palazzi e l’architettura rappresentano i monumentali fasti di un grigio e oscuro potere, incarnato dal viceministro Giorgio Caron, ricattatore e corrotto. D’altra parte, bisogna anche notare che gli sfondi della Clerville anni Sessanta (che allude chiaramente a spazi urbani italiani dell’epoca) sono stati ricostruiti in modo pressoché perfetto, così da essere paradossalmente quasi più ‘credibili’ di quelli del precedente Diabolik, girato proprio negli anni Sessanta.

I palazzi del potere, come anche l’albergo di lusso nel quale alloggia Eva Kant, sono tante scatole nelle quali si riproduce l’oscuro e vuoto discorso del potere, dove gli stessi rappresentanti di quel potere  si muovono discutendo di futilità mondane, come nei film dell’ultimo Buñuel. Dopo l’inseguimento iniziale la scena si sposta proprio negli ambienti dell’alta borghesia e della nobiltà di Clerville, in una sontuosa località montana ricostruita a Courmayeur: gli interni sono quelli in cui si ripete inesausta la parola contemporaneamente lugubre e canzonatoria della classe sociale che detiene il potere. Nei discorsi che i principali esponenti di questa classe rivolgono a Eva Kant, appena arrivata col suo prezioso diamante rosa, la figura di Diabolik appare come un personaggio che si situa al di fuori della società, il pericoloso bandito e criminale sovvertitore dell’ordine costituito. Egli è un vero e proprio personaggio “del fuori”, che si situa al di là del potere che cataloga e che divide, che crea le griglie urbane della moralità e della legge. Il criminale mascherato, in quanto simbolo del lato oscuro della società, del lato che sta in ombra, sembra appartenere a quella «esperienza del fuori» messa in luce da Michel Foucault, quando il pensiero «diviene pensiero del limite, della soggettività spezzata, della trasgressione; con Klossowski, e l’esperienza del doppio, dell’esteriorità dei simulacri, della moltiplicazione teatrale e demente dell’io»2. Diabolik è l’alfiere della soggettività spezzata, facitore dell’esteriorità dei simulacri, creatore di inquietanti maschere di gomma che riproducono fedelmente i volti di quegli stessi personaggi del potere, a cominciare dal suo acerrimo nemico, l’ispettore Ginko. Diabolik giunge dal ‘fuori’ di quegli interni borghesi, dediti al potere e ai suoi fasti, trama e agisce nella notte e nell’oscurità, da un limite oscuro difficilmente raggiungibile se non si è trasgressori totali. Egli si muove in quello spazio ‘tunnellizzato’, inscatolato, segnato dalla greve materia architettonica del potere solamente per distruggerlo ed annientarlo. Non è un caso, infatti, che Diabolik riesca a sfuggire all’inseguimento iniziale di Ginko uscendo dallo spazio-tunnel fra i palazzi, imboccando una strada periferica piena di curve. Alla linea geometrica e rigida della strada cittadina, egli oppone la linea ondulata e serpentina della strada periferica aperta, dietro la quale si staglia un panorama notturno e nella quale, letteralmente, ‘sparisce’. Infatti, per rifarsi alle teorie sullo spazio di Bertrand Westphal, si può affermare che «la trasgressione interviene quando si disegna un’alternativa alla linea diritta del tempo, alle figure troppo geometriche dello spazio civilizzato»3.

Diabolik è abitatore del ‘fuori’ anche nel senso che appartiene alla terra, sbuca misteriosamente da cunicoli nel giardino dell’elegante villa che usa come copertura. Con la sua Jaguar nera si insinua in reconditi cunicoli scavati nella roccia, lungo un’anonima strada di periferia, per mezzo di marchingegni che mirano ad inceppare l’onnipresente, lugubre marchingegno del potere. Egli appartiene al sottosuolo, non allo spazio elegante e luminoso della villa che, col falso nome di Walter Dorian, abita insieme alla fidanzata. Il film gioca abilmente anche sul contrasto tra Diabolik mascherato e Diabolik senza maschera, come se l’uno fosse il doppio speculare dell’altro. Se il primo appare soprattutto di notte ed è legato ad ambienti cunicolari e ‘inscatolanti’, il secondo appartiene alla luce del giorno e ad ambienti aperti e luminosi. La figura di Walter Dorian, senza maschera, si staglia sulla grande vetrata della propria villa mentre parla con la fidanzata Elisabeth oppure quando, a Ghenf, prepara il suo piano insieme a Eva, avendo alle spalle una vetrata che si apre sulla libera spazialità del mare. Diabolik mascherato, invece, è l’abitatore della notte e del buio, dei suoi misteriosi rifugi o dei cunicoli sotterranei della città di Ghenf, del caveau blindato della banca la cui rappresentazione spaziale appare sullo schermo sotto forma di ricostruzione grafica.

Ed è alla luce del sole, in uno di quegli interni sfarzosi del potere – il lussuosissimo albergo – che il personaggio subisce il fascino perverso della bellissima Eva Kant, che porta «un nome che è un omaggio al grande filosofo amato da Angela Giussani»4. Il film si ispira infatti, per la maggior parte, all’episodio L’arresto di Diabolik, in cui Eva Kant compare per la prima volta come una donna dal passato misterioso, vedova di un Lord Anthony Kant ucciso da una pantera. Come nel fumetto, anche nel film fra Diabolik e Eva Kant «si stabilisce una storia d’amore basata sulla simmetria totale e sulla condivisione piena di ogni esperienza»5. Essi si configurano come una coppia eroicizzata al negativo e «il loro combattere la legge proviene da una forza arcaica, brutale e animalesca, del tutto antisociale e distruttiva»6. Di fronte alla bellissima Eva, Diabolik non esita a togliersi la maschera del malcapitato cameriere del quale aveva assunto l’identità e che, nell’albergo, avrebbe dovuto servire esclusivamente la ricchissima donna. Nello spazio luminoso della stanza d’albergo il personaggio appare perciò senza maschera e, invece della sua tuta nera, indossa un completo bianco da cameriere.

Gli spazi del potere, nel film, sono quelli del denaro e della politica. Le banche e il ministero sono i luoghi che Diabolik cerca di sabotare per mezzo delle sue potenzialità arcaiche e distruttive, legate al campo semantico della notte. La banca è lo spazio eterotopico perfetto da sabotare, da distruggere, da mandare in tilt secondo precisi calcoli millimetrici. Tutti gli strumenti che la società, guidata da quell’oscuro potere, utilizza per catalogare, separare, discriminare le ricchezze delle classi sociali benestanti devono essere mandati in frantumi. La banca di Ghenf è il vuoto involucro di quel potere, lo spazio-scatola che deve essere scardinato e devastato. Nello stesso modo, devono essere sabotati gli spazi della politica: gli interni del ministero, austeri e monumentali, nascondono un ufficio in cui si accumulano le scartoffie burocratiche di un potere che si tiene in piedi solamente grazie all’inganno e alla corruzione. Ma c’è un altro spazio che deve cadere sotto la distruttiva e notturna vendetta di Diabolik, ed è quello della prigione, del carcere, di una spazialità imprigionante fra le cui oscure mura si eleva la lama del supplizio della ghigliottina. Per combattere le dinamiche imprigionanti del «sorvegliare e punire», il personaggio non utilizzerà la sua versatile abilità fisica ma una forma di catatonia che manderà in tilt la logica del potere. ‘Zombificato’ e quasi ‘mummificato’ in un macabro doppio, Diabolik riuscirà ad evadere dal carcere assestando un duro colpo a quel geometrico e corrotto potere. Le rigide geometrie della prigione e i suoi cunicoli, infatti, assomigliano troppo alla rigidità dei fastosi palazzi della politica e alla cubica perfezione del caveau della banca: prigione, ministero e banca, infatti, non rappresentano altro che le escrescenze materiche di un potere che grava sulla quotidianità dell’immaginaria Clerville ma anche su quella di molti altri luoghi reali.

Dopo spazi imprigionanti e cunicolari, la fine del film sembra offrire nuove aperture: nel simmetrico faccia a faccia fra Ginko e Diabolik (interpretati, rispettivamente, da due bravi Valerio Mastandrea e Luca Marinelli) con lo sfondo ‘aperto’ del golfo notturno e illuminato di Ghenf (ricostruita a Trieste) ma soprattutto nelle sequenze finali sulla barca che vede Diabolik e Eva (interpretata da Miriam Leone) in viaggio verso nuove avventure, avvolti dalla libera spazialità del mare. La luminosità del sole offre di nuovo un Diabolik senza maschera, emerso da un’infernale lotta con un potere meschino e corrotto. Al suo fianco, adesso, c’è Eva Kant e quello spostamento nomadico nella vastità del mare verso nuovi orizzonti probabilmente sta a indicare che la loro lotta trasgressiva e demonica non avrà mai fine.


  1. Cfr. E. Giampaoli, Attenti, c’è Diabolik in via Marconi, su “bologna.repubblica.it”, 8 ottobre 2019. 

  2. M. Foucault, Il pensiero del fuori, trad. it. SE, Milano, 1998, p. 20. 

  3. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, trad. it. Armando, Roma, 2009, p. 65. 

  4. M. Fusillo, Eroi dell’amore. Storie di coppie, seduzioni e follie, Il Mulino, Bologna, 2021, p. 44. 

  5. Ibid. 

  6. Ivi, p. 48. 

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Per una critica della società dell’Apocalisse permanente https://www.carmillaonline.com/2021/09/22/per-una-critica-della-societa-dellapocalisse-permanente/ Wed, 22 Sep 2021 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68263 di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel constatare come l’umanità contemporanea si sia assuefatta a vivere, anche se sarebbe forse meglio dire sopravvivere, in una apocalisse continua: climatica, economica, politica, militare, sanitaria, sociale e ambientale.
Un autentico inferno che, colui che è ancora rappresentato nell’iconografia cristiana come l’aquila, per la sua lungimiranza e profonda capacità visionaria, non avrebbe saputo anticipare nemmeno nei suoi incubi più terribili.

Questa Apocalisse terrena, che non si è ancora sviluppata in alcuna lotta definitiva tra il Bene e il Male, anche se nel corso dei secoli milioni di persona sono morte a causa di crociate politico-militari e religiose che promettevano, da vari e contrastanti punti di vista, il trionfo del primo sul secondo, ha avuto, però e fin dai primi anni Settanta del ‘900, un suo anticipatore, seguito da un ristretto numero di seguaci, in Giorgio Cesarano.

Come afferma Francesco “Kukki” Santini nel riassumerne l’opera di Giorgio Cesarano (1928-1975) intitolata, appunto, Apocalisse e Rivoluzione (con Gianni Collu, come attestava il frontespizio del manoscritto, Dedalo, Bari 1973):

Secondo Cesarano, i tempi delle contraddizioni capitalistiche si stanno facendo stretti, ed è necessario che la dialettica rivoluzionaria incalzi il processo catastrofico in cui il capitale si scontra con i limiti termodinamici della biosfera, preparando esiti apocalittici.
Tutte le contraddizioni storiche si assommano per disegnare la prospettiva dello scontro ultimativo che oppone il capitale – giunto a colonizzare non solo l’estensione fisica del Pianeta ma la stessa interiorità dei suoi schiavi – alla specie umana. Stiamo vivendo le prime fasi della “rivoluzione biologica”, risposta della corporeità vivente contro il pericolo di annichilamento e superamento dei limiti di tutte le rivoluzioni “storiche”.
Nel suo movimento, il capitale realizza il processo di reificazione inaugurato, fin dalla remota origine della specie, dal combinarsi subalterno del corpo biologico – debole e indifeso di fronte alla natura terrifica e ostile – con l’utensile-protesi. Da questa primaria alienazione in poi, l’utensile-protesi ha continuato a svilupparsi a scapito della corporeità e della sensibilità della specie, divenendo l’UT che subordina a sé tutto lo sviluppo “storico”. L’antica alienazione del “senso” della vita, di cui tendono ad appropriarsi le caste dominanti religiose e militari, genera l’accumulazione di segni e simboli che formano la lingua, separata dal corpo della specie e dalle sue necessità di comunicazione. La lingua sequestrata produce a sua volta l’Ego separato dall’inconscio, dal rimosso, dal desiderio “istintuale”, come rappresentante del dover-essere e della normativa sociale, propri di un vissuto storico collettivo fondato sul lavoro e sulla sofferenza1.

Fermiamoci per un momento, soltanto per svolgere alcune osservazioni su quanto è stato qui appena citato.
Quello che sarebbe diventato uno dei manifesti della critica radicale italiana2, accompagnato dal successivo Manuale di sopravvivenza (Dedalo, Bari 1974 e Bollati Boringhieri, Torino 2000), raccoglieva già al suo interno vari stimoli provenienti dall’opera di Jacques Camatte sulla specie-gemenweisen e il capitale totale, dall’idea del linguaggio come virus tratta dall’opera di William Burroughs e dalle catastrofiche previsioni contenute nel rapporto commissionato dal Club di Roma al MIT e pubblicato nel 1972 con il titolo I limiti dello sviluppo.

Senza farsi imprigionare dal pensiero contenuto nell’opera dei due autori oppure dei ricercatori americani autori del Rapporto, Cesarano provocava e apriva la riflessione in direzione di vie ancora inesplorate dal pensiero rivoluzionario tradizionale. Così è possibile cogliere oggi, in quelle poche righe, le radici delle successive elaborazioni del primitivismo di John Zerzan oppure le elaborazioni che si sarebbero succedute in seguito sul passaggio di consegne dalla classe operaia alla specie umana nel suo complesso dei compiti della lotta contro il capitale e il suo pestifero e mortifero sviluppo.

Anticipando però, già allora, una critica al catastrofismo di stampo capitalistico che, eludendo il problema dello scontro di classe, ineliminabile dai rapporti di produzione e dalle scelte di utilizzo delle risorse, sarebbe poi giunto, ai nostri giorni, alla riproposizione del green capitalism e del recupero del nucleare come energia “pulita”.
In fin dei conti, proprio nel corso degli ultimi giorni, la denuncia del ministro alla Transizione Ecologica del possibile aumento del 40% dei costi dell’energia elettrica non ha fatto altro che prolungare l’allarmismo securitario cui si sono affidati da anni, in un autentico susseguirsi epidemico di emergenze continue, i governi per mantenere, con la paura, il proprio potere sui governati, senza mai dover mettere in discussione il modo di produzione che causa davvero disastri e sprechi insostenibili per la specie e il pianeta. Anzi, semmai colpevolizzando la specie nel suo complesso attraverso le formulazione della teoria dell’Antropocene, evitando invece di parlare, più correttamente, di Capitalocene3.

La rivoluzione, come tradizionalmente l’alta magia e la religione, affronta il nemico esterno per mezzo della vera guerra. Questa non può prescindere dallo scontro con tutte le immagini del Sé, che lo riproducono a somiglianza del capitale come quantità di valore in processo, simbolo, ruolo, funzione della vita assente, inserito nella società in cui circola e si realizza (o si devalorizza) come merce immateriale e veicolo della lingua.
Il capitale, invece, condivide con la religione i contenuti della penitenza e del millenarismo: da un lato minaccia l’apocalisse, dall’altro chiama a sé a specie come gregge della sopravvivenza, inquadrato dalle nuove ideologie neocristiane del dubbio, del problema, dell’autocritica.
La produzione di persone di nuovo tipo è parte integrante del progetto planetario della carestia: trasferimento del grosso della produzione di merci materiali alla periferia del mondo capitalista e sua sostituzione con la colonizzazione dell’interiorità e la creazione di nuove merci corrispondenti (ruoli sociali, farmaci, comunità terapeutiche, servizi)4.

Santini scriveva decenni or sono di un libro apparso nel 1973, ma basterebbe aggiungere all’elenco i social media, che oggi hanno letteralmente colonizzato la mente e l’immaginario della specie, per avere un quadro completo dell’Apocalisse in atto e della necessità di superare la mera sopravvivenza con una svolta rivoluzionaria. Anche se, per ora, lontana dal venire.

All’epoca, la stessa scelta “armata” sembrava proiettare ancora i militanti all’interno del mondo della Carestia5, poiché in tal modo la vera guerra veniva sostituita con l’autovalorizzazione per mezzo del sacrificio sanguinoso e dell’eroismo ritualistico, ma, sempre secondo Cesarano, la prospettiva del capitale di assoggettare definitivamente la specie, facendola parlare con la propria stessa voce, stava per fallire.

Il movimento della rivoluzione, pur col ritardo necessario ma non inevitabile degli infortuni della passione, pur con le perdite causate dalla disperazione e dalla solitudine dovute all’esigenza di inverarsi immediatisticamente e di non recede dai livelli di radicalità raggiunti, si appresta a disvelare la menzogna del mondo fittizio in cui ogni corpo è strappato all’essere e abolito, e, trapassando tutte le ideologie e i travestimenti dell’inorganico fattosi uomo, si avvicina allo scontro ultimativo e alla vittoria6.

Il dramma che sorge dalla lettura dell’antologia di testi di Francesco Santini, proposta dalle sempre stimolanti e attente Edizioni Colibrì, sorge però dal fatto che a fronte di tanta determinazione critica e politica i principali protagonisti di quella stagione (Eddy Ginosa nel 1971, Giorgio Cesarano nel 1975 e lo stesso Santini nel 1996) decisero tutti, in maniera decisamente ultimativa, di non piegarsi alla mediocrità del momento, esattamente come Guy Debord, uno dei loro principali ispiratori, avrebbe fatto nel 1994.

Il Je mange pas de ce pain-la di Benjamin Péret, diventava un imperativo assoluto, tale da far sì che la spasmodica attesa dell’evento rivoluzione finisse, a causa della sua prolungata assenza, col coincidere con la stoica decisione di rinunciare a una non-vita, il cui unico valore, per chi la viveva consciamente, poteva essere costituito soltanto dalla depressione e dal senso di impotenza. Non resa dunque, ma estrema affermazione di alterità nei confronti di un mondo ancora non pronto a recepire la radicalità di un messaggio che, in compenso, la borghesia dell’epoca aveva già percepito e represso attraverso arresti e accuse di coinvolgimento nelle sue trame più oscure, proprio nei confronti degli ambienti anarchici e proletari in cui la critica radicale, pur rivendicandosi comunista, aveva trovato maggior ascolto e accoglienza.

Tra i testi ripubblicati, oltre a quello già contenuto nella Cronologia della vita e delle opere che introduceva il terzo volume delle opere complete di Giorgio Cesarano, pubblicato con il titolo Critica dell’Utopia Capitale per conto dell’associazione culturale «Centro d’iniziativa Luca Rossi», sono compresi vari contributi di Santini apparsi sulla rivista «Insurrezione» e in altri contesti. Tra questi il più importante è proprio quello che dà il titolo al libro e in cui l’autore, prendendo le mosse dal suicidio di Cesarano, traccia una storia delle origini e degli sviluppi della critica radicale italiana, indicandone le radici nel movimento ’68, nell’Internazionale Situazionista e nelle correnti più lucide del pensiero comunista, consigliare e anarchico, anche se, a ben vedere, la critica radicale si differenziò da tutte queste.

Non soltanto storia, però, ma anche necessario bilancio critico di un’esperienza che perso in gran parte l’appuntamento decisivo con quello che avrebbe potuto costituire l’affermazione materiale delle sua anticipazioni, ovvero il movimento del ’77, finì, secondo Santini, troppo spesso col rinchiudersi su se stessa, inaridendosi. Come scrive ancora:

Verso la fine del’76, mentre i piccoli nuclei di «radicali» presenti in varie città d’Italia tendevano a prendere un atteggiamento di vuota superiorità che li avrebbe resi incapaci di realizzare qualsivoglia intervento efficace, esistevano occasioni di incontro con i Circoli del Proletariato Giovanile e l’incipiente Autonomia.
[…] A partire dalla fine del ’76, con l’esperienza dei Circoli del Proletariato Giovanile, preannunciata dagli scontri della primavera del ’75,la situazione italiana si riaprì rapidamente tornando a offrire ai rivoluzionari ricche occasioni di comunicazione col sociale.
La comparsa sul palcoscenico della politica dell’Autonomia Operaia non costituì in sé una novità. Infatti l’Autonomia può essere giustamente considerata nient’altro che una forma di militantismo di sinistra conseguente. La spiegazione del successo dell’Autonomia sta essenzialmente nella chiara scelta da parte sua della pratica dell’illegalità e della violenza. Lo scompiglio provocato nel quadro politico dai gruppi autonomi aprì un varco entro cui poterono irrompere i selvaggi delle metropoli.
[…] I grandi movimenti di Roma e Bologna nei primi mesi del ’77 realizzavano il sogno delle grandi rivolte armate fuori e contro i racket politico-sindacali covato dai radicali per tanti anni. Il ’77 non ebbe la portata, la profondità sociale e la durata del movimento precedente del ’67-’69; tuttavia determinò una situazione ancora più favorevole per il comunismo radicale.
Intanto, questa volta la politica militante dei gruppettari – che per tanti anni aveva costituito un freno e un blocco con cui, volenti o nolenti, i rivoluzionari avevano dovuto fare i conti – fu investita subito dalla critica feroce e irridente di un movimento che esprimeva come proprio presupposto l’esigenza di lottare per sé, per la vita di ciascuno, contro il sacrificio, la noia, il lavoro, per cambiare immediatamente se stessi, affrontando nel contempo a viso aperto l’assedio del mondo delle merci. Inoltre, stavolta, il blocco staliniano PCI-CGIL venne identificato come il nemico; si schierò subito apertamente contro il movimento e,per la prima volta, perse completamente il controllo della piazza7.

Per Francesco Santini, così come lo era stata per la critica radicale prima e per la rivista «Insurrezione» sul finire degli anni Settanta, l’ago magnetico della bussola politica rivoluzionaria doveva essere sempre rivolto in direzione degli episodi insurrezionali, di violenza e illegalità (come confermano ulteriormente gli scritti sul comontismo), che si caratterizzavano per il proprio essere di massa e spesso spontanei, quasi sempre con il proletariato giovanile metropolitano nei panni del principale attore protagonista.

Una concezione che vedeva nel rivoluzionario colui che sapeva cogliere e seguire con attenzione (se impossibilitato alla partecipazione diretta) tutte le possibili anticipazioni della Rivoluzione a venire, per momentanee e caduche che fossero, al fine di stilare un autentico atlante delle città insorte e del cammino verso la liberazione della specie dall’attuale modo di produzione dominante. Fatto che, come ci insegnano i nostri giorni, potrebbe rendersi ancora necessario nel nostro immediato futuro, in ogni angolo del mondo e in ogni frangente riconducibile allo scontro tra specie e capitale.

L’Italia di Roma e Bologna del ’77 si aggiungeva, come nuovo laboratorio insurrezionale, a Detroit, Stettino, Danzica, Belfast, Oakland, la Torino di corso Traiano, Parigi del maggio e tante altre città in rivolta, così come oggi Minneapolis, Beirut, Santiago del Cile, Barcellona, Hong Kong, le città francesi invase dai gilets jaunes e dai giovani delle banlieues, e altrettante ancora segnano e segneranno puntualmente il cammino sull’atlante stradale della rivoluzione. Che non potrà essere, per forza di cose e sempre di più, che anonima e tremenda.

Anche soltanto per questo il testo qui proposto dovrebbe essere letto da chiunque si voglia porre sul lato giusto delle barricate di oggi e domani. Nella certezza che soltanto la promessa di sviluppo infinito del capitalismo costituisce in sé un’illusoria utopia, al contrario di quanto molti servitori della sua causa hanno sempre voluto far credere al fine di segare le gambe all’immaginario e alla materialità della concretezza rivoluzionaria.


  1. Francesco “Kukki” Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1 a F. “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 90-91  

  2. Della quale si è parlato già qui su Carmilla  

  3. Come suggerisce invece Jason W. Moore in Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona 2017  

  4. F. “Kukki” Santini, op. cit. pp.91-92  

  5. Sulla critica radicale all’esperienza della lotta armata si veda ancora Parafulmini e controfigure, numero speciale della rivista «Insurrezione», maggio 1979 qui oppure l’intero opuscolo, contenente estratti da Terrorismo o rivoluzione di Raoul Vaneigem (1972) e da Apocalisse e Rivoluzione (1973), ripubblicato con lo stesso titolo dalle Edizioni Anarchismo nella collana «Opuscoli provvisori» con il n° 28 e giunto alla sua terza edizione nel novembre 2013  

  6. F. K. Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1, op.cit., p. 92  

  7. Francesco “Kukki” Santini, La grande occasione del’77, in Apocalisse e sopravvivenza, op.cit., pp. 73-74  

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Il resto è mancia https://www.carmillaonline.com/2021/07/05/il-resto-e-mancia/ Mon, 05 Jul 2021 21:55:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66989 di Nico Maccentelli

Michelangelo Ingrassia, Il resto è mancia, pp  172, ed. Pendragon, 2020  € 15,00

Bologna in noir, se ne è parlato tanto con i personaggi e le storie di Loriano Machiavelli, in parte Carlo Lucarelli, che però è da Mordano, più Romagna che altro. Ma devo dire che il noir più appassionante è quello dove i commissari, gli ispettori, i vari tutori dell’ordine e depositari dell’anticrimine, tutti nipoti dell’Ingravallo gaddiano o colleghi del sornione Montalbano, se ne stanno allegramente fuori dalla storia.

Un romanzo “come mala comanda”, quindi [...]]]> di Nico Maccentelli

Michelangelo Ingrassia, Il resto è mancia, pp  172, ed. Pendragon, 2020  € 15,00

Bologna in noir, se ne è parlato tanto con i personaggi e le storie di Loriano Machiavelli, in parte Carlo Lucarelli, che però è da Mordano, più Romagna che altro. Ma devo dire che il noir più appassionante è quello dove i commissari, gli ispettori, i vari tutori dell’ordine e depositari dell’anticrimine, tutti nipoti dell’Ingravallo gaddiano o colleghi del sornione Montalbano, se ne stanno allegramente fuori dalla storia.

Un romanzo “come mala comanda”, quindi non certo un poliziesco: questa è l’opera di Michelangelo Ingrassia Il resto è mancia. Un romanzo da leggere tutto d’un fiato che sicuramente chi non ha il mito del distintivo può apprezzare e di molto.

Largo ai delinquo dunque, quelli veri, quelli che con la loro morale “quasi niente sbagliata” come cantava Faber, riempono le pagine di gialli che si tingono di un nero e di un rosso sangue giustizialisti. Come gli anarchici. Ed è qui che introduco un romanzo noir ben riuscito, all’ombra di una turrita fatta di quartieri popolari, soggetti boderline, permanenze in carcere, esecuzioni meditate per vendetta, quella giungla del non detto ma rispettato da tutti, dei codici d’onore sotto traccia, ma di quella criminalità che non ama la mafia. I delinquo cani sciolti del colpo in banca, della fuga banditesca.
Lo spaccato bolognese, una Bolognina Chinatown, i bar un po’ malfamati ma con paste trabordanti di crema (forse una citazione della Luisona di Benni?), e periferie con un serial killer mammone in azione, la mala pugliese e la mafia cinese ti fanno saltare da un capitolo all’altro in un plot che porta avanti storie in parallelo.

Di polizia neanche l’odore: resta sullo sfondo, a brancolare nel buio, evocata solo dai titoli di giornale. E non ne si sente la mancanza.
Il gruppo anti-eroico di Alex e Uccio, due amici conosciutisi nel caracere minorile, fa tutto: risolve situazioni, commina punizioni proporzionate alla gravità del reato sulle persone, rende migliore un mondo selvaggio senza mene giustizialiste, ma solo seguendo il saggio codice della malavita.

Siamo lontani anche dal Malaussene di Daniel Pennac, che tutto sommato descrive nella sua Belleville una banlieu mitigata da buoni sentimenti conciliatori. Qui non si concilia nulla e tutto è guerra tra soggetti e per bande. Anche tra i protagonisti stessi e antagonisti di loro stessi, c’è conflitto, sentimenti contrastanti, emozioni spesso incontrollate. E si va dal progetto ragionato dei due amici alla furia di Mara, la loro complice boliviana che non risparmia nessuno. E infatti se vogliamo vedere una morale di vita e un codice di comportamento nel romanzo, Il resto è mancia, che dà il titolo all’opera, è proprio il lato oscuto dell’agire, il lasciarsi prendere dall’odio e dai sentimenti della vendetta, l’impulsività, la perdita della dimensione dell’atto praticato.

Il resto è mancia ti porta nel lato selvaggio dei territori degradati, ma comunque lo fa con quella vis poetica mai da facile redenzione, che solo i cantori dei “quartieri dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi”, come i Faber e i Jean Genet, sanno esprimere.

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Una sfida per i protocolli di un vecchio partito (e di una vecchia storiografia) https://www.carmillaonline.com/2021/02/24/una-sfida-per-i-protocolli-di-un-vecchi-partito-e-di-una-vecchia-storiografia/ Wed, 24 Feb 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65064 di Sandro Moiso

Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), prefazione di Carlo Ginzburg, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 334, 19,00 euro

Bene ha fatto Quodlibet a riproporre, in occasione di un centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, soltanto più tardi Italiano, passato quasi sottotraccia, il testo di Mauro Boarelli già pubblicato nel 2007 presso l’editore Feltrinelli. La ricerca dell’autore, infatti, non soltanto riporta i lettori in una situazione spazio-temporale che Carlo Ginzburg, nella sua prefazione, paragona a quella di “un libro di fantascienza”, ma anche, e forse [...]]]> di Sandro Moiso

Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), prefazione di Carlo Ginzburg, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 334, 19,00 euro

Bene ha fatto Quodlibet a riproporre, in occasione di un centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, soltanto più tardi Italiano, passato quasi sottotraccia, il testo di Mauro Boarelli già pubblicato nel 2007 presso l’editore Feltrinelli. La ricerca dell’autore, infatti, non soltanto riporta i lettori in una situazione spazio-temporale che Carlo Ginzburg, nella sua prefazione, paragona a quella di “un libro di fantascienza”, ma anche, e forse soprattutto, li costringe a riflettere su una metodologia usata per ricostruire la storia del “partito comunista più grande dell’Occidente” che è diventata anche strategia politica. Mentre l’indagine di Boarelli sfugge, per scelta, alle norme che hanno prodotto le più scontate indagini storico-politiche, quasi tutte basate sull’esperienza dei vertici del partito stesso e sui documenti prodotti nel tempo da quegli stessi.

Come afferma ancora Ginzburg nella prefazione alla presente riedizione, al suo primo apparire: «La fabbrica del passato lanciava una sfida originale alla corporazione degli storici, invitandoli a superare l’ottica verticistica formulata in maniera esplicita da Paolo Spriano nella sua Storia del Partito comunista italiano»1. Sfida che non consisteva tanto in una differente lettura di quella storia, ma nell’utilizzo di un archivio costituito da circa milleduecento autobiografie che i militanti del partito erano stati invitati a scrivere nel periodo intercorso tra il 1945 e i 1956 in quel di Bologna.

In quel decennio il Partito obbligava di fatto i propri militanti a narrare pubblicamente oppure a scrivere la propria storia e molto spesso li sollecitava ad esplicitare il racconto della propria vita in entrambe le forme. Prima di procedere all’analisi dei motivi politico-ideologici che fecero sì che il Partito comunista, a livello nazionale, avesse adottato questa modalità di integrazione e controllo dei militanti all’interno delle proprie strutture, val la pena di sottolineare subito che la scelta operata nei confronti delle fonti utilizzate da Boarelli è già di per sé molto importante dal punto di vista storiografico.

Una sfida che, anche se è rimasta ancora in gran parte inevasa fino ai nostri giorni, ribalta l’ordine della storiografia partitica precedente, tutta rivolta ai documenti prodotti dall’alto, riportando l’attenzione sui documenti prodotti, si potrebbe dire, dalle gambe su cui il partito marciava.
Un autentico ribaltamento di prospettiva che nella scelta delle fonti aveva, e ha tutt’ora, il suo autentico punto di forza. Un punto di vista che, a differenza della prospettiva scelta anche da coloro che ieri e oggi hanno continuato e continuano a sottolineare e criticare il sostanziale stalinismo delle scelte espresse da Togliatti e dal suo “partito nuovo”, permette di allargare lo sguardo all’essenza del metodo di funzionamento dei partiti comunisti e della loro percezione e introiezione da parte dei militanti politici di base.

Non è certamente un caso che, più volte, Boarelli si richiami all’esperienza, in gran parte ancora unica e poco compresa, di Danilo Montaldi e alle sue scelte metodologiche, che Pier Paolo Poggio ha avuto modo di definire come una sfida ai protocolli ideologici del PCI2. Sfida che diventa, per forza di cose e lo si vedrà meglio più avanti, anche tale nei confronti dei rigidi protocolli di una storiografia imbalsamata ancora troppo spesso nei paramenti dei documenti e delle fonti “ufficiali” ovvero “alte”.

Un metodo storiografico rigido di cui si avvalgono ancora oggi sia la storiografia modellata dal togliattismo e dallo stalinismo che quella di “opposizione interna” nel ricostruire fatti ed eventi della storia della politica comunista. Da cui già si distaccava Montaldi quando nel suo Saggio sulla politica comunista in Italia3 ricordava, solo per fare un esempio, gli episodi di autentica e violentissima lotta di classe verificatisi nelle fabbriche dell’URSS all’epoca dello stakanovismo.

Un testo che all’epoca era stato rifiutato da editori come Einaudi e Feltrinelli proprio perché scomodo, non soltanto dal punto di vista politico ma anche storiografico. Mentre l’irrequietezza di Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e di Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia, è ancora ravvisabile, fatte le dovute differenze epocali e soggettive, nel lavoro di Mauro Boarelli.

Ma se l’inquietudine di Montaldi scaturiva da una passione politica che costringeva il cremonese a modificare i canoni della ricerca sociologica e storica, nel caso di Boarelli è proprio l’insoddisfazione nei confronti delle metodologie e dei protocolli di ricerca a far scaturire, poi, nei fatti un differente sguardo storico-politico sulla storia del partito, anche se forse sarebbe meglio dire dei partiti comunisti. Rovesciando il punto di vista delle fonti scelte evidentemente si è costretti a rovesciare anche la narrazione storiografica. Semplificando: dal basso è possibile cogliere ciò che dall’alto è impossibile percepire (oppure si vuole nascondere).

Il problema vero, e più importante, è però costituito dal fatto che il lettore si troverà davanti non soltanto ad un’epoca in cui i militanti di base erano costretti a “confessare” ai funzionari del partito le loro convinzioni e, eventuali, debolezze, all’interno di un inquadramento e disciplinamento che si riscontrava in tutti i partiti stalinizzati, ma anche alla riflessione sul fatto che quella pratica, scritta e orale, discendeva dritta dritta dal gesuitismo dell’epoca della Controriforma.

Scoprendo in questo modo che quella pratica e quell’organizzazione partitiche erano tutt’altro che di ispirazione laica, facendo così che la fede religiosa, apparentemente, cacciata a pedate dalla porta del partito, si ripresentasse nella fede e fiducia nello stesso, rientrando così da una finestra nemmeno troppo stretta. Una fede di carattere religioso che riposava comunque sul fondo dell’“anima” di molti militanti dell’epoca e che veniva sostituita da una fede “laica” di uguale o maggior portata e potenza simbolica.

Ecco allora che la ricerca sulle “scritture” dei militanti comunisti rivela un aspetto ancora troppo accantonato dell’esperienza e del successo epocale dell’ideale comunista, in un contesto in cui il “partito nuovo” di Togliatti riproponeva la tradizione staliniana ancor più che bolscevica cercando di adattarla opportunisticamente alle necessità politiche dei tempi, affidandosi all’arma di coinvolgimento più potente per un’istituzione politico-religiosa (che fosse la Compagnia di Gesù o il PCI poco importa dal punto di vista della ricerca): la confessione pubblica e la dichiarazione della piena appartenenza alla causa ideale.

Fino ad ora però si è qui tralasciato l’aspetto più interessante sottolineato da Mauro Boarelli, quello riguardante la cultura d’origine degli autori delle biografie esaminate: una cultura ancor prevalentemente orale in cui l’uso della scrittura costringeva spesso i militanti ad autentiche contorsioni espressive che costituivano effettivamente la “forma” della resa e dell’accettazione di un certo tipo di inquadramento politico che era, forse, prima di tutto culturale.

L’ideale progressista che animava le scuole di partito finiva così col ricalcare il metodo di una scuola che, dal punto di vista linguistico, più che tener conto delle differenze individuali, culturali e di classe, mirava ad un inquadramento unico dei soggetti/oggetti destinati ad essere istruiti e che della cancellazione delle radici sociali e delle lingue ad esse collegate faceva, e ancora troppo spesso fa, il suo obiettivo primario.

Lo sradicamento dalle radici culturali significava, in ambito istituzionale e partitico, non solo impoverire la ricchezza espressiva posseduta in partenza dai subordinati, ma anche, ridefinendone i linguaggi e le terminologie usate (spesso impropriamente), ridisegnarne i confini del pensiero e della capacità di autonoma riflessione, sia dal punto di vista individuale che collettivo. Motivo per cui si può cogliere come la resa dei partiti comunisti all’ideale progressista di acculturazione e alfabetizzazione finisse col ridurre quegli stessi partiti a strumenti di un’evoluzione politica e sociale che poco per volta avrebbe rimosso dal suo orizzonte qualsiasi cambiamento radicale dei rapporti di classe, economici e culturali.

Come dire: la trasformazione dell’immaginario partitico da antagonista a sostenitore dell’esistente aveva origine, più ancora che nelle scelte ideologiche e nella praxis politica, negli strumenti usati per inquadrare i militanti. Strumenti educativi che si pensavano imparziali e disinteressati, ma che di fatto non lo erano.
E non a caso qui l’autore pone attenzione alle diverse interpretazioni dell’uso e dell’avvento della scrittura nelle società prevalentemente orali, mettendo a confronto le ipotesi di Walter J. Ong e Jack Goody che sono stati due dei maggiori studiosi, da punti di vista differenti e, sostanzialmente, contrari del fenomeno, sia a livello storico che antropologico.

Togliere ai militanti, o a chiunque altro, il proprio retroterra linguistico, rappresentava, e significa ancora adesso, una sorta di colonizzazione culturale destinata a privarli della “voce” nel senso più vero e profondo e “togliere la voce” significa anche ricomporre, oppure reprimere, il disaccordo compreso in una differente e più articolata organizzazione del discorso. Ecco allora che l’esercizio forzoso della scrittura si trasformava in un disarmo profondo della base del partito, dopo di che qualsiasi alterazione del percorso politico programmato dai vertici sarebbe stato più facilmente digerito dalla stessa. Fino alla cancellazione della sua memoria e della sua esperienza storica.

Sia ben chiaro: questa recensione si è basata principalmente sui presupposti metodologici espressi dall’autore sia nella prima introduzione che in in quella aggiunta per la nuova ma, anche se la ricchezza e la varietà delle testimonianze contenute nelle autobiografie citate costituisce il vero cuore del testo, è proprio in quelle che è possibile cogliere il problema di quella disciplina della memoria cui Boarelli ha rivolto principalmente la sua attenzione.

La lettura del testo non può dunque che rivelarsi utile e stimolante per chiunque sia interessato ad uscire dalle peste, ideologiche e metodologiche, che hanno caratterizzato un secolo giunto da tempo al suo tramonto, ma che ancora tardano a lasciare libero il campo a più approfondite conoscenze e riflessioni sulle cause delle sue tragedie, dei suoi errori e delle sue sconfitte. Cui la sola critica di carattere ideologico non può certamente più bastare.


  1. Carlo Ginzburg, Prefazione a Mauro Boarelli, La fabbrica del passato, Quodlibet, Macerata 2021, p.7  

  2. Pier Paolo Poggio, Montaldi e i protocolli ideologici del PCI in Gianfranco Fiameni ( a cura di), Danilo Montaldi (1929-1975), azione politica e ricerca sociale, Atti del seminario svoltosi a Cremona il 9 maggio 2003, Annali della biblioteca statale e libreria civica di Cremona, volume LVI, 2006, pp. 17-209  

  3. Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Centro d’Iniziativa Luca Rossi e Cooperativa Colibrì, Milano 2016 (Prima edizione edizioni Quaderni Piacentini, Piuacenza 1976)  

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La mancata funzione sociale dell’intellettuale odierno: Davide Rondoni e la Lega, un rapporto emblematico https://www.carmillaonline.com/2020/06/20/la-mancata-funzione-sociale-dellintellettuale-odierno-davide-rondoni-e-la-lega-un-rapporto-emblematico/ Fri, 19 Jun 2020 22:28:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60770 di Matteo Bianchi

In un’Italia dove la cultura può sempre meno contro l’intolleranza diffusa, dove tutti odiano tutti a prescindere e il narcisismo viene prima di qualsiasi valore, il dibattito tra addetti ai lavori diventa vitale se costruttivo. Dalla fine del 2019 il Centro di Poesia contemporanea dell’Università di Bologna è stato il fulcro di profondi contrasti tra i suoi membri; contrasti sulla veste pubblica di ogni intellettuale che si rispetti, sugli oneri e sugli onori ai quali sarebbe votato e sulla sua funzione esemplare.

La discussione si è accesa quando [...]]]> di Matteo Bianchi

In un’Italia dove la cultura può sempre meno contro l’intolleranza diffusa, dove tutti odiano tutti a prescindere e il narcisismo viene prima di qualsiasi valore, il dibattito tra addetti ai lavori diventa vitale se costruttivo. Dalla fine del 2019 il Centro di Poesia contemporanea dell’Università di Bologna è stato il fulcro di profondi contrasti tra i suoi membri; contrasti sulla veste pubblica di ogni intellettuale che si rispetti, sugli oneri e sugli onori ai quali sarebbe votato e sulla sua funzione esemplare.

La discussione si è accesa quando Davide Rondoni ha preso posizione di fianco a Matteo Salvini, al PalaDozza, durante la campagna elettorale di Lucia Borgonzoni per la presidenza della Regione Emilia-Romagna. Giovedì 19 dicembre il poeta e saggista forlivese rassegnava le dimissioni dal Centro a cui aveva dato i natali, protestando sui social: «La mia figura e la mia libertà di espressione è stata come spesso accade motivo per il venire a galla di una cultura della intolleranza e della immaturità democratica che dovrebbe essere tenuta fuori dalle istituzioni che vogliono fare cultura liberamente. Cosa che per vent’anni sotto la mia guida e poi partecipazione il Centro ha sempre fatto, come dimostrano i programmi svolti e la pluralità delle voci intervenute». 

Un breve, ma intenso, memorandum: lapidato mediaticamente nell’autunno del 2018 a causa del famigerato abbraccio proprio con il leader del Carroccio, l’intellettuale di forgia ciellina in un’intervista d’altri tempi su “La Stampa” augurava tutto il bene all’amico Formigoni sostenendo quanto «la politica dev’essere legata alle persone» e non ai personalismi. Sodale di Vittorio Sgarbi, che lo considera il miglior poeta italiano vivente, di recente ha sottoscritto insieme a lui l’appello al Presidente Mattarella che esprimeva preoccupazione per le libertà individuali sospese dalla cosiddetta “fase 1” della quarantena, temendo una svolta autoritaria da parte del Governo attuale. Appello smentito sia dall’inizio della “fase 2” sia dalla conferenza stampa di Conte di domenica 17 maggio.

«In questi due anni di direzione ho provato in tutti modi a favorire la crescita di un ambiente fecondo di dialogo con le varie realtà e istituzioni bolognesi e nazionali, con i professori e con i poeti di tutta Italia – dichiara il direttore Riccardo Frolloni in una lettera recente – siamo fieri dei risultati raggiunti, abbiamo creato un clima virtuoso di fiducia e rispetto. Purtroppo i dissidi sono giunti dall’interno, dove credevo fosse assicurato l’ascolto. Durante una riunione straordinaria del Consiglio Direttivo, Davide Rondoni ha deciso di lasciare la riunione e di consegnare le sue dimissioni per protesta, poiché, a suo avviso, avevamo dimostrato nei suoi confronti anti-democraticità con l’intenzione di politicizzare il Centro. Diverse questioni si sono susseguite successivamente all’interno del Direttivo: verifiche, incomprensioni, l’alimentarsi di un clima di sfiducia reciproco». Il mese scorso si è svolta una votazione, indetta dal presidente Alberto Destro, per confermare la riammissione di Davide Rondoni (nella foto) e di Piero Menarini all’interno del Consiglio Direttivo, conclusasi favorevolmente.

«I toni raggiunti – precisa Frolloni – dei quali sono colpevole anche io, non mi permettono di proseguire serenamente il lavoro di direzione, nonostante i numerosi eventi già in programma. Mi scuso, pertanto, con quanti avevano già preso accordi con noi e profilato attività future e presenti». Oltre al direttore Frolloni e al presidente Destro, a seguito del risultato della votazione si sono dimessi dal Direttivo anche il docente Marco Prandoni, Giuseppe Nibali e Valerio Grutt, insieme a una ventina di giovani collaboratori che portavano avanti con passione le attività del Centro, una fucina creativa che vanta il coinvolgimento di oltre cento ragazzi, compreso lo scrittore Andrea Donaera.

Che non sia più il tempo di Pasolini, Fortini e persino di Sanguineti è evidente. Ma abitualmente nel nostro paese si confonde la manifestazione dell’onestà intellettuale con la partigianeria, con l’estrema coerenza rispetto a un partito di affiliazione; quando è proprio l’esercizio di tale onestà a permettere nel singolo la sopravvivenza degli ideali che lo identificano rendendolo parte della società. E la verità allora dove sta, dove resta? Di sicuro non dietro uno schieramento a priori. Il Centro di poesia contemporanea, un polo letterario di rilievo internazionale specie per la capacità attrattiva dimostrata in loco, risentirà e non poco dell’ondata dimissionaria subita.

Davide Rondoni nelle rimostranze ritirate rammentava che Bologna fosse «la città che già Pasolini accusava di non avere senso dell’alterità»; lo stesso Pasolini che detestava qualunque forma di nazionalismo e che accusava persino Calvino – il “caro” Calvino degli Scritti corsari – di inconsistenza nei confronti dei pochi che strumentalizzavano «mere ragioni nazionali» per prevaricare i troppi ignoranti. Bologna era, o meglio, è ancora la città che ha adottato l’integrità di Stefano Tassinari e che non intende dimenticare la forza d’animo di Roberto Roversi, il quale non riusciva a sopportare la guerra tra bande, tra miseri salotti letterari.

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Rapporto interstellare https://www.carmillaonline.com/2020/02/03/rapporto-interstellare-2/ Mon, 03 Feb 2020 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57844 di Mauro Baldrati

Spett. Federazione delle repubbliche galattiche Proxima Centauri – Comitato permanente interstellare di monitoraggio e analisi dei fatti – Sezione Uman 11-11

Da Unità intermedia ricerca dati e sopralluoghi – Uman 11-16

Egregio Presidente, egregi colleghi,

durante la quotidiana catalogazione dei documenti ritrovati sul pianeta Terra abbiamo trovato il seguente testo, che apre alcuni scenari inediti nella nostra ricerca antropologica. Compaiono concetti finora ignoti, i quali suggeriscono nuovi scenari di tipo politico-sociologico che possono aiutarci a capire come mai una specie vivente abbia potuto distruggere se stessa e il pianeta sul [...]]]> di Mauro Baldrati

Spett. Federazione delle repubbliche galattiche Proxima Centauri – Comitato permanente interstellare di monitoraggio e analisi dei fatti – Sezione Uman 11-11

Da Unità intermedia ricerca dati e sopralluoghi – Uman 11-16

Egregio Presidente, egregi colleghi,

durante la quotidiana catalogazione dei documenti ritrovati sul pianeta Terra abbiamo trovato il seguente testo, che apre alcuni scenari inediti nella nostra ricerca antropologica. Compaiono concetti finora ignoti, i quali suggeriscono nuovi scenari di tipo politico-sociologico che possono aiutarci a capire come mai una specie vivente abbia potuto distruggere se stessa e il pianeta sul quale viveva. Per esempio, non eravamo a conoscenza del fatto che le città, nell’epoca 2019-2020 dC, si stessero di nuovo fortificando. Un ritorno ai secoli passati?

Dal tono si presume che si tratti di una sorta di appello, o una lettera, rivolta agli intellettuali, stilato da un autore di quei testi chiamati “romanzi” coi quali i terrestri amavano dilettarsi, oppure, come abbiamo riscontrato in altri documenti, “cercare la verità.” Lo scritto contiene alcuni collegamenti detti “link”. I siti richiamati ovviamente non esistono più, ma ne abbiamo trovato traccia negli archivi che si sono salvati dall’apocalisse. Pertanto li abbiamo resi attivi.

Inventario n. 1376 Uman 11 – 16

RESISTENZA NEL FANTABOSCO

Quante librerie hanno chiuso nel 2019? Dove sono i lettori? Tutti nei megastore? Oppure attaccati al pc per comprare on-line? Aspettiamo gli ultimi dati, ma la sensazione è che siano in ulteriore calo. Forse in via d’estinzione. Quindi la fine del libro? La fine di tutto?

No, i lettori non si estingueranno. Ma saranno raccolti in luoghi ben precisi. In luoghi dedicati. E protetti. Vivranno nelle città neoliberiste fortificate, in ambienti comodi e puliti. Dove sono queste città? E quali sono?

Sono in formazione. Alcune esistono già, all’interno delle città. Ma sono in via di consolidamento, attraverso il processo di gentrificazione. Una, importante e moderna, sta per partire. E’ a Bologna, nel quartiere Bolognina, un’ex area militare dismessa, la caserma Sani. E’ composta da diversi edifici, alcuni di archelologia industriale (fu un grande macello, poi un opificio di inscatolamento di carni e brodo per l’esercito) immersi in una vasta area verde. Recentemente è stata occupata dai ragazzi dell’ex centro sociale XM24, già sgomberato nel 2019 tra le polemiche, non solo dei centri sociali. L’accordo col comune era di trovare entro l’anno una nuova sede, ma quella proposta, nell’estrema periferia oltre l’autostrada, è stata rifiutata perché troppo fuori mano. Non è un capriccio radical chic. Il centro sociale è interattivo con la città, deve essere un luogo di passaggio. Così hanno occupato la caserma, anche come forma di opposizione alla sua svendita e alla solita “riqualificazione”, la parola magica con la quale le amministrazioni definiscono la cessione ai privati. Infatti il progetto prevede il 70 per cento di edilizia residenziale, il 30 a negozi, un albergo, e le solite aree pubbliche, una scuola e area verde, con le quali, in nome della cosiddetta “urbanistica concertata” si cedono pezzi di città ai costruttori.

Subito il comune ha invocato lo sgombero. In prima fila l’assessore Alberto Aitini, un esponente dell’ala destra del PD, che ha addirittura definito “opera abusiva” da rimuovere immediatamente un camminamento in tessuto-non tessuto che i ragazzi avevano steso per evitare di calpestare il prato. Lo sgombero è avvenuto il 16 gennaio. Qui sorgerà la città neoliberista fortificata, all’ultima moda.

E come sarà? All’insegna dell’ordine e del decoro. Qui saranno applicate con severità le norme dei DL n. 14 del 20 febbraio 2017, detto “Decreto Minniti”, n. 131 del 1/01/2018, o “Decreto sicurezza/Salvini”: niente graffiti, niente senzatetto che dormono sulle panchine, niente feste, né stazionamenti di giovani e studenti, nessuno che mangia panini o pizzette sui gradini, niente canne, niente “negri” che chiedono l’elemosina, niente centri sociali né rumori molesti. Aree verdi ben curate, pubbliche in teoria, private in pratica, perché difficilmente raggiungibili per chi non abita nell’area protetta da sbarre e telecamere. Prezzi elevati, in cambio di una piccola quota di appartamenti da cedere a canone concordato che, lo sappiamo tutti, è quasi uguale a quello del mercato libero. I sindaci ideali sarebbero Sergio Cofferati, che ha già dato prova di sé dal 2004 al 2009 proprio come sindaco di Bologna, impegnato ad applicare la “tolleranza zero” per “difendere i cittadini da se stessi.”, e Ciro Nardella di Firenze, in prima linea contro qualunque “situazione lesiva del decoro“.

Il sistema neoliberista, ultima generazione del capitalismo salito al ruolo di religione, con l’accumulazione del profitto e la distruzione del lavoro produce povertà, emarginazione, violenza e pazzia. Ma non riconosce questi suoi prodotti. Anzi, li criminalizza. Li accusa di fallimento perché, in nome della meritocrazia, non hanno saputo essere vincenti. Non hanno avuto successo. A quel punto, lui che li ha creati, li scaccia, cerca di renderli invisibili nella città neoliberista fortificata.

Qui vivranno i lettori di libri. Quelli che rimangono. Ovvero gli esponenti della upper e middle class, i ricchi e i benestanti. Quelli educati e rispettosi, quelli che si fanno una doccia ogni mattina. Ma attenzione: questi lettori non compreranno nulla che non sia passato da Fabio Fazio o recensito dai giornali mainstream, vale a dire le schede editoriali scansionate da giornalisti che cambieranno qualche parola senza avere letto i libri.

Per cui, fratelli scrittori e editori e intellettuali del Fantabosco che protestate contro la casta del trust editori-media maistream-scrittori protetti, se non prendete atto di questa situazione la storia è senza sbocchi. Non entrerete nella città neoliberista fortificata con le opere “nuove” e “rivoluzionarie” che quei lettori comprano soprattutto a Natale, come regalo. Non saranno le vostre quelle opere.

E se qualcuno volesse replicare: Ma chi se ne frega della città neoliberista? Noi stiamo fuori, nella città invasa e selvaggia, si può controreplicare: Già, ma dove saranno i lettori? Gli appartenenti alla under class saranno impegnati a sopravvivere, a cercare lavoro, per loro stessi e per i figli, schiavizzati da un precariato a vita, un prodotto malvagio e finale del Jobs Act, peraltro già introdotto da Massimo D’Alema negli anni Novanta. Dove sarà il tempo, e le risorse per comprare e leggere libri?

La rivoluzione culturale/letteraria non può che essere interna alla rivoluzione contro questo sistema. Quindi, uscite dall’isolamento a/social e fondate dei nuovi blog, che pare siano in ripresa, dove si possono scrivere le cose da dire, e metteteli in rete. Collegateli, create un cartello di opposizione alternativo al mainstream. Con gli strumenti intellettuali in vostro possesso denunciate la morte della libera informazione, l’ingiustizia e la speculazione al potere, la mitopoietica della disuguaglianza e del sopruso, il dogma dell’abbattimento della spesa sociale (per aumentare i profitti delle privatizzazioni), la distruzione del territorio per le grandi opere inutili, dei diritti e del lavoro.

Per quanto riguarda le opere, non si auspica una narrativa didascalica trinariciuta, ma la letteratura deve avere un’etica interna, se ne è priva non è letteratura, ma altro: sfoghi narcisisti, scariche emotive solipsiste ecc. Qui un contributo interessante sull’interazione tra ecologia e letteratura.

Ovviamente non godrete dei frutti di questa guerra. Non ne avrete il tempo. Però lascerete qualcosa ai vostri discendenti. Un ideale forse. Una speranza. Un motivo per combattere. Per essere più felici.

[Le immagini: in apertura, antica incisione che, secondo alcuni, rappresenterebbe un’astronave; al centro, Vivian Maier; in fondo, Bologna Via Ugo Bassi di MB]

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