Bob Dylan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso / 9 – Oltre il muro del suono: da Louie, Louie all’avanguardia https://www.carmillaonline.com/2025/05/14/elogio-delleccesso-9-oltre-il-muro-del-suono-da-louie-louie-allavanguardia/ Wed, 14 May 2025 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88364 di Sandro Moiso

Thurston Moore, Sonic Life. Un memoir, Baldini+Castoldi, Milano 2024, pp. 687, 25 euro

Sulla carta geografica degli Stati Uniti è possibile tracciare un fitto reticolo di città e località che hanno segnato inconfutabilmente lo sviluppo della musica americana. Dalla musica hillybilly della parte meridionale della catene montuosa degli Appalachi, che si estende per quasi 3.300 chilometri alle spalle della costa atlantica dal fiume San Lorenzo in Canada fino all’Alabama, al blues del delta del Mississippi, passando per città come New Orleans, Los Angeles, San Francisco, Austin, Minneapolis, Detroit, Akron, Chicago, Seattle, Kansas City, Memphis, Saint Louis, Athens, [...]]]> di Sandro Moiso

Thurston Moore, Sonic Life. Un memoir, Baldini+Castoldi, Milano 2024, pp. 687, 25 euro

Sulla carta geografica degli Stati Uniti è possibile tracciare un fitto reticolo di città e località che hanno segnato inconfutabilmente lo sviluppo della musica americana. Dalla musica hillybilly della parte meridionale della catene montuosa degli Appalachi, che si estende per quasi 3.300 chilometri alle spalle della costa atlantica dal fiume San Lorenzo in Canada fino all’Alabama, al blues del delta del Mississippi, passando per città come New Orleans, Los Angeles, San Francisco, Austin, Minneapolis, Detroit, Akron, Chicago, Seattle, Kansas City, Memphis, Saint Louis, Athens, Boston, Nashville non è possibile separare geografia, società e storia dalla musica prodotta in loco e poi riversatasi in concerti, sale da ballo, dischi a 78 giri e microsolco, radio, cd, cassette e Tv, prima degli States e poi, quasi sempre, in seguito in gran parte del mondo, non soltanto occidentale, nel corso del ‘900.

Molte di queste città, come molti lettori già sapranno, saranno rese famose, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo, quel cinquantennio che ha fatto parlare, allungandone indebitamente i tempi, di secolo americano, quando la produzione culturale e immateriale statunitense riuscirà ad occupare gran parte dell’immaginario collettivo planetario, grazie allo sviluppo dell’industria cinematografica e alla diffusione su larga scala di nuove musiche giovanili derivanti dal rock’n’roll e dai suoi antenati, il blues e la country music. Musiche paradossalmente originatesi nel cuore del proletariato bianco e nero e della piccola proprietà terriera, spesso passata nelle mani callose dei discendenti degli schiavi o degli immigrati più poveri e disgraziati.

Una cultura popolare o pop che ha letteralmente sbancato il mercato delle produzioni musicali, grazie sia alla forza del dollaro e della potenza uscita vincitrice dal secondo conflitto mondiale che all’originalità e capacità creative dei suoi interpreti, maggiori e minori. Non si è trattato però soltanto di una colonizzazione culturale, così come alcuni tradizionalisti e conservatori, di entrambi gli schieramenti di destra o di sinistra avrebbero voluto spiegare il fenomeno liquidandolo con troppe semplificazioni, comprese quelle della sempre troppo osannata scuola di Francoforte e del suo maggior interprete: Theodor W. Adorno.

E non c’entra soltanto l’invenzione del disco microsolco a 45 giri, dei giradischi portatili e della diffusione delle radio commerciali che, sì, c’entrano ma che non avrebbero avuto modo di svilupparsi e diffondersi su scala così ampia se non avessero costituito un prodotto originale di una potenza che si presentava non soltanto sul piano finanziario, economico, politico e militare, ma anche tecnologico e, proprio per questo ultimo fatto, aperta alle sperimentazioni, anche le più strambe, da cui fosse possibile cogliere nuovi elementi da introdurre sul mercato delle merci. Dimostrazione concreta dell’affermazione di Marx, contenuta nel Capitale, secondo cui è la potenza dominante e più avanzata a indicare la via che le altre, in assenza di cambiamento radicale del modo di produzione, dovranno sicuramente seguire: «Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello sviluppato l’immagine del suo avvenire».

Non è quindi per caso che, tra tutte le città elencate prima, sia stata lasciata fuori New York, proprio per la rilevanza che questa ha assunto sia sul piano finanziario, per la presenza di Wall Street, che politico e culturale. In cui tutti gli aspetti elencati fino ad ora hanno finito col rimescolarsi in continuazione come in un grande calderone in cui aspiranti stregoni di ogni tipo hanno tentato di riversare i loro, sogni, desideri, esperienze e lati spesso oscuri dell’anima.

Una città lontana, però, dal punto di vista musicale, sia dalle estati dell’amore degli hippie che dal jazz tradizionale, in cui anche la musica folk, che proprio lì trovò la culla per la sua rinascita e che per ben poco tempo si fermò alla riproposizione dei temi classici d’origine, finì col diventare, con l’avvento di Bob Dylan nei locali del Greenwich, qualcosa che avrebbe trasformato il concetto stesso che ne costituiva la base, guarda caso elettrificandolo nel giro di pochi anni.

Una città in cui John Lennon, insieme a Yoko Ono, avrebbe trovato prima rifugio e poi la morte per mano di un fan, trasformando la moglie giapponese non soltanto in “vedova storica” del rock delle origini, ma anche, e forse soprattutto, in autentica sciamana e fonte di ispirazione per le successive avanguardie sviluppatesi nella Grande Mela1.

Una città di contraddizioni e luoghi simbolici diversi: dalle periferie proletarie di Newark al quartiere nero “per eccellenza” di Harlem; dagli accattoni e tossici della Bowery ai folksinger di Washington Square; dal Bronx devastato e povero alle Twin Tower, in una città che, come ha dimostrato l’attacco dell’11 settembre 2001, raccoglieva e, probabilmente, raccoglie ancora in sé, nel bene e nel male, tutti gli elementi dell’americanismo e della cultura americana.

A raccontarcene la storia musicale, culturale e, quindi, sociale degli ultimi sessant’anni (1963-2023) ci ha pensato Thurston Moore (n. 1958), chitarrista e fondatore dei Sonic Youth, nella monumentale autobiografia uscita in lingua originale nel 2023 e successivamente (2024) pubblicata in Italia per Baldini+Castoldi: Sonic Life. A partire dalla sua personale scoperta nel 1963, a cinque anni e grazie al fratello che allora ne aveva dieci, di quel classico del rock più semplice ed ipnotico rappresentato da Louie, Louie dei Kingsmen, destinato ad essere ripreso da centinaia di altri gruppi beat, garage e punk, americani e non.

Un preludio alla scoperta della scena punk che di lì a pochi anni si sarebbe sviluppata, con i suoi ritmi ripetitivi, la scarsa preparazione musicale dei suoi esecutori e il suono delle chitarre elettriche portate all’estremo secondo la legge che di lì a poco, per bocca e liuti elettrici dei giovani membri della band Red Kross, avrebbe rigidamente stabilito che «notes and chords mean nothing (to me)» (Born Innocent, 1981).

Ed è in questo contesto, in cui le band e gli artisti di riferimento non possono che esser i Velvet Underground con Lou Reed, John Cale e l’algida Nico, i New York Dolls e in seguito Patti Smith e i Television di Tom Verlaine e poi ancora i Suicide di Alan Vega, che prenderà corpo uno dei più significativi gruppi del rock dagli anni Ottanta del Novecento al primo decennio del XXI secolo: i Sonic Youth.

Gruppo il cui suono chitarristico, guidato dagli strumenti a sei corde di Thurston Moore e Lee Ranaldo (n.1956) e marcato dal basso di Kim Gordon (n.1953) e dalla batteria di Steve Shelley (n.1962), raccoglierà in sé tutta la lezione del frat rock di Louie Louie, del punk, del garage ma anche delle avanguardie jazz, elettroniche e contemporanee, in una autentica catstrofe sonora che anticiperà di quasi un ventennio il rumore assordante del crollo delle torri gemelle nel settembre del 2001.

Tutto sarà “scritto” e anticipato in una serie di album, e soprattutto di concerti, che via via lasceranno il pubblico sempre più tramortito, estasiato o smarrito. Un rituale che tra i solchi dei dischi oppure sui palchi di mezzo mondo portava alle orecchie degli ascoltatori il frastuono delle catastrofi a venire, anticipato tutto nella ripresa, fin dai primi dischi, di un altro grande tormentone del rock più degenerato: I Wanna Be Your Dog di Iggy Pop e dei suoi “dannati” Stooges (Detroit, 1969).

Una storia del rock passato, presente e futuro che, fino al furto delle medesime, saliva sul parco insieme ad un arsenale di chitarre elettriche che, dalle Fender di ogni tipo, alle Gibson fino alle Gretsch e Rickenbacker, riassumeva l’esperienza elettrica trasformandola definitivamente in quel corpo elettrico cantato già da Walt Whitman nelle sue Foglie d’erba: «I sing the body electric…» (1855 prima versione – 1892 ultima e definitiva).

Sì, perché occorre aver sperimentato sulla propria pelle e sul proprio corpo le vibrazioni universali emesse dal quartetto, soprattutto nel periodo compreso tra gli album Evol (1986), Daydream Nation (1988), Sister (1987) e Bad Moon Rising (1985) (titolo quest’ultimo che rinvia inevitabilmente ad un altro incomparabile gruppo del rock proletario e ipnotico come pochi altri, i Creedence Clearwater Revival), cosa significasse a cavallo tra anni Ottanta e Novanta essere esposti al bombardamento sonoro proveniente dagli amplificatori e dagli strumenti, spesso preparati in precedenza con “scordature” o cacciaviti cacciati tra le corde, dei Sonic Youth.

Un’astronave che decollava, con i motori a tutto regime, in fuga da un pianeta alieno, il frastuono terrorizzante di un bombardamento aereo su una città o quello dell’artiglieria sul campo di battaglia, il rumore delle sfere che si infrangono silenziosamente, soltanto per mancanza d’aria attraverso cui trasmettere le onde sonore prodotte dal loro scontro. Oppure di menti andate in frantumi. Per questo motivo si sono tralasciati qui i rimandi possibili, ma inadeguati, ai grandi improvvisatori della West Coast, Grateful Dead in testa, poiché nel suono del gruppo newyorkese non ci sono buone vibrazioni.

L’epoca dei Beach Boys e della loro Good Vibrations era già morta e sepolta all’epoca. Al suo posto si era aperta quella della guerra dei mondi e Thurston e soci lo annunciavano senza mezzi termini e, forse, per questo Neil Young li volle insieme a lui nel tour che trasmise in diretta dal palco il rumore dei bombardamenti su Baghdad ai tempi della prima guerra del Golfo. Neil Young che nei suoi assolo migliori e più acidi aveva portato il folk rock verso le stesse sponde, senza osare però mai superare il muro del suono che il gruppo di New York avrebbe infranto fin dagli esordi.

Esordi che, ripercorrendo le pagine dell’autobiografia di Moore, non scaturivano esattamente dal nulla e non soltanto per via dell’ambiente newyorkese più legato al CBGB (il locale sorto nel Lower Est Side che vide tra le sue pareti e sul suo palco svilupparsi la scena punk e new wave della Big Apple), con i concerti di Patti Smith e dei Television descritti al loro interno, ma anche in quell’avanguardia sperimentale che, da Glenn Branca (1948-2018), con The Ascension e Lesson N° 1, a Loren MazzaCane Connors (n.1949), con le sue sinfonie per cento chitarre elettriche, che avevano subito accolto Thurston Moore e Lee Ranaldo all’interno delle loro orchestre tutt’altro che da camera, aveva fatto della chitarra elettrica ciò che Beethoven, Haydn e, più tardi, Wagner avevano fatto con strumenti ad arco, fiati e timpani2.

Per un lungo tratto del loro percorso, prima della crisi e dello scioglimento legato anche alla frattura intervenuta nella coppia Thurston Moore/Kim Gordon, costituiranno davvero “l’avanguardia” con una scelta consapevole che li vedrà impegnati nella realizzazione di una serie di dischi incisi con composizioni e musicisti d’avanguardia, da Yoko Ono a Mats Gustafsson e molti altri, e che, proprio per questo, vedrà aggiungersi un quinto membro, Jim O’Rourke (n.1969), anche lui impegnato da tempo negli stessi territori musicali in compagnia del “vecchio genio” dei texani Red Krayola, Mayo Thompson (n.1944), operativo in quell’ambito fin dalla fine degli anni Sessanta. Una scelta artistica e sonora che Thurston Moore ha continuato a perseguire oltre e al di fuori degli stessi Sonic Youth, così come hanno continuato a fare sia Kim Gordon che Lee Ranaldo, senza però eguagliarne i risultati.

Tutto questo e molto altro ancora ci narrano le memorie dell’autore trasformando, proprio per questo motivo, Sonic Life in uno dei testi più preziosi, utili e interessanti per comprendere la storia e l’evoluzione della musica degli ultimi quarant’anni.


  1. Sul significato della morte di John Lennon, si veda D. Gabutti, Pop. John Lennon e le culture della società opulenta in D. Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Ediore, Vicenza 2025, pp. 55-63.  

  2. A proposito di Wagner e chitarre elettriche si veda qui  

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Licantropi, poesia, vino e folk music stralunata: in memoria di Michael Hurley (1941- 2025) https://www.carmillaonline.com/2025/04/08/licantropi-poesia-vino-e-musica-folk-stralunata-in-memoria-di-michael-hurley-1941-2025/ Tue, 08 Apr 2025 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87820 di Sandro Moiso

Oh the werewolf, oh the werewolf Comes a-stepping along He don’t even break the branches Where he’s been gone

For the werewolf, for the werewolf Have sympathy Because the werewolf he is someone Just like you and me (Michel Hurley –Werewolf Song, 1964)

In anni in cui la mania del collezionismo discografico non aveva ancora sostituito il semplice piacere dell’ascolto della musica, qualunque cosa fosse o rappresentasse al di là degli interessi del mercato, e prima che l’attenzione per il vinile rosso, nero, verde o trasparente oppure da 180 grammi prendesse il sopravvento sulla qualità e [...]]]> di Sandro Moiso

Oh the werewolf, oh the werewolf
Comes a-stepping along
He don’t even break the branches
Where he’s been gone

For the werewolf, for the werewolf
Have sympathy
Because the werewolf he is someone
Just like you and me

(Michel Hurley –Werewolf Song, 1964)

In anni in cui la mania del collezionismo discografico non aveva ancora sostituito il semplice piacere dell’ascolto della musica, qualunque cosa fosse o rappresentasse al di là degli interessi del mercato, e prima che l’attenzione per il vinile rosso, nero, verde o trasparente oppure da 180 grammi prendesse il sopravvento sulla qualità e l’originalità delle esecuzioni era facile, negli Stati Uniti, trovare negozi in cui migliaia di dischi ancora sigillati anche se non di recente pubblicazione venivano venduti a 99 cents.

Così, prima che ogni collezionista fosse convinto da abili e meschini commercianti, che si pensano mercanti d’arte mentre si comportano soltanto da straccivendoli e rigattieri, oppure dagli interessi delle case discografiche di poter mettersi in casa autentiche opere d’arte, seppur ampiamente riproducibile in vari formati, simili a quelle uniche di Picasso, mi capitò, in un negozio di Berkeley, di ritrovarmi tra le mani un disco assolutamente sconosciuto, la cui unica attrattiva era per me rappresentata dall’etichetta, la Folkways, e da una copertina con una fotografia virata in color mattone con il volto onesto e la chitarra di un giovane folksinger di cui non avevo mai sentito parlare prima, nemmeno tra le pagine già scritte all’epoca da un imperversante Bertoncelli.

Unica cosa certa, vista l’etichetta, era che dovesse trattarsi di un disco di folk “duro e puro”, privo degli orpelli e dei suoni elettrici aggiunti al genere dallo sviluppo del folk rock degli anni precedenti. La Folkways Records & Service Co., infatti, era stata la prima casa discografica a proporre al pubblico autori e cantautori come Woody Guthrie, Pete Seeger, Cisco Hustono e i materiali sonori raccolti in giro per l’America e per il mondo da John e Alan Lomax, padre e figlio, che vanno considerati tra i fondatori della moderna etnomusicologia.

In questo modo, l’etichetta che avrebbe prodotto dischi di blues, gospel, jug e suoni prodotti delle comunità bianche e nere degli stati del Sud e delle montagne americane, contribuì a dare vita al cosiddetto folk revival dei primi anni Sessanta. Anche se rimane celebre il rifiuto opposto da Mose Asch alla pubblicazione delle prime canzoni di Bob Dylan, che avrebbe poi trovato in John Hammond il proprio mentore presso la Columbia Records.

Moses Asch era nato in Polonia, nel 1905. Nel 1912, la famiglia Asch aveva lasciato la Polonia, a causa dell’antisemitismo e si era stabilita a Parigi e soltanto nel 1915 sarebbe emigrata a New York e in quella città, dopo la guerra, Asch avrebbe iniziato a lavorare come ingegnere del suono.

Nel 1940, Asch fondò la Asch Recordings e si concentrò sulla pubblicazione e la vendita di dischi fonografici. Asch estese eccessivamente le sue operazioni e andò in bancarotta nel 1948. Ma Asch fu in grado di resuscitare la sua carriera discografica nello stesso anno facendo in modo che la sua segretaria, Marian Distler, avviasse una nuova casa discografica, la Folkways Records, a suo nome. La nuova etichetta sarebbe poi rapidamente passata dalle registrazioni a 78 giri ai long playing a 33.

Nel 1952, il regista ed etnomusicologo Harry Smith compilò per Asch una antologia di folk music americana, una raccolta di canzoni popolari indigene del sud e del mid-west degli Stati Uniti, che fu il primo disco a non tracciare una rigida distinzione tra cantanti folk bianchi e neri; antologia che, considerata l’epoca, sarebbe diventata “la raccolta più importante del suo genere”.

Uno dei principi che spinsero Asch a dirigere l’etichetta, che dalle origini fino alla sua morte ha distribuito 2.168 album discografici, fu che mai un singolo titolo fosse cancellato dal catalogo Folkways. Dopo la sua morte, le registrazioni della Folkways Records furono acquisite dalla Smthsonian Institution e Asch stabilì nel suo testamento che nessun titolo sarebbe stato cancellato e che i nastri master rimasti inediti nell’archivio di Folkways avrebbero dovuto essere esplorati. Cosa che, tra le tante altre, ha fatto sì che un critico musicale del «New York Times», Neil Alan Marks, abbia potuto affermare che: “La Folkways Records è stata per i folkloristi e i musicisti la fonte talmudica di gran parte del materiale primario. Il suo fondatore, Moses Asch, potrebbe avere più a che fare con la conservazione della musica popolare di qualsiasi altra singola persona in questo paese”.

Dunque, tenere in mano un Lp prodotto da quell’etichetta prometteva già una sorta di viaggio nella cultura popolare americana anche se, certamente, la sorpresa nell’ascoltarlo fu grande lo stesso. Era un disco per voce e chitarra dall’arrangiamento scarno ed essenziale, eppure, eppure…

Quel misto di dolore, naïveté e storie surreali di licantropi che si librava dai solchi dal disco rivelava fin dal primo ascolto qualcosa di inaspettato. Così First Songs, pubblicato nel 1964 e ritrovato da chi scrive nel 1977, tra i dischi ancora sigillati ma dalla copertina “bucata” che ne segnalava lo scarso successo commerciale, segnò l’inizio di una passione pari a poche altre, in termini musicali, nei confronti di Michael Hurley.

Michael Hurley era nato il 20 dicembre 1941 nella contea di Bucks, in Pennsylvania, e aveva scritto la sua prima canzone (in cui si immaginava un aeroplano) quando aveva cinque anni, ricevendo la sua prima chitarra, quando aveva 16 anni, da uno dei fidanzati della sorella maggiore; motivo per cui imparò a suonarla da autodidatta in un modo idiosincratico che avrebbe in seguito sempre caratterizzato le sue esecuzioni.

New York lo aveva attratto fin da adolescente, così come, oltre alle birre e all’alcol, lo avevano attratto i giovani frequentatori di Washington Square e dei locali del Greenwich Village in cui andava sviluppandosi un nuovo amore per la musica folk, in parte animato proprio dall’antologia di Harry Smith citata prima1. Così, dopo aver formato un gruppo chiamato Three Blues Doctors con Steve Weber e Robin “Rube” Remaily, iniziò a suonare in un club nel Village.

Il soggiorno del gruppo a New York fu breve, e non molto tempo dopo il loro ritorno a Bucks County, Hurley partì per Cambridge, Massachusetts, mentre Weber e Remaily avrebbero poi contribuito, insieme a Peter Stampfel, a formare gli Holy Modal Rounders, uno dei gruppi più deraglianti e squinternati della scena folk degli anni successivi2 e che poté vantare almeno per un album, Indian War Whoop del 1967, lo scarso contributo alla batteria dell’attore e scrittore Sam Shepard. Gruppo con cui per anni Hurley avrebbe ancora incrociato il suo percorso artistico.

Lo stile di vita perlomeno turbolento, unito alla passione per gli alcolici, fece sì che Hurley finisse con l’essere ricoverato nel reparto di tubercolosi del Bellevue Hospital di New York, dove fu curato per mononucleosi e danni al fegato, nonché per tubercolosi. Soltanto dopo quell’esperienza, di cui sarebbe rimasta la traccia autobiografica nel suo primo album, e dopo essere tornato in Pennsylvania, incontrò Fred Ramsey Jr., un archivista folk e ingegnere del suono che, tra le altre cose, aveva registrato le ultime sessioni di Leadbelly. Fu proprio Ramsey a convincere Moses Asch, forse a caccia di nuovi talenti dopo l’autentico smacco commerciale rappresentato dall’aver sottovalutato il talento del giovane Dylan qualche anno prima3, a firmare un contratto con Hurley per un lp che sarebbe poi diventato First Songs.

No no no I won’t go down no more
No no no I won’t come down no more
No no I won’t go
No no I won’t go
No no no I won’t come down no more

Stars are rolling in and out of my ears
Stars are rolling in’n’n’n’n and out of my ears
Well they roll in and out
Make me want to jump and shout
No no no I won’t come down no more

(No, No, No, I Won’t Come (Go) Down No More – Michael Hurley 1964)

Asch anticipò a Hurley 100 dollari per fare un secondo album, e iniziò a registrare altro materiale con Ramsey, ma l’LP non fu mai completato, a causa sia del carattere erratico del cantautore che del contenuto delle sue canzoni il cui marchio era costituito, così come sarebbe poi sempre rimasto da una musica folk giocosamente surreale, spiritosa, riflessiva, piena di gioia e di dolore allo stesso tempo. In un insieme di suoni spesso stravaganti anche se tratti quasi esclusivamente dall’uso di strumenti acustici, con la chitarra che si alternava ad uno stridente violino oppure al banjo e a un kazoo, accompagnati talvolta dalle imitazioni vocali degli strumenti a fiato.

Hurley, nomade per natura, trascorse diversi anni viaggiando frequentemente e suonando occasionalmente, ma tuttavia, gli amici di Hurley negli Holy Modal Rounders iniziarono a registrare le sue canzoni e la voce sul suo lavoro, caratterizzato di rondini in volo nel cielo sopra le missioni californiane, vagabondi e lupi mannari amanti del vino e in cerca di gentilezza , iniziò a diffondersi. Col tempo, uno degli amici di Hurley dei tempi di Bucks Country, Perry Miller, adottò il nome d’arte Jesse Colin Young e formò una band chiamata Youngbloods.

Il gruppo ottenne un grande successo nel 1969 con la canzone Get Together, che raggiunse la Top Ten proprio quando il loro contratto con la RCA Victor Records stava per scadere. Così firmarono con la Warner Bros., che come incentivo offrì loro la loro etichetta, la Raccoon Records motivo per cui Young decise di far incidere Hurley per il loro nuovo catalogo.

Hurley preferiva spesso registrare a casa piuttosto che andare in studio. Gran parte del suo lavoro aveva un’affascinante atmosfera lo-fi, una delle qualità che lo hanno reso un eroe e uno spirito affine alla successiva scena freak folk, così Armchair Boogie, il secondo album del cantautore, venne registrato da Young nella camera da letto di Hurley, nel 1971.

When the swallows come back to Capistrano,
That’s the time I hope that you come back to me.
When you whispered farewell in Capistrano,
That’s the time the swallows flew out to the sea.

Ah, the mission bells will ring,
The chapel choir will sing.
The happiness you bring
When we go hand in hand.

(When the Swallows Come Back to Capistrano – M. Hurley, 1971)

Poi, nel 1972, fu la volta di Hi-Fi Snock Uptown (“snock” era allo stesso tempo uno dei soprannomi di Hurley e una frase che usava per descrivere il suo suono), con diversi membri degli Youngbloods ad accompagnarlo nel corso della registrazione, che ancora adesso è considerato uno dei suoi dischi migliori. Have Moicy!, del 1976, una collaborazione con gli Unholy Modal Rounders (nome che era stato cambiato in seguito all’uscita di Steve Weber dal gruppo), con cui aveva cominciato a suonare regolarmente, con canzoni come Griselda, What Made My Hamburger Disappear oppure Jealous Daddy’s Death Song avrebbe finito col rappresentare un piccolo capolavoro di folk urbano e segnato il passaggio ad un’altra etichetta specializzata in folk, bluegrass, blues e musica tradizionale americana, la Rounder Records, fondata nel 1970 a Somerville, Massachusetts.

Il disco fu un successo immediato di critica e vendette inaspettatamente bene. La Rounder Records mise sotto contratto Hurley come artista solista. I suoi due album per Rounder, Long Journey del 1977 e Snockgrass del 1980, sono stati considerati tra i suoi lavori migliori, ma quando la Rounder gli propose di incidere un album per bambini, Hurley decise di cercare una nuova etichetta discografica.

Comunque è ancora un universo frutto di uno stile decisamente naif quello che il cantautore ci racconta e descrive in Snockgrass, intriso di influenze blues, folk e jug band e, ancora una volta, caratterizzato da una copertina contenente una delle tipiche immagini da fumetto realizzate dallo stesso Hurley, poiché la maggior parte degli album di Hurley presentano in copertina le sue opere grafiche, spesso con una coppia di lupi antropomorfi, Boone e Jocko, che sono spesso presenti nei suoi fumetti, come le precedenti, e contenente un titolo riferito al nome di una band con cui il cantautore si era esibito in precedenza: Automatic Slim & the Fatboys.

Gli album dei primi anni settanta avevano infatti incoraggiato Hurley a ricominciare a suonare regolarmente in pubblico, incluso un tour con altri artisti dei Raccoon, ma dopo la decisione della Warner Bros. di staccare la spina dall’etichetta, ponendo fine alla sua collaborazione con una major, Michael si unì per un periodo a una band del Vermont chiamata Puddledock, con cui si mise in viaggio con un nuovo nome, Automatic Slim & the Fatboys per l’appunto, trovando seguaci nel Vermont e nel Massachusetts, e registrando del materiale su un registratore a quattro tracce che avrebbe trovato una pubblicazione tardiva nell’album del 2011 Fatboy Spring.

Hurley collaborò con l’etichetta indipendente Rooster per il suo album successivo, Blue Navigator del 1984, ben accolto anche se, non molto tempo dopo la sua uscita, un incendio nel magazzino della Rooster distrusse le scorte dell’LP e i nastri master, trasformandolo in questo modo in un ricercato oggetto da collezione prima che la Feeding Tube Records lo ristampasse nel 2021. Watertower del 1988 fu registrato per la Fundamental Records poco prima che l’aumento degli affitti portasse Hurley a lasciare il Vermont in favore di Richmond, in Virginia, e prima che l’artista americano iniziasse a creare registrazioni fatte in casa e disponibili solo su cassetta da vendere ai suoi spettacoli, così come fumetti e dipinti.

Solo nel 1994 avrebbe potuto incidere un nuovo album, Wolf Ways, in cui venne inclusa una nuova versione di Werewolf, che nel 2003 sarebbe stata ripresa da Cat Power (alias Chan Marshall) nel suo album You Are Free, e diversi brani già comparsi nel precedente, ma sostanzialmente inedito, Watertower. Wolf Ways uscì, invece, sul mercato discografico quando uno scrittore e fan tedesco che gestiva una piccola etichetta tedesca (Veracity) lo portò in Europa per suonare alcuni concerti e si convinse a pubblicare un nuovo album. L’etichetta pubblicò Parsnip Snips nel 1995, ma i problemi finanziari avrebbero contribuito alla sua prematura chiusura non molto tempo dopo l’uscita di quest’ultimo, rendendolo un’altra rarità fino a quando la Mississippi Records non ha ne pubblicato una nuova edizione nel 2009.

Una fanzine irlandese dedicata a Hurley, Blue Navigator, pubblicò il suo successivo progetto in studio, Bellemeade Sessions del 1998, un raro album dominato da cover piuttosto che da originali. Weatherhole del 1999 è stato registrato invece per la Koch Records, ma quando la proposta decadde prima ancor di andare in stampa, Nick Hill, A&R dell’etichetta, si fece avanti per pubblicarla lui stesso sulla sua etichetta indipendente Field Recording Co.

Poi l’esoterico interprete di un mondo naif ma non infantile, poiché sarebbe come definire i quadri di Henri Rousseau detto il Doganiere come illustrazioni per l’infanzia, avrebbe ancora girato per l’Europa e il Regno Unito nei primi anni del XXI secolo, contribuendo a dare impulso anche alla sua carriera discografica. L’etichetta tedesca Trikont organizzò la pubblicazione di Sweetkorn nel 2002, seguito da un album registrato alla fine di un tour irlandese, Down in Dublin (2005).

Il culto di Hurley avrebbe iniziato ad espandersi quando un certo numero di artisti più giovani iniziarono ad interpretare cover dei suoi brani, come Devendra Banhart e la già citata Cat Power. Proprio l’etichetta Gnomonsong di Banhart avrebbe pubblicato due dei suoi album, Ancestral Swamp del 2007 e Ida Con Snock del 2009. Blue Hills del 2010, pubblicato dall’etichetta indipendente Mississippi Records, presentava in gran parte Hurley al pianoforte e all’organo a pompa piuttosto che alla chitarra. Mentre Back Home with Drifting Woods del 2012 ha resuscitato registrazioni inedite del 1964, alcune delle quali provenienti dalle sessioni per il secondo album incompleto dei Folkways.

Land of Lo-Fi del 2013 è uscito per la Mississippi Records in edizione limitata, e Bad Mr. Mike è seguito nel 2016. Poi è stata la volta di Redbirds at Folk City, pubblicato nel 2017, tratto da uno spettacolo dal vivo del 1976. Living Ljubljana del 2018 è un’altra registrazione d’archivio, questa volta da un concerto del 1995 a Lubiana, in Slovenia. The Time of the Foxgloves del 2021 ha messo insieme brani registrati sia in casa che in studio ed è stato pubblicato poche settimane prima che il cantautore festeggiasse il suo 80° compleanno. È stato l’ultimo album pubblicato durante la sua vita, ma Hurley ha continuato a fare concerti fino alla sua morte avvenuta il 1° aprile di quest’anno all’età di 83 anni.

Trovando rifugio in quell’angolino di aldilà in cui già l’avevano preceduto altri gloriosi freak newyorkesi come Tuli Kupferberg (1923-2010) e Steve Weber (194-2020) e al cui tavolo da qualche tempo a questa parte, in compagnia di Dave Van Ronk (1936–2002), si è trasferito anche Amadeo Bordiga (1889-1970), per parlare di ciclismo davanti ad un piatto di cozze, dopo essersi accorto di quanto fosse diventato noioso l’angolo riservato ai comunisti.

You can hear his long holler from away across the moor
That’s the holler of a werewolf when he’s feeling poor
He goes out in the evening when
The bats are on the wing
And he’s killed some young maiden before the birds sing

Once I saw him in the moonlight
When the bats were a-flying
All alone I saw the werewolf and
The werewolf was crying

Crying “Nobody, nobody, nobody knows
How much I love the maid as I tear off her clothes”
Crying “Nobody, nobody knows my pain
When I see that it’s risen, that full moon again”

Crying “Nobody, nobody knows my pain
When I see that it’s risen, that full moon again”

(Werewolf – Michael Hurley)


  1. Sulla scena musicale newyorkese a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta e in particolare per la scena folk che gravitava intorno a Washington Square e al Greenwich Village, si veda qui  

  2. Il cui brano più famoso presso il grande pubblico fu sicuramente Bird Song compreso nella colonna sonora del film Easy Ryder, diretto da Dennis Hopper nel 1968, e tratto dall’album The Moray Eels Eat The Holy Modal Rounders, pubblicato dalla Elektra alla fine degli anni Sessanta.  

  3. Si veda in proposito B. Dylan, Chronicles – Volume 1, traduzione di Alessandro Carrera, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2005 (ed.originale americana 2004).  

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Forever Young: Garth Hudson (1937-2025) https://www.carmillaonline.com/2025/02/08/forever-young-garth-hudson-1937-2025/ Sat, 08 Feb 2025 04:23:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86776 di Diego Gabutti

Ancora un paio d’anni fa, nell’aprile del 2023, Garth Hudson si esibì in concerto a Kingston, New York. Era un vecchio musicista di 85 anni, un veterano della scena rock, che 49 anni prima, nel 1974, aveva registrato Forever Young, l’hit dell’Lp dylaniano Planet Waves, insieme a The Band, il suo gruppo musicale. Giorni fatati. All’epoca tutti i musicisti erano giovani e sprizzavano talento. Tutti vivevano on the road, eternamente in tournée, e sembrava che non sarebbero mai morti né invecchiati. Canadese e grande organista – anzi «un eccezionale talento polistrumentale» secondo Robbie Robertson, il leader [...]]]> di Diego Gabutti

Ancora un paio d’anni fa, nell’aprile del 2023, Garth Hudson si esibì in concerto a Kingston, New York. Era un vecchio musicista di 85 anni, un veterano della scena rock, che 49 anni prima, nel 1974, aveva registrato Forever Young, l’hit dell’Lp dylaniano Planet Waves, insieme a The Band, il suo gruppo musicale. Giorni fatati. All’epoca tutti i musicisti erano giovani e sprizzavano talento. Tutti vivevano on the road, eternamente in tournée, e sembrava che non sarebbero mai morti né invecchiati. Canadese e grande organista – anzi «un eccezionale talento polistrumentale» secondo Robbie Robertson, il leader della Band, sempre che la Band avesse un leader – Garth Hudson è scomparso a 87 anni l’11 gennaio scorso in una casa di riposo di Woodstock, sconfitto dal tempo, il grande nemico.

A Woodstock, località fatale per i musicisti e per i consumatori di songs immortali della sua generazione, The Band aveva inciso molti anni prima, nel 1968, il classico Lp Music From Big Pink, che conteneva le classicissime canzoni The Weight e I Shall Be Released, quest’ultima opera di Bob Dylan, che la Band accompagnava in concerto dal 1964. C’erano anche loro, insieme a Al Kooper, Mike Bloomfield, Barry Goldberg e Sam Clay, sul palco del Festival di Newport, nel 1965, quando Bob Dylan attaccò a cantare Like a Rolling Stone, la canzone simbolo della rock’n’roll renaissance, a un pubblico di fanatici del folk engagé e che, per cantargliela sul muso, Il giorno in cui Bob Dylan prese la chitarra elettrica (questo il titolo del libro di Elijah Wald, Vallardi 2022, dal quale il regista James Mangold ha tratto un magnifico film, A Complete Unknown).

Sul palco di Newport, e poi su un ingrato palco londinese, la «svolta elettrica» (e simbolista, ma in langue de bois «commerciale») di Dylan – che il popolo del folk avrebbe voluto tenere per sempre al guinzaglio, autore d’inni socialisteggianti e di parabole pacifiste forever – fu accolta da urla e improperi: «Giuda! Traditore!» Anche Hudson era sul palco a prendersi gl’insulti che chiudevano un’epoca e ne aprivano un’altra.

Fu sempre a Woodstock – dove viveva, e che per questo fu la località in cui si tenne il grande concerto Peace & Love del 1969, nella vana speranza di stanarlo – che Dylan si ritirò dopo l’incidente in motocicletta del 1967. Aveva rinunciato a esibirsi in pubblico perché pensava che cominciasse a tirare una brutta aria giù nelle platee sempre più stoned e rabbiose dei concerti. A Woodstock, infine, Dylan e la Band registrarono in uno studio improvvisato i leggendari Basement Tapes, o registrazioni del sottoscala. Altro classico della popular music: una raccolta di canzoni tradizionali (e originali) che rimase a lungo inedito, o meglio segreto. Salvo il «bootleg», naturalmente… The Basement Tapes fu anzi il primo disco piratato in assoluto della scena rock. Garth Hudson era anche lì. Non c’è svolta significativa del rock’n’roll alla quale il suo sax o il suo organo Hammond non abbiano preso parte da protagonisti.

A differenza dei suoi compagni, Dylan compreso, lui non era un qualsiasi talentuoso rocker autodidatta, come all’epoca ne circolavano tanti, tutti per lo più straordinariamente bravi. Hudson aveva studiato e praticato musica fin da bambino, su a Windsor, nell’Ontario, una piccola città «situata sulle rive del fiume Detroit», dov’era nato nel 1937. Sempre Robbie Robertson – nella sua autobiografia, Testimony (Jimenez 2019) – scrive di lui: «Suonava diversi sassofoni, e al piano era un vero mostro. Garth poteva suonare qualunque tipo di musica. Sembrava un elegante musicista jazz, oppure uno che non vedeva la luce del giorno da una vita. Suonava meravigliosamente bene, e in maniera assai più complessa di quanto avessimo mai fatto noialtri. Noi avevamo imbracciato gli strumenti da ragazzini ed eravamo partiti in quarta, ma Garth aveva una formazione classica, e sulla tastiera era in grado di tracciare strade musicali di cui noi non immaginavamo nemmeno l’esistenza». Qualche giorno fa, su X, Bob Dylan lo ha ricordato così: «Era un ragazzo meraviglioso e la vera forza trainante dietro The Band. Basta ascoltare la registrazione originale di The Weight per capirlo». Ancora Robertson: «Non avevo dubbi che fosse il musicista rock migliore al mondo. Poteva suonare con noi come poteva suonare con John Coltrane o con la New York Symphony Orchestra».

Negli anni Ottanta – dopo lo scioglimento del 1977, celebrato da un grande film di Martin Scorsese – c’è una mezza reunion di The Band e Hudson ne fa parte fino allo scioglimento definitivo, a fine millennio. Pubblica qualche disco in proprio negli Ottanta e Novanta. Lavora come sessionman con Van Morrison, Leonard Cohen e tutti i grandi nomi del rock e del pop. Gli altri ragazzi della Band originale scompaiono uno dopo l’altro, anche loro sconfitti dal tempo, che non fa prigionieri: Robbie Robertson nel 2023, Levon Helm nel 2012, Fred Carter jr nel 2010, Richard Bell nel 2007, Rick Danko nel 1999, Richard Manuel nel 1986. Hudson, uomo riservato e grande artista, è uscito di scena imperturbabile, in punta di piedi.

«Uno dei suoi grandi momenti» – scrive Rob Sheffield su “Rolling Stone”- «è immortalato in The Last Waltz, il film di Scorsese» (al quale prendono parte Neil Young, Joni Mitchell, Eric Clapton, Muddy Waters, Ringo Starr, Neil Diamond, Emmylou Harris, naturalmente Dylan, e persino Lawrence Ferlinghetti). «Alla fine di It Makes No Difference», continua Sheffield, «la migliore performance di sempre della Band, Robbie suona un tormentato assolo prima di lasciare spazio a Garth e al suo sax soprano, che con la sua serenità chiude il pezzo su una nota di stoica rassegnazione. Solo uno come lui può suonare in modo così potente e allo stesso tempo così poco appariscente. Sono appena 68 secondi, ma dentro c’è tutto il carico d’emozione di The Last Waltz e della storia della Band».

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Tout le garçons e les filles: omaggio a Francoise Hardy https://www.carmillaonline.com/2024/06/12/tout-le-garcons-e-les-filles-omaggio-a-francoise-hardy/ Wed, 12 Jun 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83071 di Diego Gabutti

Nel 1962 Tout le garçons e les filles fu un hit planetario. Non era una canzone sentimentale. Era una canzone intimista, tra Jacques Prévert e Amez-vous Brahms, con un tocco d’existentialisme qua e là. Era anche l’ouverture d’ogni giovanilismo a venire. C’erano già stati Jimmy Dean, Great Balls of Fire, Lassù qualcuno mi ama ed Elvis Presley. Ma Françoise Hardy, elegante, bellissima, zero pose ribellistiche, portò la jeunesse oltre l’avant-garde e molto oltre la volgarità degli «eserciti del surf», tra le opinioni rispettabili, educate, rassicuranti e per così dire dabbene. Introdusse nelle culture dei sixties, che [...]]]> di Diego Gabutti

Nel 1962 Tout le garçons e les filles fu un hit planetario. Non era una canzone sentimentale. Era una canzone intimista, tra Jacques Prévert e Amez-vous Brahms, con un tocco d’existentialisme qua e là. Era anche l’ouverture d’ogni giovanilismo a venire. C’erano già stati Jimmy Dean, Great Balls of Fire, Lassù qualcuno mi ama ed Elvis Presley. Ma Françoise Hardy, elegante, bellissima, zero pose ribellistiche, portò la jeunesse oltre l’avant-garde e molto oltre la volgarità degli «eserciti del surf», tra le opinioni rispettabili, educate, rassicuranti e per così dire dabbene. Introdusse nelle culture dei sixties, che stavano sterzando in direzione utopistica e sovversiva, gli anticorpi dell’amour, dell’amitié, della sobriété. Bob Dylan – sulla cover del suo quarto Lp, The Another Side of Bob Dylan, del 1964, che contiene canzoni come My Back Pages e All I Really Want to Do – le dedicò una poesia, «per françoise hardy»:

sulla riva della senna
un’ombra gigante
di notre dame
tenta d’affermarmi un piede
studenti della sorbona
frullano accanto su bici sottili
roteano turbinanti colori similvita in pelle
la brezza sbadiglia cibo
lontano dalle pance
di erhard che incontra johnson

Di Ludwig Erhard, all’epoca cancelliere tedesco, e persino di Lyndon B. Johnson, il presidente Usa della Great Society e della guerra all’apartheid negli Stati del sud, ci siamo dimenticati. Ma di Françoise Hardy, morta ottantenne l’11 giugno a Parigi, non si è dimenticato nessuno dei giovani d’allora (sembra impossibile che l’autrice di Voilà e di Comment te dire adieu non avesse più vent’anni – forever young come tutti la ricordiamo). «Nel 1966» – leggo su elle.it – «il New York Times scrisse che davanti a Françoise Hardy appariva preistorico chiunque avesse più di 25 anni». In quegli anni s’erano invaghiti di lei Mick Jagger, David Bowie e tutti quanti i Beatles, ma soprattutto (come abbiamo visto) era rimasto folgorato Dylan, che secondo una leggenda le scrisse una lunga serie di lettere d’amore mai spedite e dimenticate in un bar del Village, a New York, dove sarebbero riapparse, si racconta, qualche anno fa. Fossero stati meno timidi, o se il destino avesse favorito un loro incontro, mentre in realtà si videro «solo una volta, quasi per caso, avrebbero potuto diventare una delle coppie storiche della musica anni ’60», scrive Elle in prosa sospirosa.
Sembra La-la-land o un film di Claude Lelouche, e come tutte le storie belle meriterebbe d’essere vera.

È indubitabile, in compenso, che le canzoni di Hardy ancora echeggiano tra le cover più frequentate dai big delle hit parade, nelle colonne sonore, nei canzonieri radiofonici e nei jingle pubblicitari. Sono canzoni senza smancerie, a loro modo brutali, insieme toste e romantiche. Come tutti i poeti che hanno cantato l’adolescenza, da Rimbaud a Lennon-McCartney, da Salinger a Dostoevskij, Françoise Hardy non parlava soltanto ai suoi contemporanei, les garçons e le filles degli anni sessanta. Parlava ai giovani d’ogni tempo.

Basta fare un giro su YouTube – dove ho appena ascoltato la sua versione di Suzanne (Leonard Cohen) e del Ragazzo della Via Gluck, entrambe cover straordinarie – per constatare che la sua poetica e il suo stile non sono invecchiati e che lei è rimasta fino all’ultimo ragazza con la frangetta ben pettinata e l’aria triste (anche allegra, ma sempre con misura) che ha ispirato a Dylan una poesia countercultural, senza maiuscole e senza segni di punteggiatura, à la e.e. cummings. Niente percussioni, giusto una chitarra, la voce misurata, l’espressione sempre un po’ seriosa, rari i sorrisi, Hardy non ha mai avuto a che fare, se non di sghembo o di carambola, con la rock culture o col milieu dell’engagement.

Nel 1966 partecipò a un film di Jean-Luc Godard, Masculin féminin, dove Jean-Pierre Léaud, un goscista, non fa che parlare per tutto il tempo d’alienazione e di révolution, mentre Chantal Goya, la sua ragazza, è interessata esclusivamente alla musica e ai rapporti umani, l’amore, l’amicizia. Hardy compare solo in un cameo, non accreditata, ma è chiaro che le sue simpatie non vanno ai discorsi pomposi di Léaud ma a «le temps des copains et de l’aventure» di Goya. Ancora Bob Dylan, in un’intervista del marzo 1965 (la trovate in Like a Rolling Stone. Interviste, il Saggiatore 2021) ha lasciato detto a futura memoria: «Preferisco ascoltare Jimmy Reed, o i Beatles, o Françoise Hardy, piuttosto che uno di quelli che cantano queste canzoni di protesta, anche se non li ho certo sentiti tutti. Ma quelli che ho sentito… sono tutti caratterizzati da una certa vacuità, come se dicessero: “Teniamoci per mano e andrà tutto bene”. Non ci vedo niente di più. Non mi metterò certo a urlare “Oleeeeeeé” e ad applaudire solo perché qualcuno usa la parola “bomba”».

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La luminosa oscurità del signore della Grande Mela https://www.carmillaonline.com/2023/12/13/loscurita-luminosa-del-signore-della-grande-mela/ Wed, 13 Dec 2023 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80314 di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena [...]]]> di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.

A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.

Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.

Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.

Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.

Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.

Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.

Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.

Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.

Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).

E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.

Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.

Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.

Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.

Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.

Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.

In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.

Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.

Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.


  1. W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10.  

  2. W. Hermes, op. cit., pp. 9-10.  

  3. B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001.  

  4. W. Hermes, op. cit., p. 23.  

  5. Ivi, p. 12.  

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Portare il peso di una stagione che non tornerà più: Robbie Robertson https://www.carmillaonline.com/2023/08/19/portare-il-peso-di-una-stagione-che-non-tornera-piu-robbie-robertson/ Sat, 19 Aug 2023 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78664 di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel [...]]]> di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel cortile sul retro».

Robbie Robertson, scomparso ottantenne a Los Angeles qualche settimana fa, pensava in grande, anche a costo d’irritare Bob Dylan, col quale aveva inciso dischi immortali, e di cui fu complice, insieme al resto della Band, nello scantinato di Big Pink, la leggendaria casa rosa nei boschi intorno a Woodstok, dove furono incisi su registratori di fortuna i Basement Tapes, una miniera di classici song americani, di scherzi musicali mozartiani, di blues semidimenticati, di canzoni nuove di zecca. A lungo segreti, o meglio occulti, i Basement Tapes furono vastamente piratati prima d’essere parzialmente pubblicati, nel 1975, in via ufficiale.

Erano gli anni sessanta e Robertson – come racconta nella sua autobiografia, Testimony, un grande libro sull’America e sulla giovinezza del mondo – era sulla strada dagli ultimi anni cinquanta, quando appena sedicenne era stato reclutato dallo sfrenato «Rompin’» Ronnie Hawkins, leader degli Hawks, «la rock’n’roll band più fica che c’era». Gli Hawks erano una band sudista, puro Arkansas, dove «l’aria sapeva dei pini di Ozark e di cibo fritto», mentre Robertson era canadese, di Toronto, dove alla band capitava spesso di passare, e dove una volta furono tutti arrestati per possesso di marijuana. Madre pellerossa e padre biologico ebreo, un gambler o pokerista di professione morto in un incidente stradale, anche se alcuni pronunciavano la parola «incidente» con aria dubbiosa, Robertson aveva uno «zio Natie» nel traffico dei diamanti rubati e zii, amici e cugini nelle Sei Nazioni: i Mohawk, i Cayuga, gli Onondaga, i Seneca, gli Oneida e i Tuscarora. Ai suoi geni pellerossa avrebbe dedicato parecchi anni dopo Music for the Native Americans. Al sud degli States, dove l’aveva portato la chitarra vibrando come una bacchetta di rabdomante, dedicò The Night They Drove Old Dixie Down, una malinconica ballata del 1969 che Joan Baez portò al primo posto in hit parade e che oggi, con quella sua dichiarata nostalgia per il Generale Lee e per il vecchio sud, finirebbe sul rogo insieme all’Amleto di Shakespeare e ai poster dei film di Harry Potter.

Canadese di nascita e southerner, sudista, per autoproclamazione, Mohawk ed ebreo, Robertson suonava po’ come il verso vivente d’una canzone di Dylan, tipo Mister Tamburino nel «mattino tintinnante» o Mack il Dito e Louis il Re con i loro «quaranta lacci da scarpe rossi bianchi e blu» o come qualunque altro, a piacere, dei tanti Arlecchini e Pierrot etnici e culturali che avrebbero guadagnato, col tempo e le melodie evergreen, un Nobel al loro puparo simbolista.

Robertson scrisse le sue prime canzoni a sedici anni. Hey Boba Lou e Someone Like You, due pezzi indiavolati alla Jerry Lee Lewis, apparvero in un album di Ronnie Hawkins, Dynamo, nel 1960. Solo che al suo nome era affiancato, come coautore e dunque «co-incassatore» delle eventuali royalties, un testa di legno della casa discografica, la Roulette Records, con uffici a Broadway, NYC. Robertson voleva protestare, «ma Ron mi disse: “Figliolo, in questo ambiente ci sono cose che non devi neanche provare a mettere in discussione. Ci sono dei tizi a New York City che non ti conviene far incazzare”». Erano «tempi duri in città», per citare sempre Dylan: «Una frotta di gente ti turbina intorno / che quando ti va bene sono calci e appena ti va male sono pugni». Morris Levy, boss della Roulette Records, quando Robertson entrò nel suo ufficio, lo squadrò per bene e poi, rivolto a Hawkins, ringhiando: «Proprio un bel ragazzino. Se finiamo in carcere non sarebbe male portarlo con noi. Scommetto che sei indeciso se assumerlo o scopartelo». Robertson, «in quel preciso istante», decise «di rinunciare a sollevare una qualunque disputa sulla questione diritti».

C’era una rivoluzione in corso, solo che riguardava quasi esclusivamente la musica, e non ancora la vita quotidiana dei giovani, la loro cultura, i costumi. Elvis Presley era solo in parte un fenomeno culturale. Nessuno si scandalizzò né sacramentò o lanciò lattine di Coca-Cola sul palco quando il Re passò da Nashville a Hollywood, dal rock duro al pop. Non c’era una grande distanza tra lui nel Delinquente del rock’n’roll e Pat Boone in Viaggio al centro della Terra. Ma qualcosa stava cambiando, e stava cambiando in fretta: i Beatles, i movimenti studenteschi in California, la scena radical sempre più estesa. Musica e controculture cominciavano a intrecciarsi strettamente tra loro, e quando a saltare dal folk impegnato e «di protesta» (come si diceva) al rock’n’roll dada-astrattista fu Bob Dylan, zompando da Masters of War e Hard Rain a Like a Rolling Stone e Memphis Blues Again, il pubblico dei concerti insorse. Sul palco, con Bob Dylan, in quei drammatici tour del 1965 e 1966, quando a Dylan davano del «venduto» e del «rinnegato», c’erano anche Robertson e la neonata Band (band e basta, senza nome) che aveva appena divorziato da Ronnie Hawkins.

Quando dal pubblico saliva lo schiamazzo contro la voce raspante di Dylan, contro la chitarra elettrica di Robertson e contro la batteria del grande Levon Helm, l’ex folksinger urlava: «Più forte! Suoniamo più veloci e più forte!» Era il nuovo mondo, un altro pianeta. Scrive Robertson: «Eravamo nel bel mezzo d’una rivoluzione rock’n’roll. O aveva ragione il pubblico, o avevamo ragione noi». Avevano ragione (e torto) tutti quanti. Era Il Decennio dell’Io (Castelvecchi 2013), come lo chiamò Tom Wolfe in un fortunato pamphlet di quegli anni, e ciascuno stava dietro alle proprie alienazioni e idiosincrasie. Quanto ai musicisti, più che suonare forte e veloce, vivevano pericolosamente, in molti sensi: «Quando qualcuno cambiava accordatura nel mezzo d’un assolo, io mi sentivo come Doc Holliday che cerca di smaltire la sbornia prima di buttarsi in una sparatoria al fianco di Wyatt Earp».

Ai tempi degli Hawks, solo un paio d’anni prima, «in un sacco di locali, se avevi i capelli lunghi, ti pestavano di brutto o ti sparavano. Frequentavamo un sacco di gangster, e secondo loro se avevi i capelli lunghi eri un finocchio». Adesso «nuove vibrazioni attraversavano il paese: le Pantere Nere, gli Hell’s Angels di Oakland, i poeti Beatnik, e una fiorente scena musicale che combaciava col nostro indirizzo musicale. Un giorno accompagnai Bob alla City Lights, la libreria di Lawrence Ferlinghetti a Frisco. Fummo accolti dai poeti Michael McClure e Allen Ginsberg. Vedere Allen, Michael e Bob chiacchierare con disinvoltura di scrittori e poeti mi fece ripensare agli anni passati con Ronnie, quando anche soltanto parlare di poesia era una buona ragione per essere presi a calci nel culo». Ma ogni Eden ha il suo serpente, come Robertson e la Band, insieme all’intera «scena musicale», avrebbero scoperto presto, quando le droghe cominciarono a dilagare, quando ad Altamont un concerto dei Rolling Stones finì in tragedia e l’«estate dell’amore» generò la Famiglia Manson e la strage di Bel Air.

Nell’ultima formazione degli Hawks, prima che lui e altri membri del gruppo si separassero da Ronnie Hawkins, rocker vecchio stile in un’America alternata, irriconoscibile, c’erano più canadesi che «native dixieland», per chiamarli così. Tranne Helm, un sudista di sangue puro, tutti gli altri (Robertson, Richard Manuel, Garth Hudson, Rick Danko) erano nati oltre frontiera, nella terra delle alci e dei Mounties, le Giubbe Rosse. Quando suonavano a Toronto «amici e parenti accorrevano in massa per vedere i figli della loro terra suonare ai massimi livelli. C’erano gangster e ladri, sarti, truffatori, cuochi e contorsionisti, biscazzieri e giostrai, di tutto». Anche qui, in Canada, i personaggi da vaudeville pulp che s’affaccendavano e spintonavano nei versi di Bob Dylan e della Band avevano preso sostanza, a dimostrazione che non c’era niente d’inventato. Era tutto vero: ogni canzone un fotocolor, il mondo un circo a tre piste.

Poco più che trentenne, ma sulla strada ormai da quattordici anni, Robertson cominciava a sentire la fatica. Idem Helm e gli altri, tutti ormai più o meno persi dietro le droghe, inclusa l’eroina. Pochi concerti, e poco da incidere. Valeva per la Band come per ogni altra band: il decennio dell’Io e del rock era finito, soffocato dalla vanitas e dalla sfiga, che rovesciano invariabilmente ogni utopia nel suo contrario. Di questa breve, brevissima parentesi, dalla stagione cioè di Elvis e di Ronnie Hawkins all’età del Sgt. Pepper e della cultura delle droghe, Robbie Robertson – che la visse da un capo all’altro, scrivendo «along the road» canzoni memorabili: The Weight, Up on Cripple Creek, The Shape I’m In – è stato un grande testimone, e il suo libro forse la migliore (e comunque un’eccezionale) testimonianza umana e letteraria. Presente all’inizio della festa, quando «il rock’n’roll era violento, dinamico, primitivo e creava dipendenza», fu lui a spegnere i riflettori quando la festa gli sembrò finita (ma restavano le dipendenze, e non c’era più, come disse Dylan, «nessuna cazzo di magia»).

Era tempo di sciogliere la Band e di passare ad altro. Fu un evento, celebrato dal primo grande film rock’n’roll, The Last Waltz, diretto da Martin Scorsese, che all’epoca aveva già diretto film memorabili come Taxi Driver, Mean Streets, New York New York. A celebrare il tramonto della «rivoluzione rock’n’roll» e lo scioglimento della Band c’erano tutti: Neil Young, Joni Mitchell, Ronnie Hawkins, Bob Dylan, Eric Clapton, Van Morrison, Muddy Waters, Ron Wood, Neil Diamond, Ringo Starr.

Robertson, dopo di allora, incise qualche disco da solista, nessuno particolarmente notevole. Scrisse numerose colonne sonore per Wim Wenders e Barry Levinson, per Oliver Stone, ma soprattutto per Scorsese, col quale collaborò per Toro Scatenato, Casinò, The Wolf of Wall Street, Gangs of New York e numerosi altri film, compreso l’ultimo, Killers of the Flower Moon, presentato quest’anno a Cannes e in uscita nei prossimi mesi. The Band tornò in pista nei primi ottanta senza di lui, e senza che ne uscisse niente di paragonabile ai trionfi dei vecchi tempi.

Di Robertson circola su Internet, qui, un bellissimo video che celebra il cinquantenario di The Weight, una delle più belle canzoni mai registrate. Artisti di tutto il mondo, dal Tibet al Texas, dal Congo al Bahrein, dall’Italia al Giappone, dall’Argentina alla Giamaica, la cantano in coro, ciascuno dalla propria location. Vecchio e divertito, Robbie impugna la sua chitarra, come in giovinezza, e il suo sorriso illumina il mondo, che lui chiamava «la scena musicale».

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Tra angeli e demoni: musica e vita del reverendo Gary Davis https://www.carmillaonline.com/2023/08/10/tra-angeli-e-demoni-la-musica-e-la-vita-del-reverendo-gary-davis/ Thu, 10 Aug 2023 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78514 di Sandro Moiso

Ian Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, pp. 325, 22 euro

E’ talmente dura dover essere cieco Sono qui nel buio e procedo a tentoni E nessuno bada a me (Rev. Gary Davis)

E’ stato sicuramene uno dei maestri della chitarra blues, prova ne sia che musicisti del calibro di Bob Weir (Grateful Dead), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane, Hot Tuna), Stefan Grossman (maestro incontrastato del fingerpicking), Dave Van Ronk, Bob Dylan, Happy Traum, e incalcolabili altri [...]]]> di Sandro Moiso

Ian Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, pp. 325, 22 euro

E’ talmente dura dover essere cieco
Sono qui nel buio e procedo a tentoni
E nessuno bada a me
(Rev. Gary Davis)

E’ stato sicuramene uno dei maestri della chitarra blues, prova ne sia che musicisti del calibro di Bob Weir (Grateful Dead), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane, Hot Tuna), Stefan Grossman (maestro incontrastato del fingerpicking), Dave Van Ronk, Bob Dylan, Happy Traum, e incalcolabili altri ancora, si sono dichiarati suoi allievi oppure gli hanno pagato più di un tributo interpretando molte canzoni e numerosi brani del suo repertorio. Eppure il reverendo Gary Davis non è certo in cima alla lista dei bluesmen più conosciuti anche nell’ambito degli appassionati oltre che del grande pubblico.

Ian Zack, giornalista newyorkese che ha scritto per il «Washington Post«», il «New York Times», «Forbes» e «Acoustic Guitar» e che ha lavorato come organizzatore di concerti per uno dei più vecchi locali folk della Grande Mela, il Good Coffeehouse, gli ha dedicato un lavoro che ha richiesto anni di ricerche, interviste e ascolti di registrazioni musicali edite e inedite che ha vinto il premio per l’Historicaal Research in Recorded Blues, Gospel, Soul or R&B.

Say No to the Devil, questo il titolo originale dell’opera ora pubblicata in Italia dalle edizioni ShaKe, ricostruisce il percorso di vita, conclusasi il 5 maggio 1972, e musicale del bluesman originario della contea di Laurens nel South Carolina, dove nacque il 30 aprile del 1896. Un percorso difficile, aspro, segnato dalla cecità fin dall’infanzia nella regione del Piedmont che fu, allo stesso tempo, patria di un ben definito stile di blues e arpeggio della chitarra, il Piedmont Style, e un ambiente dai durissimi caratteri razziali e razzisti. Come ricorda l’autore della biografia:

I neri più anziani della contea di Laurens nel South Carolina ancora ricordano molto bene un vecchio traliccio ferroviario, dal quale penzolava da decenni un tratto di corda marcita. A sentir loro, era stata utilizzata l’ultima volta nel 1913 da una masnada di bianchi che avevano linciato un negro accusato di stupro. Il traliccio e la corda sono ormai solo vaghi frammenti di memoria, ma permangono altri spiacevoli ricordi del durissimo ambiente in cui è cresciuto Gary Davis, in particolare il Museo del Ku Klux Klan con annesso Redneck Shop, ospitati in quello che una volta era un cinema segregato. Tra gli oggettini che si possono acquistare allo “shop” ci sono mantelli con cappuccio, adesivi del Klan e fotocopie dei cartelli segregazionisti “Riservato ai bianchi”1.

Ambiente, però, difficile non solo dal punto di vista razziale, ma anche della sopravvivenza quotidiana, sicuramente determinata dal primo, se è vero che Gary fu uno dei due superstiti degli otto figli partoriti da Evelina Davis, di cui sei morirono prima dell’età adulta. Lei e il marito John erano mezzadri e cercavano di vivere del lavoro su terre possedute da altri mentre Gary, il primogenito, nacque quando la madre aveva diciassette anni.

Se si vuole è un quadro classico quello dipinto da Zack per delineare la prima parte della vita del musicista, che sembra uscito dalle pagine di Caldwell e Faulkner o di altri scrittori, bianche e neri, del Sud degli Stati Uniti. Un quadro in cui la madre, che probabilmente ebbe i figli con uomini diversi, non poteva aver tempo da dedicare alle cure di tutti o anche solo a quello che viene tradizionalmente definito come “amore materno”, in realtà spesso riservato a chi già gode di ben altri “diritti” razziali, economici e sociali. Come se tutto ciò già non bastasse, il padre di Gary, come lo stesso musicista ricordava, era stato ucciso, a colpi di arma da fuoco, quando lui aveva dieci anni, dallo sceriffo di Birmingham in Alabama.

Davis non avrebbe potuto ricevere carte peggiori nella partita della vita e, in seguito, avrebbe attribuito la propria sopravvivenza «alla mano del Signore»: gli era stata tolta la vista, ma aveva ricevuto in cambio qualcosa di molto speciale.

Infatti, già da molto giovane, Davis aveva iniziatoa cantare nella chiesa battista di Gray Court sempre in South Carolina, accompagnato dalla chitarra suonata nello stile fingerpicking che egli contribuì a definire, pizzicando le corde con l’indice e il pollice, canzoni e temi tratti dal blues, gospel, ragtime insieme ad altri provenienti dal repertorio tradizionale oppure di sua invenzione su un tempo in quattro parti.

A metà degli anni 1920, si trasferì a Durham, nella Carolina del Nord, un importante centro della cultura nera dell’epoca. Lì insegnò a Blind Boy Fuller e collaborò con un certo numero di altri artisti della scena blues del Piedmont. In seguito, J. B. Long presentò Davis insieme a Fuller all’American Record Company. Quelle sessioni di registrazione del 1935 segnarono l’inizio della carriera di Davis. Divenuto cristiano e ordinato ministro battista Davis iniziò a preferire la musica gospel al blues, notoriamente ritenuto “la musica del diavolo”.
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Trasferitosi a New York nel 1940, dove si esibiva in qualità di musicista itinerante e di predicatore agli angoli delle strade, avrebbe vissuto anni nella più nera miseria a fianco della moglie Annie, che avrebbe fatto di tutto per tenerlo lontano dal blues, dalle donne e dall’alcol.

Così mentre, nei primi anni Sessanta la scena rinnovata del folk revival avrebbe riportato in auge bluesmen come Missisippi John Hurt, Skip James, Furry Lewis e Son House, che avevano inciso dischi a 78 giri in gommalacca negli anni ’20 e ’30 per poi ripiombare nell’oscurità di lavori quotidiani umili, spesso legati alla terra, colui «che era stato con ogni probabilità il più grande di ttti i chitarristi blues immortalati su disco prima della Seconda guerra mondiale era già fortunato se poteva crogiolarsi alla tenue luce della sua cerchia di ammiratori.»2

Peter, Paul e Mary registrarono la versione di Davis di Samson and Delilah, conosciuta anche come If I Had My Way, una canzone di Blind Willie Johnson, che Davis aveva reso popolare. I diritti d’autore risultanti da quel successo permisero a Davis di comprare una casa, cui Davis si riferiva sempre come alla “casa che Peter, Paul e Mary costruirono”, nella quale visse insieme alla moglie per il resto della sua vita, fino all’infarto che lo stroncò nel maggio del 1972.

Ma nonostante ciò e il fatto che, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, molte altre sue canzoni fossero rese celebri da musicisti e cantanti di largo successo tra i giovani e nei festival folk e blues, la relativa oscurità che circonda la sua figura e il suo ruolo seminale nell’uso della chitarra blues

dipende in larga misura dalle sue scelte di vita. Per quanto sia rimasto fino agli ultimi giorni della sua esistenza uno dei più grandi, se non il più grande, di tutti i chitarristi tradizionali blues e ragtime, in quanto uomo di chiesa si rifiutò cocciutamente per gran parte della carriera di eseguire il blues, ossia suonarlo e cantarlo alla propria maniera su un palco o in sala di registrazione […] In un certo senso Davis rovescia la leggenda di Robert Johnson: non ha venduto l’anima al diavolo, come si vocifera abbia fatto Johnson, per acquisire una sovrumana abilità alle prese con la chitarra blues. Invece Davis ha rinunciato alla musica blues nel fiore degli anni per dedicare la vita a Dio in veste di predicatore. Proprio quando le incisioni blues stavano per spalancargli nuove porte professionali o il portafoglio dei discografici, il suo biglietto di sola andata dalla miseria, Davis rifiutò, e anche più di una volta3.

In realtà questa sua scelta fu ampiamente e spesso contraddetta dallo stile di vita e dalle passioni che lo accompagnarono fino alla fine dei suoi giorni: quella per le giovani ammiratrici e l’alcol. Una battaglia che il Reverendo fu costretto a combattere non solo contro il principe dell’oscurità, ma anche contro i suoi personalissimi demoni.

Passioni che l’ambiente giovanile, alternativo e hippie che spesso lo circondò di attenzioni negli ultimi anni, non fece altro che alimentare. Talvolta con esiti deleteri vista la frequenza con cui Gary Davis finì col salire sul palco ubriaco, incapace o quasi di suonare oppure dedito soltanto ad improvvisare lunghissimi e strampalati sermoni sul peccato e il significato della salvezza davanti ad un pubblico che spesso si annoiava e finiva con l’abbandonare le sue esibizioni.

Una sorta di destino triste, solitario e final che è ben narrato nelle pagine del libro di Zack e che accomuna la vita e l’esperienza del Reverendo a quella di molti altri interpreti afro-americani di blues e soul ciechi. Per i quali, quando non è stato l’alcol, spesso è stata l’eroina a svolgere un ruolo devastante nel corso della carriera.

Per l’obbiettività, l’attenzione e il costante amore per il soggetto trattato, nonostante tutto, che lo contraddistinguono, il testo dedicato da Zack al Reverendo Gary Davis può rivelarsi prezioso, a tratti commovente e sicuramente utile, se non imperdibile, per chiunque ami il blues e la cultura afroamericana del ‘900.

Un unico appunto va fatto al traduttore, forse non troppo esperto dell’argomento, visto che confonde gli Staple Singers, uno dei più influenti gruppi vocali soul e gospel, impegnati sulla scena dei diritti civili degli anni ’60, con un gruppo vocale femminile scambiando il suo fondatore e patriarca Roebuck “Pops” Staples, grande cantante e chitarrista nello stile swamp blues, per una donna. Forse confondendolo con l’unica superstite del gruppo a base famigliare ancora viva e presente sulla scena musicale e discografica odierna: Mavis Staples, figlia di Pops e sorella degli altri membri del gruppo.

Errore veniale per un testo comunque indispensabile in ogni biblioteca musicale attenta al blues e alla sua influenza sulla scena del rock alternativo americano


  1. I. Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, p. 25  

  2. I. Zack, op. cit., p. 16  

  3. Ivi, pp. 17-18  

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Bob Dylan e il mistero della condizione umana https://www.carmillaonline.com/2023/03/14/bob-dylan-e-il-mistero-della-condizione-umana/ Tue, 14 Mar 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76159 di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta [...]]]> di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta né incisa una volta per tutte su una frittella di vinile o su un’impalpabile traccia mp3. Un autore, come fa lo stesso Dylan con i suoi vecchi hit, può decidere di rivisitare le sue composizioni più leggendarie, da “Maggie’s Farm” a “Like a Rolling Stone”, fino a renderle irriconoscibili. Versioni ritenute perfette di canzoni classiche possono essere riverniciate dalle cover, come ha fatto sempre Dylan con gli evergreen di Frank Sinatra (da Young at Heart a On a Little Street in Singapore, in uno dei suoi ultimi album, Fallen Angels, del 2016) e come hanno fatto con i suoi hit innumerevoli musicisti e band. E mica soltanto Ricky Nelson, i Byrds, Jimi Hendrix, Johnny Cash, Elvis Presley, Manfred Mann, The Band e Brian Ferry, ma anche De Gregori, i Nomadi, De Andrè, i Dik Dik, gli Articolo 31 e persino Adriano Pappalardo, Bobby Solo, Don Backy, Ricky Gianco. Dylan riconfigura, con le sue canzoni, l’intera scena musicale, da un punto cardinale all’altro, come poi dirà Robbie Robertson, il leader della Band, il gruppo con il quale Dylan incide nel 1967 i Basement Tapes, 100 incisioni senza eguali, l’equivalente rock’n’roll della Recherche proustiana.

Brada – senza mordacchia né fissa dimora, «no direction home» – la canzonetta è stata la colonna sonora del Novecento, da un capo all’altro. Prima, nella storia universale, non era mai successo niente di paragonabile. Salvo forse Omero, quando cantò la guerra dei dieci anni sotto le mura d’Ilio accompagnandosi con la lira e il tamburello, mai nessuno aveva messo la storia in musica, giorno per giorno, come nel secolo breve.

Oltre che uno di questi menestrelli, autore e interprete di canzoni immortali, Dylan è anche l’archivista di questo immane repertorio musicale, come dimostrano questo libro, il primo dopo Chronicles, del 2005, e la sua passione per le cover (che nel 1970, quando fece uscire Self Portrait, il suo primo album di canzonette per lo più altrui, destò scandalo tra i fan). Filosofia della canzone moderna è il catalogo ragionato degli Zip-A-Dee-Doo-Dah del Novecento. Ogni scheda è un’orecchia nelle pagine delle guerre mondiali, della guerra fredda, dei rari periodi di pace. Mancano le canzoni fuori gara, che non hanno bisogno d’essere richiamate alla memoria, o d’essere spiegate: le canzoni di Dylan, di Lennon-McCartney. Ma per il resto c’è dentro l’essenziale: il pop, il country, il folk, il rock’n’roll. Ogni scheda è un pezzo di bravura: una cover per l’occhio e non per l’orecchio.

C’è Volare di Domenico Modugno, per esempio, «una canzone che s’avvicina, sfreccia, continua per la sua strada procedendo a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere dritta nel Paese delle meraviglie. È singolare e resta sospesa a mezz’aria». Modugno: «Già il suono del suo nome crea la sua propria canzone. […] È una seduzione in lingua italiana che comincia con una piccola, sognante introduzione pianistica seguita dalla voce di Domenico avvolta dall’organo prima che il ben noto inciso del titolo faccia irruzione». Cantare oh oh. / Volare oh oh oh. Se la canti, «passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo ma non sei un imbecille».

C’è Blue Moon nella straordinaria versione di Dean Martin (ma al confronto, la versione di Dylan in Self Portrait non sfigura). Blue Moon: «Il suo fascino sta nel suo mistero. È una melodia che sembra uscita da Debussy. Dal nulla, una forma ti appare davanti. Ti volti, la luna ha cambiato colore, e adesso è d’oro. Quand’è stata l’ultima volta che hai visto una luna dorata? È una canzone che non ha senso, la bellezza sta nella melodia». Cantate da Dino, «le canzoni – anche Blue Moon – iniziano e dopo il ritornello vanno alla deriva, interrotte da barzellette e battute. “A Frank non piacciono quelli che parlano durante gli spettacoli. A me non importa se parlate durante il mio spettacolo. Per quello che mi riguarda potete anche giocare a bowling”. Dino è divertente, tenero, e sbronzo». «Frank», naturalmente, è Frank Sinatra. Di lui «è stato detto», scrive Dylan, «che era un teppista che quando cantava si trasformava in poeta».

Strangers in the Night: «Vagabondi e anticonformisti, oggetti di affetto reciproco, rapiti l’uno dall’altro e stretti in un’alleanza da loro stessi creata, ignari di tutte le età dell’uomo, l’età dell’oro, l’età elettronica, l’età dell’angoscia, l’età del jazz». E «Frank», che la cantò, era «qui per raccontare una storia diversa, il suo piumaggio diverso da quello degli altri uccelli». Un fatto incredibile: «La classifica delle prime cento canzoni, pubblicata il 2 luglio 1966 su “Billboard”, era dominata da quella piccola pop song. Pazzesco: nel bel mezzo dell’invasione britannica, Strangers in the Night dell’uomo venuto da Hoboken batteva Paperback Writer dei Beatles e Paint It Black degli Stones. Frank doveva far vedere a tutti chi era il padrone, anche se Strangers era una canzone che odiava e regolarmente liquidava come “un pezzo di merda”. Del resto, non dimentichiamo che Howlin’ Wolf una volta disse la stessa cosa della sua prima chitarra elettrica e che i fratelli Chess misero quelle parole a caratteri cubitali su una delle copertine dei loro album».

Ci sono le canzoni western, come El Paso e Jesse James, quest’ultima un classico pezzo folk americano inciso cent’anni fa da Harry McClintock (attore e poeta, nonché vicesceriffo a San Francisco e attivista sindacale nei ranghi degli IWW, gl’Industrial Workers of the World). Jesse James è stata rilanciata in tempi recenti da Bruce Springsteen: Jesse James era un ragazzo / che uccise molti uomini. / Rapinò il treno di Glendale./Rubava ai ricchi e dava ai poveri. «Ai tempi in cui Jesse s’aggirava per le campagne», scrive Dylan, «essere un fuorilegge era pericoloso. Voleva dire che qualunque cittadino poteva spararti legalmente, ucciderti a bruciapelo e riscuotere la taglia. Un fuorilegge doveva rendersi irriconoscibile, imparare a nascondersi in pieno giorno perché chiunque poteva sparargli, per strada. In effetti, è quello che accadde a Jesse James». Una storia, quella dei fuorilegge prodighi, che «si è estesa fino agli anni trenta con Pretty Boy Floyd, Bonnie e Clyde, la banda di Ma Barker. In quei giorni, se la tua faccia era esposta in un manifesto che diceva Wanted o in un ufficio postale, chiunque poteva spararti. Bisognava stare molto attenti». Fuorilegge e galeotti popolano anche le canzoni di Dylan: l’album John Wesley Harding, e poi (citandone solo alcune) Hurricane, Romance in Durango, George Jackson e la colonna sonora di Pat Garrett & Billy the Kid, il western di Sam Peckinpah, del 1973, dove Dylan figura anche come attore nella parte di Alias, uno dei bandidos di Fort Sumner.

C’è qualcosa del fuorilegge, qualcosa di borderline in ogni icona rock. Prendete Elvis Presley, che «quando ha inciso Blue Moon of Kentucky ha fatto quello che aveva già fatto con Mystery Train. L’ha truccata come un motore. Ha preso canzoni dal ritmo moderato come Blue Moon of Kentucky, Mystery Train e perfino Good Rockin’ Tonight e le ha ridotte all’osso per poi accelerarle. Che è la ragione per cui è stato chiamato “il cantante a propulsione nucleare”. L’energia nucleare stava venendo di moda ed Elvis navigava sulla cresta dell’onda». C’è qualcosa del fuorilegge, nei rockers e negli eroi americani. E qualcosa, anche, che c’entra con l’ingordigia, l’avidità, con la brama di ricchezze: «Vorrei avere cinque centesimi per ogni canzone che conosco e che parla di denaro, da Sarah Vaughan che canta di penny che cadono dal cielo a Buddy Guy che grida il suo blues per un biglietto da cento dollari. Se ti piace il verde delle banconote, Ray Charles ha una canzone e i New Lost City Ramblers ne hanno un’altra. Berry Gordy ha costruito la Motown sul denaro, i Louvin Brothers volevano contanti sull’unghia e Diddy sapeva che era tutta una questione di centoni. Charlie Rich cantava Easy Money, Eddy Money cantava Million Dollar Girl e Johnny Cash poteva cantare qualunque cosa».

C’è una speciale, impassibile filosofia pratica nelle canzonette, spiega Dylan quando canta e quando scrive o parla di musica pop: «Dischi di musica soul, come lo hillbilly, il blues, il calipso, Cajun, polka, salsa e altre forme di musica indigena, contengono spesso la stessa saggezza che le classi superiori ricevono all’università. La cosiddetta “scuola della strada” è una cosa che esiste davvero e non serve soltanto a imparare a stare alla larga da arraffoni e ciarlatani». Qualcosa s’impara sempre da quel che s’ascolta con lo smartphone o che si canticchia, pensierosi, sotto la doccia: «Mentre i laureati della Ivy League parlano d’amore in una sfilza di quartine soffuse di qualità astratte e attributi impalpabili, la gente – che abiti a Trinidad o ad Atlanta – canta dei vantaggi di avere per moglie una donna poco attraente e delle altre pure e semplici verità della vita».

Schede, appunti, note a margine, riletture (e rifischiettature) tra accademia e poesia, da Perry Como a Jerry Garcia, dai Clash a Ricky Nelson, dai Who ai Platters, da Bobby Darin a Vic Damone, da Bing Crosby a Roy Orbison… ma in Filosofia della canzone moderna (che è il libro d’un Nobel, e si vede) non c’è in ballo una sola Musa, quella della musica. C’è dentro tutto il pop: cinema, fumetti, serie tv, mode, droghe, beat generation, buoni e cattivi maestri. Dylan spazia da Mezzogiorno di fuoco a Mack The Knife dell’Opera da tre soldi, da Nick Mano Fredda a Leigh Brackett, sceneggiatrice del Grande sonno e di Rio Bravo, oltre che grande scrittrice di fantascienza (La danzatrice di Ganimede, La spada di Rhiannon). Tutto si tiene, tutto s’intreccia, e il mistero è che, da quest’amalgama riccamente illustrato di pulp, film e canzonette, non salta fuori una pagina chic della cultura ma una mappa fedele – zero bellurie, nessuna caramellosità – della condizione umana.

N. B.
Qui una recensione di opposto parere sul testo di Dylan, apparsa su Carmillaonline il 1°gennaio 2023, a cura di Walter Catalano,

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Il giorno in cui Bob Dylan impugnò la chitarra elettrica https://www.carmillaonline.com/2023/03/04/il-giorno-in-cui-bob-dylan-impugno-la-chitarra-elettrica/ Sat, 04 Mar 2023 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76153 di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, [...]]]> di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, Milano 2022, pp. 370, 18,90 euro, eBook 11,99 euro.

Dylan a Newport con un nuovo look e una chitarra elettrica: incoronato re del folk, Dylan mette in chiaro che il suo sogno è diventare re del rock’n’roll. Nasce un tumulto.
È un evento originario, tramandato attraverso i decenni dai «boomers» che furono adolescenti negli anni sessanta, l’età dei diritti civili e del flower power. E come tutti gli eventi originari è falso, o parecchio esagerato, come illustra e racconta Elijah Wald nel suo Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, una splendida e appassionante visita guidata all’ouverture dei sixties.

È il 25 luglio del 1965. Newport, Rhode Island. È qui che dal 1959, ogni estate, si tiene il Newport Folk Festival, dedicato a canti etnici, antiche ballate importate dall’Europa in tempi remoti, blues tradizionale, gospel, canzoni socialiste e proletarie, qualche timido excursus nel «folk pop», come lo chiamano, cioè nel folk commerciale, che ha cominciato a scalare l’hit parade: Tom Dooley del Kingston Trio, If I Had a Hammer e Where Have All the Flowers Gone di Peter, Paul and Mary.

Sono canzoni impegnate, legate al movimento antisegregazionista e alla sinistra americana. Pete Seeger, il creatore del festival, ha scritto gli hit di Peter, Paul and Mary e nei primi cinquanta ha importato dall’Africa The Lion Sleeps Tonight, o Wimoweh, una canzone che lo ha reso ricco (mentre Solomon Linda, l’autore della canzone, un musicista zulu, muore nel 1962 in miseria, e ci vuole una sentenza di tribunale per risarcire gli eredi). Seeger è stato anche membro del partito comunista ed è finito in lista nera. Veste dimesso, e se la tira da santa canaglia, ma ha «studiato a Harvard» e, come gli ricorda sua moglie: «Non sei un operaio, fai solo finta, e lo vedono tutti». Lui non se ne dà per inteso: pugno chiuso, camicia a scacchi e canzonette engagé. Due anni prima, nel 1963, a nome del Newport Folk Festival ha incoronato fenomeno del folk il giovanissimo Bob Dylan. Questi è salito sul palco in look (anche lui) da classe operaia imbracciando una chitarra acustica, l’armonica fissata al collo da un supporto subito entrato nella leggenda, e ha intonato canzoni che non saranno più dimenticate: Blowin’ in the Wind, A Hard Rain’s a-Gonna Fall, Don’t Think Twice, It’s All Right, Masters of War.

Ma ecco che due anni dopo Dylan si presenta a Newport in costume rockettaro stretto: «giacca di pelle lucida sotto i fari del palco, una camicia color salmone abbottonata fino al collo, jeans neri e stretti che gli fasciano le gambe sopra gli stivali a punta da cowboy, neri anch’essi». Imbraccia una chitarra «Stratocaster sunburst a due colori». Una chitarra elettrica. Sul palco, con lui, una band improvvisata di bluesmen di Chicago: chitarristi sparsi, qualche amico, Paul Butterfield e alcuni musicisti della sua Blues Band (che ha esordito, qualche mese prima, con Born in Chicago, una canzone che comincia così: «Sono nato a Chicago nel 1941 / Mio padre mi ha detto: “Figliolo, ti conviene prendere una pistola”»). Intorno, amplificatori, cavi elettrici, riflettori. Diranno poi che, venuto per ascoltare Bob Dylan cantare che «una dura, dura pioggia cadrà», e quel giorno è effettivamente piovuto per ore, il pubblico del Newport Folk Festival, bagnato fradicio, i piedi nel fango, s’è ritrovato davanti uno sconosciuto. Sguardo cattivo, modi strafottenti, chiaramente «stoned» di chissà che, una mise da damerino di Carnaby Street.

E via con l’evento originario: «Le luci sono puntate su di lui, solo al centro del palco, mentre i musicisti alle sue spalle iniziano a suonare avvolti dal buio. Ascolta per un momento, sente la forza della band, quindi s’avvicina al microfono e canta un singolo verso: “Alla fattoria di Maggie non ci lavoro più!” Fa un passo indietro, lascia che il grande chitarrista Mike Bloomfield risponda con un fraseggio di chitarra, si lascia trasportare dal ritmo ancora per un momento, poi torna al microfono e ripete la frase. Bloomfield risponde di nuovo, e ancora una volta lui ascolta per un istante prima d’irrompere con la prima strofa: «Mi sveglio la mattina, giungo le mani e prego perché piova / Le idee che mi frullano per la testa mi fanno impazzire». Yarrow sta accovacciato dietro ai musicisti, sistema i cavi apportando piccole regolazioni agli amplificatori. Bloomfield è alla destra di Dylan, avvolto dal buio e illuminato solo momentaneamente dal flash dei fotografi. La voce di Dylan si alterna ai fill secchi e ruvidi del chitarrista. Tra una strofa e l’altra, Bloomfield suona liberamente, senza attenersi a parti scritte in precedenza. Dalla sua chitarra escono urla stridenti, bassi tonanti e grappoli di note dissonanti, che si chetano ogni volta nel riff ripetitivo che annuncia il successivo ingresso di Dylan. Il suo non è un semplice accompagnamento: duella con Dylan, sfidandolo e incoraggiandolo a proseguire. Il cantante ulula l’ultimo verso: “Faccio del mio meglio per essere me stesso / ma tutti vogliono che sia come loro”».

È una metamorfosi, pensano i dylaniani della prima ora: il profeta beatnik di The Times They Are A-Changin’ ha saltato il fosso. Si è venduto, è passato al pop. Esultano invece i nuovi dylaniani: basta con le lagne sdolcinate del folk, basta con le canzoni sociali, finalmente l’introspezione, evviva Rimbaud, sex revolution, marijuana!

Non è vero, come racconta Elijah Wald nel suo libro, ma si racconta (e si racconterà ancora a lungo) che Pete Seeger, urlando «basta con questo rumore», si sia avventato sui cavi degli amplificatori mulinando un’ascia, come uno di quei boscaioli del Vermont che invita al festival insieme ai suonatori di banjo, di ukulele, di kazoo e a tutti quegli artisti che suonano «la vera musica del proletariato». Anche lui, nelle sue memorie, lascerà credere d’aver trasceso: nessuno rinuncia al suo cammeo, per quanto sgradevole, nella storia del mondo. Ma anche se non ci sono state scene madri, e Seeger si è limitato a soffrire in silenzio, qualcosa è successo davvero. Aveva ragione il vecchio Dylan: i tempi stanno davvero cambiando.

Dai diritti civili si sta passando ai diritti umani; dalle cause sociali a quelle del singolo, dell’individuo. È il grande ritorno del rock’n’roll, la cui stella era tramontata con l’eclisse di Elvis Presley, trasformato in star hollywoodiana e crooner di Las Vegas (ma anche nel saltafosso da Be-Bop-A- Lula e Mistery Train a Love Me Tender e Viva Las Vegas Presley rimane Presley, un principe). John Lennon e Paul McCartney stanno cambiando la vita della gioventù europea e americana con le loro melodie perfette e l’eleganza dada del loro look. Altrettanto innovativi, ma decisamente meno iconici, sono i CCR, per esteso Creedence Clearwater Revival, una band californiana che fonde il country con il blues e il rock’n’roll. Comincia l’età del rock duro e adrenalinico, poi psichedelico, presto anche del punk, dei Velvet Underground, del rock en travesti di David Bowie. Dylan è uno di loro, e il più bravo di tutti. Come canta in un altro dei suoi nuovi hit, Subterranean Homesick Blues, lui non «ha bisogno d’un meteorologo per sapere da che parte tira il vento».

Perché è di questo, ribadiamolo, che si tratta: dei tempi che cambiano. Non sono i Beatles o gli Stones né Dylan a cambiare il mondo, come qualcuno dirà in seguito, ma le loro canzoni sono l’inconfondibile colonna sonora del cambiamento, un’apocalisse dei costumi che coglie tutti di sorpresa, Dylan compreso. Ma il ragazzo è sveglio e si lascia portare dall’onda. A Newport, nel 1965, si volta pagina, nel bene e nel male. Non solo Dylan, ma almeno metà dei musicisti presenti sono passati, da un pezzo, alle chitarre elettriche.

«Non fu piacevole», racconta Wald, «ma fu di gran lunga meglio delle scontate declamazioni dei progressisti da manuale». A Newport, tutti erano abituati a essere accolti e coccolati, a sentirsi circondati da menti affini. «L’unico a mettere in dubbio la nostra posizione è stato Dylan. Forse non l’ha fatto nel migliore dei modi. Forse è stato maleducato. Ma ci ha dato una scossa. Questo è il ruolo dei poeti e degli artisti».

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Dylaniati da Zimmerman, filosofo canzonettaro https://www.carmillaonline.com/2023/01/01/dylaniati-da-zimmerman-filosofo-canzonettaro/ Sat, 31 Dec 2022 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75112 di Walter Catalano

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, pp. 340, euro 39,00 stampa.

Diciamocelo francamente, se non portasse la firma di Bob Dylan un libro, piuttosto brutto e piuttosto inutile, come questo chi se lo leggerebbe ? Quasi nessuno, credo, e magari solo perchè illuso da un titolo, Filosofia della canzone moderna, che ben poco ha a che vedere con il contenuto effettivo. Niente filosofia infatti – se con questo termine intendiamo una teoria coerente e sistematica – ma piuttosto un flusso incontrollato di elucubrazioni [...]]]> di Walter Catalano

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, pp. 340, euro 39,00 stampa.

Diciamocelo francamente, se non portasse la firma di Bob Dylan un libro, piuttosto brutto e piuttosto inutile, come questo chi se lo leggerebbe ? Quasi nessuno, credo, e magari solo perchè illuso da un titolo, Filosofia della canzone moderna, che ben poco ha a che vedere con il contenuto effettivo. Niente filosofia infatti – se con questo termine intendiamo una teoria coerente e sistematica – ma piuttosto un flusso incontrollato di elucubrazioni a ruota libera, spesso di una banalità sconcertante, e neanche troppa canzone moderna, visto che il pezzo più recente di cui si parla è London Calling dei Clash (1979) e che la grande maggioranza dei brani selezionati risale a un periodo compreso fra gli anni ’20 e i ’60: canzone moderna sì, ma per un ottantenne !

Dylan ha semplicemente elencato a casaccio, senza il minimo ordine o criterio – cronologico, tematico, musicologico – che sia, una serie di canzoni gradite affiancandole ad immagini e fotografie anche queste, a parte una comune estetica retrò, generalmente appiccicate con assoluta arbitrarietà. Ad ognuna è accoppiata (ma non proprio sempre, dipende evidentemente dagli scartafacci che nonno Bob aveva per le mani…) una prima parte che, chissà, vorrebbe essere “lirica“ e una seconda che, di nuovo chissà, vorrebbe essere “critica”. Se la seconda potrebbe avere talvolta – raramente in verità – qualche vago spunto di interesse, la prima è solo un conato simil-stream of consciousness di immagini e storielline stereotipate in stile beatnik e, come quasi tutto quanto abbia mai prodotto il bluff letterario della Beat Generation, praticamente illeggibili. Forse se affrontate in originale inglese queste pagine potrebbero – ci auguriamo – anche avere almeno il fascino dello slang bizzarro, del calembour linguistico, dell’idiom inaspettato, ma tradotte in un italiano discutibile fanno un effetto davvero ridicolo e deprimente. Qualche esempio: “E perché quella capretta non se ne va una buona volta ? La vuoi straziare e mutilare, la vuoi vedere in agonia, anzi vuoi pompare l’intera faccenda finchè sarà così gonfia che ci potrai passare le mani dappertutto e strizzarla finchè non collassa” (su Pump It Up di Elvis Costello); “Non si muovono e non parlano, ma sono vibranti di vita e contengono il potere infinito del sole. E mi vanno bene come il giorno che le ho trovate. Forse ne avete sentito parlare, delle scarpe di camoscio blu. Sono blu, blu reale. Non blu deprimente; sono blu assassino, come quando la luna è blu, sono un tesoro. Non cercate di soffocare il loro spirito, comportatevi come un santo, cercate di starne più lontani che potete” (su Blue Suede Shoes  di Carl Perkins); “Giochi a campana a ritmo di boogie, il boogie della rumba, il boogie tacco e punta, all’assalto del mistero del sole, tutti a fare il boogie. Mamme e papà, anzianotti e vecchie glorie, Schulberg, Gaugin, Picasso e Little Miss Muffet, tutti fanno il boogie, ma nessuno lo fa come voi due” (su Feel so Good di Sonny Burgess); “Questa canzone scioglie tutto, lo brunisce e lo frigge ben bene; mungerà la mucca fino a farle dare sangue. E’ uno spirito guida e sarà la tua interprete in terre straniere”. (su Keep My Skillet Good and Greasy di Uncle Dave Macon); “E’ lei l’antica rana che vede col naso e annusa con la lingua; sa benissimo cosa ti fa infuriare e ti chiama testa di cazzo, segaiolo o tappetto. Quella vecchiaccia maledetta ha uno spirito volubile, ha bandito dalla tua vita tutto ciò che è sacro e puro, ti fa regredire a uno stadio infantile. E’una peperina sexy dal gusto sgradevole, una pazza furiosa, e ti ha fatto prigioniero dei tuoi demoni interiori” (su Witchy Woman degli Eagles); e via di questo passo. Per quanto può tirare avanti senza annoiarsi, con tutta la buona volontà, il povero lettore ? E cos’avrà in cambio alla fine ? Ha imparato qualcosa, si è emozionato, si è divertito ? La risposta è assai dubbia.

Destano almeno curiosità anche i gusti musicali dylaniani che hanno determinato le inclusioni: si va da Volare di Domenico Modugno, a Strangers in the Night di Frank Sinatra; da Black Magic Woman dei Santana (in realtà del grande Peter Green), a My Generation degli Who; da Mack the Knife di Bobby Darin (versione americana di Mecky Messer dall’Opera da tre soldi di Brecht/Weill), a Tutti Frutti di Little Richard. Prevalgono comunque pezzi di Country e Bluegrass o di mainstream melodico in genere del tutto sconosciuti al pubblico italiano e per questo non particolarmente coinvolgenti.

Famose o ignote che siano le canzoni, comunque, il premio Nobel per la letteratura ha ben poco da raccontare su di loro. Poco di interessante almeno. Massimo rispetto per il Dylan compositore, per il Dylan paroliere (poeta se vogliamo, ma sempre con la musica sotto…), bisogna però con altrettanta sincerità avere il coraggio di dichiarare che il Dylan scrittore vale poco e che un libro come questa pretesa “Filosofia della canzone moderna” non era affatto necessario.

 

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