Biden – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 06 Dec 2025 21:23:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa https://www.carmillaonline.com/2024/04/15/il-nuovo-disordine-mondiale-25-fratture-della-guerra-estesa/ Mon, 15 Apr 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81870 di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e [...]]]> di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa .
«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes e Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.

Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per la LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.

Il titolo della rivista rinvia al Grande Continente, intendendo con questa definizione l’Europa nella sua possibile concezione francese (sottintendente per questo una grandeur che viene estesa all’intera politica continentale), sia nelle sue scelte economiche che politiche e strategico-militari.
Il contenuto, in questo numero, è ancora incentrato sulla guerra in Ucraina, essendo uscito, in Italia, proprio nel mese di ottobre 2024, a ridosso dell’azione militare di Hamas e delle sue conseguenze politiche, militari e umanitarie. Ma pur mantenendo il baricentro sulla frontiera orientale d’Europa, allarga comunque lo sguardo al rapporto tra guerra, tecnica, tecnologia e tecnocrazia (si vedano gli articoli da pagina 69 alla 113) e alla dottrina della “guerra ecologica” con gli articoli compresi tra pagina 117 e pagina 154.

Un panorama della guerra che viene oppure, a seconda dei punti di vista, che è già in atto che pone comunque al centro, fin dall’introduzione di Gilles Gressani e Mathéo Malik, il progressivo spostamento della centralità politica, militare ed economica dall’Occidente, e in particolare dall’Europa, ad altre aree, non solo geografiche.

Tra la pandemia e l’esplosione delle rivalità geopolitiche, un ordine è crollato; dal lento muoversi delle placche tettoniche, un nuovo mondo emerge, senza che si possa ancora definire la sua forma. Interregno: intervallo di tempo fra la morte, l’abdicazione, la deposizione di un re, o altro sovrano, e l’elezione o la proclamazione del successore. Periodo di vacanza, di passaggio, di transizione, di crisi. Interruzione di durata variabile. Tendenze di un mondo in profonda ristrutturazione, che però non siamo in grado di descrivere, trasformare o fermare1.

E’ una considerazione concisa e importante allo stesso tempo, quella appena citata. Una considerazione che riguarda l’ordine imperiale e geopolitico del mondo, in sempre più rapida trasformazione. Una considerazione in cui l’unico elemento assente è quello della lotta di classe che, comunque, tarda ancora a manifestarsi nelle forme e modalità ritenute canoniche. Motivo per cui, esattamente come per l’ordine geopolitico e imperiale messo in crisi, anche tanta Sinistra, sia istituzionale che (pretesa) radicale o antagonista, si è trovata impreparata, sorpresa e confusa una volta messa di fronte alla guerra. Fino al punto di schierarsi apertamente, e senza alcuna capacità previsionale, con uno dei fronti in lotta.

Ecco allora che la rivista qui recensita, che pure tifa per una delle parti già coinvolte nella lotta “dinastica”, in corso su scala planetaria da tempo, ma esplosa davanti a tutti a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, ovvero per l’Europa così come fino ad ora ha voluto fingere di rappresentarsi, può costituire un utile punto di riferimento per una riflessione che voglia escludere qualsiasi complottismo o interpretazione ideologizzata a proposito del nuovo disordine mondiale.

Nuovo disordine mondiale in cui tutti gli attori statali, economici e militari, pur fingendo grande unità di intenti con i presunti vicini e alleati, giocano in realtà per se stessi. In una partita il cui disordine aumenta man mano che tutte le regole precedentemente stabilite dal Risiko occidentale vengono abbandonate, tradite o ridefinite da ogni giocatore senza accordo alcuno con tutti gli altri players. Si tratti di Unione Europea, di NATO o di Brics (solo per sintetizzare in poche sigle), nessuno sembra davvero affidarsi totalmente agli alleati. In particolare nei confronti di quelli occidentali ed europei. Come si sottolinea ancora nell’introduzione:

Nella guerra che oppone la Russia all’Ucraina, i tre quarti della popolazione mondiale scelgono di non scegliere. Il non allineamento resta una leva potente per difendere i propri interessi. Dall’India di Modi al Brasile di Lula, passando per l’Indonesia di Jokowi o per le potenze del Golfo, delle nuove potenze geopolitiche formulano nuove priorità. Hanno dei mezzi, delle ambizioni a volte immense. Sfrutteranno tutte le estensioni della guerra per guadagnare il riconoscimento dei loro interessi. Utilizzeranno anche dei “modelli di crescita elaborati nel secolo scorso, in particolare la politica industriale e il capitalismo politico”. Bisogna studiarli da vicino per capire la loro forza di attrazione sul resto del mondo, ai danni di un continente ancora una volta traumatizzato, finalmente – e definitivamente? – provincializzato2.

E tutto ciò, che non può far altro che acuire il disordine e farlo precipitare in una guerra “grande” che già non si sa più se sia la Terza o la Quarta guerra mondiale e che più che essere la manifestazione di un “piano” o di più “piani” organizzati, è invece quella di una confusione generale di intenti e obbiettivi che non coincidono affatto, ma che confliggono tra di loro, anche all’interno dei maggiori paesi coinvolti.

Si badi, per esempio, alle esternazioni di Macron sulla volontà di inviare truppe in Ucraina: è forse un tentativo di compattare la Nazione in vista di un nuovo ruolo geopolitico della Francia oppure quello di mostrare che la grandeur della stessa (vecchio sogno di De Gaulle) potrebbe sostituirsi alla presenza americana, soprattutto dal punto di vista militare in Europa, dopo le dichiarazioni di disimpegno del tutt’altro che pacifista Trump in caso di vittoria di quest’ultimo alle prossime elezioni presidenziali?

Oppure è una sfida al Regno Unito e alla Germania sul piano militare e politico per chi davvero, in Europa, dovrà portare i pantaloni “mimetici” in casa? E tutte queste possibili considerazioni come possono condurre ad un reale impegno militare comune europeo e ad una centralizzazione del comando della forze armate dei paesi della UE?

Senza contare l’eterna conflittualità con l’italietta dei piani Mattei e dei sotterfugi per rimanere nell’Africa Sub-sahariana a discapito della presenza politica e militare francese nella stessa area. Oggi resa ancor più critica dopo la vittoria elettorale in Senegal di una fazione politica a lungo perseguitata da un Presidente particolarmente fedele all’Occidente e alla Francia.

Ridurre il tutto al conflitto per il petrolio sarebbe enormemente fuorviante. Certo il conflitto per l’oro nero insanguina il pianeta fin dalla prima guerra mondiale ed è giunto, oggi, fin davanti alle spiagge di Gaza, ma sottolineare un unico movente per il disordine che attanaglia il pianeta, nelle sue forme più sanguinarie e distruttive, è davvero troppo riduttivo e fuorviante. Tenendo anche conto del fatto che, come si segnala ancora nella stessa introduzione: «L’importazione di chip da parte della Cina – 260 miliardi di dollari nel 2017, anno dei primi passi di Xi a Davos – è stata di gran lunga superiore alle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita o all’export di automobili della Germania. Le somme che la Cina spende ogni anno per l’acquisto di chip sono superiori a quelle dell’intero commercio globale di aerei. Nessun prodotto è più importante dei semiconduttori nel commercio mondiale»3.

Pertanto, ancora solo a titolo d’esempio, la questione Taiwan va ben al di là del semplice interesse “nazionalistico” poiché, come ormai tutti dovrebbero sapere, l’isola rivendicata dalla Cina è il primo produttore mondiale di circuiti integrati. Settore, quest’ultimo, rispetto cui Pechino sta cercando di raggiungere una posizione di autonomia sia attraverso il controllo delle cosiddette “terre rare” necessarie per la produzione degli stessi, e del settore informatico ed elettronico più in generale, sia attraverso ciò che Xi definì proprio nel 2017 come l’”assalto ai valichi” ovvero al monopolio o ai monopoli della produzione dei semiconduttori, particolarmente importanti ormai anche dal punto di vista militare in un contesto in cui la Cina cerca da anni, in parte riuscendoci, di superare le forze armate americane sul piano dell’ammodernamento e nell’utilizzo dell’AI.

Se l’unico obiettivo della Cina fosse quello di giocare un ruolo maggiore in questo ecosistema (il settore dei semiconduttori – NdR), le sue ambizioni avrebbero potuto essere soddisfatte. Ma Pechino non sta cercando una posizione migliore in un sistema dominato da Washington e dai suoi alleati. L’invito di Xi a “prendere d’assalto le fortificazioni” non è una richiesta di una quota di mercato leggermente più alta. L’ambizione è diversa: si tratta di ricreare interamente l’industria globale dei semiconduttori, non di integrarsi al suo interno […] E’ una visone economica rivoluzionaria, con il potenziale di trasformare profondamente l’economia globale e i suoi flussi commerciali […] E non sono solo i profitti della Silicon Valley a essere minacciati: se lo sforzo cinese verso l’autosufficienza nei semiconduttori avrà successo, i suoi vicini, le cui economie dipendono per lo più dalle esportazioni, ne risentiranno ancora di più […] La posta in gioco è il più fitto insieme di catene di approvvigionamento e flussi commerciali del mondo, le filiere dell’elettronica che hanno sostenuto la crescita economica e la stabilità politica dell’Asia nell’ultimo mezzo secolo […] Nemmeno un populista come Trump avrebbe potuto immaginare una revisone più radicale dell’economia globale4.

Ma, ancora una volta, questo è solo uno degli elementi di confronto e conflitto, sospeso tra l’economico e il militare, che agitano le acque, non solo del Mar Rosso o del Golfo Persico. Motivo per cui, anche se per le ragioni precedentemente esposte, «Grand Continent» non poteva ancora parlarne, un ultimo sguardo, e forse anche qualcosa di più, va concesso a quanto sta capitando a Gaza e dintorni. A partire dall’ambigua posizione statunitense nei confronti di Isarele e del conflitto e ai massacri condotti nella striscia. Posizione che, con l’astensione (e non il veto) sulla mozione approvata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 25 marzo, più che dimostrare una ben organizzata strategia statunitense del Medio Oriente dimostra invece come il percorso ambiguo e altalenante sia dovuto più a indecisioni e debolezze, sia nei confronti di un elettorato interno stanco di Biden che di un mastino come Netanyahu che, nel suo disperato attaccamento al potere, morde la mano del suo attuale “padrone” sperando nell’arrivo, a novembre, di un altro meglio disposto (per ora soltanto a parole), più che a un ben mirato piano di controllo delle contraddizioni dell’area.

In un contesto in cui, sia con un presidente democratico che repubblicano, gli Stati Uniti dovranno tenere sempre più conto delle tendenze centrifughe degli alleati arabi e, allo stesso tempo, della sempre più forte presenza economica e diplomatica cinese nell’area del Golfo. Con un progressivo allontanamento da Israele come unico garante degli interessi americani nell’area medesima.

In fin dei conti la confusione israeliana nell’azione a Gaza è lo specchio della confusione americana e occidentale in genere. Confusione che, attualmente, è in grado di garantire soltanto il diffondersi di un paesaggio di rovine da Gaza City a Kiev e Belgorod senza altra prospettiva del protrarsi e l’inasprirsi di una guerra che, in assenza di una diversa azione delle classi meno abbienti contro la stessa, seguirà il suo corso fino all’estensione di un panorama di rovine su scala planetaria e da cui uscirà, forse, un nuovo sovrano.

In questo senso le riflessioni e i contributi contenuti nella rivista in questione possono essere di stimolo anche per un lavoro politico che non sia soltanto di passiva accettazione dell’esistente o, al contrario, di interpretazione inutilmente e dannosamente ideologica degli avvenimenti e dei cambiamenti politici, militari ed economici attualmente in corso.


  1. G. Gressani e M. Malik, Introduzione a «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, p. 8.  

  2. G. Gressani, M. Malik, op. cit., p. 11.  

  3. G.Gressani e M. Malik, op. cit., p.12.  

  4. C. Miller, Da Taiwan al metaverso: infrastrutture dell’iperguerra in «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, op. cit., pp.94-95.  

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Storie da una terra imbevuta di sangue e tradimenti https://www.carmillaonline.com/2023/04/20/storie-da-una-terra-imbevuta-di-sangue-e-tradimenti/ Thu, 20 Apr 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76882 di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi [...]]]> di Sandro Moiso

Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro

E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi luoghi.

Jósef Marian Franciszek Hutten-Czapski (1896- 1993), polacco e fervente cattolico, è stato un artista, scrittore e critico. Ma è stato anche ufficiale dell’esercito polacco proprio nel momento dell’invasione della Polonia nel 1939, sia da parte dell’esercito tedesco (1° settembre) che dell’esercito sovietico (17 settembre dello stesso anno), poco meno di un mese dopo la firma del trattato di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, meglio noto come Patto Molotov-Ribbentrop, avvenuta il 23 agosto di quell’anno, che in un «protocollo segreto» aveva stabilito la spartizione della Polonia .

I fatti narrati nel libro iniziano al momento della liberazione di Czapski, all’inizio del settembre 1941, dal campo di prigionia di Grjazovec, dove era stato internato come prigioniero di guerra dei russi dopo esser passato per quello di Starobel’sk nell’autunno del 1939. La novità era costituita dal fatto che, dopo l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941, il 14 agosto era stato firmato un accordo tra Stalin e Sikorski1 per la costituzione, sul territorio dell’URSS, di un’armata polacca composta da soldati in precedenza fatti prigionieri dai sovietici e deportati.

E’ proprio nel corso del servizio prestato in tal senso che l’autore delle memorie pubblicate da Adelphi giunge a conoscenza del massacro, perpetrato ai danni degli ufficiali dell’esercito polacco, a Katyn sullo stesso suolo della Polonia ad opera della Ceka e dei reparti dell’Armata rossa. Sono gli ufficiali che nel conteggio, in previsione della ricostituita armata polacco, mancano. Esclusi “ragionevolmente” (ma può essere ragionevole un conteggio del genere?) coloro che potevano essere morti di stenti durante la prigionia o per le ferite riportate in battaglia e malamente curate nei campi di detenzione sovietici, gli assenti risultavano infatti essere ancora troppi.

Come scriverà lo stesso Czapski in un articolo comparso in Francia nel 1948:

Ecco i fatti e le date che hanno fatto da sfondo al crimine: dal momento in cui invasero il territorio polacco nel diciottesimo giorno della nostra lotta contro l’aggressore nazista2, le truppe sovietiche fecero prigionieri circa duecentomila soldati, successivamente smistati in centinaia di campi sparsi su tutto il territorio sovietico.
Quasi tutti gli ufficiali e qualche migliaio di soldati catturati armi in pugno nel settembre del 1939 passarono, fra l’ottobre del 1939 e il maggio del 1940, da tre campi ricavati da monasteri abbandonati, a Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaškov.
Il 5 aprile del 1940, nelle tre località suddette si trovavano 15.000, fra cui 8700 ufficiali. Di questi, solo 448 fra ufficiali e soldati sono sopravvissuti. Dopo l’evacuazione dei campi erano stati trasferiti a Grjazovec e nelle prigioni di Mosca, da dove furono successivamente rilasciati dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica e la stipula dell’accordo tra Stalin e Sikorski.
Il resto, un numero compreso fra i 14.500 e i 15.000 uomini, è scomparso.
[…] Le notizie già rare che costoro riuscivano a inviare in patria alle famiglie avevano smesso del tutto di arrivare verso la fine di marzo del 1940. Da allora nessuno dei prigionieri dispersi aveva più dato segni di vita.
Dopo che, nel 1941, furono ripristinati i rapporti diplomatici russo-polacchi, le nostre autorità intrapresero numerosi tentativi volti almeno a rintracciare i dispersi. In quanto ex prigioniero di Starobel’sk dall’ottobre del 1939, liberato poi dal campo d’internamento di Grjazovec nell’estate del 1941, nell’ottobre di quell’anno fui posto a capo dell’Ufficio ricerche scomparsi3.

A complicare le cose, dopo che Czapski aveva dovuto abbandonare le ricerche perché trasferito ad altro incarico e sede nel 1942, fu il fatto che a rivelare la scoperta delle fosse di Katyn’, in cui i cadaveri degli scomparsi erano stati sepolti e nascosti, fossero proprio gli “avversari” tedeschi che nell’aprile del 1943, via radio, annunciarono al mondo la macabra scoperta. Come sottolinea, ancora nello stesso articolo, l’autore:

Così la propaganda tedesca fu la prima a dare informazioni sull’eccidio di Katyn’. La notizia trasmessa da Goebbels4 mi raggiunse direttamente via radio in Iraq, dove mi trovavo insieme all’armata polacca che si preparava all’offensiva sul territorio italiano. La notizia non era che la conferma di ciò che a me era chiaro già da un anno, in seguito ai miei sforzi di ritrovare i compagni scomparsi5.

La diatriba sull’effettiva responsabilità del massacro andò avanti fino alla fine della guerra e ancora oltre, con tedeschi e sovietici che sembravano rimpallarsi la colpa del massacro, ma quello che più colpisce, ancora a distanza di decenni, è il fatto che le stesse nazioni che utilizzavano la ricostituita armata polacca fuori dai confini orientali d’Europa, dove avrebbe potuto costituire motivo di intralcio alle mire espansionistiche di Stalin, poi definite nelle conferenze di Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) e di Jalta (4-11 febbraio 1945), invitassero i polacchi ad astenersi dal commentare il fatto, anche se il governo inglese «sapeva da tempo chi era responsabile dell’eccidio, perché sin da subito gli erano stati trasmessi tutti i documenti riguardanti la vicenda»6. Motivo per cui Czapski si vedeva costretto a ricordare come:

Seguendo le raccomandazioni della propaganda di guerra, tutta la stampa inglese, salvo rare eccezioni, troppo a lungo ha taciuto sulle fosse di Katyn’. Non si poteva certo imputare un simile crimine ai russi, allora considerati l’incarnazione della democrazia e della giustizia.[…] «Non risusciterete le vittime parlandone» avrebbe detto a uno dei nostri rappresentanti un eminente politico inglese. Pareva si dovesse stendere un velo sull’intera faccenda. La stampa inglese dava perfino motivo ai suoi lettori di trarre false conclusioni, presentando i polacchi come gente che metteva in giro notizie assurde7.

Come ha scritto recentemente, in un suo libro sulla guerra, Edgar Morin:

Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico8.

E di Katyn’, si potrebbe certamente aggiungere.
Senza contare che, al momento della chiusura della prima edizione del libro di Czapski, le vittime certe di Katyn’ parevano essere non meno di 4143. Di queste era stato possibile identificarne 2919, ovvero «l’ottanta per cento dei nomi che figuravano nella prima lista di 3845 ufficiali scomparsi che era stata presentata da Sikorski a Stalin e in quelle supplementari redatte in seguito»9. Di modo che l’autore, dopo aver rilevato che le salme erano soltanto quelle degli ufficiali scomparsi dal campo di Kozel’sk, era costretto ancora a domandarsi:

Se le vittime di Katyn’ sono i prigionieri di guerra di Kozel’sk, è inevitabile chiedersi che fine abbiano fatto i prigionieri dei campi di Starobel’sk e di Ostaškov. Nessuno di loro è stato ritrovato a Katyn’, ma nessuno di loro ha neppure mai dato alcun segno di vita. […] La sorte dei prigionieri di Starobel’sk e di Ostaškov è ancora ignota, e le fosse di Katyn’ non chiariscono il mistero della loro sparizione. Le autorità sovietiche non ce li hanno mai riconsegnati e non ci hanno mai fornito alcuna informazione sulla loro sorte10.

Forse non avrebbe mai potuto immaginare che le vittime totali di quel massacro, come appurato dalle indagini degli anni seguenti, ma già basate sulle analisi della commissione internazionale che aveva operato a Katyn’ in precedenza, ammontassero a 22mila. Solo alcuni decenni più tardi, infatti, furono scoperti a Kharkov e a Mednoe i luoghi dove erano stati uccisi e sepolti i prigionieri di Starobel’sk e Ostaškov, a cui dovevano essere aggiunti altri 7300 polacchi uccisi nelle prigioni ucraine e bielorusse11.

Dopo la decapitazione dell’esercito polacco e la distribuzione dei reparti della rinnovata armata su più fronti ad opera degli “alleati”, il successivo il fallimento dell’insurrezione del ghetto ebraico di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), cui le forze nazionaliste polacche non diedero il minimo sostegno militare12, e dell’insurrezione di Varsavia (1° agosto – 2 ottobre 1944), cui invece la presenza di un’armata polacca su quel fronte avrebbe potuto dare un consistente aiuto, ma che fu violentemente repressa dalle forze della Wermacht, senza che l’armata rossa, già schierata alle porte della città, intervenisse prima che la rivolta fosse definitivamente schiacciata13, la Polonia fu integrata, con confini diversi da quelli precedenti il conflitto, nell’Europa Orientale ristrutturata geopoliticamente secondo gli interessi di Mosca (e Washington).

Oltre a ciò, va qui segnalata una straordinaria similitudine tra il silenzio occidentale su Katyn e quello sulle notizie provenienti dai lager nazisti a proposito del trattamento riservato agli ebrei prigionieri14. La stessa ipocrisia regolò i rapporti tra le potenze, alleate e non, sia in un caso che nell’altro. Ipocrisia che su tutti i fronti anima e giustifica ancora l’attuale conflitto in Ucraina, da parte di tutti i contendenti attivi o mascherati che siano.

Un conflitto che, come il precedente, affonda le radici in territori in cui la Storia sanguinosa e sanguinaria degli ultimi quattro secoli ha visto piantare i semi di un odio profondo alimentato da conquiste territoriali, dispersione di imperi, compreso quello polacco precedente all’espansione dell’impero russo e di quello asburgico prima e prussiano poi, pogrom spietati e manovrati dal potere15 e dall’odio cattolico antisemita nella stessa Polonia e ancora in Ucraina16. Una terra impregnata di sangue e dolore, cui all’inizio del ‘900 contribuirono ancora gli alti e bassi della Rivoluzione bolscevica, la successiva guerra civile e la grande crisi agricola e alimentare degli anni ’30, al di qua e al di là degli attuali confini della Federazione Russa, della Polonia e dell’Ucraina. Una storia tragica, mai giunta a conclusione, che ben poco lascia sperare in una risoluzione “diplomatica” di un conflitto destinato ad estendersi ancora nel tempo e nello spazio.

Józef Czapski è stato uno dei testimoni più significativi di un momento drammatico di questa lunga storia, attraverso un’odissea che lo ha portato ad attraversare l’intera Unione Sovietica e gli eventi più estremi del secolo scorso. Un’odissea raccontata in presa diretta e in ogni – spesso sconvolgente – dettaglio: dall’esodo in condizioni disumane di militari e civili alle atroci testimonianze dei reduci dai campi, dall’incontro con il capo della Direzione centrale dei lager («pa­drone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone») ai contatti con le popolazioni. Esperienze che, per Czapski, diventano anche «una lenta, quotidiana iniziazione all’immensità della mi­seria umana».

Come afferma lo stesso autore nella prefazione: «Questo libro è stato scritto in condizioni molto diverse, con lunghe interruzioni, fra il 1942 e il 1947. […] Più andavo avanti nel racconto e più sentivo di non essere libero, di scrivere non ciò che volevo, ma ciò che dovevo.» Affermazione che lo avvicina in qualche modo a Primo Levi e alla sua necessità di ricordare non per se stessi, ma soprattutto per quelli che non ci sono più. Cosa che spinse il superstite dei lager italiano a scriver Se questo è un uomo, composto tra il 1945 e il 1947 e comparso per la prima volta, ancora rifiutato dai grandi editori, nel 1947, al termine di un conflitto che aveva fatto decine o forse centinaia di milioni di morti.

Su tutti i fronti, tra i civili e i militari di ogni nazione, sesso, gruppo sociale, politico, religioso o etnico. E di cui i governanti attuali sembrano essersi dimenticati quasi del tutto. Oppure ricordarlo per tornare a soffiare su braci che non si sono ancora mai spente del tutto, come nel caso del viaggio di Biden in Polonia diversi mesi or sono, oppure dei richiami di Putin alla “Grande guerra patriottica”. Mentre, come ci ricordano indirettamente le memorie di Czapski, la guerra non può essere altro che motivo di orrore, ancora orrore e nient’altro che orrore.


  1. Władysław Sikorski, generale (1881-1943), primo ministro del governo polacco in esilio a Londra, in seguito all’attacco tedesco all’URSS firmò un accordo con l’ambasciatore sovietico nel Regno Unito per il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi (30 luglio), seguito dalla concessione dell’amnistia ai prigionieri di guerra polacchi (12 agosto). Morì in un misterioso incidente aereo al largo di Gibilterra.  

  2. In realtà l’autore sbaglia di un giorno, poiché le truppe sovietiche entrarono in Polonia il 17 settembre 1939, sedici giorni dopo l’invasione nazista della stessa da Occidente (1° settembre dello stesso anno) – NdR  

  3. J. Czapski, Enfin, la vérité sur Katyn, «Gavroche. L’hebdomadaire de l’homme libre» n. 189 del 12 maggio 1948, ora in appendice, come La verità su Katyn, a J. Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 399-400  

  4. «Katyn’ è la mia vittoria» scrive Goebbels nel suo diario in data 12 aprile 1943 – NdR  

  5. J. Czapski, op. cit., p. 400  

  6. Ivi, p. 398  

  7. Ivi, p. 398  

  8. E. Morin, Di guerra in guerra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 22-23  

  9. J. Czapski, op. cit., p. 408  

  10. Ivi, pp. 408-409  

  11. La ricerca più completa, rinvenibile oggi in Italia, sulla decapitazione dell’esercito polacco all’inizio del secondo conflitto mondiale, basata principalmente su fonti sovietiche rese accessibili agli inizi degli anni Novanta, è quella di George Sanford, docente di Scienze Politiche presso l’Università di Bristol, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria (UTET, Torino 2007 – ed.originale Katyn and the Soviet Massacre of 1940, 2005). Testo in cui l’autore inglese da un lato ricostruisce, attraverso il massacro, sia la profonda rivalità polacco-bolscevica degli anni precedenti, sia la logica dello Stato stalinista, senza dimenticare come le potenze occidentali non abbiano messo prima in discussione la copertura data dai sovietici alle vicende, finendo col costituire un’imbarazzante parte della loro più ampia politica di accettazione dell’inglobamento della Polonia nel sistema sovietico alla fine del secondo conflitto mondiale.  

  12. Si veda in proposito: Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia lotta, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012. Marek Edelman (Varsavia 1919 – Varsavia 2009), membro del Bund (Unione Generale dei Lavoratori Ebrei) fu il comandante militare dell’insurrezione e dell’organizzazione paramilitare che i giovani ebrei del ghetto si erano dati per programmarla e metterla in atto. Affermando: «Abbiamo combattuto per la nostra vita. Ci muoveva una determinazione disperata, ma le nostre armi mai sono state dirette contro civili inermi. Abbiamo lottato per la sopravvivenza della comunità ebraica, non per un territorio né per un’identità nazionale. Per me, non esistono un Popolo Eletto né una Terra Promessa.» Motivo per cui non volle mai trasferirsi in Israele.  

  13. Si vedano in proposito: Geoge Bruce, L’insurrezione di Varsavia 1 agosto – 2 ottobre 1944, U.Mursia editore, Milano 1978; Norman Davies, La rivolta. Varsavia 1944:la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Rizzoli – RCS, Milano 2004 e Miron Białoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi, Milano 2021  

  14. Si vedano ancora: Alex Weissberg, La storia di Joel Brand, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1958 e T. S. Hamerow, Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all’orrore nazista, Feltrinelli, Milano 2010  

  15. Si veda in proposito lo splendido romanzo, ambientato nel XVII secolo in Polonia e Ucraina, di Isaac Bashevis Singer, Satana a Goraj, Adelphi, Milano 2018  

  16. Si vedano: Adam Michnik, Il pogrom, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2007 e Jeffrey Veidlinger, L’Olocausto prima di Hitler. 1918 – 1921 I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei, Rizzoli-Mondadori, 2023  

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Il nuovo disordine mondiale / 20: Guerra santa (subito?) https://www.carmillaonline.com/2023/01/11/il-nuovo-disordine-mondiale-20-guerra-santa-subito/ Wed, 11 Jan 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75603 di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili [...]]]> di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili uccisi e brutalizzati, cercano di convincere un’opinione pubblica sempre più stanca e distratta della necessità di “partecipare” alla guerra con l’invio di armi all’esercito di Zelensky ormai “avviato alla vittoria”, l’analisi dei fatti a livello internazionale suggerisce che la vittoria ucraino-occidentale sia ben lontana e che, anzi, questa sia fortemente inficiata da un ampliamento delle aree di conflitto che non fa altro che giustificare il titolo di questa serie di articoli, iniziata su «Carmilla online» esattamente il 25 febbraio 2022.

Da Taiwan alle isole Curili, dall’Artide all’Antartide passando per parti significative dell’Africa Sub-sahariana, il Mar Cinese meridionale e il quadrante dell’Indo-Pacifico, sono tantissimi i punti di frizione in cui le maggiori potenze e i loro alleati locali potrebbero accendere la scintilla di un conflitto devastante che più che in una terza guerra mondiale “a pezzi”1, probabilmente già in atto, potrebbe rapidamente trasformarsi in una guerra totale su larghissima scala. A conferma di ciò occorre sottolineare che in ogni area di frizione e possibile confronto militare si addensano tutti i fattori possibili di competizione: dalla concorrenza economica al controllo delle risorse (sia naturale che tecnologiche, come nel caso della produzione di microchip a Taiwan) fino a quelli riconducibili alle esigenze di carattere strettamente militare e geo-politico. Tutte situazioni in cui i possibili antagonisti sono numerosi e talvolta alleati o nemici sul luogo mentre invece possono avere posizioni rovesciate in altre situazioni di disequilibrio.

A tutto ciò vanno ad aggiungersi le mai sopite contraddizioni intereuropee intorno al ruolo di chi deve comandare in Europa (Francia? Germania? Gran Bretagna? Stati Uniti?)2, quelle interne agli Stati Uniti3 e, last but not least, le differenti posizioni in sede di Alleanza atlantica e Unione Europea rispetto all’invio di armamenti e aiuti all’Ucraina di Zelensky e le posizioni da tenere nei confronti delle sanzioni riguardanti gas, petrolio e commercio con la Russia.

Le folle di cui parla DeLillo nel suo Rumore bianco sono quelle che si riunivano nelle adunate del Terzo Reich, soprattutto in quelle in cui a parlare fosse il Fürher: «Accorrevano folle a sentirlo parlare, folle in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa […] Quelle folle accorrevano per fare da scudo alla propria morte. Farsi folla significa tener lontana la morte. Uscire dalla folla significa rischiare la morte individuale, affrontare la morte solitaria. Quelle folle accorrevano soprattutto per questa ragione. Erano lì proprio per essere folla»4.

In piazza San Pietro il Papa emerito non poteva più parlare, ma altri lo hanno fatto per lui e lo faranno ancora. Annunciando una nuova stagione di guerra. Non più solo al di fuori della Chiesa, ma anche al suo interno. Non solo per motivi teologici o di forma (la messa in latino), ma ben più sostanziali, concreti e terreni. In un momento in cui, nonostante la strombazzata unità di intenti e di stili di vita, l’Occidente non trova un attrattore degno di questo nome, tanto meno fatale, per riunire nuovamente insieme grandi folle inneggianti alla Patria e alla Nazione, come sarebbe in realtà necessario per proseguire con successo nella guerra dei mondi che è già iniziata.

«Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce […] Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere»5. Oggi le cattedrali del consumo, i social network, la Rete, i media riescono a ricreare solo in parte tale tipo di assembramento unitario. Vale per coloro che convocano su Facebook o TiKTok e WhatsApp manifestazioni e flash mob cui di solito non partecipa nessuno o pochissimi oppure si trasformano in assalti spettacolari ma privi di risultato alle istituzioni del potere, ma anche per le grandi reti di vendita di dati e merci che iniziano a dover licenziare i dipendenti a migliaia o decine di migliaia. Manca il collante comune, il minimo comune denominatore che la tanto decantata società aperta si è persa da qualche parte per strada.

Ammesso che tale idea di società, formulata prima da Henri Bergson nel 1932 e successivamente sviluppata da Karl Popper, sia realmente esistita in qualche momento della storia compresa tra la fine del secondo conflitto mondiale e il tempo attuale, certo ha fatto sì che nel definire le politiche sociali e globali degli ultimi settant’anni, al di là di ciò che è stato ed è ancora dettato dalle esigenze immediate del capitale, all’interno delle società occidentali e del loro modo di produzione dominante a regnare sia stata più la termodinamica del non equilibrio che i principi della meccanica classica. Che necessita di forze, poli e campi tali da poter definire con certezza esperimenti sia nell’ambito delle discipline naturali che sociali (e politiche).

La celebre massima di Margaret Tatcher, la società non esiste esistono solo gli individui, si è sostanziata nella realtà attuale, ma il risultato “politico” è stato che, mentre un tempo le grandi folle si radunavano per perdere la propria individualità in nome di un’identità comune, semplicemente, oggi le “masse” hanno perso qualsiasi tipo di identità, sia individuale che comune. Senza nemmeno trasformarsi in quelle moltitudini costituenti che han fatto gran parlare di sé fino a qualche anno or sono e senza alcun costrutto materiale. Se non l’esser fondato sulla costante e instancabile ricerca di un “nuovo soggetto” che ha sempre caratterizzato certe teorizzazioni dell’operaismo italiano (di derivazione più gramsciana che marxiana).

Per dirla in altro modo: la progressiva vittoria del capitale sulle barriere opposte prima dalle comunità e dalle classi poi degli stati nazionali e dei nazionalismi ha permesso che la sfera di valori in cui milioni, o meglio miliardi di persone nel mondo globalizzato, fin dagli albori dello sviluppo del capitalismo industriale, si muovono sia di fatto andata riducendosi a sole due triadi. Quella dell'”investi, produci/vendi e ricava profitto” (magistralmente riassunta dalla formula marxiana D – M – D1) valida per i funzionari del capitale e quella rappresentata da “lavora-produci, consuma e crepa” sussunta in pieno da ciò che rimane della classe lavoratrice o aspirante ad esser tale.

Al di fuori di ciò, potenzialmente, non dovrebbero sussistere altri valori morali, politici, di classe, nazionali od altri che possano mettere i bastoni tra le ruote alla progressiva espansione del capitale e delle sue regole elementari. Fatto che, soprattutto in Occidente, con il trionfo della società dei consumi dalla fine del secondo conflitto imperialistico in poi e con l’avvento del “secolo americano” a seguito di quello, ha avuto come conseguenza il progressivo superamento mercantile dei confini e delle istituzioni parlamentari nazionali a vantaggio del predominio del capitale finanziario. Dando di fatto vita a comunità d fatto reggentisi unicamente sulle leggi dello sviluppo e dell’interesse capitalistico.

Come chi scrive ha già avuto modo di sottolineare nella prefazione al testo, di Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, (Il Galeone Editore, Roma 2022), citando Jacques Camatte6:

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica. Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità7.

Non solo:

(Il capitale) si è impadronito dello Stato, comunità alienata degli uomini o, se si vuole, tentativo di conciliazione degli antagonismi, al punto che può apparire come la negazione del potere (Macht) di una classe dal momento che non ne ha nemmeno più bisogno per assicurare il proprio dominio (Herrschaft); anche la classe dominante viene dominata. Ormai il capitale ha bisogno solo di schiavi8.

Ecco allora che la classe al potere inizia a saggiare sulla propria pelle il fatto che, secondo Marx (nel III libro del Capitale), «il vero limite al capitale è il capitale stesso». Limite non soltanto più produttivo, come si intendeva principalmente nelle pagine incompiute del Moro di Treviri, ma anche politico ovvero di gestione dello Stato e della società divisa in classi.

Una società frammentata ma, allo steso tempo, organizzata intorno alla fascinazione delle merci e suddivisa in infiniti rivoli “identitari” che vanno dall’appartenenza alle tifoserie sportive alle identità di sesso e genere dei singoli come di quelle etniche e razziali, talvolta sovraniste (ma basterebbero i risultati elettorali ottenuti in Italia da Italexit o dalle parallele liste “di sinistra” o di estrema destra a far comprendere l’inessenzialità delle stesse per un discorso socialmente più coesivo) fino a quelle definite da singole sette religiose, politiche o mercantili (leggi follower di pubblicità di merci e “artisti” o presunti tali di ogni settore dell’intrattenimento commerciale). Un enorme supermercato di merci scintillanti e idee opache in cui, come si diceva all’inizio, a predominare è ancora la necessità di riproduzione del capitale e di estrazione di plusvalore estorto dal lavoro coatto, ma travestita da scelte e gusti “personali”.

In cui anche i rappresentanti politici e di governo son finiti col rassegnarsi ad essere null’altro che prodotti commerciali, possibilmente ben confezionati, da vendere agli elettori. Promoter e spin doctor son diventati così, insieme agli algoritmi che interagiscono nei e con i social, i veri “comitati elettorali” delle competizioni politiche travestite farsescamente da elezioni. Tendenza che ha almeno una data e un luogo di origine: il 1960 e naturalmente gli Stati Uniti, quando ebbe inizio la campagna elettorale che avrebbe portato alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy e la consorte Jacqueline (poi Onassis). Giocata in gran parte sulla giovane età del candidato e la bellezza della coppia. Oltre che su uno slogan da cui Trump ha poi ancora rubato l’ispirazione per il suo Make America Great Again: A time for greatness.

In quel contesto e a quell’epoca, la logica dello star system hollywoodiano sostituiva la logica politica con la promozione di un desiderio dal sapore vagamente erotico, ancor più che liberal. Cui, in fin dei conti, hanno dovuto pur qualcosa l’elezione di Bill Clinton, Barak Obama e anche il successo di certi “giovani” politici italiani o altri/e ancora.
Ma tale, oscena, macchina del controllo, che ha funzionato nel cancellare ogni reale identità di classe tra la maggior parte dei lavoratori dipendenti, ed per esaltare il consumo di ogni genere di merce, materiale o immateriale che sia, in realtà diventa anche un ostacolo nell’ambito delle mobilitazioni nazionali e nazionaliste necessarie in caso di guerra. Nessun partito o idea, sia di Destra che della Sinistra liberal-democratica, ha attualmente la forza per mobilitare, in Occidente, grandi masse in funzione bellica: sia dal punto di vista ideologico che militare.

Ce lo ricorda, ad esempio, lo storico Niall Ferguson in un saggio pubblicato su “Bloomberg”:

La guerra è tornata. Anche la guerra mondiale potrebbe tornare? Se è così, influenzerà tutte le nostre vite. Nella seconda era tra le due guerre (1991-2019), abbiamo perso di vista il ruolo della guerra nell’economia globale. Poiché le guerre di quel tempo erano piccole (Bosnia, Afghanistan, Iraq), abbiamo dimenticato che la guerra è il motore preferito della storia dell’inflazione, dei default del debito – persino delle carestie. Questo perché la guerra su larga scala è simultaneamente distruttiva della capacità produttiva, perturbante del commercio e destabilizzante delle politiche fiscali e monetarie. […] Il problema con le guerre prolungate è che gli Stati Uniti e gli europei tendono a stancarsi di loro ben prima che lo faccia il nemico9.

Non si elencheranno qui nuovamente tutti gli elementi di difficoltà nel “vincere” questa guerra che l’Occidente sta incontrando sul piano economico ancor prima che militare, ma certo la scarsa partecipazione emotiva dell’opinione pubblica occidentale ai fatti ucraini costituisce pur sempre motivo di interesse (o di relativo imbarazzo), nonostante la propaganda continua e costante dedicata al tentativo di catturarne l’attenzione (e la passione). Ma è a questo punto che è tornata in gioco la pedina ”Chiesa cattolica”.

Proprio a partire dalla morte del ex-Panzerkardinal Ratzinger si è sviluppata una battaglia, per ora, senza esclusione di colpi, che sembra vertere, più che sulle questioni dottrinarie, su come la dirigenza della più importante componente della cristianità occidentale, ovvero la Chiesa cattolica facente capo a Roma, dovrebbe comportarsi nei confronti di una guerra e dei futuri confronti militari e politici destinati a mettere in crisi, secondo la vulgata mediatica corrente, quelli che sono considerati i sacri valori della libertà e della democrazia occidentale (oltre che il predominio economico dell’ultima qui citata).

Indipendentemente dai risultati dell’incontro “privato” tra la premier italiana e papa Francesco, l’equidistanza ”pacifista” di Bergoglio non sembra più sufficiente ai fautori della “guerra per la libertà”, motivo per cui viene richiesto e suggerito al soglio pontificio di cambiare registro e trasformare l’attuale programma pastorale in un più marcato accompagnamento del gregge al macello. Che tale intento si sia maggiormente manifestato su organi di stampa di destra non colpisce, ma certo gli omaggi tributati al Papa emerito nei giorni delle sue esequie anche dai media considerati liberal o di sinistra potrebbe far pensare ad un riposizionamento degli stessi in chiave sempre più bellicista (se mai ce ne fosse ancora bisogno).

Il quotidiano della Conferenza episcopale italiana ha cercato in ogni modo di mediare e ammorbidire le differenze tra la visione di papa Ratzinger e di papa Bergoglio su varie questioni, non soltanto inerenti alla guerra senza abbandonare il percorso fin qui seguito da papa Francesco:

Nella guerra d’Europa, e per il nuovo (dis)ordine mondiale, che si combatte da più di dieci mesi in terra d’Ucraina il giorno che per gli ortodossi è la vigilia di Natale e per il resto della cristianità l’Epifania è stato un giorno pessimo, triste e feroce persino più di altri di questa carneficina – parola di papa Francesco – folle e sacrilega. Perché quando si trasforma una pur fragile occasione di tregua, comunque sia balenata, da chiunque sia stata offerta, in un nuovo terreno di battaglia – a suon di dichiarazioni sferzanti, di atti ostili e di ordigni letali scaraventati contro le vite degli altri – il giudizio deve essere netto. Così come dev’essere netto il rifiuto della logica politica e bellica e la morale distorta che impediscono di frenare il massacro10.

Appena il giorno prima, però, un quotidiano ritenuto “laico” e liberal-democratico come «Domani» aveva pubblicato una lettera di aperto sostegno all’arcivescovo di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, del 7 marzo 2022, scritta da Ratzinger: «Un messaggio di forte vicinanza all’arcivescovo ucraino che di sicuro mostra una certa distanza dalle posizioni di Francesco che, dall’inizio del conflitto, ha sempre invocato la pace ma cercando sempre di mantenersi equidistante rispetto alle parti in causa»11.

Nulla da stupirsi, quindi, se un giornale di destra, nello stesso giorno, scrive nel suo editoriale:

…poi accade che muore un Papa, nel caso emerito, il mondo si commuove e a Roma va in scena un funerale che è un gigantesco omaggio alle radici cristiane della stessa sciagurata Europa di cui sopra. E allora, al netto delle polemiche tra papi regnanti e non […] ti viene il dubbio che l’Europa non sia quella cosa là ma quella cosa lì, e lo sia anche per un laico convinto come me e immagino come molti di noi. Ma allora, se è quella cosa lì vista in Piazza San Pietro non possiamo chiamarci fuori pena perdere non solo un ruolo ma pure una identità. Ebbene sì, spiace dirlo ma noi siamo europei fino al midollo e lo siamo perché siamo figli di una storia cristiana, la quale no è esattamente ciò che oggi per lo più ci raccontano. Lo disse anche Ratzinger: «Non deve nascere l’impressione che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico, la Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo». Inutile e complicato rivangare una storia millenaria ma in estrema sintesi senza il cristianesimo oggi non ci sarebbe l’Europa12.

Al di là del triplo salto mortale messo in atto dal direttore del quotidiano per giustificare un ritorno all’Europa da parte di forze di Destra, soprattutto Lega salviniana e Fratelli d’Italia, che sulla critica della stessa e delle sue istituzioni hanno fondato le proprie ipotesi politiche e le proprie campagne elettorali, e trasformare l’identitarismo razzista e populista in una forma di identitarismo cristiano-medievale, quello che è possibile qui individuare è il disperato bisogno di ridurre qualsiasi tendenza pacifista, fosse anche del papa, a qualcosa che non è più utilizzabile ai fini della salvaguardia degli interessi dell’Occidente e soprattutto della parti più frammentate di quest’ultimo: l’Europa e l’Italia.

Tutte le linee di demarcazione (nazionali, politiche, sociali) sono saltate, così, senza disturbare l’inconsistente raccolta di pettegolezzi e gossip rappresentata dal libro, di 336 pagine, di Georg Gänswein, il segretario personale di Benedetto XVI, falco dichiarato e arcinemico di papa Bergoglio13, varrebbe la pena di sottolineare che ciò che non vale per certa destra italiana ed europea vale, però, per quella americana.

Si è detto all’inizio che l’elezione alla quindicesima votazione di McCarthy a portavoce del congresso degli Stati Uniti è stat una dimostrazione dell’influenza che Trump e la parte più “conservatrice “ del Partito Repubblicano avrebbe ancora sullo stesso e sulla vita politica e sociale americana, ma occorre qui sottolineare che uno dei punti di attrito più forte tra i trumpiani e il governo di Biden e l’”altro” partito repubblicano è stato quello rappresentato dall’invio degli armamenti a Kiev e della spesa necessaria per tale programma.

Infatti, tra le richieste di Trump e della sua fazione che Mc Carthy avrebbe dovuto accettare per giunere ad un accordo che ne permettesse l’elezione vi è stata quella della promessa di un «taglio alle spese per la difesa da 75 miliardi di dollari promesso da McCarthy proprio nel giorno in cui il presidente americano Joe Biden ha annunciato un nuovo ingente pacchetto di armi da 3 miliardi di dollari all’Ucraina»14.

Pochi media mainstream hanno, poi, ricordato che la visita al Senato degli Stati Uniti di Zelensky, avvenuta a fine dicembre 2022, sia stata una delle meno acclamate e proficue poiché, immediatamente dopo il suo discorso, la votazione sull’appoggio degli USA al governo ucraino ha visto 29 senatori repubblicani (più della metà di quelli in carica per il GOP) votare contro. Rivelando così che il vero argomento del contendere tra democratici e repubblicani oltranzisti è su ben altro che non i diritti riguardanti donne e minoranze di ogni genere.

In fine, occorre ricordare che anche sul fronte ucraino le forze in campo, da una parte e dall’altra, dopo aver inutilmente sbandierato su entrambi i fronti la frusta parola d’ordine dell’”antinazismo”, son dovute ricorrere alla religione come ultima ratio dello scontro con risultati che, soprattutto in Ucraina dove la secessione dalla chiesa ortodossa di Mosca si è avuta a seguito della repressione dei preti e dei monasteri non ancora apertamente schierati con il governo Zelensky, sembrano essere ulteriormente divisivi sul piano politico e sociale.

Nell’epoca della mediatizzazione e dematerializzazione del sacro, le religioni si riprendono la scena. Scendono in campo verrebbe da dire. La Chiesa Cattolica esce provata dalla fine dello”stato d’eccezione”, tra un “Pontefice dimesso” 600 anni dopo la rinuncia di Gregorio XII e un “Pontefice regnante” che c elo ha avuto al fianco per quasi 10 anni. La Chiesa Ortodossa esce dilaniata dalla guerra, e combatte a sua volta su due fronti contrapposti, tra sacerdoti ucraini cui è revocata la cittadinnza perché troppo vicini al nemico e i pope moscoviti che benedicono i soldati ch ecadranno al fronte15.

Sarà così anche da noi? Tornerà la Chiesa cattolica e romana alla sua antica funzione, ben prima del Jihad islamista, di promozione della “guerra santa” contro eretici e infedeli? Riuscirà il brand del Cristo crocifisso a sostituire quelli dei “gruppi” di ogni risma che popolano i social e delle fashion influencer che si esprimono su ogni aspetto del viver (o non viver in caso di guerra) quotidiano? O rimarrà soltanto un’ipotesi da proporre in alternativa allo scarso fascino esercitato dal binomio Patria e Nazione di cui si è parlato più sopra? E la sinistra antagonista continuerà ancora a rincorrere in rete obiettivi più dettati dagli algoritmi che da effettive lotte reali?

Oppure, nell’ipotesi peggiore, siamo solamente tornati indietro, ad un medioevo mercantile in cui tutti i nodi saranno sciolti soltanto dopo lunghe guerre “di religione” come quelle che anticiparono di trecento anni la Rivoluzione francese16? Tre secoli di interminabili guerre civili e non, destinate a determinare il nuovo assetto politico, sociale ed economico europeo e, successivamente, planetario? Questi sono alcuni dei temi su cui sarà necessario confrontarsi nell’immediato futuro, per non rischiare di predicare nel deserto usando formule dottrinarie che nessuno può più comprendere. In nome di pratiche identitarie e politiche morte da tempo immemore, proprio come il dio crocifisso dei cristiani.


  1. Come l’ha definita Luca Sebastiani sul numero 37 di «Scenari» del 30 dicembre 2022: L. Sebastiani, E’ l’Africa la culla della “guerra mondiale a pezzi”, pp. 12-13  

  2. Cfr. qui

  3. Dove l’elezione soltanto alla quindicesima votazione dello speaker repubblicano al Congresso ha dimostrato ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la persistente influenza di Donald Trump sul partito repubblicano e il suo elettorato.  

  4. D. DeLillo, Rumore bianco, Einaudi 2022, pp. 90-91  

  5. Ivi  

  6. S. Moiso, Un capitalismo totale? Prefazione a G. Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone Editore, Roma 2022, pp. 18-19  

  7. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213  

  8. J. Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, op.cit., pp. 213-214, ora in S. Moiso, op. cit., p. 24  

  9. N. Ferguson, All Is Not Quiet on the Eastern Front, «Bloomberg» 1 gennaio 2023, qui  

  10. M. Tarquinio, Più ragioni per resistere, «Avvenire» 7 gennaio 2023  

  11. Ratzinger e la lettera di sostegno all’Ucraina, «Domani» 6 gennaio 2023  

  12. A. Sallusti, La nostra Europa è in San Pietro, «Libero» 6gennaio 2023  

  13. Cfr. F. Capozza, Padre Georg rivela gli scontri nella Chiesa, «Libero» 9 gennaio 2023  

  14. Cfr. qui  

  15. M. Giannini, L’atlante occidentale e la cristianità dopo Ratzinger, «La Stampa» 8 gennaio 2023  

  16. Cfr. qui  

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Il nuovo disordine mondiale / 19: First Strike? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/il-nuovo-disordine-mondiale-19-first-strike/ Fri, 04 Nov 2022 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74620 di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile. La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare. E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

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di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile.
La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare.
E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

Ancora una volta occorre dunque sottolineare e ricordare ciò che, da più di un decennio, l’autore va affermando in testi, articoli e interventi sulla questione della guerra: elemento ineliminabile di una società fondata sullo sfruttamento di ogni risorsa ambientale e umana, sulla concorrenza più spietata sia a livello economico che sociale e sulla spartizione imperialistica del mercato mondiale e dei territori di importanza strategica (sia dal punto di vista geopolitico che economico-estrattivistico).

Tanto da spingerlo a rovesciare, come già aveva fatto con largo anticipo Michel Foucault nel corso degli anni ’70, la celebre affermazione di Karl von Clawsevitz nel suo contrario, ovvero che sarebbe proprio la politica a costituire nient’altro che la continuazione della guerra con altri mezzi1. Con buona pace di chi ancora oggi, pur proclamandosi antagonista e antimperialista, pensa che le logiche della politica istituzionale possano (o almeno dovrebbero) sfuggire alle logiche della guerra e dei suoi sfracelli.

Certo non ha colpa chi si accorge del precipitare delle situazioni create da conflitti ritenuti locali in guerra mondiale soltanto attraverso le dichiarazioni ufficiali, dopo anni, se non decenni, di totale disattenzione per le logiche profonde dell’imperialismo e, forse soprattutto, per la “questione militare” e la sua “arte”, mai sottostimata invece dai teorici autentici del pensiero rivoluzionario: da Marx a Lenin, da Engels a Trotzkij fino alla Sinistra Comunista (nelle figure di Jacques Camatte e Roger Dangeville) e a Guy Debord.

Dinamiche di sottovalutazione legate sia ad una superficiale convinzione dell’avvenuto superamento delle contraddizioni interimperialistiche, scaturita sia dalle predicazioni liberal-democratiche che da un certo estremismo di maniera che ha fondato le sue valutazioni di classe sulle analisi del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali) originatesi dalla riflessione di alcune formazioni armate a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Solo apparentemente confermate dai processi di globalizzazione economica degli ultimi decenni.

Ma questa disattenzione, chiamiamola così, affonda le radici anche in un rifiuto dello studio di quella che abbiamo qui chiamato “questione militare”, legato sia in un’imbelle concezione pacifista dell’antimilitarismo di stampo cattolico che a una concezione, di tale questione, iniziata con lo stalinismo che, proprio nella figura del piccolo padre di tutte le Russie, fin dallo scontro sulla campagna polacca dei primi anni ’20, si era opposto all’utilizzo degli specialisti militari sia nell’esercito rosso, fortemente voluta invece da Trotzkij per rafforzare l’armata rossa durante la guerra civile 1918-21, che nelle scuole di formazione dei quadri militari, per dare maggior spazio ai commissari “politici” e ai rappresentanti del partito2.

Cosa che, all’epoca dei grandi processi di Mosca (1936-37), costò la decapitazione dello stato maggiore sovietico, soprattutto con il processo per tradimento e l’eliminazione di Michail Nikolaevič Tuchačevskij (Smolensk, 16 febbraio 1893 – Mosca, 12 giugno 1937) autentico innovatore del pensiero militare della guerra di movimento moderna, supportata da truppe corazzate, aviotrasportate e meccanizzate3, con i conseguenti disastri militari subiti dall’Armata rossa nel corso della fase iniziale dell’Operazione Barbarossa ovvero dell’invasione nazista del territorio russo.

Questi due fattori, riassunti qui fin troppo sinteticamente, hanno quindi grandemente contribuito allo sviluppo di una tradizione politica che ha per troppo tempo eluso il problema della “centralità della guerra” nel sistema di relazioni economiche, sociali e politiche internazionali. Un’analisi che troppo frequentemente ha scambiato la dominazione di stampo coloniale e neo-coloniale esterna come l’unico settore in cui l’Occidente avrebbe dovuto e potuto ancora dispiegare la sua potenza militare. Condividendo perciò, anche se indirettamente, la stessa concezione degli apparati militari ad effettivi “ridotti ma professionalizzati”, messa in pratica da gran parte degli eserciti dei paesi più avanzati.

Ancora una volta con il plauso del ‘pacifismo’ che vedeva nell’abolizione degli eserciti di leva un passo avanti verso un mondo privo di guerre o, almeno, lontano da quelle di portata planetaria. Cadendo così in una duplice ed egoistica contraddizione che mentre da un lato si rassegnava ad una sorta di guerra in permanenza fuori dai territori delle metropoli imperialiste per mantenere i privilegi economici di queste ultime, dall’altro vedeva nell’abolizione della leva una riduzione del militarismo all’interno delle società in cui questa fosse stata abbandonata.

L’anticolonialismo perdeva così la concezione internazionalista per rifugiarsi tra le sottane del pietismo solidale, mentre la storica questione dell’armamento delle masse sfruttate attraverso la formazione militare universale (o almeno maschile), difesa dal socialismo radicale fin dai tempi di Friedrich Engels, veniva accantonata a favore di eserciti professionali di stampo pretoriano, in cambio dei sempre corruttibili “diritti individuali”. Che, oltretutto, non ledevano affatto i diritti degli Stati di contribuire allo sviluppo e all’ampliamento del settore militare dell’economia industriale. Settore in cui, a differenza di tanti altri, l’Italia è sempre stata ai primi posti a livello mondiale.

Oggi, tra guerra in Ucraina e dichiarazioni del neo-ministro della difesa Guido Crosetto sulla necessità di provvedere ad un aumento del numero di soldati a disposizione della ‘nazione’, il risveglio è stato piuttosto brusco, seppur ancora confuso. Oltre a tutto ciò, la notizia della dottrina del diritto al First Strike dichiarata apertamente dal presidente americano ha certamente contribuito a seminare ulteriormente la paura di una guerra aperta, diffusa e devastante tra i grandi schieramenti militari e le grandi potenze economiche, fino ad ora, per alcuni, inconcepibile. Eppure, eppure…

Non è certo il quadrante centro-europeo a far dichiarare, per ora, agli Stati Uniti la necessità dell’uso per primi dell’arma nucleare. Sul fronte ucraino le forze della Nato, seppur con vaste contraddizioni al proprio interno, hanno trovato il modo di far combattere e soffrire, in nome dei propri interessi strategici, prima di tutto i militari e i civili ucraini. Mentre tutto intorno all’area interessata direttamente dal conflitto, per vecchi e mai sopiti odi e interessi nazionalistici, altri stati, come la Polonia e gli stati baltici, potrebbero contribuire con il sangue dei propri soldati e la parziale devastazione dei propri territori a mantenere a lungo il conflitto in una dimensione di dissanguamento progressivo dell’esercito russo.

E’ possibile fare questa affermazione poiché ciò che l’attuale conflitto ha rivelato fin dai primi giorni è di aver dato inizio ad una nuova guerra di grandi eserciti, in cui i corpi specializzati (mercenari occidentali, della Wagner o corpi speciali britannici [qui]) possono svolger un ruolo soltanto se attorno ad essi esiste una fitta e ampia rete logistica di supporto, oltre che il paravento di un gran numero di corpi di soldati e di civili sacrificabili. Su entrambi i fronti del conflitto.

Il sogno di una guerra lampo oppure “altamente tecnologica”, con risparmio di vite e militari impegnati nei combattimenti è andato via via dissipandosi, lasciando al suo posto le immagini e lo svolgimento di una guerra convenzionale fatta di artiglieria, fanteria, truppe corazzate, avanzamenti e ripiegamenti che richiedono un gran numero di soldati impegnati e tempi estremamente lunghi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Qualunque essi siano e da qualsiasi parte in conflitto siano essi stati, o meno, dichiarati.

La propagande deve fare i conti con le necessità di una guerra il cui compito non è soltanto quello del search and destroy cui, da diversi decenni, si erano abituati i commentatori e gli spettatori, interessati o meno, come nel caso di tanti, e comunque fallimentari, interventi della Nato o degli USA e delle forze armate occidentali, in aree del mondo esterne al cuore dell’Europa o delle metropoli imperialistiche, ma anche, e soprattutto, quello di conquistare, mantenere e occupare vaste porzioni di territorio, urbano o meno, compreso all’interno di aree densamente popolate, industrializzate e ricche di impianti e investimenti agricoli, industriali, minerari e quant’altro.

Uno scenario che non si vedeva dalla fine del secondo conflitto mondiale e che per forza di cose, nonostante le promesse e le illusioni sul superamento delle modalità di quello e delle contraddizioni che lo avevano causato, rinvia a quello nelle modalità, terribili e distruttive, di svolgimento.
Per anni infatti ci si è interrogati, a livello militare e politico, tattico e strategico, sulla possibilità di lasciar definitivamente da parte i grandi apparati bellico-militari che avevano rappresentato la più tipica caratteristica delle forze armate nazionali degli Stati moderni.

Per anni le scrivanie dello studio ovale o degli altri centri di potere occidentali sono state inondate di proposte di apparati difensivi, e quindi immancabilmente offensivi alla faccia di tutte le anime belle che pensano di poter separare la difesa dall’offesa o viceversa, miranti a diminuire il numero dei militari impiegati in servizio attivo, attraverso la formazione di corpi d’élite o unità destinate alle operazioni speciali, altamente addestrate e appoggiate da tecnologie particolarmente avanzate sul piano della sorveglianza elettronica dei territori e delle forze nemiche oppure destinate a colpire con estrema precisione gli obiettivi nemici (singoli individui, unità o basi militari che siano).

La guerra intelligente, che tale non è mai stata come hanno dimostrato le stragi di civili in Palestina, Libano, Siria, Iraq e Afghanistan, senza dimenticare le guerre balcaniche successive alla riunificazione tedesca, si è però rivelata utile ed efficace, se non si contano le vittime reali e i danni collaterali in cui rientrano solitamente, nei confronti di paesi che non potevano porsi sullo stesso piano militare e tecnologico di Stati Uniti, Israele, Europa Occidentale, ma che, allo stesso tempo, potevano riuscire a mettere in difficoltà i più forti aggressori attraverso tattiche e tecniche di guerriglia che hanno fatto sempre più propendere anche le forze armate più importanti verso forme di guerra asimmetriche e non convenzionali.

Ma sulla distruttività della guerra moderna, fin dagli albori del XX secolo, in ambito civile si è già parlato diffusamente negli articoli precedenti di questa serie per rispondere all’idiozia formale dei “crimini di guerra” (come se già questa non costituisse di per sé stessa un crimine); mentre è sul gran numero di soldati necessari per condurla, quando si tratti di confronti militari tra potenze di “pari grado”, che è necessario soffermarsi per comprendere dove sta il rischio reale dell’utilizzo dell’arma nucleare.

Truppe relativamente poco numerose, con grande uso di tecnologie sofisticate e dell’arma aerea, in mancanza di necessità o possibilità di mettere gli stivali per terra (boots on the ground), hanno relativamente funzionato nella “guerra al terrore”, senza però mai ottenere risultati decisivi, come il ritiro dall’Afganistan ha in seguito dimostrato. Un modello di guerra “coloniale tecnologicamente avanzata” che il conflitto in Ucraina sta testando in profondità.

Se c’è un elemento evidente del conflitto attualmente in corso è infatti quello dell’uso di tecnologie avanzate a fianco delle tattiche militari classiche derivate ancora dal secondo conflitto mondiale: largo impiego di artiglieria, fanteria (meccanizzata e non), truppe corazzate, lanciarazzi/missili multipli, sommergibili, aviazione e…droni. Soprattutto questi ultimi costituiscono la novità più rilevante, quella che, sia a livello di rilevamento della posizione degli avversari che della distruzione localizzata e precisa degli obiettivi, ha messo maggiormente in difficoltà le forze armate di Putin fino ad ora.

Ma che ha anche rivelato, almeno nell’ultimo periodo, come, pur costituendo una tecnologia innovativa e perniciosamente precisa, anche un paese non propriamente all’avanguardia come l’Iran può produrre su vasta scala e con risultati di poco inferiori a quelli ottenuti con quelli prodotti dalla Turchia o in area occidentale. Un gap tecnologico facilmente aggirabile e capace di rivoltarsi nel suo contrario. Ovvero una tecnologia dal costo non elevatissimo che anche chi non appartiene ai settori della difesa della Nato e dei suoi satelliti può facilmente procurarsi (ed utilizzare pericolosamente).

Ora diventa evidente, e chi scrive l’ha affermato fin dai primi giorni del conflitto, che le armi nucleari accumulate per decenni negli arsenali dell’Est e dell’Ovest, oltre che in quelli di svariati altri stati (allineati e non), non sono affatto armi giocattolo o spaventapasseri con cui minacciare gli avversari senza però aver la reale intenzione di utilizzarle. Tutto sommato nemmeno durante la Guerra Fredda fu del tutto così, anche se allora i margini per una trattativa erano molto più ampi di quelli odierni. Inoltre Nagasaki e Hiroshima stanno lì, ancora adesso, a dimostrare che l’impero americano non è disposto a fermarsi, se lo ritiene necessario, davanti a nulla. Cosa cui, con evidente facilità, si sono adeguati anche i suoi principali ed ‘imperialistici’ avversari: Russia e Cina. Come ha affermato Cechov nei suoi scritti sul teatro: “se un’arma da fuoco compare in scena nel primo atto di un’opera, sicuramente avrà sparato prima dell’ultimo”.

Ora siamo vicini se non all’ultimo, almeno al penultimo atto del decorso storico dell’imperialismo occidentale e, soprattutto, americano. Sicuramente non è tanto la Russia di Putin a rappresentare la prima minaccia economica e militare per gli Stati Uniti, ma lo sono sicuramente la Cina e la situazione di rifiuto del comando statunitense (e della sua moneta) sviluppatasi non soltanto nell’ambito dei BRICS, ma in ogni continente esterno alla porzione occidentale del mondo.

Scontro, ipotizzabile su scala mondiale e dalle alleanze contraddittorie e non ancora del tutto date, che oltre a costituire il vero epicentro del terremoto economico e militare attuale, di cui la campagna ucraina di Putin potrebbe rivelarsi soltanto come un modo (parzialmente fallimentare) di saggiare il terreno avversario dopo il disastro afgano (qui e qui), sta alla base dell’inevitabile terzo o quarto conflitto mondiale (dipende soltanto dai punti di vista)4 ormai prossimo (almeno sulla scala del tmpo storico), se non già in atto.

Conflitto in cui il numero di soldati necessari potrebbe ampiamente sopravanzare le disponibilità di arruolamento statunitensi ed europee e, soprattutto, la disponibilità al sacrificio e alla sofferenza delle popolazioni occidentali e del loro dispendioso stile di vita e che richiederebbe sicuramente la necessità di anticipare le mosse dell’avversario, si pensi alla caldissima questione di Taiwan e del controllo del Mar della Cina e del Pacifico Orientale, con un primo e “decisivo”(?) lancio di testate o bombe nucleari.

Situazione drammatica, ma da tempo ampiamente prevedibile anche senza il recente annuncio del presidente dormiente.

(19 – continua)


  1. Si veda: Sandro Moiso, Warzone ovvero da Flint a Flint: la guerra come condizione di esistenza, introduzione a S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismo, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 11-15  

  2. Spesso inseriti con il compito di controllare e indirizzare tutte le scelte militari sulla base delle tattiche e alleanze elaborate o concordate con altre forze dalla direzione del Partito, anche nell’ambito della guerra partigiana come avvenne durante la Resistenza, più che di fornire un’effettiva ed adeguata formazione politica ai militari e ai combattenti.  

  3. Cui la strategia della “guerra lampo” di Erwin Rommel, e degli altri generali della Wermacht nel corso della prima parte del secondo conflitto mondiale, si ispirò invece totalmente.  

  4. Si veda ancora in proposito: S. Moiso, War! e Yankee Doodle Goes to War in S. Moiso, La guerra che viene, op. cit., pp. 28-39  

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Il nuovo disordine mondiale: chi semina vento raccoglie tempesta https://www.carmillaonline.com/2022/02/25/il-nuovo-disordine-mondiale-chi-semina-vento-raccoglie-tempesta/ Fri, 25 Feb 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70654 di Sandro Moiso

Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più (Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce [...]]]> di Sandro Moiso

Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più (Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce e davanti agli occhi di tutti quelle stesse contraddizioni, troppo spesso sommerse da un mare di menzogne e illusioni, cui si è prima accennato.

Contraddizioni di ordine economico, geo-politico, militare, sociale, produttivo e ambientale che di volta in volta vengono segnalate singolarmente, in nome di un’eccezionalità che invece, vista in una dimensione più ampia e completa, dovrebbe essere percepita come norma di un sistema che, dopo aver suscitato appetiti ed aspettative esagerate in ogni settore di una società in/civile basata sull’egoismo proprietario e l’individualismo atomizzante, non può soddisfare le aspirazioni materiali ed ideali che si manifestano globalmente, sia a livello macroscopico che molecolare.

Prima con la spartizione del mondo in due blocchi, definiti più dal punto di vista ideologico che da quello della effettiva struttura economica, poi con il preteso nuovo ordine mondiale a sola guida statunitense dopo il fallimento del blocco definito come orientale o sovietico, era sembrato agli analisti politici ed economici superficiali e agli ideologi da strapazzo come Francis Fukuyama (politologo e teorico statunitense della “fine della Storia”) che fosse possibile un lento e progressivo affermarsi dei valori democratici e liberali occidentali e del conseguente modello di sviluppo e progresso capitalistico, sotteso dagli stessi, a livello mondiale. Il tutto attraverso un costante appiattimento delle contraddizioni residue in funzione di un radioso e felice futuro di sfruttamento e accumulazione di ricchezze (private più che pubbliche e, possibilmente, più nella parte occidentale del mondo piuttosto che in quella orientale e meridionale).

Così, negli ultimi decenni, soprattutto nel paese di Sanremo e delle canzonette politically correct, il lavoro di chi non ha avuto timore di “sporcarsi le mani” con la questione della guerra e di un suo possibile allargamento a livello generale1 è stato visto come un’inutile e superata (forse ridicola per alcuni?) predizione da eterna Cassandra, in un sistema in cui non solo le contraddizioni interimperialistiche, ma anche sociali erano invece destinate a risolversi attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa e della trattativa qualunque essa fosse (diplomatica, sindacale o politico-parlamentare non importa), purché non violenta e rispettosa delle regole del buon vivere in/civile.

Purtroppo per gli illusionisti del capitale e dei loro, talvolta inconsapevoli, seguaci le cose non sono andate affatto così. Anzi, al contrario, gli eventi hanno preso una piega “imprevista” che, a partire dall’11 settembre 2001, ha subito un’accelerazione legata al sorgere del radicalismo islamico (anche e forse in maniera ancor più significativa nelle periferie delle metropoli occidentali), alle lunghe e irrisolte guerre nel quadrante mediorientale e afghano, al progressivo ritorno della Russia sulla scena internazionale sia dal punto di vista militare che diplomatico (proprio a partire dall’era Putin), all’irresistibile ascesa economica e politica della Repubblica Popolare cinese, alle conseguenze della prima gigantesca crisi finanziaria dovuta alle conseguenze della globalizzazione (2008 e anni successivi), ad uno ipertrofico sviluppo della digitalizzazione e dell’applicazione dell’elettronica in un contesto in cui sempre più spesso i metalli e le terre rare di cui si fa uso sono quasi totalmente sotto il controllo della Cina e della Russia e, in tempi ormai recentissimi, alle conseguenze sanitarie economiche e sociali della pandemia oltre che del sempre più drammatico manifestarsi della divisione politica (sociale razziale e di classe) negli Stati Uniti e al precipitoso e infruttuoso ritiro degli stessi e della NATO dall’Afghanistan.

Così, in un articolo del comitato di redazione apparso il 14 febbraio scorso sul «Wall Street Journal», alla fine, una delle voci più importanti del capitalismo statunitense ha dovuto prendere atto di tutto ciò, anticipando i fatti successivi:

Un’invasione russa dell’Ucraina sarebbe un evento fondamentale destinato ad accelerare il nuovo disordine mondiale. I segnali si stanno costruendo da anni, ma l’America e i suoi alleati sono impreparati […] L’amministrazione Biden ha fatto un discreto lavoro di retroguardia nel mobilitare l’Europa e la NATO in opposizione ai progetti della Russia sull’Ucraina […] Gli alleati sono per lo più a bordo della promessa degli Stati Uniti di “conseguenze massicce” se la Russia invade, anche se ci chiediamo per quanto tempo Germania, Francia e Italia manterrebbero la rotta. Le deboli sanzioni occidentali dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008 e della Crimea nel 2014, hanno incoraggiato Vladimir Putin a credere che l’Europa non abbia la volontà di resistere con qualcosa di serio.
Quello che Biden non ha fatto è spiegare agli americani i nuovi pericoli globali e cosa deve essere fatto per proteggere gli interessi degli Stati Uniti. Il problema va ben oltre l’Ucraina. La Cina vuole conquistare Taiwan e dominare il Pacifico occidentale. Il nuovo condominio Russia-Cina significa che lavoreranno insieme contro gli interessi degli Stati Uniti. L’Iran è vicino a ottenere un’arma nucleare e i jihadisti sono tutt’altro che sconfitti.
L’avanzamento della tecnologia e la sua proliferazione mettono anche a rischio gli americani, in patria e all’estero. L’attacco informatico al Colonial Pipeline dello scorso anno è stato un modesto spettacolo del danno che un attore straniero può infliggere alla patria degli Stati Uniti. Le armi ipersoniche e antisatellite potrebbero eliminare le difese statunitensi in tutto il mondo in pochi minuti e con poco o nessun preavviso. In una sorta di Pearl Harbor high-tech.
Niente di tutto questo è allarmista o inverosimile per chiunque presti attenzione. Eppure la maggior parte degli americani sembra indifferente o compiacente riguardo ai rischi. In parte questo è il risultato della stanchezza per le guerre in Iraq e Afghanistan. Gli ultimi tre presidenti hanno anche alimentato il desiderio, a sinistra e a destra, di tornare a casa, l’America.
Barack Obama ha risposto docilmente alle avances di Putin e a quelle di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Donald Trump ha assunto una posizione più forte e ha aumentato la spesa per la difesa, ma ha anche alimentato l’illusione che gli Stati Uniti potessero ritirarsi dal mondo e rimanere al sicuro. Biden ha per lo più ignorato il mondo nella campagna del 2020 e il suo fallito ritiro dall’Afghanistan ha convinto gli avversari, e persino molti alleati, che gli Stati Uniti sono in ritirata.
Ma la realtà alla fine morde, e ora lo sta facendo sotto gli occhi di Biden.
[…] La diffusione dell’aggressione e del disordine minaccia la libertà e la prosperità americane. Nessuno sta per invadere la patria, ma gli attacchi informatici potrebbero paralizzare pezzi dell’economia. Gli alleati che sono stati a lungo al nostro fianco potrebbero voltarsi dall’altra parte per compiacere i nuovi stati canaglia. Gli interessi economici degli Stati Uniti saranno a rischio.
Biden dovrà anche spostare l’attenzione della sua presidenza dall’espansione dello stato sociale interno al miglioramento della sicurezza nazionale. Le sue richieste di bilancio per la difesa dovranno aumentare in modo sostanziale.
Soprattutto, Biden dovrà costruire alleanze bipartisan sulla sicurezza nazionale, come hanno fatto Franklin Delano Roosvelt e Harry Truman in altri punti cardine della storia. Le forze isolazioniste emergono sempre quando il mondo diventa più pericoloso, nella speranza che gli Stati Uniti possano nascondersi dietro una Fortezza America. Biden dovrà trovare alleati in entrambe le parti per sconfiggere quel richiamo di sirena.
Nel 1940 Roosevelt nominò i repubblicani Henry Stimson Segretario alla Guerra e Frank Knox Segretario della Marina. Iniziarono a ricostruire le difese degli Stati Uniti in previsione che il paese potesse essere trascinato nei conflitti che infuriavano in Europa e in Asia. Truman lavorò con Arthur Vandenberg, un tempo senatore isolazionista del GOP2, per costruire la NATO e combattere la Guerra Fredda contro il comunismo. Biden dovrebbe portare i falchi del GOP nei ranghi più alti della sua amministrazione per ottenere consigli migliori e sottolineare i pericoli che ci attendono.
Niente di tutto questo sarà facile nella nostra politica divisa […]. Biden ha ancora tre anni di mandato e i nemici del mondo non aspetteranno fino al 2024 perché gli Stati Uniti si mettano d’accordo3.

Non vi può essere dubbio alcuno, scorrendo le righe appena proposte, che la richiesta sostanziale del capitale finanziario (e non) americano al proprio governo sia quella di prepararsi ad una guerra allargata, sostanzialmente mondiale.
Confermando così anche quanto scritto nell’editoriale dell’ultimo numero della rivista «Limes»4 a proposito della spinta che l’attuale politica estera americana ha dato al riavvicinamento politico ed economico, senza escludere al momento quello militare, tra Cina e Russia:

Sulle bandiere di ogni potenza è ricamato il motto romano divide et impera, Washington dissente e incolla i Numeri Due e Tre, forse per noia del suo esorbitante primato. Matrimonio di puro interesse, indissolubile fin quando cinesi e russi non stabiliranno chiusa per palese inutilità la stagione dell’asimmetrica manipolazione reciproca. Portiamo questo argomento a suggestione della tesi per cui non solo l’ordine mondiale inteso ordine americano del mondo è in crisi, ma che qualsiasi altro assetto contrattualizzato del pianeta è improbabile.
Non sappiamo quando il Numero Uno abdicherà. Ci illudiamo di poter stabilire che a succedergli non sarà altro egemone. Più probabile un’età di torbidi…

Per aggiungere poi ancora, poco dopo:

Il generale cinese Qiao Lang5 ha sviluppato nel suo L’arco dell’impero6 la tesi per cui l’errore ormai irrecuperabile di Washington è di considerare Pechino massimo sfidante: «In un futuro non troppo lontano, la vera causa del declino dell’America non verrà dalla Cina, ma dall’America stessa».

Sarà ripreso più avanti il discorso qui accennato sulla rovina proveniente da fattori interni all’America settentrionale7, mentre per adesso occorre sottolineare come il rischio effettivo di una guerra allargata sia entrato di colpo nel discorso mediatico mainstream, come non mai da molti decenni a questa parte. Come ad esempio dimostra il direttore di «La Stampa», Massimo Giannini, nel suo editoriale del 25 febbraio:

Con tutta evidenza, la via delle sanzioni è insufficiente. L’America e l’Europa ne parlano da giorni, ne hanno annunciate “diverse e dolorose” l’altro ieri. Si è visto com’è finita. Putin non se n’è neppure accorto, e 24 ore dopo ha attaccato come se nulla fosse. Ieri sera Biden ha rilanciato, parlando di restrizioni economiche che costerebbero 3 trilioni di dollari al ricco Vladimir e ai suoi “apparatciki”. Armi spuntate, purtroppo. Vuoi perché gli Stati che le dovrebbero applicare sono troppo divisi tra loro (come dimostra il veto italo-tedesco posto al Consiglio europeo sull’ipotesi di esclusione della Russia dal circuito finanziario Swift). Vuoi perché le sanzioni sono una spada senza impugnatura: colpiscono chi le subisce, ma feriscono anche chi le irroga (come dimostrano quelle sulle forniture di gas, infinitamente più pesanti per l’Europa, che grazie a quello russo soddisfa il 90 per cento del suo fabbisogno, di quanto non lo sarebbero per Putin, che può dirottare facilmente l’eventuale invenduto alla “sorella Cina”).
Ci restano solo le armi convenzionali, o magari addirittura nucleari? La prospettiva è agghiacciante in ogni senso, per gli effetti devastanti che avrebbe in termini di costi umani, economici, diplomatici. Ma questo parrebbe il dilemma, oggi. Lo “spirito di Monaco”, che lascia a un altro Fuhrer i suoi Sudeti e getta le basi di futuri stravolgimenti globali. O lo “spirito di Marte”, il dio furente e vendicativo che prepara la Terza Guerra Mondiale. L’alternativa del diavolo. Perché se la seconda è moralmente scandalosa, la prima è maledettamente pericolosa8.

Ciò che è interessante, nell’editoriale di Giannini è che il discorso su una possibile guerra mondiale è definitivamente sdoganato: in entrambi i casi, infatti, il gran finale è costituito da una guerra su larga scala. Al di là degli accostamenti tra Hitler e Putin, oggi così di moda e fuorvianti, non certo sulla base del fatto che il secondo possa essere più accettabile del primo, è però necessario annotare come in entrambi i casi la spinta alle annessioni territoriali e all’espansionismo militare fu ed è determinato da un problema di “spazio vitale” per la nazione ritenuta responsabile dell’aggressione.

Nel caso di Hitler determinato dall’annosa questione del corridoio di Danzica e dalle severe restrizioni territoriali e dalle riparazioni “di guerra” imposte alla Germania dopo il primo conflitto mondiale che, come annotò già ai tempi un osservatore come John Maynard Keynes9, non avrebbero potuto condurre ad altro che ad un nuovo conflitto. Nel caso di Putin da un’arroganza, tipica dell’Occidente americano e della sua cecità prospettica, nel voler imporre basi della Nato, dopo averle distribuite già in tutti i paesi dell’ex-Patto di Varsavia, praticamente alle porte di Mosca, posizionando i missili a poche centinaia di chilometri dalla capitale russa (4 minuti di volo per eventuali missili ipersonici). Dimenticando così la massima del generale inglese Montgomery secondo il quale su ogni manuale di strategia militare si sarebbe dovuto scrivere, fin dalla prima pagina: Mai marciare su Mosca. E autentico casus belli, come ha anche dichiarato il direttore di «Limes», Lucio Caracciolo, alla trasmissione serale condotta dalla Gruber la sera del 24 febbraio: «E’ stata la causa movente. Dal punto di vista russo, la Nato è il nemico che le sta entrando in casa e l’allargamento fatto a partire dagli anni ’90 in maniera sistematica dal punto di vista russo è percepito come una minaccia esistenziale».

Ritornando invece all’editoriale della medesima rivista di geo-politica, può rivelarsi utile riprendere il discorso sulla “debolezza americana”, di cui le accresciute tensioni interne sono una riprova e allo stesso tempo, uno dei principali motivi dell’altalenante azione politica, diplomatica e militare della superpotenza atlantica.

Il fenomeno geopolitico più importante del nostro tempo è la scissione interna alla nazione americana. I tecnici della politica la marchiano “polarizzazione”. Termine anodino. Riduce la scissione a biforcazione, meccanica all’interno di un insieme nel quale si manifestano opinioni e tendenze diverse che si legittimano reciprocamente. Qui però è in questione l’identità collettiva. Postulato non negoziabile[…] Non dunque la classica bipartizione politica. Qualcosa di molto pi intimo e radicale […] Di qui la crescita della violenza in un paese che vi inclina per nascita, come testimoniano proliferare delle milizie e diffusione delle armi. Fra l’etnia repubblicana, certo, ma anche democratica, specie donne e neri che non contano sulla protezione dello Stato. Nelle stesse forze armate, in particolare fra i veterani, serpeggiano intenzioni sediziose. Un assaltatore del Campidoglio su cinque ha una storia militare.
[…] Dal destino manifesto al declino manifesto? […] Washington al bivio: rilanciare o ritirarsi? Istinto e record storico spingono all’offensiva […] I destinisti inconcussi puntano tutto sulla prima scelta, a costo di partire in guerra. Ma guerra vera contro Cina o/e Russia, senza esclusione di colpi. Non l’ennesima guerretta persa o pareggiata dal 1945 in poi. Rien ne va plus? I declinisti timorosi di perdere tutto, perplessi sulla tenuta del fronte interno, invitano a restringere l’angolo d’impegno esterno […] Se l’America scansa la scelta, saranno gli sfidanti a imporle le proprie. Convinti di potersi manifestare molto più aggressivi grazie allo sfasamento del leader. Cina e Russia paiono disposte a rischiare la guerra, quanto meno in retorica (ma in geopolitica la distanza tra parole e cose può svelarsi minore di quanto appaia). Da tre generazioni i pesi massimi non si affrontano più in battaglia, se non per via indiretta. Contingenza fortunosa o nuova legge storica? Preferiremmo non sciogliere la riserva. Ma se il lettore pretende, riluttando, indicheremmo busta numero uno10.

Un altro aspetto importante sottolineato invece da Giannini è quello di una coalizione di alleati, quelli europei, estremamente divisi, la cui dipendenza energetica da Mosca è anche dovuta alle sconclusionate politiche neo-coloniali condotte da nazioni come la Francia che, dopo aver definitivamente minato le basi dell’approvvigionamento energetico italiano in Libia, si è poi trovata a vedersele contese da due avversari dal ben diverso potenziale militare: Turchia e Russia.

Divisioni dovute ad interessi geo-politici, economici e finanziari che restano assopite, nel caso europeo, soltanto per l’ambiguo legame rappresentato dall’Unione Europea e dalla “comune” appartenenza alla NATO. Divisioni che dovrebbero far capire, anche ai più testardi e duri di comprendonio, come il cosiddetto secolo breve si stia invece rivelando come uno dei più lunghi della Storia, considerato che il ‘900 iniziato con il primo conflitto mondiale non è ancora mai finito e che anzi vede tornare ripetutamente alla ribalta gli stessi fattori geopolitici, sociali ed economici che finirono col determinare due guerre mondiali, un numero imprecisato di dittature, di rivoluzioni e controrivoluzioni e, soprattutto di stragi infinite. In ogni angolo del pianeta, ma anche qui in Europa dove le stesse contraddizioni attuali già segnarono il cammino del martirio dei paesi balcanici negli anni ’90. Come, forse, anche il presidente ucraino Zelensky ha iniziato a comprendere di fronte all’attuale disparità che intercorre tra le ridondanti promesse europee e americane ed effettiva volontà di intervento a favore del suo governo.

Per questo motivo le ultime righe di questo primo intervento non sono destinate ad individuare le linee di sviluppo militare, geo-politico e strategico inerenti all’attacco russo all’Ucraina, ma, principalmente, a sottolineare i ritardi e gli errori, troppo spesso clamorosi, di tutti coloro che pur sentendosi parte di un’opposizione all’esistente hanno preferito chiudere gli occhi, illudersi e rivolgersi ad obiettivi apparentemente già belli e pronti, con tanto di simulacri di movimenti nelle piazze, piuttosto che dedicare tempo e attenzione a ciò che da tempo bolliva nella pentola degli apprendisti stregoni del capitale e delle sue esigenze. Perdendo così l’occasione sia di farsi trovare pronti al momento dell’esplodere del conflitto, sia di meritare qualsiasi riconoscimento o merito politico “reale” per poter affrontare i difficili tempi che verranno. Accontentandosi magari e ancora una volta di accodarsi a movimenti pacifisti di stampo umanitario che non serviranno ad altro che a motivare ancor di più la partecipazione a guerre che, sia da un lato che dall’altro del fronte, non appartengono a chi vuole liberarsi da un modo di produzione immondo. Ad Ovest come ad Est, a Nord come a Sud.

Così mentre il capitale riuscirà probabilmente ancora a volgere a proprio favore un’altra situazione difficile, come ha già saputo fare con l’emergenza pandemica, avanzando fin da subito le richieste di riapertura di centrali a carbone o nucleari per far fronte alla nuova emergenza energetica, gli antagonisti da riporto continueranno a discettare, sulle orme di un incartapecorito Agamben, su libertà individuale, democrazia formale ed altre quisquilie, dimenticando che qualsiasi discorso di opposizione all’esistente deve per forza di cose ruotare, senza se e senza ma, intorno ai due assi del conflitto tra capitale e lavoro (guerra di classe) e dell’opposizione alle insanabili contraddizioni interimperialistiche (guerra imperialista) intersecantisi sul piano cartesiano delle possibilità di rovesciamento reale del modo di produzione attuale. Unica bussola possibile per orientarsi nel caos della disinformazione, della propaganda, della paranoia, della drammatizzazione mediatica e della muffa ideologica che vengono propinate come verità assolute da entrambe le parti in conflitto.

(1 – continua)


  1. Si veda in proposito: Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019  

  2. Grand Ole Party, come viene definito il Partito repubblicano  

  3. The New World Disorder, «Wall Street Journal», 14 febbraio 2022  

  4. Cose dell’altro mondo in L’altro virus, «Limes» n° 1/2022, pp. 7-30  

  5. Già autore insieme a Wang Xiangsui di Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione (a cura del generale Fabio Mini), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001  

  6. Qiao Lang, L’arco dell’impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle due estremità (a cura del generale Fabio Mini), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2021  

  7. Già anticipato da chi scrive qui  

  8. Massimo Giannini, L’ora più buia dell’Occidente, «La Stampa», 25 febbraio 2022  

  9. Si veda: John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano 2007  

  10. Cose dell’altro mondo, «Limes» n° 1/2022, pp. 16-25  

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Note di carattere militare sulla disfatta occidentale in Afghanistan https://www.carmillaonline.com/2021/09/02/su-alcuni-aspetti-militari-della-disfatta-occidentale-in-afghanistan/ Thu, 02 Sep 2021 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67937 di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un [...]]]> di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un bambino afghano pochi giorni prima di rimanere uccisa nell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto. Ma ciò che si vuole fare qui non è la solita cronaca, pietistica e inutilmente retorica, cui ci ha abituato la narrazione mediatica degli ultimi eventi afghani.

Quella foto e quella notizia devono farci riflettere, invece e soprattutto, sul piano storico e militare, poiché la soldatessa americana, a conti fatti, doveva avere all’incirca 3 anni quando gli USA invasero l’Afghanistan con la scusa di colpire gli organizzatori dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.
Vent’anni dopo, Nicole Gee è morta nella stessa guerra, non a caso indicata come quella più lunga combattuta dagli Stati Uniti nel corso della loro storia.

Se si esclude la guerra dei Trent’anni, scatenatasi in Europa tra il 1618 e il 1648, forse in nessun’altra guerra degli ultimi quattrocento anni è capitato che chi fosse nato durante o all’inizio della stessa facesse in tempo a farsi ammazzare nel corso della medesima. Si intenda: come militare poiché, è chiaro, i civili di ogni genere ed età fanno sempre in tempo a cadere come vittime in qualunque istante di qualsiasi conflitto.

Un conflitto, quello afghano, che sembra essere stato vissuto in modi discordanti sui due fronti, come spesso capita nelle guerre in cui si fronteggiano i rappresentanti dell’occupazione coloniale straniera da un lato e i partigiani della resistenza dall’altro, poiché il tempo gioca quasi sempre a favore dei secondi, nonostante le maggiori sofferenza e distruzioni subite dal popolo invaso. Soprattutto là dove la differenza culturale ed economica crea percezioni del tempo estremamente diverse, in cui la “fretta” partorita da una modernità sempre più digitalizzata si scontra con i “tempi lunghi” di società ritenute arcaiche. Che, però, proprio per questo motivo, possono affidarsi a intense campagne di primavera per poi sparire nel nulla in autunno, in una ciclicità che è più vicina ai tempi della Natura, dell’agricoltura e della pastorizia che a quelli dell’obiettivo immediato di carattere industriale e capitalistico.

Anche per tale motivo la moria di giovani soldati americani, che erano da poco nati oppure ancora neonati quando ebbe inizio la cosiddetta “guerra al terrore”, ci parla di qualcos’altro. Ci racconta la storia di una sconfitta annunciata, fin dalle prime battute recitate dagli attori di un dramma in cui, complessivamente, sono stati due milioni i soldati americani mandati a combattere, in Iraq e in Afghanistan. Si calcola, inoltre, che di questi due milioni una percentuale tra il 20 e il 30 per cento sia rientrata con un disturbo da stress post-traumatico, cioè un problema mentale provocato dall’aver vissuto situazioni belliche particolarmente intense o drammatiche, una ferita psicologica anziché fisica. E le conseguenze sono depressione, ansia, insonnia, incubi, disturbi della memoria, cambiamenti di personalità, pensieri suicidi. Ovvero: esistenze spezzate, relazioni in frantumi. Cinquecentomila veterani mentalmente feriti, un numero impressionante, una percentuale più alta rispetto ai conflitti precedenti1.

Quasi sicuramente, tra i più di 2.300 caduti e 12.500 feriti americani in Afghanistan, anche altri devono aver subito lo stesso destino di Nicole Gee2, anche se le perdite americane nello stesso conflitto, escluse quelle del 26 agosto 2021, erano decisamente diminuite dopo il 2013. Ma ciò che ci segnala simbolicamente questa morte è l’eccessiva e inutile durata di un conflitto che, nonostante le almeno 35.000 vittime civili3 (mentre il «Corriere della sera» del 31 agosto ne riporta 47mila), non ha dato risultati politici concreti e nemmeno economici, se non sul piano della spesa militare interna statunitense, tutta a vantaggio delle complesso industriale legato alla produzione di armi e tecnologia fornite all’esercito, all’aviazione e alla marina degli Stati Uniti (e ai suoi fornitori esteri) oppure ai grandi speculatorii della finanza internazionale.

La guerra che non si poteva vincere, come ora la definiscono in tanti, è costata agli Stati Uniti, dall’invasione del 7 ottobre 2001 a oggi, 2.313 miliardi di dollari: una cifra che si fa fatica anche ad immaginare.
[…] Nella maggior parte delle ricostruzioni il «prezzo» del conflitto si ferma a 815,7 miliardi di dollari, perché quello è l’ultimo report del 2020 del dipartimento della Difesa. Una cifra che copre le spese operative, dal cibo per i soldati al carburante per i mezzi, dalle armi alle munizioni, dai carri armati agi aerei. Ma non conta gli interessi già pagati sugli ingenti prestiti che Washington ha contratto per finanziare le operazioni, l’assistenza ai reduci – costi che continueranno a crescere negli anni a venire – i miliardi di aiuti umanitari e soprattutto per il nation building. Dall’addestramento delle truppe alla costruzione delle strade, scuole e altre infrastrutture, questa parte ha richiesto 143 miliardi dal 2002 ad oggi, secondo lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar).
Proprio il rapporto dell’ispettore generale spiega come tanti di quei soldi siano andati in fumo – scuole e ospedali vuoti, autostrade e dighe in rovina – per l’incapacità del governo americano di affrontare la piaga della corruzione degli alleati afghani, da Hamid Karzai all’ultimo presidente Ashraf Ghani (che non a caso è scappato con un gigantesco malloppo appena Kabul è caduta4.

Tutto senza tenere conto delle spese nel confinante Pakistan, utilizzato come base logistica e militare per le operazioni, e del fatto che i progetti di aiuto hanno visto come beneficiari organizzazioni internazionali e istituzioni afghane con base nelle città più importanti, soprattutto Kabul, dimenticando che la stragrande maggioranza della popolazione afghana vive, lontana dalle città, di agricoltura e pastorizia, settori cui è stata riservata invece una percentuale insignificante del totale. Scelta che ha contribuito ad una ancor più rapida urbanizzazione della capitale, portandola ad essere la settantacinquesima città più popolosa al mondo (con circa 5 milioni di abitanti), con un territorio di 1.023 km² e una densità di circa 4.200 abitanti per km², nonostante la popolazione afghana sia di 38 milioni di abitanti su un territorio grande più del doppio dell’Italia (652.864 km²) e con una densità media abitativa di un quarto circa di quella italiana.

Questi dati ci dicono due cose: la prima è che gran parte del territorio afghano è troppo poco abitato per far sì che le moderne tecnologie belliche abbiano effetto duraturo. Non si può bombardare il nulla e il poco, al massimo si possono uccidere e terrorizzare momentaneamente villaggi, famiglie, aree ristrette, dopo di che la resistenza riprenderà più ostinata.

Non per nulla l’Afghanistan è stato definito la tomba degli imperi e, tralasciando le disastrose esperienze già toccate agli inglesi e ai russi nel corso dell’Ottocento e del Novecento, può essere utile ricordare che anche Alessandro Magno, nel corso della sua marcia verso i confini dell’India e del mondo conosciuto, dovette condurre per tre anni una feroce e non risolutiva lotta contro la resistenza incontrata nella Battriana (corrispondente in gran parte all’attuale Afghanistan settentrionale), allora compresa nei confini dell’impero persiano che il giovane condottiero andava rivendicando per sé dopo aver sconfitto e costretto alla fuga Dario.

Soprattutto tra le steppe desertiche e le catene montuose dell’Hindu Kush, che ancora tagliano in due il paese, saldandosi verso nord-est con i massicci del Pamir e del Karakorum, mentre a sud-est si congiungono con i monti Sulaiman, la guerra americana si è caratterizzata principalmente, fin dai primi anni, per le truppe rinchiuse nei fortini sparsi per il paese e le città, da cui uscire per brevi e comunque pericolose missioni di perlustrazione oppure per gli assassini mirati messi in atto con elicotteri, droni e missili sparati e diretti da basi poste spesso fuori dallo stesso Afghanistan. Una guerra snervante fatta di perlustrazioni e posti di blocco, in cui troppe volte la paura ha portato i soldati americani a ritorsioni violente su civili disarmati o su intere famiglie, spesso sterminate senza motivo. Una guerra in cui anche gli elicotteri hanno mostrato tutta la loro fragilità durante le azioni diurne, costringendo i comandi ad utilizzare i grandi Black Hawk esclusivamente per uscite notturne affinché non costituissero un facile obiettivo per gli RPG (Rocket Propelled Grenade) della guerriglia.

Una guerra contro un nemico fantasma e invisibile, mostrata in tutta la sua assurdità dal documentario Restrepo, realizzato nel 2010 dal fotoreporter Tim Hetherington e dal giornalista Sebastian Junger, in cui si narrano le vicende di un plotone delle forze armate statunitensi durante un anno di permanenza tra le montagne afghane. Oppure dal libro, di David Finkel, I bravi soldati (Mondadori 2011) che documenta le traversie dei soldati americani in Iraq, di cui dobbiamo qui ricordare il lungo ritiro che si concluderà esattamente come quello afghano: dopo quasi vent’anni e senza aver ottenuto null’altro che la distruzione di un paese (in cui si sarebbe poi formato l’Isis).

La seconda cosa da tener presente, per qualsiasi tipo di valutazione, è che Kabul è una città troppo grande e abitata per poter essere controllata, soprattutto durante una ritirata rapida e affannosa come quella avvenuta in questi giorni.
Dal punto di vista militare, infatti, il combattimento nelle aree urbane, abitate da una popolazione ostile o insorgente, costituisce il vero incubo dei comandi militari: da Stalingrado all’insurrezione di Varsavia del 1944, fino alla striscia di Gaza e alla battaglia per la presa della città di Falluja, insorta contro l’occupazione americana in Iraq nel novembre del 2004, oppure alla grave sconfitta subita dall’esercito russo a Grozny durante la guerra cecena5.

Anche se le truppe americane e NATO si addestrano ormai da anni al combattimento urbano (qui), mentre gli interventi israeliani a Gaza costituiscono il banco di prova effettivo per migliorare la resistenza dei mezzi corazzati, di cui il carro armato Merkava continua ad essere uno dei prototipi più avanzati proprio per operare in tali condizioni (ancora qui), non può esservi dubbio che, anche in previsione della guerra civile globale di cui andiamo parlando da anni6, la battaglia o il semplice controllo militare all’interno delle aree urbane7 può rivelarsi impossibile da condurre se non al prezzo di perdite numerose e un’enorme distruzione di vite umane, fatto quest’ultimo che quasi mai gioca a favore della favola mediatica della “difesa della democrazia” o della sua “esportazione”.

L’attentato all’aeroporto di Kabul, in cui una buona parte delle vittime è stata causata dal fuoco amico dei soldati americani che hanno letteralmente perso la testa nella confusione, come attestano ormai le testimonianze raccolte dai reporter occidentali ancora presenti sul luogo, oppure le vittime “collaterali” (almeno 6 bambini e 4 adulti) del raid americano nei confronti di una presunta autobomba, diretta verso l’aeroporto della stessa città, non hanno fatto che dimostrare, fino alla fine, ciò che è stato sotto gli occhi di tutti fin dal 2001 e che il generale Carlo Jean, esperto di geo-politica e strategia militare, ha confermato negli ultimi giorni: Gli Stati Uniti non hanno mai voluto portare la democrazia in Afghanistan8.

Kabul oggi non può essere controllata del tutto dai Talebani e non poteva altrettanto esserlo dai marines o dai soldati occidentali presenti fino a pochi giorni or sono. Droni e satelliti spia, coadiuvati da informatori a terra possono svolgere una funzione importante, ma il bello viene sempre quando si tratta di mettere the boots on the ground.

Infatti non si tratta qui di parteggiare per la causa talebana o per l’intervento “umanitario”9, ma soltanto di cogliere l’inevitabile sconfitta di un progetto politico-militare che, rivolgendosi contro un intero e storicamente combattivo popolo10, non poteva che essere destinato alla sconfitta fin dall’inizio.
Come ha sostenuto chi scrive fin dal 200111 e come ha confermato la recente testimonianza di un veterano ed ufficiale dei marines, Lucas Kunce, che ha svolto più turni in quell’area.

Quello che stiamo vedendo in Afghanistan in questo momento non dovrebbe scioccarvi. Sembra così solo perché le nostre istituzioni sono intrise di disonestà sistematica. Non richiede una tesi per spiegare cosa stai vedendo. Solo due frasi.
Prima: per 20 anni, politici, élite e leader militari ci hanno mentito sull’Afghanistan.
Seconda: quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo.
Lo so perché ero lì. Due volte. Nelle task force per operazioni speciali. Ho imparato il Pashto come capitano dei Marines degli Stati Uniti e ho parlato con tutti quelli che potevo lì: gente comune, élite, alleati e sì, anche i talebani.
La verità è che le forze di sicurezza nazionali afghane erano un programma di lavoro per gli afghani, sostenuto dai dollari dei contribuenti statunitensi – un programma di lavoro militare popolato da persone non militari o forze “di carta” (che in realtà non esistevano) e uno stuolo di élite che afferravano ciò che potevano quando potevano.
E non era solo in Afghanistan. Hanno anche mentito sull’Iraq.
[…] Quindi, quando la gente mi chiede se abbiamo scelto il momento giusto per uscire dall’Afghanistan nel 2021, rispondo sinceramente: assolutamente no. La scelta giusta sarebbe stata quella di uscire nel 2002 o 2003. Ogni anno in cui non uscivamo era un altro anno che i talebani usavano per affinare le loro abilità e tattiche contro di noi – la migliore forza combattente del mondo. Dopo due decenni, 2 trilioni di dollari e quasi 2.500 vite americane perse, il 2021 era troppo tardi per fare la cosa giusta.
[…] Le bugie sull’Afghanistan contano non solo per i soldi spesi o per le vite perse, ma perché sono rappresentative di una disonestà sistematica che sta distruggendo il nostro paese dall’interno verso l’interno.
Ricordate quando ci hanno detto che l’economia era tornata? Un’altra bugia.
[…] Quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo12.

Proprio per questo motivo tutte le “anime candide” che continuano ad affermare che non vi è più alcuna guerra “mondiale” possibile o sono in malafede oppure prive di strumenti di analisi adatti a comprendere seriamente le conseguenze di quanto sta avvenendo in un quadro internazionale in cui l’indebolimento dell’impero americano (e occidentale in genere) non potrà che portare ad altre ancor più tragiche convulsioni e catastrofi. In casa e all’estero. Considerata anche l’attenzione che gli Stati Uniti e il Pentagono sembrano sempre più rivolgere alla Cina e al suo operato economico e strategico13.

Non bisogna infatti dimenticare che esattamente come per la precipitosa ritirata militare dal Vietnam, che ha costituito per molti osservatori attuali una catastrofe politica e militare minore di quella odierna che, a differenza di allora, coinvolge tutto l’Occidente, uno dei motivi del ritiro (già annunciato da Obama nel 2011)14 dal quadrante centro-asiatico delle truppe statunitensi è legato anche ad una sempre maggior insofferenza dell’elettorato americano, povero o appartenente ad una middle class oggi tartassata come mai prima, nei confronti di una guerra di cui scarsamente ha compreso utilità e significato. Senza contare che, probabilmente, già al dicembre 2006 almeno diecimila soldati statunitensi avevano disertato il campo di battaglia iracheno15.

Ma se in Vietnam occorsero 70.000 morti e centinaia di migliaia di feriti, oltre alle rivolte studentesche, degli afro-americani, dei gruppi etnici minoritari, non appartenenti a quello WASP, e dei soldati stessi, oggi, con un numero molto inferiore di morti e feriti, il carico per la società americana impoverita e ferita dalle crisi successive e sempre più gravi, è diventato insopportabile e costituisce uno di quegli elementi che fondano la possibilità di una nuova guerra civile americana di cui si è già parlato su Carmilla.
Senza dimenticare, poi, che già nel 1993/94 (qui) bastarono all’allora presidente Bill Clinton una ventina di morti durante la cosiddetta battaglia di Mogadiscio del 3 e 4 ottobre del 199316 per ritirare precipitosamente le truppe dall’operazione Restore Hope (nomen omen) in cui era stata coinvolta anche l’Italia attraverso l’ONU. Battaglia che era costata il più alto numero di morti americani, fino ad allora, dalla fine della guerra in Vietnam.

Ma come ha affermato in una recente intervista Lucio Caracciolo, analista geo-politico e giornalista di rilievo:

Gli americani non sono usciti mentalmente dalla guerra al terrorismo, cioè da un meccanismo che possiamo definire nevrotico, per il quale da un attacco terroristico si genera una reazione militare da cui scaturisce un nuovo attacco terroristico e così via in un gioco infinito. Questa, però, non è una guerra contro un nemico, perché il terrorismo è un metodo che chiunque può adottare, non è identificabile, è mutante e infatti muta in continuazione. E’ però anche una guerra contro noi stessi.
Perché il modo di approcciare il tema crea un meccanismo negativo, costringendoci in un circuito infernale nel quale non abbiamo possibilità di vittoria ma di sicura sconfitta. Non nel senso strategico, ma di un progressivo logoramento, in particolare della reputazione americana e occidentale. E questo riguarda anche noi europei, in particolare noi italiani nella misura in cui, per certificare la nostra esistenza in vita, partecipiamo a missioni in cui non abbiamo nessun interesse da difendere se non dimostrare che esistiamo. Senza avere nessuna idea su quale tipo di scambio ottenere.
[Sugli Usa e la loro politica] E’ impossibile dare giudizi definitivi e tranchant. Mi pare evidente che esista una crisi identitaria e culturale che da diversi anni sta colpendo gli Stati Uniti. Il suo punto di inizio può essere rintracciato nella vittoria della”guerra fredda” che ha privato gli USA di un nemico perfetto, che tra l’altro risparmiava loro la metà del lavoro ( ad esempio in Afghanistan quando c’erano i sovietici)e la cui scomparsa ha fatto perdere la bussola strategica.
Tutte le strategie dopo l’89 sono state degli adattamenti. E così gli Stati Uniti pensano fino all’11 settembre di essere in cima al mondo e si lanciano in un’avventura di cui non si vede l’obiettivo finale semplicemente perché non esiste. […] E questa crisi mette l’America in una situazione di stress come si è visto a Capitol Hill il 6 gennaio. Non è un problema di Trump o Biden, ma di America17.

Ciò, però, che maggiormente sembra indicare il reale senso della débâcle americana in Afghanistan non è tanto la fotografia in cui i talebani si prendono gioco della storica, ma falsa, fotografia, scattata a Jiwo Jima dopo lo sbarco dei marines18 e, ancor meno, l’enorme arsenale di armi, in gran parte sabotate prima della partenza, rimaste in mano ai talebani con la ritirata americana. Era già successo in Vietnam dove i vincitori si ritrovarono tra le mani giganteschi quantitativi di materiale bellico che andava dai mezzi corazzati e obici, in seguito venduti come ferraglia al miglior offerente che volesse farne uso per fonderlo e di cui approfittò soprattutto il Giappone per le sue acciaierie, alle lattine e bottiglie di Coca-Cola, e tutto ciò costituisce soltanto una dimostrazione di come ogni guerra moderna rappresenti un affare assoluto soltanto per la finanza e le industrie fornitrici degli eserciti. Che la guerra poi sia vinta o persa poco conta: la merce è già stata prodotta, venduta e pagata e i debiti sono stati contratti dagli stati. Un autentico paradiso per le grandi corporation e le banche, fin dal primo macello imperialista.

Invece lo è l’immagine che i media ci propinano, quasi senza rendersene conto, degli sciacalli europei o europeisti che, fingendosi umanitari, mostrano i muscoli accusando Biden e gli USA di non essere rimasti di più a difendere stabilità e democrazia. Un coro di nani che accusano il “poliziotto planetario”, senza il quale non avrebbero potuto sopravvivere un minuto, dalla guerra fredda all’Afghanistan e che agitano già lo spettro di altre guerre, con il feticcio di un esercito europeo eterodiretto19 che, senza la copertura dell’aviazione, dell’intelligence e dei satelliti spia americani non potrebbe sopravvivere, neppure per un istante, in nessuna delle disgraziate operazioni di cui ci ha parlato poco sopra Lucio Caracciolo. Ipotesi comunque che non ha mancato di suscitare immediatamente numerose e fondate critiche (qui), anche di là dell’Atlantico dove il Wall Street Journal del 30 agosto ha affermato che gli europei potranno contare qualcosa e dire la loro soltanto quando impiegheranno più risorse che retorica nella difesa comune20 e nella NATO, andando ben oltre il motto we play, you pay che sembra averne sempre caratterizzato la politica militare.

La nave affonda e, classicamente, i topi l’abbandonano, in gran spolvero di recriminazioni, rivendicazioni e vuote parole21. Se ne facciano una ragione però, anche tutti quegli intellettuali militanti che vedono in ogni aggressione ed operazione militare americana la capacità dell’imperialismo statunitense di raggiungere sempre i propri obiettivi programmati, dirigendo gli eventi e determinandone il corso. Dai complottisti dell’11 settembre, per i quali Bush e la CIA avrebbero creato ad hoc le condizioni favorevoli ad una guerra, fino ai sibillini piani di Trump per improbabili colpi di Stato.
Riprendetevi ragazzi e guardatevi intorno: l’età della guerra permanente è appena iniziata e il politically correct non servirà ad altro che a farla apparire giusta e democratica22.


  1. In proposito si veda David Finkel, Grazie per quello che avete fatto. Storia di militari e del loro ritorno a casa, Mondadori, Milano 2018  

  2. Dei tredici ultimi caduti americani, nell’attentato di Kabul, cinque avevano 20 anni mentre il più vecchio ne aveva 31  

  3. “Secondo le stime più attendibili, sono oltre 140 mila morti dall’inizio dell’intervento occidentale in Afghanistan, per metà combattenti talebani (o presunti tali), l’altra metà quasi equamente divisa tra giovani afgani delle forze di sicurezza e civili: almeno 26 mila — secondo uno studio condotto dalla Brown University — i civili uccisi nel corso della missione 14 ISAF (2001-2014), cui si aggiungono quasi 9 mila morti — secondo i dati pubblicati dalla missione ONU in Afghanistan (UNAMA) — dall’inizio della missione 15 RS (2015). A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati NATO (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri” – Fonte: Afghanistan. Sedici anni dopo, Rapporto MILEX 2017 (a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane)  

  4. Marlisa Palumbo, Armi, morti, debiti. Così è lievitato il costo (economico e non) della guerra più lunga, «Corriere della sera», 31 agosto 2021  

  5. L’ attacco su vasta scala di Groznyj che l’esercito della Federazione Russa mise in atto fra la fine di dicembre del 1994 e gli inizi di marzo 1995, durante la Prima guerra cecena, aveva l’obiettivo di conquistare rapidamente la città e riportare la secessionista Repubblica cecena di Ichkeria sotto il controllo della federazione. Contrariamente a quanto previsto, l’assalto iniziale delle truppe federali si risolse in un disastro e impantanò le forze di Mosca in una logorante battaglia casa per casa durante la quale la popolazione civile soffrì enormi perdite. Ad oggi l’assedio di Groznyj è considerato come il più distruttivo dalla seconda guerra mondiale. L’occupazione di Groznyj ebbe breve durata, giacché nell’agosto del 1996 le milizie indipendentiste avrebbero ripreso il controllo della città, ponendo fine alla guerra. Groznyj si estende oggi su una superficie di 324 km² , ha 297.410 (2018) abitanti e una densità di 917,48 ab./km²  

  6. Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

  7. Non soltanto per tracciare un paragone, ma per dare anche un’idea, niente affatto esaustiva, di quello che potrebbe essere il problema a livello internazionale, è forse qui utile fornire i dati su popolazione, superficie e densità di popolazione di alcune grandi città e capitali italiane e occidentali: Milano, superficie 182 km² – abitanti 1.396.522 – densità 7.687,14 ab./km²; Napoli, sup. 117 km², ab. 938.507, den. 8.003 ab./km²; Roma, 1.287 km², 2.778.662, 2.158,42 ab./km²; Parigi, 105,4 km², 2.229.095 (2018), 21.149 ab./km²; Berlino, 891 km², 3.769.495 (2019), 4.230 ab./km²; Madrid, 604 km², 3.223.334 (2019), 5.334 ab./km²; Washington, 177 km², 709.265 (2021), 4.007,15 ab./km²; New York, 785 km², 8.522.698 (2017), 10.857 ab./km² (I dati qui forniti non tengono conto delle frazioni o dei sobborghi integrati nelle rispettive aree)  

  8. Huffington Post, Esteri, 31 agosto 2021  

  9. Termine che prelude sempre e soltanto a nuove guerre, come il recente intervento del presidente Mattarella in occasione dell’anniversario del Manifesto di Ventotene oppure, più in basso, quello sulla rinascita europea di Brunetta, hanno indirettamente dimostrato visto che entrambi erano sostanzialmente tesi a sollecitare la creazione di un esercito e unità di pronto intervento dell’Unione europea  

  10. Di cui l’etnia pashtun rappresenta circa il 40%. I pashtun parlano la lingua pashtu e seguono un codice religioso di onore e cultura indigeno e pre-islamico, il Pashtunwali, che dà preminenza alla vendetta, all’ospitalità e all’onore, integrato nella religione islamica e vivono per lo più in strutture tribali e acefale, caratterizzate da forme decisionali orizzontali, le jirga  

  11. Si veda Giganti dai piedi d’argilla citato in Chi vince e chi perde a Gaza in S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019, nota 3 pp. 46-47  

  12. Lucas Kunce, I served in Afghanistan as a US Marine, twice. Here’s the truth in two sentences, «The Kansas City Star», 23 agosto 2021- TdA  

  13. Come ha confermato ancora, nello stesso articolo citato poc’anzi, il generale Jean: “Gli occhi di Washington sono infatti rivolti per lo più sull’Indo-Pacifico e la conquista del potere dei talebani, che sono legati al Pakistan, potrebbe spingere l’India ancor più vicina agli Usa. Il Quad – Quadrilateral Security Dialogue, alleanza di cui fanno parte Australia, Giappone e, appunto, India e Stati Uniti – ha dato il suo pieno sostegno agli Usa e si è dimostrata più solida rispetto agli alleati in Europa, che ha scaricato sugli Usa l’intera responsabilità quando erano coinvolti a pieno nella vicenda afghana.”  

  14. Ancora Carlo Jean: “Riportare a casa i soldati americani è stato tema delle ultime tre campagne elettorali, con Barack Obama che rimproverava George W. Bush, seguito da Donald Trump che “ha ridotto le truppe da 13mila a 2.500” e ha siglato gli accordi di Doha, ed infine Joe Biden, con la sua promessa – realizzata – di anticipare il ritiro ancor prima di quell’11 settembre simbolico fissato dal suo predecessore. […] Gli strateghi da caffè non si pongono il problema di cosa avrebbe dovuto fare Biden. Rifiutare gli accordi di Doha inviando altri 100mila soldati, facendo così infuriare la popolazione?”  

  15. Patricia Lombroso, «In Iraq, diecimila soldati Usa hanno disertato». Parla Camillo Mejia, il primo soldato Usa nel 2003 a dire no a una guerra che, dice, non avrà fine. Lui fu condannato. Per tutti gli altri il Pentagono ha scelto il silenzio e il «congedo disonorevole», il Manifesto, 7 dicembre 2006  

  16. Eccellentemente descritta nel film di Ridley Scott Black Hawk Down del 2001  

  17. Intervista a Lucio Caracciolo in Salvatore Cannavò, “Il rischio adesso è un nuovo ciclo di guerra al terrorismo”, Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2021  

  18. Come ha raccontato chiaramente Clint Eastwoo nel film Flags of Our Fathers del 2006  

  19. Si veda l’intervento dell’alto rappresentante della commissione europea Josep Borrell sulla questione qui  

  20. Nancy A. Youssef, Gordon Lubold, America’s Longest War End, «The Wall Street Journal», 30 agosto 2021  

  21. La Frankfurter Allgemeine Zitung ha scritto, il 24 agosto, che quella di Kabul “è la più grave umiliazione subita dagli USA”. Tutto vero, ma non vale forse altrettanto per i loro alleati occidentali?  

  22. Adriano Sofri, per non smentirsi, già nel 2001 aveva sostenuto su Repubblica che quella afghana era una guerra “per le donne”. Oggi è tornato, sulle prime pagine del Foglio, a sventolare ancora idee simili. Complimenti!  

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Si può vivere solo nel modo più feroce possibile https://www.carmillaonline.com/2021/03/17/si-puo-vivere-solo-nel-modo-piu-feroce-possibile/ Wed, 17 Mar 2021 21:10:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65293 di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio Vittorini e Fernanda Pivano), sicuramente un ottimo punto di riferimento. Prova ne sia questo romanzo di Robert Coover, tradotto magistralmente da Riccardo Duranti.

Robert Coover (1932), autore di romanzi e racconti, è considerato uno dei padri della letteratura postmoderna statunitense e ha insegnato per più di trent’anni alla Brown University.
Riccardo Duranti che ha avuto il compito, e la capacità, di trasporre in italiano le sue invenzioni linguistiche e letterarie, ha precedentemente tradotto l’opera omnia di Raymond Carver e autori come Cormac McCarthy, Richard Brautigan, Philipo K.Dick e Henry David Thoreau.

Per un romanzo che riprende le vicende del più noto, o dei più noti, tra i personaggi di Twain la traduzione si rivela come uno dei punti di forza, considerato che, per la prima volta, il linguaggio torna ad essere quello desiderato dallo scrittore che aveva preso il proprio nome d’arte dal gergo dei battellieri del Mississippi e che aveva tratto le proprie storie e le parole con cui raccontarle da quelle della Frontiera e della società americana a cavallo tra ‘800 e ‘900. Come afferma lo stesso Duranti:

A parte la narrazione fluida, in cui i piani temporali si sovrappongono e si fondono con continuità, i fantasmagorici effetti cooveriani di questo romanzo sono essenzialmente concentrati nel linguaggio. Coover riprende e porta alle estreme conseguenze l’intuizione di Twain di affidare a narratori improbabili e linguisticamente anomali la testimonianza degli eventi; e a mio parere raggiunge risultati ancor più efficaci dello stesso Twain, amplificando l’azione eversiva del linguaggio ruspante di Huck.
Questa centralità del linguaggio mi ha posto seri problemi di traduzione: nello sforzo di riprodurre, in un contesto linguistico diverso, scarti e deformazioni espressive irrinunciabili, le normali sfide traduttive sono amplificate ed esasperate.
[…] Come in tutti i tentativi di derivazione, non sempre le soluzioni sono all’altezza dell’originale, ma in alcuni casi, con mia grande sorpresa, l’equivalente italiano si è rivelato molto efficace, aggiungendo assonanze allusive più esplicite. Per esempio, il soprannome affibbiato al generale che perseguita Huck, Hard Ass, che diventa Culo Tosto e lo avvicina dal punto di vista fonico all’evidente modello storico del Generale Custer, con cui condivide almeno due nessi. Oppure le riunioni sulla “stragetia” da adottare con i pellirossa che Tom tiene con i suoi sodali e in cui la metatesi rivela più immediatamente in italiano che in inglese le inquietanti intenzioni che le sottendono1.

Coover si misura, in realtà, con un romanzo, Le avventure di Huckleberry Finn (1884), che T.S. Eliot aveva definito un “capolavoro”, in cui «il genio di Twain trova la sua piena realizzazione». A questo giudizio si sarebbe poi aggiunto quello di Ernest Hemingway: «Tutta la letteratura americana viene da un libro di Mark Twain che si intitola Huckleberry Finn… Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo»2.

Operazione certamente impegnativa quella di riprendere i personaggi di Mark Twain per seguirli nelle avventure successive a quelle originali, senza intaccarne le caratteristiche. Ancor di più se si coglie che Coover li immerge deliberatamente fino al collo nella storia del loro paese per circa un trentennio, sviluppandone le personalità con un realismo ed una credibilità sorprendenti.
Ma ciò ancora non basta: Coover riesce a demistificare e far implodere tutto il “mito americano”, soprattutto quello fondante della Frontiera.

Trent’anni di storia americana condensati nello sgangherato resoconto di Huck con tutte le relative tragedie e “contardizioni” (dalla guerra “sivile” alla corsa all’oro, passando per il genocidio delle tribù native ad opera dei coloni e dei “calvari-legieri”), da cui la retorica del mito patriottico esce decisamente a pezzi. Mentre sono impressionanti, e certamente non casuali, i collegamenti con l’attualità politica contemporanea.

«Gli Stati Uniti rivendicano questo territorio a se stessi per cacciare fuori a calci i pellerossa cannibali e blastemi – che non sono manco del tutto UMANI!» così ha detto. «E d’ora in poi, l’esercito americano proteggerà TUTTI i migranti legali e i minatori! OVUNQUE volete andare!». Tutti si sono messi ad acclamarlo come matti. «Vi assicuro, amici, che non ci saranno più massacri pellerossa né processi somari e manco più linciaggi! Tutto sarà LEGALE e PRO-PROGRESSO, aggiusta regola! La regola AMERICANA! Grassatori, osti-lì e leva-picchetti saranno PERSEGUITATI! Tutto dovrà essere come DOVREBBE essere! Stiamo costruendo la prima nazione perfetta al mondo quaggiù e non c’è nessun maledetto pellerossa che si metterà di traverso, e nemmanco nessun re e nessuna sciocchezza né senti né mentale né quacchera che sia, per non parlare manco dei banchieri forestieri! Costruiremo il paradiso in terra dove tutti saranno RICCHI e nessuno oserà togliervi quello che vi aspetta di diritto ed è VOSTRO! Questo è il nuovo ELDORADO!»3.

La grande promessa americana, sulle labbra dell’amico di sempre, Tom Sawyer, oppure su quelle di Trump o di Biden fa lo stesso, come Make America Great Again nasconde sempre la truffa, la menzogna e la violenza. Sarà l’evidenza dei fatti, e delle stragi di tribù e di animali (soprattutto cavalli) a spingere Huck, coerentemente al suo istintivo pessimismo anarchico, verso una crescente ammirazione per le storie del trickster Coyote, modello ideologico che Huck assorbe da Eeteh, il nuovo e definitivo (?) amico nativo americano, insieme ad un maggior apprezzamento di quello sociale, anche se decisamente imperfetto, dei Sioux Lakota con cui ha vissuto (non sempre felicemente) rispetto a quello “bianco” che si va affermando in tutta la sua crudezza.

In realtà, a trionfare è ancora una volta il desiderio di fuggire; lo stesso che già aveva animato le vicende di Huck nella sua scorribanda sul Grande Fiume (il Mississippi) nel romanzo originale e, successivamente, tutte le grandi fughe della letteratura americana. Da Jack London a Jack Kerouac compresi. Forse causate, anche inconsapevolmente, da ciò che avrebbe scritto in seguito William Burroughs, nel suo Pasto nudo (1959): «L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta».
Qualcosa che si coglie indirettamente nelle parole di un fotografo che dovrebbe documentare le gesta di un Tom Sawyer vestito e descritto come un Buffalo Bill circense

«Ho lo studio lì. Perlopiù facevo foto di morti. Sono famoso per la mia specialità: i ferrotipi di bambini morti. Se sono svelto a beccare i pupi, li sistemo in modo che sembrano ancora vivi. Nello studio ho un sacco di bambole di paglia per mettergliele nei pugnetti. I vecchi sono più facili se li becchi prima che s’irrigidiscono troppo, però non sono altrettanto carini. Ho fatto anche foto di gente viva, ma non vanno molto». Mi ha mostrato una foto che aveva fatto a Tom nel suo costume tutto bianco, con la mano infilata nella camicia, in sella a Tempesta come s’addice a un generale. Si è infilato un sigaro tra le sue ampie labbra, se lo è acceso e ha sorriso. «Lo Strabiliante Tom Sawyer è venuto lì a cercarmi e da allora l’ho seguito dappertutto. Gli faccio le foto dovunque va, mentre combatte i pellirosse, i rapinatori e l’ingiustizia, mentre cerca l’oro e appicca i crinimali, ma soprattutto quando si riposa in sella al suo cavallo col suo cappello bianco e il vestito di pelle di daino. Lui è il Sivilizzatore del West, me l’ha detto lui stesso. Sta facendo un libro famoso su se stesso»4.

Ma l’operazione di Coover è tutt’altro che forzata: l’ironia feroce nei confronti di un sistema violento e ingiusto era già nelle opere di Twain. Nei confronti di un sogno, quello americano della Frontiera, che si era trasformato da subito in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, alla fine dell’Ottocento stava già rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nella sua Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna del 18985.

E anche l’attenzione che Coover dedica all’autentica strage di cavalli, bisonti e altri animali che portò con sé la “conquista del West” deriva direttamente dalle pagine dell’autore a cui si è ispirato. Ad esempio, nell’Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, che è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani, che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni: «Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?»
«Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato»6.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche in quel caso con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

«Il toro viene sempre ucciso?»
«Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso».
«Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte»7.

Molto ci sarebbe ancora da dire su un libro, quello di Coover, che è tanto divertente quanto drammatico e, soprattutto, tanto ben scritto e tradotto, ma almeno un altro motivo di pregio va ancora qui segnalato: quello di aver integrato sapientemente il classico tall tale (racconto o narrazione che “le spara grosse”) della tradizione della letteratura della Frontiera con il recupero dell’oralità, da cui direttamente derivava la prima, della tradizione narrativa degli Indiani d’America. Soprattutto con le avventure del trickster Coyote8, celebrate qui magistralmente nella loro libertà espressiva, erotica e libertaria9.

In un bellissimo testo di Jaime De Angulo10 si afferma che «Le storie di Coyote formano un ciclo regolare, una saga […] Coyote ha una doppia personalità. E’ al tempo stesso il Creatore e il Buffone. L’uomo saggio e il buffone: ecco i due aspetti di Coyote, del Vecchio Uomo Coyote» (p. 89). Frutto di un immaginario altro, in cui la differenziazione tra il bene e il male non sembra avere una grande importanza, le storie di Coyote sembrano fornire l’unica spiegazione possibile per un mondo in cui la ferocia può essere combattuta e vinta soltanto dalla forza vitale e liberatrice della risata.


  1. Riccardo Duranti, Huck Finn pessimista e anarchico in Robert Coover, Huck Finn nel West, Enne Enne editore, Milano 2021, pp. 9-10  

  2. cit. in Norman Mailer, Huck Finn, vivo dopo 100 anni in M.Twain. Le avventure di Huckleberry Finn, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004, p.VI  

  3. R. Coover, op. cit., pp. 214-215  

  4. R. Coover, op. cit., pp. 249-250  

  5. Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli, Roma 2014  

  6. Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, p.88  

  7. M. Twain, op.cit., p.86  

  8. Sulla figura del trickster (briccone) nella tradizione dei popoli nativi dell’America settentrionale si veda: Carl Gustav Jung, Karl Kerény, Paul Radin, Il briccone divino, SE, Milano 2006  

  9. Ma raccolte anche, dalla voce dei nativi, nel magistrale Jaime de Angulo, Racconti indiani, Adelphi, Milano 1973, da troppi anni assente dal mercato editoriale italiano  

  10. Indiani in tuta, Adelphi 1978  

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La via populista al totalitarismo https://www.carmillaonline.com/2020/11/23/la-via-populista-al-totalitarismo/ Mon, 23 Nov 2020 22:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63460 di Gioacchino Toni

«Solo oggi il totalitarismo è possibile. Fascismo e Nazismo sono esempi storici di totalitarismo imperfetto a causa di invalicabili limiti tecnici, non surrogabili dalle grandi adunate e dalle fiaccolate notturne. Solo oggi, con l’elettronica applicata e il controllo capillare dei singoli individui, il totalitarismo è praticabile». Così si esprime Franco Ferrarotti nell’intervista pubblicata in coda al volume di Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto (Mimesis, 2020). L’affermazione del sociologo tocca una delle questioni su cui [...]]]> di Gioacchino Toni

«Solo oggi il totalitarismo è possibile. Fascismo e Nazismo sono esempi storici di totalitarismo imperfetto a causa di invalicabili limiti tecnici, non surrogabili dalle grandi adunate e dalle fiaccolate notturne. Solo oggi, con l’elettronica applicata e il controllo capillare dei singoli individui, il totalitarismo è praticabile». Così si esprime Franco Ferrarotti nell’intervista pubblicata in coda al volume di Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto (Mimesis, 2020). L’affermazione del sociologo tocca una delle questioni su cui riflettono anche gli autori del testo che, attraverso il confronto tra Trump e Mussolini evidenziano elementi utili alla lettura delle nuove forme di potere che contraddistinguono una contemporaneità ormai espansa sul web e da questo ridefinita.

Sebbene il paragone tra le due figure proposto dagli autori appaia a volte un po’ azzardato ed altre estendibile anche a personalità politiche meno discusse, tale confronto ha il merito di evidenziare alcune analogie tra i primi decenni del Novecento e quelli del nuovo millennio. In entrambi i peridi storici, sostengono Camaiti Hostert e Cicchino, la crisi e il diffuso senso di disorientamento determinato dai cambiamenti si danno in un contesto di affermazione di nuovi poteri con l’annessa proliferazione di populismi e relativa individuazione di carpi espiatori contro cui indirizzare il malessere diffuso. Insieme all’angoscia suscitata dal crollo di vecchie certezze, come spesso accade, fanno capolino sulla scena “uomini forti” che promettono protezione da quegli stessi cambiamenti di cui in realtà sono essi stessi il prodotto.

Elementi di affinità tra il clima politico che apre il secolo scorso e quello che caratterizza l’inizio del nuovo millennio non mancano nemmeno restando all’interno del solo ambito americano. Se in apertura di Novecento gli Stati Uniti si prodigano in un inasprimento delle leggi sull’emigrazione, agitano un primo spauracchio del comunismo, e presentano fenomeni populisti, analogamente il periodo che precede il successo elettorale di Trump mostra una crescente ostilità nei confronti dell’immigrazione, sopratutto tra le classi lavoratrici bianche, e un ritorno sulla scena del populismo.

Jan-Werner Müller definisce il populismo come «una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico»1.

Il web sembra oggi poter offrire ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale. I leader carismatici contemporanei tendono a prescindere dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali. Scrive a tal proposito Alessandro Dal Lago che «questi leader neo-carismatici tenderanno a rafforzare i rapporti con il loro pubblico e quindi a perseguire politiche neo-nazionalistiche, protezionistiche in economia e ostili agli stranieri. Visto in questa prospettiva il populismo digitale è dilagante [e] capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»2.

Tra i motivi del consenso che Trump ha saputo conquistare tra l’elettorato bianco popolare vi è sicuramente la sua promessa di salvaguardare i posti di lavoro dall’invasione degli immigrati, proponendosi come argine di conservazione di certezze in via di dissoluzione. Il successo di Trump non è stato cancellato nemmeno dalla recente vittoria di Biden, a differenza di quello che avevano previsto tanti  spocchiosi “osservatori”, che guardano agli Stati Uniti dalle finestre degli hotel delle grandi città o dai talk show televisivi, incapaci di comprendere come, in questo ultimo caso, più che il triste spettacolo in sé occorra analizzare gli occhi di chi lo osserva.

La demonizzazione degli immigrati, il disprezzo per le istituzioni democratiche a cui ama ricorrere Trump, uniti al narcisismo, all’agire d’impulso, allo scaricare chiunque lo offuschi o lo contraddica, all’abilità nello sfruttare i mass media, al ricorso ad affermazioni infondate e al presentarsi come un messia in grado di “salvare” il suo paese tanto dai nemici esterni quanto dall’establishment di casa, richiamano fenomeni dittatoriali degli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

Ripreso dagli autori del volume, Alan Badiou3, nello spiegare il successo trumpiano nel momento storico presente, ritiene debbano essere presi in considerazione soprattutto: l’assolutismo globalizzato del capitalismo, la crisi della politica delle élite borghesi, il generalizzato stato confusionale e di frustrazione e l’assenza di una strategia alternativa. Da ciò deriverebbe quel diffuso convincimento circa l’immodificabilità di uno status quo caratterizzato da un’estrema concertazione della ricchezza, dall’impossibilità di garantire la sopravvivenza a quanti la cercano migrando: in sostanza la persuasione della mancanza di un’alternativa alla distruzione generalizzata operata del capitalismo globalizzato.

Da ciò deriva che le élite politiche vengono irrimediabilmente compromesse e perdono il controllo. Così proliferano ovunque, nell’ambito delle democrazie occidentali, politici che costituiscono una “esteriorità interna”. Usano linguaggi violenti, demagogici e contraddittori con il fine di creare flussi di emotività che si coagulano in unità artificiali. La gente nei momenti di crisi viene infatti magnetizzata da promesse irrazionali e spesso irrealizzabili che a volte si basano su un passato mitico e impossibile da recuperare. Nasce così quello che Badiou definisce il “fascismo democratico” che contrabbanda per nuove, vecchie idee come il nazionalismo, il razzismo, il colonialismo, il sessismo e le coagula in un pastiche dove vecchio e nuovo coesistono senza criteri razionali. A differenza del fascismo vero però, quello nuovo non ha un antagonista fisico come il comunismo e non ha neanche specifiche organizzazioni che si costruiscono attorno al capo. È comunque un fenomeno interno al sistema dominante che per Badiou si concentra sulla sacralità della proprietà privata4.

Ad indurre gli autori di Trump e moschetto a mettere a confronto il figlio di un ricchissimo immobiliarista americano con il figlio di un fabbro romagnolo, personaggi che hanno conquistato il potere politico a quasi un secolo di distanza e in due contesti inevitabilmente diversi, è il fatto che lo statunitense sembra avere visto nell’italiano il modello a cui ispirarsi.

Estremi lontani vicinissimi. Mussolini. Trump. Due vincoli nella storia. Letti come contemporanei, con lo stesso filo emotivo. Entrambi uomini di inizio. Primi del novecento Roma. Primi anni duemila Washington. Motori ambedue di violenza, diretta del sangue l’uno, e indiretta verbale di incitazione alla prevaricazione l’altro. Scalcinate file di marciatori nel film del ’22 per Benito, stadi assiepati di folla votante per Donald. Volti, sorrisi, occhi, mani, corpi urlanti, adoranti. Sono uomini o solo pedine di una gigantesca partita di scacchi? I primi marciano contro l’intera classe liberale e socialista italiana responsabile della “vittoria mutilata”. I secondi contro l’establishment democratico di uno stato in crisi che mina gli interessi del popolo statunitense. Di qua i sopravvissuti della Grande Guerra. Di là coloro passati per la tragedia dell’11 settembre 2001, un vulnus irreversibile che qualcuno ha detto essere ancora più profondo di quello della Seconda guerra mondiale5.

Gli anni Venti del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio sono accomunati da un’analoga incapacità da parte della politica tradizionale di rapportarsi con i bisogni sociali emergenti derivati dal senso di insicurezza determinato dalla disoccupazione, dalla precarietà lavorativa e dall’instabilità sociale. Secondo gli autori si possono trovare analogie tra la retorica della “vittoria mutilata” utilizzata nell’Italia degli anni Venti e l’abilità con cui il trumpismo ha saputo far breccia nell’immaginario sfruttando la crisi della “rust belt”, delle vecchie industrie con annessa dequalificazione della mano d’opera specializzata.

Clarence Page, editorialista del “Chicago Tribune”, ha messo in relazione la messa in onda della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story del 2016 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla casa bianca, sostenendo che in entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento6.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e la ricerca del consenso può essere ottenuta ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social network una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo. Tutto sommato è così che funziona un reality show, e con esso buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea, e questo può essere un meccanismo replicabile in una campagna votata alla ricerca del consenso.

L’affarista Trump si è mostrato indubbiamente abile nell’imbastire una narrativa capace di accaparrarsi consenso attraverso forme di intrattenimento.

Se i fascisti per innalzare il muro contro il pericolo bolscevico bruciano bandiere rosse e camere del lavoro, Trump ed i suoi trumpieri innalzano la dura retorica anti islamica ed anti ispanica al suono di: “Impediremo ai musulmani di entrare negli Stati Uniti” e “Costruiremo un muro con il Messico”, precisando che quest’ultimo lo dovrà pagare il governo messicano. Simile a Mussolini la diffidenza di Trump nei confronti dei politici di professione, dell’establishment: hanno ridotto il paese in condizioni disgraziate. I liberal, quelli che rispettano la political correctness, hanno interdetto un paese che non riconosce più se stesso, tanto ha paura di dire o fare cose sbagliate, secondo Trump. E non tratta meglio poi il partito repubblicano per cui dovrebbe candidarsi: i suoi membri, inetti! E proclama: “Finalmente, la maggioranza silenziosa è tornata ed avrà la sua voce: me!”7.

si fanno promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa, seppure in entrambi i casi i due leader politici facciano parte di un’élite che niente ha a che vedere con i derelitti e i poveri8

Agli slogan di successo di Barack Obama “Hope” e “Yes we can”, Trump ha risposto con il suo “Make America great again”, ottenendo le simpatie di tanti elettori americani che si sentono trascurati, se non addirittura abbandonati dall’establishment del Partito democratico. Trump ricorre a una violenza verbale insolita per un candidato alle presidenziali, parole che non mancano di incitare alla violenza fisica ed i media, anche quando intendono metterlo alla berlina o accusarlo, nei fatti finiscono per fare da grancassa a tutte le sue dichiarazioni.

Al di là della brutalità trumpiana descritta dal volume, occorrere chiedersi se esista una modalità sostanzialmente diversa di utilizzare i social all’interno di un sistema tecnologico-mediatico sempre più indirizzato a sorvegliare e indirizzare i comportamenti degli esseri umani come ha descritto Shoshana Zuboff9. I metodi “più gentili” di usare i media e i social degli Obama, dei Clinton e dei Biden sono forse nella sostanza meno falsi e demagogici?

A proposito del ricorso ai Big data da parte della politica contemporanea, gli autori riprendendo le analisi di Eitan D. Hersh10 ricordano come oggi si ricorra all’analisi dei dati tanto per indirizzare gli elettori quanto per costruire su di essi una retorica che strizza l’occhio alla pancia popolare. Indubbiamente, a differenza del passato, questa pancia può ora essere indagata in maniera molto più approfondita grazie a quell’ammontare dei dati raccolti dai colossi del web.

L’ambizione a quel “totalitarismo perfetto” a cui fa cenno il sociologo Ferrarotti nell’intervista – citata in apertura di questo scritto – sembra propria di un intero sistema capace, da sempre, di indossare tanto la maschera anti-establishment di personaggi sguaiati e sanguigni quanto quella presentabile di politici più posati e controllati. Quella esplicitamente populista, verrebbe da dire, sembrerebbe essere una delle vie che mirano al totalitarismo (più o meno perfetto).


  1. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  2. A. Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017, p. 22. Qua su “Carmilla”. 

  3. A. Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano, 2019. 

  4. A. Camaiti Hostert, E. Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 14. 

  5. Ivi, pp. 16-17. 

  6. C. Page, What the O.J. Simpson trial and Donald Trump have in common, “Chicago Tribune”, 18 marzo 2016. 

  7. A. Camaiti Hostert, E. Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit., p. 47. 

  8. Ivi, pp. 56-57. 

  9. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Qua su “Carmilla”. 

  10. E. D. Hersh, Hacking the Electorate: How Campaigns Perceive Voters, Cambridge University Press, Cambridge,2015. 

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Linee di faglia delle guerre civili americane (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/11/18/linee-di-faglia-delle-guerre-civili-americane/ Wed, 18 Nov 2020 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63480 di Sandro Moiso

Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali [...]]]> di Sandro Moiso

Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali risultati.

Molto si è discusso, prima, durante e dopo la campagna elettorale, della possibilità che una nuova guerra civile potesse sconvolgere gli assetti politici e sociali del paese nordamericano a seguito dei risultati elettorali e, certamente, l’ostinazione con cui il presidente uscente si rifiuta di accettare la sconfitta (ormai ampiamente certificata) potrebbe far pensare che tale ipotesi sia tutt’altro che decaduta.

In fin dei conti, quello della Guerra Civile è un fantasma che si agita nell’anima americana proprio in virtù del fatto che tale evento storico, svoltosi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865 e che causò dai 620.000 ai 750.000 morti tra i soldati, con un numero imprecisato di civili1, ha costituito l’atto fondante dei moderni Stati Uniti, forse molto di più della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e della guerra che ne seguì con le armate della corona britannica.

Fu un momento di grande trasformazione economica e sociale, di cui, come si è già detto più volte su queste pagine, la liberazione degli schiavi neri fu solo l’ultimo dei motivi, mentre sicuramente il primo fu la trasformazione degli Stati Uniti da paese esportatore di materie prime verso l’impero britannico e l’industria inglese a paese industriale destinato, nel volger di pochi decenni, a superare la produttività di molti paesi europei industrializzatisi in precedenza.
Solo questa industrializzazione poté garantire negli anni successivi quello sviluppo delle ferrovia che avrebbe finito col velocizzare il trasporto di merci e persone, unificando definitivamente un paese che si affacciava sui due principali oceani, distanti tra di loro quasi 5.000 chilometri.
E’ importante ricordare al lettore tutto ciò perché anche lo scontro in atto attualmente ha a che fare con trasformazioni che ancor prima che politiche e culturali, come vorrebbero i raffinati intellettuali alla Saviano (qui), sono economiche e tecnologiche.
Ma procediamo, come sempre, un passo alla volta.

Il Nord all’epoca della rottura era governato, insieme al resto del paese, da un presidente repubblicano, Abramo Lincoln, che fu anche il primo presidente di un partito nato da poco, mentre gli stati confederati erano rappresentati da un partito democratico che all’epoca, e da diverso tempo, rappresentava gli interessi dei grandi proprietari terrieri proprietari di schiavi e dei piccoli proprietari terrieri che, anche con l’utilizzo di una manodopera schiava di numero assai ridotto rispetto a quello delle grandi piantagioni, campavano comunque sull’esportazione di cotone e tabacco verso le industrie al di là dell’Atlantico. Infatti, come aveva avuto modo di affermare Marx già nel 1847 in Miseria della filosofia, la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo.

Ma se, da un lato, furono i piccoli proprietari a fornire alle armate confederate il grosso dell’esercito, dall’altro furono spesso gli operai a fornire i contingenti principali dell’esercito unionista. Anche su invito di Marx e d Engels che all’epoca si erano schierati apertamente a favore di Lincoln e della causa dell’Unione, proprio in nome della battaglia contro l’imperialismo inglese e dell’emancipazione della classe operaia, in un contesto in cui il sistema schiavista rappresentava ancora un impedimento al suo allargamento. Non a caso Joseph Weydemeyer, tedesco della Westfalia e aderente alla Lega dei Comunisti fin dal 1846 e che dopo essersi trasferito nel 1851 negli Stati Uniti avrebbe continuato a collaborare a stretto contato con Marx ed Engels, si arruolò in qualità di ufficiale nell’esercito dell’Unione dove combatté per quattro anni nel Missouri.

E’ importante, però, citare anche la voce di un altro collaboratore dei due comunisti tedeschi, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1852: Friedrich Adolph Sorge. Nel 1890-91, ripercorrendo le vicende del movimento operaio americano, scriveva infatti sulla Neue Zeit2:

L’agitazione per la questione della schiavitù aveva portato nel 1854 alla fondazione del Partito repubblicano che, nonostante la sconfitta subita alle elezioni presidenziali del 1856, avrà molta influenza negli anni successivi. Senza un chiaro programma, senza un attacco diretto all’istituto della schiavitù, questo partito voleva solo impedire al Sud schiavista di espandersi in nuovi territori e ostacolare l’ingresso di nuovi Stati schiavisti nell’Unione […] nel 1860, dopo una combattiva campagna elettorale, i repubblicani ottennero la maggioranza in tutto il Nord e il loro candidato, Abramo Lincoln, fu eletto presidente degli Stati Uniti[…]
L’influsso di queste lotte sul movimento operaio degli Stati Uniti è indiscutibile, tanto per gli svantaggi che per i vantaggi arrecati. Sia queste lotte che la guerra influirono negativamente sul movimento operaio perché allontanarono l’interesse del popolo, nel senso stretto del termine, dalle questioni economiche e, inoltre, diedero ai politici, sempre pronti a pescare nel torbido, l’atteso pretesto di opporsi alle richieste degli operai richiamandoli a “più alti interessi”. Un altro effetto negativo fu costituito dal forte mutamento della composizione della popolazione operaia, in quanto i lavoratori americani, che si erano arruolati come volontari o che erano stati chiamati alle armi3, furono rimpiazzati dagli immigrati, i quali avevano naturalmente bisogno di più tempo per conoscere la situazione ed iniziare ad avanzare le prime rivendicazioni. Altro svantaggio fu costituito dal peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia a causa della forte svalutazione della cartamoneta, che non fu affatto bilanciata dagli aumenti salariali ottenuti dagli operai. Per contro, non ci fu disoccupazione durante gli anni della guerra.
Vediamo i vantaggi. L’enorme e crescente domanda di materiale e di equipaggiamenti bellici, di generi alimentari e di stivali e uniformi rese la forza lavoro una merce molto richiesta. Gli operai poterono così imporre con una certa facilità al padronato migliori condizioni di lavoro. Contemporaneamente furono adottate tariffe protezionistiche. Un grande vantaggio fu dato infine dal fatto che la guerra, risolvendo la questione della schiavitù, spianò la strada alla questione operaia4.

La lunga citazione è importante perché contiene al suo interno sia la visione del movimento operaio tipica della Seconda Internazionale che gli elementi tipici che hanno governato le scelte di buona parte degli operai americani e dei gestori politici della Nazione fino ad oggi. Guai a dimenticarsene!

Gli Stati federati nell’unione furono all’epoca 20, compresi quelli che vi entrarono nel corso del conflitto: Distretto di Columbia-Washington, California, Connecticut, Illinois, Indiana, Iowa, Kansas5, Maine, Massachusetts, Michigan, Minnesota, New Hampshire, New Jersey, New York-Stato di New York, Ohio, Oregon, Pennsylvania, Rhode Island, Vermont, Wisconsin e Nevada (solo dal 1864).

All’epoca gli stati del Nord vedevano impiegati nei propri opifici 801.000 operai contro i 79.000 del Sud, con un capitale investito di 858 milioni di dollari (di cui 445 nell’industria con un valore prodotto di 861 milioni di dollari) contro i 237 (di cui 55 nell’industria con un valore prodotto di 79 milioni) investiti negli 11 stati del Sud: Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia oltre al Territorio Indiano e il Territorio confederato dell’Arizona.

A tutti questi andavano ancora aggiunti cinque stati cuscinetto formalmente sospesi tra l’una e l’altra fazione: Delaware, Kentucky (il maggior Stato schiavista dell’Unione), Maryland (schiavista), Missouri (schiavista), Virginia Occidentale (separatosi dalla Virginia in quanto filo-unionista seppur schiavista, ammesso ufficialmente a far parte dell’Unione nel 1863). A conferma della presenza della schiavitù anche in diversi stati dell’Unione o simpatizzanti occorre precisare che in quegli stati e in quelli cuscinetto erano presenti circa 443.000 schiavi contro i 3milioni e 522mila detenuti dagli stati confederati. Fine della cavalcata storica e ritorno al presente (più o meno).

Sembra abbastanza chiaro che il conflitto ottocentesco fu sostanzialmente non solo di carattere economico, ma anche di modo di produrre. Altrettanto, occorre dirlo qui ed ora, lo è ancora quello attuale. La vulgata del fascismo e del razzismo contro la democrazia e la libertà possiamo lasciarla ai vuoti chiacchiericci televisivi e giornalistici, se vogliamo davvero comprendere la profondità della faglia che attraversa, come quella californiana, e forse più, di Sant’Andrea, la società americana. Pronta a mettere in moto un terremoto di cui da tempo si possono avvertire le scosse di preavviso.

Nonostante la sconfitta Trump ha visto aumentare di 6 milioni i suoi voti rispetto alle elezioni del 2016 in cui era risultato vincitore, conservando di fatto il predominio in 25 Stati su 50. Joe Biden in compenso non ha ottenuto la valanga di voti afro-americani che tutti si attendevano, ma anzi ha conseguito una perdita importante di appeal presso quella fascia di popolazione. Ottenendo il 75% del voto afro-americano contro l’81% della Clinton e l’87% di Barak Obama. E’ il motivo per cui molti commentatori hanno parlato di rivolo blu piuttosto che di ondata. Mentre Donald Trump ha migliorato la sua posizione tra gli elettori non bianchi. E non solo tra i Latinos anti-castristi di origine cubana della Florida (dove non a caso è tornato a vincere).
Possiamo pensare che il Covid-19 abbia comunque portato una ventata di follia in buona parte dell’elettorato americano ledendone irreparabilmente il cervello (come vorrebbero forse i soliti intellettuali da salotto e da strapazzo di casa nostra) oppure cercare di capire. Materialisticamente e per antica abitudine si sceglie qui di seguire la seconda strada.

Se la mappa degli Stati Uniti durante la guerra civile indicava con il blu gli stati dell’Unione e con il rosso quelli confederati (lasciando in azzurro o grigio gli stati cuscinetto), oggi gli stati rossi e blu, come abbiamo imparato, indicano la maggiore influenza di Trump e del Partito repubblicano (rossi) oppure di Biden e del Partito democratico (blu). Se per la guerra ottocentesca la faglia del colore separava distintamente due tipi di economia (ad esempio i 96.000 stabilimenti industriali del Nord contro i 17.000 del Sud), oggi i due colori separano altrettanto due prospettive economiche diverse.
Una, quella blu, al momento attuale vincente e l’altra, probabilmente e non soltanto elettoralmente, destinata ad essere sconfitta.

Questo non vuol affatto dire che le aree blu siano quelle in cui si sta meglio, considerato che il “New York Times” in un articolo del 30 ottobre scorso sottolineava come fossero state le aree blu ad essere state più gravemente colpite dal punto di vista economico che non quelle rosse6. Secondo il giornale infatti, la recessione seguita alla pandemia è stata più severa in stati come la California o il Massachusetts, che hanno avuto una maggior perdita di posti di lavoro e di conseguenza una più vasta disoccupazione, che non altri come lo Utah o il Missouri. E questo viene fatto discendere da un diverso mix di lavori tra gli stati “democratici” e quelli “repubblicani”. Nei primi l’occupazione è scesa maggiormente nei primi due mesi della pandemia, per poi mantenere un significativo calo dei posti di lavoro fin da giugno (2020).

Non vi sarebbe nemmeno un legame diretto tra diffusione del virus e perdita dei posti di lavoro, poiché se inizialmente il numero di contagi e decessi è stato maggiore in aree blu come, ad esempio, quella di New York, a partire da giugno nelle aree rosse sono aumentati i contagi e da luglio anche i decessi. Così, sostanzialmente, la perdita di posti di lavoro sarebbe correlata a fondamentali differenze tra i tipi di lavoro svolti. Con il record di perdita di posti nei settori del divertimento, dell’ospitalità alberghiere e in quello dei viaggi e della ricreazione. Soprattutto in luoghi come Honolulu, Las Vegas e New Orleans (l’ultima , però, appartenente ad uno stato in cui hanno vinto ancora i repubblicani).

E sono state soprattutto le aree metropolitane a subire il maggior calo occupazionale, mediamente del 10% o più, come Springfield (Mass.) con il -12,9%, Las Vegas -12,4%, New York -11,4%, San Francisco -11,2%, New Orleans -11%, Los Angeles – 10,5%, Detroit -10,5% e Boston -10,1% (anche se la lista potrebbe allungarsi ancora). Tra i settori più colpiti dalla crisi pandemica il 59% dei lavoratori impiegati nell’accoglienza e nella ristorazione, il 63% di quelli dell’arte, dell’intrattenimento e del divertimento, il 66% di quelli impiegati nell’informazione come la pubblicità, il cinema e telecomunicazioni vivono in aree in cui i democratici si sono già affermati nelle elezioni del 2016. Mentre la maggior parte dei settori economici meno colpiti dalla pandemia “economica”, come ad esempio quello manifatturiero e delle costruzioni, cui vorrei aggiungere quello agricolo, si trovano dislocati nelle aree in cui Trump già vinse nel 2016 ( e nei quali si è affermato ancora oggi).

Sostanzialmente la maggior perdita di posti si è avuta in aree metropolitane oppure hub tecnologici dove un certo e non indifferente numero di persone può lavorare da casa. In questo settore, e in particolare per quello finanziario oppure dei servizi professionali, il calo dell’occupazione è stato maggiormente rallentato, ma proprio il fatto dovuto all’elevato numero di lavoratori impiegati in tali settori ha fatto sì che altri settori, nelle stesse aree, come New York o San Francisco, fossero i più colpiti. Ad esempio quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, in cui il numero degli occupati è drammaticamente precipitato.

Soltanto un anno prima, però, lo stesso autore citato in precedenza, sullo stesso giornale, scriveva che nelle aree metropolitane blu, più residenti hanno titoli di studio universitari: le 10 grandi metropolitane con il livello di istruzione più elevato hanno votato ciascuna per Hillary Clinton con un margine di almeno 10 punti. I redditi familiari medi sono più alti nelle aree metropolitane blu anche se il costo della vita è più alto in quelle aree. Le aree metropolitane “democratiche” avrebbero avuto infatti un mix di posti di lavoro più favorevole per il futuro, con meno posti di lavoro nel settore manifatturiero, una quota maggiore di lavori “non di routine” più difficili da automatizzare e una quota maggiore di posti di lavoro in settori che si prevedeva sarebbero cresciuti più rapidamente.
Queste misure – istruzione, reddito familiare, costo della vita, lavori straordinari e crescita dell’occupazione prevista – sono fortemente correlate tra loro e con il voto democratico.
Inoltre le medesime aree metropolitane avrebbero avuto una minore volatilità della crescita dell’occupazione. In parte perché i settori legati ai beni come la produzione e l’estrazione mineraria sarebbero più volatili e raggruppati in aree di tendenza repubblicana. Ma, mentre i redditi familiari comparati al costo della vita sarebbero più alti nelle aree metropolitane più blu, i salari confrontati con il costo della vita per una data occupazione sarebbero stati più alti nelle aree metropolitane più rosse7.

Fermiamoci per ora qui, anche se è evidente che qualcosa nella narrazione democratica è andato storto. Sembra pertanto che la differenza di colori sulla mappa delle presidenziali, al di là del radicato repubblicanesimo di diversi stati del Midwest e del West, segua sostanzialmente una linea di faglia tra Nuova e Vecchia economia.
La prima coinvolge la finanza globalizzata e globalizzante, l’high tech, l’information technology, la digitalizzazione di ogni ambito lavorativo e della distribuzione dei servizi e delle merci, dello smart working e dell’atomizzazione di ogni ambito lavorativo con conseguente perdita di qualsiasi dimensione comunitaria o identitaria di classe. Oltre che quella delle produzioni cinematografiche, ma sempre più rivolte alle produzioni seriali destinate ai canali digitali oppure ai videogiochi. Un’economia virtuale in cui anche la maggior parte dei lavori diventa virtuale e precaria. All’interno della quale, però, lo sviluppo della ricerca più di profitti finanziari che scientifica di Big Pharma8 e delle tecnologie rivolte alla diffusione del Green Capitalism svolgeranno una funzione sempre più importante.

L’altra è quella delle industrie manifatturiere, dell’estrattivismo, delle costruzioni tradizionali e dell’agricoltura (anche se una parte significativa del settore dei piccoli farmer degli Stati del West è destinata ad entrare sempre più in conflitto con quello estrattivo a causa dei danni causati dalla pratica del fracking). Settori tradizionali in cui il posto di lavoro è (o era) maggiormente garantito e il reddito medio anche. Un’economia dagli alti costi e scarsi profitti per il capitale finanziario, perché ormai scarsamente competitiva con quella di altre nazioni, più giovani ed aggressive, ma dai salari molto più bassi, che operano negli stessi settori.

Se gli Stati Uniti, secondo questa ipotesi, vogliono mantenere o almeno sfidare la Cina per mantenere il predominio mondiale, non soltanto militare, dovranno sicuramente spostare il loro centro economico sempre più verso la new economy. Trump è stato fautore di dazi, muri e ritiri militari (che nei prossimi giorni saranno portati a termine in Afghanista e in Iraq) per salvare il prodotto nazionale e abbattere i costi e scaricare sugli alleati/competitors i costi di tali operazioni di salvataggio di un’economia in crisi. Ma se questo piace ai suoi sostenitori, non basta alla fame di nuovi profitti del capitale, inteso come macchina implacabile, anche nei confronti dei suoi servitori di più alto grado. Così come agli industriali del Nord del 1860 non bastavano gli 87 milioni di dollari di esportazioni dei loro prodotti contro i 229 milioni delle esportazioni del Sud e della sua economia schiavista.

Ecco allora che sembrano diventare più chiare le linee di faglia e dei colori: e sono tutt’altro che ideali o prodotte dall’ignoranza. Una gran parte dell’elettorato americano, anche in quegli Stati dove i centri urbani hanno contribuito alla vittoria di Biden mentre le aree periferiche hanno continuato a rimanere rosse, non ha nessuna intenzione di entrare nel ciclo del lavoro precarizzato e sottopagato.
Mi vengono in mente, in proposito, le parole spese da Chicco Galmozzi per spiegare le motivazioni degli operai che scelsero l’organizzazione armata negli anni ’70.

La mia opinione personale è che gli operai di Senza tregua9 avessero una visione più realistica e fossero coscienti che la posta immediatamente in gioco non fosse l’instaurazione del comunismo ma una lotta per la sopravvivenza. Si combatte per non morire, per non sparire come soggetto storico. […] Gli operai avvertono con chiarezza la percezione di trovarsi nel pieno di grandi processi di ristrutturazione che comporteranno delocalizzazioni e chiusure di intere fabbriche. Su ciò affiora una divergenza di vedute fra la base operaia di Senza tregua e Toni Negri e Rosso. Per questi ultimi, la fabbrica diffusa e l’operaio sociale sono un passaggio che addirittura allude a una fase e un terreno più avanzati per il passaggio al comunismo, per gli operai di Senza tregua, invece, il rischio che si prospetta è la fine di un mondo, del loro mondo. Per altro, non appare infondato sostenere che se la lotta armata nasce in fabbrica, essa muore con la morte della fabbrica. O, per meglio dire, le sopravvive divenendo altro da sé: la lotta armata si farà eco e prolungamento artificiale, pratica che non corrisponde più alle sue ragioni originarie. La scomparsa delle grandi concentrazioni operaie e del soggetto storico scaturito da queste segnerà la fine di una storia. ( da Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019, p.136)

Per alcuni lettori questo paragone potrà sembrare scandaloso, eppure, eppure…
La resistenza del mondo del lavoro “tradizionale” all’avanzare delle nuove tecnologie, delle nuove tecniche produttive e delle ristrutturazioni socio-economiche che ne conseguono è una costante della storia fin dall’avvento del capitalismo. Dal tumulto dei Ciompi all’azione disperata di Captain Swing e dei Luddisti contro la meccanizzazione dell’agricoltura, fino al gran numero di piccoli proprietari terrieri del Sud accorsi a difendere gli interessi dei proprietari delle grandi piantagioni di tabacco e cotone, versando il proprio sangue. Oppure quella delle maggiori tribù di nativi americani che nel Territorio indiano si schierarono con la causa confederata. Battaglie quasi tutte perse già in partenza.

Per questo dovremmo forse, da buoni progressisti, felicitarci con il nuovo che avanza ed appoggiarlo?
Quel che è certo è che se non avevamo nulla a che spartire con la vecchia fabbrica-mondo, altrettanto non lo possiamo avere con la trasformazione antropologica, oltre che economica e sociale in atto. Piuttosto, dovremo sempre più essere capaci di osservare, comprendere, denunciare e, dove si potrà, organizzare le contraddizioni che tale potente trasformazione ha già da tempo iniziato a sviluppare. E’ un terreno scivoloso in cui il melting pot tra classi, mezze classi e diverse identità razziali, tutte in via di crescente proletarizzazione, è ancora tutto da realizzare, soprattutto sul piano della visione politica oltre che economica e sociale.

Un territorio in cui, a livello propagandistico e di immaginario soprattutto, gioca molto la questione dei diritti.
La vecchia economia americana privilegia sicuramente i bianchi, anche se rimane ancora il problema di chiedersi perché un gran numero di latinos e il 25% dell’elettorato afro-americano abbiano potuto votare per Trump (ma la risposta è implicita nella domanda stessa).
D’altra parte il trionfo della borghesia e del capitalismo industriale si affermò grazie alla promessa dei diritti per tutti: Libertè, Egalitè, Fraternitè ovvero libertà per la maggioranza di farsi sfruttare una volta sciolti i vincoli della comunità, eguaglianza tra i poveri di accettare le leggi del comando capitalistico e di farsi concorrenza tra di loro e fratellanza degli oppressi nella miseria oppure dei padroni nel processo di accumulazione.
Benvenuti ancora una volta nel mondo libero!

Liberi oggi i lavoratori di cercare un lavoro on line come fattorini e spedizionieri, di accontentarsi della comunicazione digitale sui social e di consumare ciò che le grandi catene di distribuzione, come Amazon (il cui valore azionario è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo anno così come quello dei canali televisivi come Netflix), ci procurano da ogni parte del mondo globalizzato.
Paradossalmente un nuovo mondo in cui il modello cinese ha già vinto e che l’Occidente, Stati Uniti in testa, è costretto a rincorrere10.

[…] perché a Dongguan arrivano ogni giorno, dalle sterminate campagne di tutto il paese, migliaia di ragazze? Qui la risposta è più semplice: intanto perché le loro braccia sono le più ambite nel mercato del lavoro cinese, e poi perché una ragazza, in un posto come Dongguan, può realizzare il suo sogno, l’unico apparentemente concesso, in Cina, oggi: fare carriera. Certo le condizioni di partenza sono durissime: turni massacranti, paghe minime, il tempo libero reinvestito nell’apprendimento coattivo di quei rudimenti di inglese senza il quale una carriera non può avere inizio. Ma le ragazze di Dongguan […] sono disposte ad accettare tutto: un nomadismo incessante (per una fabbrica in cui si trova posto ce n’è sempre un’altra che offre di meglio, e in cui bisogna trasferirsi il prima possibile); relazioni personali fuggevoli, ma irrinunciabili, anche solo per le informazioni che ne possono derivare; e una vita interamente costruita intorno al possesso di un unico bene primario, il cellulare (perderlo, in un posto come Dongguan, significa conoscere all’istante una solitudine quasi metafisica)11.

Come afferma ancora Giovanni Iozzoli, in un suo saggio di prossima pubblicazione:

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.
L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga12

Eccola lì la trappola della modernità, dei diritti e della new economy che avanza: tutti uguali davanti al capitale, tutti ugualmente sfruttati e sottopagati e tutti (per ora) divisi davanti alla sua presenza sempre più invisibile e alla sua forza sempre più organizzata, ma con la promessa per tutti, parafrasando Andy Warhol, di aver la possibilità di realizzarsi in una carriera di quindici minuti.
Le linee di faglia e di colore americane sono dunque anche le nostre e lo sforzo comune per superare l’orrore quotidiano di un’esistenza che non è più altro che nuda vita, pur sapendo già fin da ora che il nostro posto è altrove, non potrà essere altro che quello di riunire ciò che oggi è ancora diviso e confuso. Ed enormemente incazzato


  1. Secondo una stima la guerra causò la morte del 10% di tutti i maschi degli Stati del nord tra i venti e i quarantacinque anni e il 30% di tutti i maschi del sud tra i diciotto e i quarant’anni, su una popolazione complessiva di circa trenta milioni di abitanti; mentre i due eserciti contarono 2.100.000 soldati per gli stati dell’Unione e 1.064.000 per quelli della Confederazione. Da questo punto di vista, infine, occorre ricordare che nel 1860, un anno prima dell’inizio del conflitto gli Stati del Nord contavano 22.100.000 abitanti contro i 9.100.000 degli stati del Sud  

  2. Die Neue Zeit (Il nuovo tempo) fu una rivista politica tedesca di orientamento socialista e marxista pubblicata in Germania dal 1883 al 1923, fondata e diretta da Karl Kautsky, che accolse nel tempo i contributi di Rosa Luxemburg, Trockij e Wilhelm Liebknecht, solo per citare alcuni dei collaboratori  

  3. Occorre qui ricordare i New York riot del 1863, magnificamente ricostruiti nel film Gang of New York di Martin Scorsese nel 2002, durante i quali la parte proletaria e sottoproletaria della grande città si ribellò all’arruolamento forzato cui, invece, i figli delle classi agiate potevano sfuggire pagando una tassa di circa 300 dollari. Cosa evidentemente impossibile per gli strati più poveri della popolazione  

  4. F. A. Sorge, La guerra di secessione ora in F. A. Sorge, Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America 1793-1882. Corrispondenze dal Nord America, PantaRei, Milano 2002, pp. 99-100  

  5. Che fu per lungo tempo, insieme al Missouri, teatro di una crudele guerriglia tra schiavisti e anti-schiavisti. Famoso il massacro della città di Lawrence, avvenuto il 21 agosto 1863 ad opera delle bande filo-schiaviste di William Clarke Quantrill. Si veda in proposito: T.J.Stiles, Jesse James. Storia del bandito ribelle, il Saggiatore, Milano 2006  

  6. Jed Kolko, Why Blue Places Have Been Hit Harder Economically Than Red Ones, The New York Times, 30/10/2020  

  7. J. Kolko, Red and Blue Economies Are Heading In Sharply Different Directions, The New York Times, 13 /11 /2019  

  8. Come ben dimostra ormai la paradossale ricerca/affermazione del mezzo punto di efficacia in più tra Pfizer e Moderna per i propri vaccini, a cui stiamo assistendo con le vertiginose salite e altrettanto rapide cadute dei rispettivi titoli azionari  

  9. Per la storia di Senza tregua. Giornale degli operai comunisti si veda qui  

  10. Ipotesi tutt’altro che peregrina se si considera che la guerra vera con la Cina, per ora, riguarda la tecnologia 5G di Huawei oppure le piattaforme social come TikTok  

  11. Dalla presentazione dell’editore a Leslie T. Chang, Operaie, Adelphi, Milano 2010  

  12. Tratto da G. Iozzoli, Islam, modernità e guerra alla guerra, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale, Il Galeone, Roma  

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Sull’epidemia delle emergenze e sulla catastrofe come campo del possibile https://www.carmillaonline.com/2020/03/04/sullepidemia-delle-emergenze-e-sulla-catastrofe-come-campo-del-possibile/ Wed, 04 Mar 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58473 di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e [...]]]> di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e di vita capitalistico.

Il Coronavirus ha avuto un tempismo perfetto, cascando nel bel mezzo di una congiuntura che vedeva già intrecciarsi l’inizio di una nuova macroscopica crisi finanziaria ed economica, con una profonda crisi politica delle istituzioni locali, nazionali e globali e con una tensione crescente alla guerra, che solo in questi giorni prende una nuova accelerata, con masse di profughi che premono ai confini d’Europa e la Turchia che tenta di mangiarsi la Siria e conquistarsi un primato che non sarebbe più solo regionale.

Una grande situazione di possibilità, in fondo, che però trova pronta ad accoglierla una parte delle associazioni imprenditoriali1, ma non trova nessuno a raccoglierla tra le fila del “partito rivoluzionario”, sempre ammesso che ne esista ancora uno. Questo perché ci sembra che, dalle nostre parti, smarrite le bussole del conflitto, ci si adagi nella denuncia dell’emergenza accodandosi alla sua narrazione mediatica, senza coglierne le complessità né i margini di azione che ci offre.

La discussione sviluppata negli ambiti di movimento ci sembra in questo caso paradigmatica: un’oscillazione tra i poli dello scientismo e del politicismo, condito una tantum dal complottismo anti-americano vecchio stile. Insomma, un immancabile guardarsi la lanugine nell’ombelico mentre attorno tutto brucia.

Ai seguaci della scienza accordiamo, ad esempio, il fatto che non è possibile non tenere conto della dimensione molto concreta di un’epidemia reale con effetti reali e che, a meno che non si sia studiato medicina, non si hanno le competenze minime per dire quanto siano o meno reali certe minacce. Il problema di questo ragionamento però è che rischia di sfociare nell’abdicazione della propria posizione in virtù della ragion di Stato e del buonsenso: in ogni caso non possiamo dimenticare che compito dell’antagonismo è sempre cercare quegli spazi di conflittualità e inimicizia dati dalle contraddizioni del reale, forzarli fin dove è possibile, fino a farli esplodere possibilmente, invece di aspettare il ritorno ad una normalità che ci è sempre stata ostile.

C’è qui da porsi, poi, qualche altra domanda sulla questione Scienza.
Oggi in questo ambito si fa una gran confusione: tolti gli scettici e gli opinionisti, da una parte c’è chi finge che questa sia una branca asettica, immacolata e intoccabile della conoscenza umana e dall’altra chi, scientemente, ne condanna ogni aspetto negandone la validità in assoluto. D’altra parte, pur senza svilire l’attendibilità di medici e scienziati, come possiamo fidarci totalmente della scienza medica prodotta nei laboratori dei colossi dell’industria farmaceutica, delle loro invenzioni interessate, dei loro affari nei sistemi sanitari di tutto il pianeta2?

Occorre denunciare gli stretti legami tra ricerca, organismi sanitari, taglio della spesa pubblica e investimenti in ricerche finalizzate soltanto al profitto. Ma la denuncia non basta, occorre andare oltre, assumendoci responsabilità che troppo spesso sembrano andare al di là della capacità reale dei movimenti di pensare, organizzare e agire.
E’ anche questo un lavoro enorme. Bisogna rifondare la conoscenza e liberarne le possibilità, scientifiche e non, che in quella attuale sono state limitate o rimosse per il puro interesse finanziario e politico. Quello della riappropriazione della conoscenza, non solo scientifica, è un lavoro che occorre sviluppare durante la lotta, proprio come uno dei suoi motori.

Anche perché il trionfalismo scientista e tecnologico di cui l’attuale modo di produzione ha fatto sfoggio negli ultimi decenni oggi mostra tutta la sua debolezza. Il famoso “progresso” con cui i portavoce del capitale hanno giustificato qualsiasi impresa, dalla gara spaziale all’obbligo per qualsiasi tipo di vaccinazione, fino all’estrattivismo e alla devastazione ambientale, così come tutti i trionfalismi a proposito di sistemi 4.0, 5.0 o n.0 oggi mostrano tutta la loro fragilità e la vacuità delle loro certezze. Anche per questo non denunciarne la sistematica opera di rimozione di tutto quanto poteva essere d’ostacolo all’iniziativa privata significherebbe rischiare di vedere vanificate in blocco anche le conquiste reali della scienza con la S maiuscola. Quella che si è sempre mossa senza nascondere le proprie incertezze e i propri dubbi sui risultati raggiunti, facendo in realtà di questi ultimi, sempre momentanei e incompleti, il vero motore dell’avanzamento della ricerca e della conoscenza disinteressata.

Cosa ribattere a chi invece ignora o sottovaluta le dimensioni del fenomeno Coronavirus prendendolo per mera tecnica di governo? L’analisi della situazione solo da un punto di vista politico, senza tener conto dei fenomeni reali fa sì che, spesso, si perdano i contorni della realtà e si finisca per applicare concetti teorici in maniera meccanica e produrre così i fatti a partire dalle proprie opinioni.

A ragionar così, si prende il nemico per una sorta di monolite in cui non c’è differenza o contraddizione tra gli attori in campo: media, Stati, grandi capitali, organismi internazionali, tutti sfumati fino a diventare un unico Moloch per cui ogni emergenza è pura propaganda, ogni provvedimento preso è volto direttamente alla soppressione di libertà e di dissenso organizzato quando la prima si può reprimere facilmente in ogni momento emergenziale e il secondo, banalmente, non si sa dove sia finito. A continuare su questo sentiero, ci si troverebbe presto a difendere le borghesissime virtù del lavorare e consumare.

Paradossalmente, non affrontando il tema reale dell’epidemia e riducendolo a escamotage politico, si perdono completamente i termini dell’operazione, ci si scolla dalla realtà e ci si rinchiude nel vicolo cieco della retorica, perdendo di vista anche il campo delle possibilità.
Ai complottisti geopolitici abbiamo poco da dire. Uscite di casa, respirate aria fresca e chiedetevi se esistano capitalismi buoni, prima di ricondurre una malattia sorta in Cina ad un malefico piano statunitense3.

Ora, questo è il tenore della discussione sul Virus, ma crediamo valga su ogni altra Emergenza ed è invece proprio sul senso profondo di queste perenni emergenze che occorre indagare piuttosto che sulle loro forme contingenti.
C’è uno stretto rapporto che intercorre tra dichiarazione delle emergenze nazionali, o di altro tipo, e il controllo politico-militare, da parte dello Stato e dei suoi apparati repressivi, di territori e opinione pubblica.
Praticamente ogni emergenza corrisponde, nei fatti, ad una sorta di stato di guerra cui i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione sociale, politica o di età, dovrebbero rispondere uniti per amor di Patria e di unità nazionale di fronte a un pericolo esterno.
Non varia questo significato in presenza di guerre, epidemie o di catastrofi più o meno naturali.
Accettare la collaborazione con gli apparati dello Stato significa sempre inchinarsi alla volontà del nostro più feroce nemico4.

E’ come se di fronte ad una guerra dichiarata dal “nostro” Stato fossimo obbligati per default ad essere accondiscendenti con le misure prese per contrastarne i rischi. L’avevano compreso fin dal primo conflitto mondiale i giovani della Federazione giovanile socialista che diedero vita alla frazione intransigente del PSI poi divenuta, di fatto, la frazione comunista di Livorno. Fu il disfattismo rivoluzionario a guidare i giovani socialisti nella loro lotta alla guerra e al collaborazionismo, anche quando questa si travestì da “collaborazione nell’ora del pericolo” e dei soccorsi umanitari, dopo Caporetto, nei confronti dei profughi veneti investiti dalle armate austro-tedesche5.

Roba vecchia per qualcuno, ma estremamente attuale per chi voglia opporsi a tutte le strategie messe in atto per far rientrare le dissidenze nel “dolce” alveo della compatibilità sistemica.
Ma allora, qualcuno penserà, non dovremo più aiutare le popolazioni colpite da disastri e calamità? Dovremmo rifiutare la solidarietà attiva ai migranti in fuga? Certo che no, ma questo andrà fatto, e questa è un’altra assunzione di responsabilità oggi troppo spesso ignorata, non dimenticando mai di denunciare gli artefici dei disastri (militari o naturali), le cause intimamente legate al profitto e all’interesse privato oppure alla concorrenza imperialistica e, soprattutto, attraverso una propria organizzazione ovunque questo sarà possibile.

Non ci interessa scimmiottare la Croce Rossa, i boy-scouts o la Chiesa; ci interessa, sempre e comunque, tenere aperto ed allargare il conflitto sociale.
Allora, l’analisi che deve interessare il militante rivoluzionario non è quella che cerca il pelo nell’uovo della teoria o si piega alla ragion di stato per evitare di far danno dove non è competente. L’unica analisi che ci deve interessare è quella che parte dalla situazione data per coglierne le fragilità e agire su esse; il nostro unico cruccio deve essere sempre quello di spezzare le maglie del dominio; siamo gli irriducibili nemici di questo mondo, ogni sua debolezza deve essere sfruttata.

Quindi, il campo di battaglia che ci si dà è quello dell’Emergenza in quanto attore imprevisto che nell’arco di poco tempo ed alle soglie di una crisi finanziaria, politica e militare macroscopica, è in grado di gettare nel panico la classe dirigente mettendola in crisi sulla sua capacità di gestione della catastrofe. Vero che il rischio fa parte del capitalismo, vero anche che il rischio e il capitalismo non escludano il fallimento.

L’allarmismo emergenziale serve spesso per giustificare tutto e per “sorprendere” il pubblico6. Ma il perenne e catastrofico accumularsi di emergenza su emergenza ci parla anche dell’impossibilità di mantenere in piedi questo modo di produzione, anzitutto, nel momento in cui il suo primato sulla vita mette in pericolo anche sé stesso e disvela tutta la sua fragilità: il colosso cinese che rischia di andare in pezzi per una brutta influenza è un’immagine abbastanza rivelatrice.
Nella necessità di trovare una soluzione alle emergenze, si finisce sì per sperimentare tecniche assolute di controllo della vita ma anche per minare lo stesso modo di produzione capitalistico che si vuole proteggere. Ed ecco allora gli attori finanziari strepitare, le borse colare a picco, i capi di Stato rassicurare i mercati. La prima emergenza è in casa del nemico.

Da qui vediamo come di giorno in giorno la situazione di caos istituzionale, retto quasi soltanto dall’autoritarismo e dalla militarizzazione dimostra ben più di quanto si è detto a proposito del contenimento sociale. Da tempo, non a caso, si parla di guerra civile come unica risposta degli Stati alle richieste dei movimenti e dei cittadini, intesa come pacificazione, repressione e militarizzazione dei territori e delle risposte istituzionali: questo perché sono stati svuotati di qualsiasi funzione parlamentare, politica, economica autonoma e affidati soltanto alle decisioni prese in altri consessi7.
Motivo per cui di fronte ad ogni imprevisto e al conflitto rimangono in piedi soltanto grazie al collante dell’autoritarismo e dei provvedimenti eccezionali come la militarizzazione dei territori.

La figura dello Stato fa quindi, per ora, da parafulmine al capitale, e questo “stato d’emergenza” ci parla del suo agire in campo come attore obbligato a governare la catastrofe, ma la crisi di cui è vittima ormai da tempo si rende fortemente visibile nel momento in cui il controllo del territorio e la compressione delle libertà sono gli unici strumenti di cui dispone mentre non riesce a garantirsi una via d’uscita dal problema; le necessarie misure di contenimento finiscono per frammentare il consesso delle grandi potenze e così indebolire anche le indicazioni di quegli organismi sovranazionali che si trovano in condizione di difficoltà nel trasmetterlo attraverso una catena del comando fattasi, velocemente, assai ingarbugliata. Inoltre, la difficoltà gestionale dell’emergenza a cui non si era preparati, il suo inserirsi in una sequenza accelerata e perenne di emergenze, fa sì che si aprano delle falle nel dispositivo in cui è possibile far filtrare il bacillo della sovversione.
Ecco un compito per noi, quello del disfattismo anticapitalistico.

Qui entriamo su di un piano molto materiale e vediamo che il terreno del conflitto risiede in quell’insubordinazione spontanea che parte dalle necessità di vita. Sta anche qui, e non solo nell’azione statale, il disvelamento della guerra civile in atto, la lotta per le risorse e le possibilità di vita: non è la paura del controllo o di un golpe biopolitico a scatenare l’inimicizia, è il fatto che ci chiudono in casa e ci vietano di uscire ma non sono in grado di fornirci, fino ad ora, assistenza medica né approvvigionamenti; è il fatto che hanno massacrato il SSN fino a trovarsi incapaci di fare dei banali tamponi agli infermieri8; è il fatto che ci chiudono le scuole, le università, i cinema, i musei, vietano gli spostamenti ma comunque ci costringono a lavorare ed esporci al rischio senza niente di più in cambio; è il fatto che nell’emergenza ne approfitti il vampiro del mercato alzando i prezzi dei beni necessari senza che tra le misure ritenute draconiane ci sia un calmiere dei prezzi.
Questa risposta non può che generare scontento, conflitto e necessità di auto-organizzazione, ed qui che si deve inserire l’antagonista militante per coltivare l’ostilità e il malcontento, organizzare la deflagrazione sociale. Ad esempio, denunciando le condizioni e appoggiando oggi le richieste di coloro che sono in prima linea; come quelle espresse dai medici che denunciano apertamente gli scarsi mezzi messi a disposizione di chi col coronavirus deve fare i conti in ambulatorio e negli ospedali. Attaccando quella sanità privata che nell’emergenza si è rivelata fino ad oggi totalmente inutile e latitante.

Oppure rivendicando la salvaguardia del salario e del posto di lavoro per tutti i lavoratori dipendenti delle aziende toccate dalla crisi epidemica, denunciando il tentativo di abbassare il primo e di modificare le condizioni di lavoro, magari attraverso una ulteriore parcellizzazione e precarizzazione dello stesso per mezzo della diffusione del telelavoro, anche per la fase successiva all’epidemia. Contrastando ogni tentativo di ridurre gli spazi di lotta come, di fatto, impone la richiesta della Commissione di garanzia per una moratoria degli scioperi fino al 31 marzo (qui). Oppure, ancora, organizzando il blocco dei flussi e la ridistribuzione autonoma delle merci e dei beni su cui speculano gli sciacalli, i centri commerciali lasciati aperti quando si è fatto divieto di manifestare e, in genere, il mercato dove lo Stato ha preferito tutelare l’accumulazione di capitale.

Indagando, per esempio, quanto l’azione incrociata di Erdogan e Unione Europea (insuperabile nella sua ipocrisia) stia portando alla formazione di una nuova coscienza comune tra gli emigranti di diverse, e spesso ostili, nazionalità9. Sedimentata nei lager in cui per troppo tempo sono stati rinchiusi e saldata dall’azione comune concreta più che dalle vuote promesse di solidarietà provenienti da chi li sfrutta e imprigiona o li respinge e dalla reazione alla violenza degli apparati e delle ronde fasciste di Alba Dorata. Una coscienza, che si muove a prescindere dalla solidarietà dei movimenti europei ma che ci parla di forte conflittualità spontanea e autodeterminazione e ci impone, una volta per tutte, a ripensare un approccio politico rivoluzionario al fenomeno delle migrazioni e del loro soggetto cardine.

Al di là di tutti gli altri esempi che si potrebbero fare, ciò che occorre sottolineare è proprio questo: di fronte allo sgretolarsi degli Stati e dei loro rappresentanti partitici l’unica alternativa ragionevole, se non unica, è quella dell’auto-organizzazione politica dei territori e dei movimenti che li abitano, la costruzione delle sue articolazioni su scala globale. Purtroppo oggi molti, che stanno nei movimenti e sui territori, si abbandonano ancora a riflessioni riduttive, quasi mai di carattere generale ma, al massimo, massimaliste. Sembra che per troppo tempo il movimento antagonista si sia abituato a non assumersi le piene responsabilità che l’attuale situazione dei rapporti sociali dovrebbe imporre.

È nelle pieghe della quotidianità del dominio che stanno le possibilità da cogliere e da organizzare; lo stato d’emergenza, in questo senso, non fa che esasperare e mettere a nudo un dispositivo che è in atto quotidianamente in maniera sibillina, mentre la catastrofe, per quanto discorso governamentale che richiama a ubbidienza e unità, lascia intravedere tutta la debolezza dei sovrani, è il canto del cigno che ne precede la morte e apre possibilità di collasso che, a chi tiene ferma la bussola dell’abbattimento della modernità capitalista, sono un tesoro da saccheggiare rapidamente.
Tutto il resto sono sciocchezze dettate dal timore di affrontare il nemico vero su scala globale e nella maniera più adatta. Che non può più essere quella del parlamentarismo, della democrazia rappresentativa borghese o del pianto sulle vittime, né tanto meno della difesa debole degli ultimi ridotti rimasti a quello che un tempo chiamavamo Movimento.

Dobbiamo uscire una volta per tutte da questa psicosi dell’emergenza continua che ci fa rincorrere, come novelli giornalisti d’accatto, le notizie delle prime pagine che fanno più rumore. Il nostro pensiero strategico deve tagliare e attraversare di netto questa coltre di emergenze e colpire il nemico in profondità, nella sua intima catastrofe10 .

Il parto della civiltà capitalistica, in prossimità del XVI secolo, fu anticipato da doglie che agitarono un plurisecolare periodo di guerre, rivolte, saccheggi di nuovi continenti, cambiamenti climatici11 ed epidemie12 che Albrecht Dürer seppe cogliere nelle xilografie realizzate per illustrare l’Apocalisse di Giovanni nel 1498.
Sapremo fare altrettanto incidendo nelle lotte e nelle coscienze l’immagine della società futura di cui già da tempo avvertiamo i dolori delle doglie e i movimenti tellurici che l’annunciano?

Abbiamo di nuovo bisogno di eroismo collettivo, di determinazione infrangibile e instancabile, di intelligenza strategica, di lucidità e presa di distanza da tutto ciò che ancora rappresenta la miserabile eredità del modo di produzione attuale. Se è vero che viviamo nel tempo degli stati d’eccezione e delle emergenze permanenti, allora la regola di fondo che ci guida è una sola: uscire dall’emergenza e saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità.


  1. Si pensi soltanto al presidente di Confindustria, Boccia, che continua in questi giorni a soffiare sul fuoco delle Grandi Opere Inutili e Dannose (ma ritenute necessarie per il rilancio dell’economia), confermando il discorso sviluppato, già a partire dagli anni ’50, da Amadeo Bordiga sulla stretta interconnessione tra dinamica capitalistica, sciacallaggio economico e catastrofi “naturali”- A. Bordiga, Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra editore, Milano 1978  

  2. Sulla possibile “creazione” del Covid-19 in laboratorio si veda qui  

  3. Qui invece due recenti articoli tratti da «Repubblica» e dal «Corriere» sulle paure americane  

  4. Si veda, ad esempio, lo strappo istituzionale voluto da Macron e dal premier, Edouard Philippe per far passare all’Assemblea nazionale, il 1° marzo, la legge sulle pensioni, approfittando del divieto di manifestare indetto per “fronteggiare” il Coronavirus  

  5. Si veda in proposito: L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno editrice, Roma 2019  

  6. È di queste ore la “sorpresa” per la vittoria di Biden nel Super-tuesday elettorale americano, come se già non si sapesse che Biden è l’unico candidato ammissibile per l’establishment americano, sia democratico che non  

  7. Di cui, per altro, anche gli europeisti più convinti cominciano a dubitare:
    “Oggi l’Unione Europea rischia di essere travolta da due emergenze globali […] La prima è l’epidemia di coronavirus. La seconda la nuova crisi dei migranti riaperta dalla Turchia, che usa i profughi siriani come arma di ricatto […] Entrambe le crisi sono figlie del fallimento degli stati nazionali nell’affrontare emergenze che sarebbero di loro competenza. Le politiche sanitarie non prevedono una gestione comune, così come la sorveglianza delle frontiere esterne e dei flussi migratori rientra nella sovranità delle capitali, che da tempo non riescono a intendersi su una linea di condotta unica. Ma le emergenze non rispettano i trattati europei. Così, dopo che ogni governo della Ue ha cercato di fermare l’epidemia per conto proprio, tutti si devono tardivamente arrendere al fatto che il contagio è un problema comune. Ma questo non basta a decidere di centralizzare la lotta al virus a livello europeo, proprio a causa dell’incertezza su come agire. Qual’è il punto di equilibrio tra la tutela della salute difesa dell’economia e della vita sociale delle nostre comunità? Poiché nessuno conosce la risposta, ognuno pensa di avere la propria verità in tasca e vuole applicarla a modo suo” (Andrea Bonanni, Due crisi, stesso fallimento, la Repubblica 2 marzo 2020)  

  8. Si vedano qui le conseguenze del taglio della spesa sanitaria proprio nel Lodigiano e qui più in generale su quello lombardo  

  9. “Arrampicata sul ramo più alto, nella campagna tra la turca Edirne e la regione greca dell’antica Tracia, la vedetta afghana sa che dipende tutto dal suo segnale. Non si va più in solitaria. La coalizione dei respinti si è data una strategia. Per una volta i contrasti etnici, le scazzottate negli accampamenti tra pachistani e indiani, le gelosie tra afghani e iraniani, la diffidenza dei somali, la malinconia dei siriani, lasciano il posto ad un’alleanza inedita […] si sono dispiegati lungo chilometri e chilometri di frontiera. Impossibile per le guardie greche sigillare il confine” Nello Scavo, Bastonate e spari sui migranti in fuga dalla Turchia alla Grecia, Avvenire 3 marzo 2020  

  10. L’etimologia della parola catastrofe è da ricondurre al verbo greco καταστρέϕω (katastrepho) = io capovolgo. Da tale verbo, il sostantivo καταστροϕή (katastrophé) = capovolgimento, ribaltamento, stravolgimento…
    Il termine fu utilizzato dagli scrittori greci per indicare un esito spesso imprevisto, ma sempre disastroso, doloroso e luttuoso del dramma o di una qualche impresa, fatto o accadimento umano o naturale. Così, la parola catastrofe, che di per sé sarebbe stata di valenza neutra, indicando semplicemente un radicale e spesso repentino cambiamento della situazione, fu utilizzata, sin dall’antichità come sinonimo di sciagura, disastro, rovina, distruzione… A noi il compito di reinterpretarlo nel suo genuino significato di cambiamento radicale  

  11. Si veda, per il clima del XVI secolo e la cosiddetta “piccola glaciazione”, Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi, Torino 1982  

  12. Per il peso che cambiamento climatico ed epidemie ebbero invece nel contesto della fine dell’impero romano, si veda il recentissimo Kyle Harper, Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019  

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