Berlusconi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La Destra politica italiana e la Costituzione del 1948 https://www.carmillaonline.com/2024/01/19/la-destra-politica-italiana-e-la-costituzione-del-1948/ Fri, 19 Jan 2024 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80740 di Pietro Garbarino

Ci fu un tempo in cui l’Italia visse sotto l’incubo di attentati sanguinosi a banche, ferrovie e luoghi pubblici in generale. Li possiamo ricordare ancora tutti: Piazza Fontana (1967), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza Loggia di Brescia e Italicus (1974), e altri episodi, precedenti e successivi, che non sono rimasti nella memoria storica, ma sono purtroppo avvenuti.

Ma in quegli anni avvenne anche altro; la bomba di Milano aveva lo scopo di fare proclamare la legge marziale, o comunque leggi di emergenza che avrebbero limitato le libertà democratiche e neutralizzato il Parlamento, [...]]]> di Pietro Garbarino

Ci fu un tempo in cui l’Italia visse sotto l’incubo di attentati sanguinosi a banche, ferrovie e luoghi pubblici in generale.
Li possiamo ricordare ancora tutti: Piazza Fontana (1967), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza Loggia di Brescia e Italicus (1974), e altri episodi, precedenti e successivi, che non sono rimasti nella memoria storica, ma sono purtroppo avvenuti.

Ma in quegli anni avvenne anche altro; la bomba di Milano aveva lo scopo di fare proclamare la legge marziale, o comunque leggi di emergenza che avrebbero limitato le libertà democratiche e neutralizzato il Parlamento, come supremo organo elettivo e democratico dello Stato. Cosa che non avvenne perché le istituzioni reagirono e perché i cittadini avevano capito cosa stava bollendo in certe pentole.

Ma nel Dicembre 1970 ci si riprovò, con un colpo di stato tentato dal nostalgico fascista Junio Valerio Borghese, che fece male i conti delle proprie forze, ma che si diede poi alla fuga senza pentirsene mai.
Nel 1973 ci riprovarono, assieme, esponenti delle forze armate, politici provenienti anche da partiti dell’arco costituzionale (antifascista) ma schierati a destra in nome dell’anticomunismo, ex partigiani bianchi sempre rimasti ferocemente anticomunisti e, come sempre, insieme a loro, fascisti e neofascisti, in parte contrapposti del MSI-D.N., ma anche appartenenti a gruppi oltranzisti come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Anche questa volta andò per loro male, ma il seme era ormai gettato.

Cosa volevano costoro?
1) Togliere ogni potere a partiti (quelli veramente antifascisti) e sindacati.
2) Ridimensionare il ruolo del Parlamento come principale espressione dell’ordinamento democratico e della rappresentatività popolare.
3) Imbavagliare la stampa libera.
4) Ridimensionare il potere della magistratura, assoggettandola al potere politico.
5) Fare modificare la natura dello stato da parlamentare a presidenziale.
6) Affidare il potere esecutivo (cioè quello politico) al Presidente della Repubblica. Cioè,ad un uomo solo al comando.

In pratica, pur con qualche diversa forma e modalità, si trattava di ripristinare i tratti salienti dello stato fascista.
Ma proprio per evitare ciò i Padri Costituenti avevano pensato, e realizzato, una Costituzione che negava, e nega, ogni carattere dello stato fascista; e proprio per tale motivo i nostalgici, reazionari e neofascisti volevano e tutt’ora vogliono abbattere quei principi e quegli istituti, che impediscono loro di restaurare lo stato autoritario di Mussolini e C.
Non a caso, il fascista Almirante definì la Repubblica risorta dalla Resistenza dalle dittature come “repubblica bastarda”, avendo egli in testa solo i principi demagogici, autoritari e servili della Repubblica di Stato, stato fantoccio al servizio dello stato hitleriano e nazista.

Ma le lotte operaio e studentesche di quegli anni, in primo luogo ispirate dall’antifascismo e tendenti all’allargamento degli spazi della democrazia, condizionarono un ceto politico, già tentennante e in declino culturale e ideale, e fecero si che lo stato democratico reggesse.
Tutto ciò peraltro non scoraggiò alcuni potenti sostenitori della trasformazione in senso autoritario dello Stato, tanto è vero che il massone eversore Licio Gelli ebbe modo di riformulare in modo organico il programma dei bombaroli e golpisti degli anni ’70 dello scorso secolo, inserendolo nel “programma di rinascita democratica”.

I cui temi fondamentali di tale programma eversivo vennero poi fatti in parte propri non solo dalle potenti cosche mafiose di Calabria e Sicilia (molti membri delle cupole di comando di quelle organizzazioni criminali erano anche adepti di logge massoniche), ma vennero recepite nei programmi di governo delle forze della nuova destra, che furono riunite, unificate, legittimate e perfino foraggiate, dall’entrata in politica di Silvio Berlusconi.
Questi, sfruttando la notorietà che gli fruttavano inopportune e fuorvianti compagnie di stampa sulla sua vita privata, fece passare ad uno ad uno quasi tutti gli obiettivi del “programma di rinascita democratica” formulato dalla massoneria capitanata da Gelli, e tentò perfino la carta della modificazione costituzionale in senso antiparlamentare e per il rafforzamento dell’esecutivo (leggi, Governo), senza però riuscirvi perché ancora una volta prevalse tra i cittadini il punto di vista democratico e costituzionale.

Ma, dopo il tramonto politico di Berlusconi, il paese non fu più comunque quello che aveva, negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo, sconfitto le bombe fasciste, i tentativi di golpe e il terrorismo di ogni specie e provenienza.
E ciò perché Berlusconi legittimò la destra di origine fascista e minò l’unità antifascista dei partiti che avevano partecipato alla Resistenza, rompendo il cosiddetto “arco costituzionale”.

E da allora, sulla scena politica nazionale, ebbero ingresso quelle proposte e pulsioni che l’Assemblea Costituzionale aveva isolato, negato e definitivamente archiviato, nella consapevolezza che lo stato democratico si dovesse fondare sulla ripartizione di poteri uguali fra loro, sulla sovranità del parlamento, e sul diritto.
Ma la rottura della residuale unità antifascista dei partiti dell’ex arco costituzionale, che significava essenzialmente osservanza rigorosa e rispetto della Costituzione del 1948, ha fatto venire meno proprio quel livello di valori per cui, specialmente a destra, ma anche nello schieramento opposto, si sono fatte strada idee e proposte di modifica della carta costituzionale, in nome di un malinteso efficientismo dell’azione politica e di una altrettanto inutilizzata e ideologizzata “governabilità” che nulla ha a che vedere con la carta fondante del nostro Stato.

Entrambi gli opposti schieramenti (si è infatti tentato di passare, senza successo alcuno ad un sistema politico di stampo anglo-sassone, e cioè bipartitico, e ad un sistema elettorale di tipo maggioritario) hanno infatti inteso il governare come affermazione esclusiva di proprio punto di vista, in funzione di negazione e sopraffazione dell’opposizione, nonostante che la carta costituzionale indichi chiaramente che si governa nell’interesse generale del paese, che il sistema politico è e deve essere pluralista, e che tutte le forze politiche presenti in parlamento devono contribuire al miglior governo possibile della cosa pubblica.
In altri termini la buona ed efficiente governabilità del paese si ha quando si verificano quelle circostanze e non quando uno schieramento politico riesce a soverchiare quello opposto.

E così avviene che il secondo governo presieduto da Berlusconi (era il 2007) tentò di modificare la Costituzione attribuendo al Governo e al Presidente del Consiglio poteri maggiori e più estesi di quanto sono oggi.
Ma anche alcuni importanti forze del centro sinistra, nel 2016, tentarono un’operazione analoga.
Fortunatamente entrambe fallirono, ma la tendenza diffusa trasversalmente tra i vari partiti, di imporre la maggioranza politica uscita dalle urne elettorali in modo prevaricante, non si rassegnò affatto e ha ripreso fiato e forza, in particolare dopo le ultime elezioni politiche, che hanno visto prevalere la destra più estrema; quella che non ha mai digerito i capisaldi costituzionali che sino ad oggi hanno garantito la natura democratica della Repubblica Italiana.

Così si è verificato che il partito vincitore delle elezioni del 2022 avesse inserito nel proprio programma politico proprio quella repubblica presidenziale che era stata l’obiettivo dei fautori delle stragi degli anni ’60 e ’70 del ‘900, ma anche del programma massonico di “rinascita democratica”.
E’ vero che successivamente, nelle concrete circostanze e nello spirito autoritario del programma politico della destra attualmente al governo, tale proposta di modifica sostanziale della Costituzione del 1948, si è tradotta in una proposta di “premierato forte”, ma non si può negare che il principio ispiratore di fondo di entrambe le soluzioni prospettate, sia quella di superare il principio della tripartizione dei poteri, di eliminare e neutralizzare il Parlamento, imponendo in modo autoritario e unilaterale la legge del più forte.
Proprio quello che l’Assemblea Costituente evitò e condannò in modo chiaro e inequivoco.

La proposta di premierato, oggi avviata verso l’approvazione (che tuttavia prevede un iter parlamentare abbastanza lungo e complesso) si fonda sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio, quale leader dello schieramento politico risultato vincente alle elezioni, che fruisce automaticamente della maggioranza assoluta dei membri delle Camere, in forza di un abnorme previo di maggioranza, e potrà così governare indisturbato per 5 anni, di fatto detenendo il potere di impulso delle leggi che potrà dettare alle Camere, sotto il ricatto che, se cade il governo, si sciolgono anche le assemblee parlamentari.

Ciò comporterà che il Governo potrà contare su un massiccio (e subalterno) consenso nelle aule, che gli permetterà anche di eleggere parte dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura e perfino della Corte Costituzionale (il Giudice delle leggi) e perfino, alla terza votazione, il Presidente della Repubblica.
Questi, invece, verrà limitato nei suoi poteri di scioglimento delle Camere e nella formazione del Governo, e perderà la sua funzione di garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato.

In definitiva, premesso che una simile proposta di nuovo assetto costituzionale non sarebbe stata neppure concepibile allorché vigeva l’unità antifascista dell’arco costituzionale, lo scopo della modifica istituzionale, che il governo di destra propone, mira proprio a sbilanciare i poteri dello Stato, oggi basati sulla centralità del Parlamento, come organo democratico rappresentativo dei cittadini, e la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica; e ciò a tutto vantaggio del “Premier” che avrebbe non solo il potere di formare il governo, indicando al Capo dello Stato i ministri, ma avrebbe in pugno il Parlamento e influirebbe in modo notevole sul potere giudiziario, e perfino sull’organo massimo di garanzia della corretta applicazione, delle leggi approvate nonché dei principi e diritti costituzionali.

Come si vede, si tratta del ritorno del principio di “un uomo solo al comando” già così caro al cavaliere Berlusconi, ma che rimanda chiaramente ai prodromi storici dell’ascesa al potere del fascismo.
Dunque, in conclusione, possiamo ritenere, e i fatti storici ce lo confermano, che c’è un filo continuo (non certamente rosso) tra le stragi fasciste degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo e che il certosino lavoro di erosione delle istituzioni democratiche da parte non solo della destra politica, ma anche di neo-fascisti, gerarchie militari, comandi atlantici e servizi segreti, sta purtroppo dando i suoi nefasti e mefitici frutti.

L’opinione pubblica democratica è avvertita e deve essere cosciente.
Saprà reagire?

]]>
Il trionfo della “società dello spettacolo” e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2023/07/24/il-trionfo-della-societa-dello-spettacolo-e-le-sue-conseguenze/ Mon, 24 Jul 2023 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78200 di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, sembrerebbe sfiorare la psicosi. Prova ne sia un’affermazione come quella contenuta in un numero di luglio del «Venerdì» di Repubblica: “Il berlusconismo è stata la disgrazia più grande”, attribuita a Sabina Guzzanti.

Già, la disgrazia più grande. Così mentre il grande pubblico dello spettacolo mediatico, politico e “culturale”, non ha ancora finito di assorbire il fatto che la Shoa abbia costituito il “male più grande”, ecco che già gli viene propinato un altro villain definitivo, dopo Hitler, Mussolini o chi altro diavolo si voglia. E mentre l’audience viene tenuta in uno stato di costante allerta da una classifica di “disgrazie” che non sembra mai finire, dal Vajont al Covid o alla guerra in Ucraina, un nuovo (?) “urlo di dolore” e moto “di denuncia” inizia a diffondersi per l’aere mediatico. Un’eterna corsa al vaccino definitivo contro i mali causati dalla Destra a livello politico e sociale che, però, non intacca mai la sostanza di una società (quella italiana ma non solo) e di un modo di produzione di cui la stessa Sinistra “criticante” fa parte, condividendone spesso valori e principi, fin da prima della caduta definitiva del fascismo storico.

Hanno fatto dunque benissimo le Edizioni Mimesis a riproporre nella collana “Volti” un testo del filosofo e scrittore italiano Mario Perniola (1941-2018), già precedentemente edito nel 2011: Berlusconi o il ’68 realizzato. Come si afferma nella Nota redazionale che precede l’attuale riedizione:

Il grande filosofo italiano che è stato Mario Perniola ci ha regalato uno stile di pensiero in cui ridere e comprendere vanno a braccetto, in nome di un umano e lucido disincanto del presente. Quando uscì Berlusconi o il ’68 realizzato, imperversavano gli scandali delle “cene eleganti” e vacillava la credibilità internazionale del Paese Italia. […] Allora risultarono quanto mai puntuali queste valutazioni di Perniola sul significato storico delle trasformazioni personificate da Berlusconi nella politica, nella cultura, nei costumi e nella vita sociale del Paese. Ma anche oggi, soprattutto oggi, al termine della parabola biografica dell’uomo di Arcore, l’analisi della rivoluzione spettrale, qui proposta, risulta essere uno dei migliori discorsi di commiato che si possano fare1.

Discorso in cui occorre sottolineare, così come fa Perniola e non soltanto per gusto provocatorio, il ricongiungersi, in maniera sicuramente distorta, nel programma di Berlusconi della gran parte degli obiettivi che caratterizzarono la grande ondata del Sessantotto. Dalla fine del lavoro alla distruzione dell’università e al vitalismo giovanilistico fino al trionfo della comunicazione massmediatica. Una sorta di rinnovato “spirito del capitalismo” cui avrebbero fatto riferimento in seguito Luc Boltanski e Eve Chiapello, annotando: la sua vocazione alla mercificazione del desiderio, soprattutto quello di liberazione, e di conseguenza al suo recupero e inquadramento2.

In attesa dunque di valutazioni storiche e politiche degne di questo nome, che non si basino soltanto su frasi ad effetto e battute salaci che si accontentano soltanto di rovesciare lo stile berlusconiano, in realtà senza negarlo nei fatti ma bensì propagandolo3 ad oltranza, val la pena di riprendere la lettura delle pagine del breve testo di Perniola.

Qui chi scrive si limita a riproporre l’interpretazione di alcuni temi, tra i tanti possibili, che ricollegano la “mancata rivoluzione” del ’68 alle sue conseguenze nei decenni successivi durante i quali, come sempre accade in questi casi, la Rivoluzione fallita si è trasformata in arma della Controrivoluzione e uno dei suoi testi più conosciuti e importanti4 si è tramutato nel possibile manuale d’uso per una concezione spregiudicata, ma tutt’altro che rivoluzionaria, della politica e della comunicazione5. Comparso infatti nel 1967, il testo di Debord affermava che: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra persone mediato da immagini». Anticipando di decenni il modo in cui Silvio Berlusconi con Mediaset e Mark Zuckerberg con Facebook e Instagram, per non parlare di tanti altri social media, avrebbero poi portato alle estreme conseguenze i meccanismi dell’alienazione individuale e sociale.

Sul lavoro e il suo rifiuto

Sebbene Berlusconi sia stato lungo tutta la sua vita un lavoratore instancabile, egli ha consentito alla maggior parte dei giovani di realizzare la famosa ingiunzione di Guy Debord (1931-1994) Ne travaillez jamais! (Non lavorate mai!). L’ironia sta nel fatto che ora i giovani vogliono lavorare, anche a condizioni indecenti e vergognose, incredibilmente più alienanti e squalificate di quelle che erano loro offerte negli anni Sessanta e Settanta: allora una vita piccolo-borghese era più o meno garantita a tutti, oggi essa è un sogno irraggiungibile per quanti non hanno alle spalle una famiglia che li aiuti. È come se Berlusconi avesse monopolizzato nella sua persona tutto il lavoro, e lasciato agli altri solo il gioco6.

Sulla cultura e gli intellettuali

Di tutto il culturame (attenzione, questa parola è detta in camera caritatis, cioè non pubblicamente) ce ne freghiamo: però dobbiamo dire che siamo a favore della cultura, della ricerca, dell’innovazione, dell’inglese, di internet, dell’impresa e di quanto ancora suoni alla moda, anche se di tutte queste cose non ce ne importa un fico, perché a farle sul serio, sono troppo care e complicate e lasciano uno spazio troppo ristretto per la corruzione. Le facciano gli americani, che legandole strettamente all’economia aziendale riescono a guadagnarci un sacco di soldi oppure i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) che essendo in ascesa e avendo tassi di sviluppo notevoli hanno bisogno di creare una borghesia relativamente istruita! […] Mi raccomando poi di non cadere nella trappola di sostenere sul serio i cosiddetti “intellettuali di destra”, perché questi sono molto più pretenziosi di quelli di sinistra, i quali un po’ per partito preso pauperistico, un po’ per demagogia si autodefiniscono “operai della conoscenza” e quindi non hanno più tante ambizioni: basta che fate far loro qualche comparsata gratuita in televisione e pensano subito di essere dei divi e di spezzare il cuore di qualche ragazza, come se le nostre ragazze di oggi avessero un cuore! Se poi sono veramente accro (segnatevi questa parola francese perché nessuno la capisce e quindi fa un certo effetto), voglio dire sono proprio accaniti, come quel tale Saviano o Saviani che dir si voglia, basta che lo inseriate in uno show ricreativo di puro intrattenimento per neutralizzarlo completamente. Lui vuol fare il tragico, ma se lo mettete insieme ai comici, chi si accorgerà della differenza? E poi in Italia la tragedia non ha mai avuto fortuna: sì certo, c’è stato qualche piemontese tragico come Alfieri e Pareyson, ma chi li legge? Servono per fare delle tesi di laurea. Quindi nessuna fatwā contro i Saviani, tanto meno attentati o cose che fanno casino: non dimenticate che spacciandoci per liberisti (mentre è ovvio che siamo monopolisti) dobbiamo anche mostrare di essere liberali e magnanimi. Mica siamo come i russi o i cinesi, che perseguitano i dissidenti! Tanto alla fine quello che dicono o scrivono non ha alcuna effettualità politica e il popolo bue lo si conquista nella campagna elettorale abbassando o eliminando qualche tassa od odioso balzello7.

Sulla dignità

Una parola che ricorre sempre più frequentemente nei discorsi etico-politici è dignità. Questa è diventata uno dei termini chiave della bioetica, nonché il motto in cui si sono riconosciute le rivolte politiche che hanno scosso molti stati arabi, provocando talora la caduta dei governi. In Italia coloro che si sono detti indignati dalla condotta di… sconi (questa volta mi viene in mente solo la parte finale del nome di questa persona), non si contano. Gli studenti che hanno occupato le piazze di alcune città spagnole si sono definiti los indignados. È nato così un Global Indignant Movement che si è manifestato in molti Paesi. La parola dignità ha eclissato altri termini più tecnici del linguaggio politico, come comunità e diritti dell’uomo. In effetti, la prima è caduta nel ridicolo da quando si è cominciato a parlare di una “comunità internazionale” […]. Quanto ai “diritti umani” che costituiscono uno dei cardini della civiltà occidentale, l’uso fazioso e opportunistico che se ne è fatto, li ha svuotati di credibilità […] Ora la domanda cruciale è: possiamo permetterci di essere indignati, se non abbiamo nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia)? Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità? Se non siamo minimamente coerenti con noi stessi ma immersi nel mondo della comunicazione, nel quale tutto si capovolge in tutto? I caratteri fondamentali della comunicazione sono descritti benissimo dagli Stoici sotto il termine di stoltezza. Lo stolto non è uno sciocco, uno stupido, un ottuso ma l’essere umano che, in preda a un continuo turbamento, cambia opinione da un momento all’altro; incapace di stare fermo, corre a precipizio con impeto irrefrenabile verso il primo obiettivo che incontra e si pente con facilità di tutto ciò che ha fatto; incapace di ascolto, parla e agisce in modo inconcludente; inetto a elaborare valutazioni stabili e a compiere scelte irreversibili, salta ora qua ora là, pretendendo di avere e di prendere tutto. La stoltezza non nasce da una mancanza, ma da una deviazione, da una distorsione, da un pervertimento della facoltà razionale. Per essere indignati, bisogna almeno avere coraggio, cioè pazienza, perseveranza, magnanimità e magnificenza (Tommaso d’Aquino dixit). Noi italiani (e forse noi occidentali), siamo troppo deboli per permetterci di essere indignati8.


  1. Nota redazionale a M. Perniola. Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 7-8  

  2. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014  

  3. Si veda quanto già scritto qui  

  4. Guy Debord, La società dello spettacolo, SugarCo Edizioni, Milano 1990.  

  5. Si veda: Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo. Storia critica dell’Internazionale Situazionista 1957-1972, Mimesis Edizioni, 2017.  

  6. Non lavorate mai! in M. Perniola, op. cit., p. 21  

  7. Gli intellettuali da nona categoria puzzolente a spina dorsale della nazione in M. Perniola, op. cit., pp. 64-67  

  8. Possiamo essere indignati? In M. Perniola, op. cit., pp. 95-99  

]]>
S’è spento https://www.carmillaonline.com/2023/06/12/se-spento/ Mon, 12 Jun 2023 09:29:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77663 di Alessandra Daniele

]]>
di Alessandra Daniele

]]>
Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta. https://www.carmillaonline.com/2023/02/19/dal-bunga-bunga-al-festival/ Sun, 19 Feb 2023 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76167 di Sandro Moiso

La recente assoluzione del Cavaliere da cabaret non può stupire più di tanto, pertanto l’autore di queste righe non si protrarrà nel ricordare gli eventi e le polemiche che hanno accompagnato la vicenda. Già fin troppo tempo si è speso su un terreno che di opposizione politica reale ben poco aveva ma che, in compenso, è servito da paravento per segnare un passaggio epocale di tanta sinistra italica da una posizione di carattere ancora socialdemocratico ad una persa tra le spirali del liberalismo salottiero e moralista, oltre che economico, [...]]]> di Sandro Moiso

La recente assoluzione del Cavaliere da cabaret non può stupire più di tanto, pertanto l’autore di queste righe non si protrarrà nel ricordare gli eventi e le polemiche che hanno accompagnato la vicenda. Già fin troppo tempo si è speso su un terreno che di opposizione politica reale ben poco aveva ma che, in compenso, è servito da paravento per segnare un passaggio epocale di tanta sinistra italica da una posizione di carattere ancora socialdemocratico ad una persa tra le spirali del liberalismo salottiero e moralista, oltre che economico, destinate soltanto a far smarrire qualsiasi riferimento alla guerra tra le classi e ai bisogni materiali delle fasce sociali meno abbienti della società.

Sì, le lunghe “battaglie”, soprattutto mediatiche, condotte sulle “malefatte” di un premier autentico erede del Marchese del Grillo, intravisto nel nostro futuro più che nel passato nazionale da quel geniaccio cinematografico che rispondeva al nome di Mario Monicelli, avranno pure alimentato tanta ironia, anche sulle pagine di «Carmillaonline» attraverso le “Schegge taglienti” di Alessandra Daniele, ma, soprattutto, sono servite a diffondere una tendenza al moralismo e al giustizialismo che, dopo aver rinvigorito l’immagine di Marco Travaglio e del suo giornale e aver costituito le fondamenta dei “Vaffa Day” di Beppe Grillo, che hanno preceduto l’entrata in scena del Movimento 5 Stelle, ha cancellato, o almeno ha cercato di farlo, ogni riferimento al fatto che la battaglia politica, soprattutto se condotta da Sinistra, dovrebbe fondare le sue radici nelle contraddizioni reali del modo di produzione capitalistico. E non nelle sue platoniche ombre mediatiche.

Si dice che Antonio Ricci, ideatore di tanta tv berlusconiana, dai tempi di Drive In e Lupo Solitario fino ai tutt’ora inossidabili Striscia la notizia e Paperissima, sia da sempre appassionato ammiratore e collezionista di tutto quanto riguardi il Maggio francese e il Situazionismo. Così da far pensare che di quella significativa esperienza critica possa esser diventato uno dei legittimi eredi. Portando lo spettacolo ad essere l’unico elemento di riferimento per qualsiasi critica sociale e politica e rovesciando la rabbia della critica nel sorriso, nemmeno acido, dello spettacolo d’intrattenimento. Tanto da poter dire che se Bonaparte fu l’esecutore testamentario della Rivoluzione francese, così Ricci, si scusi il paragone un po’ azzardato sul piano storico e delle dimensioni effettive dei personaggi e degli eventi, lo è stato altrettanto in Italia per le intuizioni di Guy Debord sulla Società dello spettacolo.

Passato dalle collaborazioni con Beppe Grillo a quella più lunga, solida e, probabilmente, meglio remunerata col Cavaliere di Monza, l’autore televisivo, dopo essersi fatto le ossa in Rai, ha potuto scatenare il suo estro in una serie di programmi che hanno abituato il pubblico a reagire con lo sghignazzo e la battuta a qualsiasi evento politico e sociale. Trasformando così ogni evento in un puro e semplice spettacolo satirico. Anche se dai tempi di Lupo Solitario e dei gemelli Ruggeri, ivi transitati dal cabaret insieme a Patrizio Roversi e Syusy Bladi, e dell’ironica critica al socialismo reale raffigurato nell’immaginaria terra di Kroda, a quelli del Tapiro d’oro di Striscia la notizia e degli involontari capitomboli di Paperissima, qualcosa si è perso per strada. Soprattutto in termini di originalità.

Ma poco importa poiché, per i motivi appena menzionati, forse, si dovrebbe affermare che il vero artefice e stratega dei successi berlusconiani, compresi quelli processuali, sia da individuare proprio in colui che del détournement situazionista ha fatto la sua carta vincente e il grimaldello per scassinare una comunicazione “politica” già da tempo imbalsamata. Il rovesciamento, l’uso obliquo dei significati e dei fatti ha infatti finito col costituire il motore e il motivo delle narrazioni politiche italiane, certo non soltanto a partire dall’epoca berlusconiana, ma che in quest’ultima ha trionfato.

Soprattutto a Sinistra.
Un trionfo del rovesciamento che ha fatto sì che oggi gran parte del cosiddetto elettorato, ma anche chi scrive, non sappia più cosa significhi concretamente in politica il termine “sinistra”. Troppo volubile, troppo espandibile, troppo ambiguo e, come si sa, il troppo stroppia.

Una Sinistra istituzionale ammaliata dai salotti dei talk show televisivi. Una Sinistra per cui il look e l’apparenza hanno trionfato sui contenuti, così come dimostrano ancora le immagini di quella parte della stessa che esultava trionfante alla vista del Cavaliere che lasciava Palazzo Chigi nel 2011. Soltanto per sottomettersi, poi, al successivo governo Monti, lanciato in tv come salvatore della patria, non lo si dimentichi mai, proprio da Pier Luigi Bersani, e alla riforma Fornero delle pensioni. Senza nemmeno lontanamente accennare a ciò che oggi, per un tipo di riforma simile ma tutto sommato più leggera (64 anni invece di 67 per la pensione di vecchiaia) sta accadendo nelle strade e nelle piazze francesi.

Una Sinistra, infine, che si affida ai messaggi social e alle prediche vuote del Festival di Sanremo, durante il quale lo spettacolo di nani e ballerine di craxiana memoria si è ripetuto su grande scala e con un audience elevatissima. Liberalismo da strapazzo che, tra fiori che volavano per i calci di Blanco e le finte provocazioni di Rosa Chemical, Fedez e dei Maneskin, si è ammantato di “impegno civile” per mezzo dei discorsi stantii e retorici di Benigni; di un femminismo che non è riuscito nemmeno a elevarsi al livello dell’hollywoodiano “Me Too” (già piuttosto deludente rispetto ad un serio discorso sulla questione delle reali condizioni sociali e famigliari di milioni di donne); della superficiale lamentatio antirazzista e di mille altre banalità di base scambiate per discorsi “seri” e “impegnati”.

Discorsi del tutto simili a quelli contenuti nei programmi del PD che un altro uomo di spettacolo, Fiorello, ha definito “discorsi ad minchiam” dopo essersi imbattuto in un articolo dell’Adnkronos riguardante “i caratteri del nuovo partito nella quattro mozioni”, nel quale si citava testualmente: «Il nuovo Pd dovrà essere ‘aperto’, ‘inclusivo’ e ‘di prossimità’. Ma anche ‘paritario’, magari con una ‘cosegreteria’ o comunque con vertici ‘duali’ uomo/donna, e mai più ‘verticista’».

Il successo di tanto chiacchiericcio inutile e vuoto, tutt’altro che classista, si è visto, ad esempio nel calo dei tesserati del PD, sul quale pesano nonostante tutto anche le false tessere campane, la scarsa attenzione per il suo congresso (soprattutto nelle sezioni di tradizione “operaia”) e nel risultato delle votazioni regionali di Lazio e Lombardia in cui, guarda caso, il vero vincitore è stato l’astensionismo. Un astensionismo cosciente, non nel senso politico ma di rabbia e disgusto volutamente espresso attraverso il non voto. Come ha ammesso Stefano Fassina in un articolo dell’«Huffington Post» del 16 febbraio scorso:

Un’astensione con un nettissimo segno di classe. A tal proposito, le analisi delle precedenti tornate elettorali, amministrative e politiche sono inequivocabili. In attesa della scomposizione sociale del voto del 12-13 febbraio scorso, ne troviamo chiara conferma nell’affluenza a Roma, dove la quota di votanti in ciascun Municipio è direttamente proporzionale al reddito medio in esso registrato. […] In sintesi brutale, chi ha più bisogno di politica sta lontano dalla politica e, quando si avvicina alla politica, sta lontano dalla sinistra ufficiale…

Astensionismo che segnala anche, però, la possibilità di una rinascita futura di movimenti spontanei dal basso, poco ideologizzati e ancor meno inquadrabili ai fini dell’ormai cadaverico parlamentarismo. Manifestazione di uno scontento diffusissimo, giovanile e non, operaio e non, femminile e non, che per forza di cose dovrà, in forme ancora tutte da definire, rivolgersi contro l’attuale sistema di valori “condivisi” e di sfruttamento diffuso, mal retribuito e spietato del lavoro salariato. In sostanza, contro il capitale e le sue guerre sociali e militari.

Per ora, Berlusconi ha vinto e si sfrega ancora una volta le mani felice. Ma non ha vinto per i cavilli legali utilizzati dai suoi abili avvocati e nemmeno per le crepe apertesi nella magistratura e nel suo lavoro. Sempre fin troppo efficiente nei confronti di anarchici e No tav. Anche se Marco Travaglio potrà piangere ancora su puttanieri scagionati e giudici minacciati, mentre ancora qualche giorno fa il suo giornale mostrava un’immagine di prima pagina in cui alle spalle di Alfredo Cospito si proiettavano le ombre dei mafiosi, sbandierando il suo giustizialismo “tradito” nelle aule di tribunale e parlamentari.

Silvio Berlusconi rimane l’autentico vincitore di Sanremo, tant’è vero che del, tutt’altro che monolitico, blocco di centro-destra è stato l’unico a non iniziare la tiritera opposta su foibe, famiglia e droga. Perché sapeva di aver vinto, insieme ad un Guy Debord rovesciato nel suo contrario (com’è destino di ogni teorico del détournement), quando ha visto il Presidente della Repubblica inchinarsi davanti allo spettacolo e alle sue implacabili leggi. In nome dei discorsi di “impegno civile”. Mentre, Zelensky, nel ruolo di fantasma europeo, poteva soltanto aggirarsi ma non manifestarsi di persona sul palco dell’Ariston.

Dunque, dopo tanti anni, missione compiuta per il Cavaliere. Con la Sinistra istituzionale definitivamente rovesciata nel contrario di ciò che avrebbe dovuto essere e “rifondata” a immagine e somiglianza del glamour dei programmi Mediaset.
The king is dead, long live the king!
Anche se all’orizzonte già si delinea il volto confuso di uno strano soldato…

APPENDICE

Si allega qui di seguito, per dover di cortesia e non per altro, la precisazione richiesta all’autore dall’Ufficio Stampa di Striscia la notizia.

PRECISAZIONE CON RICHIESTA DI PUBBLICAZIONE

Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta.

Gentile Sandro Moiso,

abbiamo letto il suo pezzo “Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta”, apparso su Carmillaonline.com il 19 febbraio. Superata una certa sorpresa nell’assistere al divertente e creativo tentativo di collegare l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo “Ruby ter” al Festival di Sanremo 2023 e all’impatto sul linguaggio televisivo (e non solo) avuto da Striscia la notizia e dai programmi di Antonio Ricci, ci teniamo a precisare alcuni punti che ci sembrano decisivi.

Drive In, come d’altra parte anche Lupo solitario, che lei cita, è stato un programma innovativo, libero e libertario. Era una caricatura delle abitudini degli italiani e della società dell’epoca: un programma comico e satirico che ha irriso e messo alla berlina protagonisti, mode e personaggi degli anni 80. Una parodia dell’Italia di quegli anni esagerati, del riflusso, dell’edonismo reaganiano e della Milano da bere. Omar Calabrese, Luciano Salce, Giovanni Raboni, Federico Fellini, Umberto Eco, Oreste Del Buono, Angelo Guglielmi e tanti altri intellettuali dell’epoca la definirono «la trasmissione di satira più libera che si sia vista e sentita per ora in tv» o «l’unico programma per cui vale la pena di avere la tv».

È andato in onda dal 1983 al 1988, quindi molti anni prima della fondazione di Forza Italia e non ha nulla a che fare con l’impegno politico diretto di Silvio Berlusconi.

E seppure, come scrive lei, a Striscia la notizia, che è nata nel 1988, a volte si ride, è pure vero che non è sempre così. Si ride pochissimo quando, come in questi giorni, si mandano in onda immagini delle violenze dentro il CPR (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Palazzo San Gervasio, delle gabbie in cui vengono rinchiusi gli “ospiti” della struttura, delle fascette di contenzione, della “terapia” a base di sedativi che alcuni di loro sono costretti a prendere. Tanto più che Striscia la notizia è l’unica voce di denuncia, nell’indifferenza generale della stampa nazionale. A Striscia si ride pochissimo anche quando salta in aria l’auto dell’inviata da Palermo, Stefania Petyx, che tra i tanti servizi contro le mafie ne ha realizzato uno a Corleone, proprio sotto la casa di Totò Riina. O quando in redazione arriva un pacco bomba o quando viene data alle fiamme la casetta di un inviato. Si ride pure pochissimo quando si denunciano magagne, errori, inefficienze del nostro Paese e lo si fa senza riguardi per le più importanti imprese pubbliche e private, dall’Eni a Fca, a Telecom, e per questo si accumulano più di 400 vertenze legali, e neppure quando si indaga sulle acque minerali, i supermercati, le grandi aziende che talvolta sono sponsor della rete televisiva che manda in onda il programma. È chiaro che tutti noi (lei compreso) potremmo sempre fare di più. Ci proviamo, spesso non ci riusciamo e aumenta il disincanto nel constatare che una risata, anche finta, non seppellirà nessuno.

Con i nostri più cordiali saluti

L’ufficio stampa di Striscia la notizia

P.S. Antonio Ricci non ha mai firmato esclusive di alcun genere con nessuna rete proprio per avere la più grande autonomia possibile.

]]>
Una donna sòla al comando https://www.carmillaonline.com/2022/09/26/una-donna-sola-al-comando/ Mon, 26 Sep 2022 07:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74134 di Alessandra Daniele

Atlantista verace, novità fasulla, Giorgia Meloni ha vinto, come previsto. Il PD ha perso, come al solito. L’affluenza è crollata. I fascisti non sono tornati. Non se ne sono mai davvero andati. Persecuzione dei lavoratori, repressione del dissenso, campi di concentramento in Libia, attentati alla Costituzione, guerra, cosa farà la Meloni che non abbia già fatto il PD? È una sfida alla sua altezza. Chi l’ha votata? E perché? I suoi elettori, oggi in festa, si dividono in 4 macro-categorie:

I Fascistoni Lo zoccolo duro, quelli che la votano fin dall’inizio, [...]]]> di Alessandra Daniele

Atlantista verace, novità fasulla, Giorgia Meloni ha vinto, come previsto. Il PD ha perso, come al solito. L’affluenza è crollata.
I fascisti non sono tornati. Non se ne sono mai davvero andati.
Persecuzione dei lavoratori, repressione del dissenso, campi di concentramento in Libia, attentati alla Costituzione, guerra, cosa farà la Meloni che non abbia già fatto il PD? È una sfida alla sua altezza.
Chi l’ha votata? E perché? I suoi elettori, oggi in festa, si dividono in 4 macro-categorie:

I Fascistoni
Lo zoccolo duro, quelli che la votano fin dall’inizio, e la voteranno fino alla fine. Razzisti, sessisti, xenofobi, omofobi, appartengono a tutte le classi sociali, e sono accomunati dalla passione per la fiamma che sorge dalla tomba di Mussolini, fuoco sacro da cui ai loro occhi Giorgia è circonfusa.

I Reazionari
Prevalentemente di classe media, devoti della trinità Dio, Patria, o Padania, e Famiglia, con l’aggiunta del Portafoglio, un tempo avrebbero votato Democrazia Cristiana, più di recente hanno scelto Forza Italia, o Lega, adesso insieme alla Madonnina piangente adorano Giorgia, la Madonnina urlante. Si definiscono moderati, ma sono a tutti gli effetti reazionari.

I Delusi
Provengono dal Movimento 5 Stelle, dalla Lega, dal PD, dall’astensione, e persino dalla sinistra. Di classe medio-bassa, mal ripongono nella Meloni le loro speranze di riscatto sociale. Il loro è anche un voto di protesta. Questo è lo stesso fenomeno che porta il proletariato bianco in tutto l’occidente a votare a destra, e che ha fatto la fortuna di Trump e Le Pen. In realtà, la fede capitalista di Giorgia è salda quanto quella di Draghi. E di Berlusconi.

I Modaioli
Di classe prevalentemente medio-alta, li hanno provati tutti, a seconda della moda del momento. Di questa categoria fanno parte anche le femministe alla Valeria Marini. Questi elettori sono i più volubili, e molleranno Giorgia appena comparirà all’orizzonte il prossimo cazzaro.

Il Ciclo del Cazzaro infatti è ricominciato: Berlusconi, Renzi, Grillo, Salvini, adesso tocca a lei, Giorgia Meloni, prima regina della dinastia dei Re Sòla.
E così com’è stato per gli altri, anche il suo momento passerà, e ne resteranno le macerie.
Sta a noi far sì che stavolta, insieme alla cazzara di turno, crolli anche il marcio sistema fascio-capitalista che l’ha prodotta.

 

]]>
Il babau fascista e la (solita) tiritera antifascista https://www.carmillaonline.com/2022/09/21/il-babau-fascista-e-la-tiritera-antifascista/ Wed, 21 Sep 2022 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73779 di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, [...]]]> di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, intervista a cura di Edek Osser – estate 1970)

A pochi giorni di distanza dalla “fatidica” data del 25 settembre, è difficile dire quanti saranno gli elettori che si presenteranno, convinti e con la tessera elettorale in pugno, ai nastri di partenza dell’ennesima e gaglioffa tornata elettorale.
A giudicare dai risultati degli ultimi anni, pochi. Molto pochi. Considerato soprattutto il fatto che, nell’attuale competizione, a farla da padrone sono stati più i nomi e le poltrone “garantite” dei candidati che non i programmi. Ma se anche così non fosse, vale comunque la pena di sottolineare come l’uso dei termini “fascismo” e “antifascismo” abbia ancora una volta caratterizzato la propaganda di una sinistra sempre più esangue e asservita alle esigenze del capitale nazionale e internazionale.

L’attuale farsa elettorale, infatti, vede le sinistre, più o meno parlamentari di ogni grado e risma, ricorrere ancora una volta all’espediente narrativo, già troppe volte visto in scena sia sui palcoscenici istituzionali più importanti che nei teatrini politici più scadenti, secondo il quale l’elettore “di sinistra” dovrebbe accorrere alla chiamata alle armi per difendere nell’urna la “democrazia” e la costituzione dall’ennesimo e vile assalto “fascista”. Trama semplice, priva di alcuna complessità interpretativa, in cui i buoni stanno, o devono stare, tutti dalla parte del “centro-sinistra” o al massimo di tutti quei partiti ancora non apertamente schierati con il terribile “centro-destra”.

A parte la qualità della compagnia che certo non fa rimpiangere quella del centro-destra, rimanendo nello schema interpretativo proposto dai media e dai rappresentanti dello schieramento “autenticamente” democratico, il primo pericolo sarebbe infatti presentato dal rischio di una revisione o riscrittura della carta costituzionale.

Su questo argometo, tralasciando il tema delle visite “agostane” di Giorgia Meloni al capo dello Stato rivelate dal “Fatto Quotidiano” del 10 settembre scorso, non occorre neppure ricorrere alle armi della critica proposte dalla Sinistra Comunista per smontare il grido di dolore che si leva dal perbenismo centrosinistrese. Basta, si pensi un po’, quanto è già stato scritto su un quotidiano tutt’altro che estremista come «il manifesto».

Le vicende delle «riforme costituzionali» ci dicono che l’attacco alla Costituzione non è venuto solo dalle destre ma anche dai partiti di centrosinistra, non è più vero dunque che il centrosinistra difende la Costituzione e le destre ne vogliono la distruzione. Centrosinistra e centrodestra sono stati protagonisti per vent’anni di tentativi, falliti, di modificare in pejus la Carta costituzionale del 1948 […] ai tentativi falliti si sono affiancati quelli riusciti a modificare la Costituzione. Eccone l’elenco: revisione del Titolo V (attuata dal governo Amato), dell’articolo 8 (votata dal Pd guidato da Bersani), degli articoli 56 e 57 per la riduzione del numero dei parlamentari (voluta dai 5S con il sostegno del Pd). Può essere punto di riferimento per la difesa della costituzione il pd, l’artefice principale delle sue manomissioni?1.

Non solo ma, entrando più nel merito delle questioni attuali, nello stesso articolo si aggiunge che se

la barbara Meloni si fa garante della scelta atlantica soprattutto per quanto riguarda il sostegno armato all’Ucraina, anche Letta è schierato con la Nato sostenendone le politiche militari, e il voto sul Trattato di adesione della Svezia e della Finlandia ha visto il Pd e il centrodestra votare insieme a favore […] Dunque la lesione dell’art.11, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, è compiuta sia dalla barbara Meloni sia dal progressista e democratico Letta. E il Pd ha in mano la società di produzione di armamenti Leonardo, guidata da Alessandro Profumo e da altri suoi iscritti, ch e propongono politiche aggressive di difesa e potenziamento dello strumento militare2.

E concludendo poi ancora che se

la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese […] si prenda la proposta di legge costituzionale AC224 e si troverà scritto che «la presente proposta di legge costituzionale si prefigge di superare il previsto stallo del sistema dei partiti chiudendo la transizione italiana e prendendo come riferimento il modello francese nella sua integralità (sistema elettorale e forma di governo». Dunque la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese che anche il democratico e progressista Ceccanti3, con altri del Pd vuole… 4.

Ora, tralasciando le quisquilie di ordine formale e costituzionale, considerato che qualsiasi carta costituzionale non è certo destinata all’eternità poiché al cambiamento dell’ordine sociale e politico deve per forza corrispondere un cambiamento delle leggi “fondamentali” che lo ispirano5, proviamo a considerare la questione fascismo/antifascismo da un più ampio punto di vista.

Non è affatto vero che il fascismo ci sia perché manca un governo capace di reprimerlo. E’ una turlupinatura far credere che la formazione di un governo di tale natura, e in genere lo sviluppo del rapporto tra l’azione dello Stato e quello del fascismo, possano dipendere dall’andamento delle cose parlamentari.
[…] Il governo forte e il fascismo forte sono per il proletariato uguali negli effetti: rappresentano il maximum della fregatura.
Poche delucidazioni a queste nostre asserzioni, contrapposte al gioco nauseante della «sinistra» politica che si elabora nei contatti osceni di Montecitorio, e alla quale rinnoviamo di tutto cuore la dichiarazione antica che essa ci fa mille volte più schifo di tutti i reazionismi, i clericalismi, i nazional-fascismi d’altra volta e di adesso.
Lo Stato borghese – la cui macchina effettiva non è nel parlamento ma nella burocrazia, nella polizia, nell’esercito, nella magistratura – non è affatto mortificato di essere scavalcato dall’azione selvaggia delle bande fasciste. Non si può essere contrari ad una cosa che si è preparata e che si sostiene: burocrazia, polizia, esercito, magistratura, sono per il fascismo, loro naturale alleato, indipendentemente dalla combinazione di pagliacci in feluca che reggono il potere.
Per eliminare il fascismo non è necessario un governo più forte dell’attuale. Basterebbe che l’apparato statale cessasse di sostenerlo con la sua forza […]
Noi comunisti non siamo così fessi da chiedere un “governo forte”. Se pensassimo che quello che chiediamo può essere conseguito, chiederemmo un governo veramente debole, che ci garantisse l’assenza dello Stato e della sua formidabile organizzazione dal duello tra bianchi e rossi6.

Il contesto della citazione è quello drammatico della guerra civile italiana, precedente alla marcia su Roma e alla presa del potere fascista, ma non per questo quelle parole non possono rinviare al dibattito fasullo di oggi. Dibattito in cui la solita sinistra liberal-democratica non ha neppure il coraggio di chiedere, seppur retoricamente, un’azione forte del governo contro il fascismo, ma soltanto ai rappresentanti dello stesso di cambiare il simbolo elettorale oppure di dichiararsi diversi da quel che sono.

Certo per la “sinistra” attuale, in particolare per il Pd, è facile chiedere agli avversari ciò che ha già fatto in casa propria, ripudiando qualsiasi riferimento alla lotta di classe, ma per la borghesia capitalistica, nazionale e internazionale, reazionaria o conservatrice, non lo è altrettanto. In fin dei conti la borghesia e il capitale non possono ripudiare se stessi e la propria forma Stato. Garante della proprietà privata e dello sfruttamento del lavoro salariato e sottopagato.

Una volta il blocco di sinistra si contrapponeva a quello della destra borghese perché il secondo manteneva l’ordine con mezzi coercitivi, e il primo si proponeva di mantenerlo con mezzi liberali. Adesso l’epoca dei mezzi liberali è finita, e il programma delle sinistre è quello di mantenere l’ordine con più “energia” della destra. Questa pillola dovrebbe essere fatta inghiottire ai lavoratori col pretesto che l’ordine è perturbato dai “reazionari” e che l’energia del governo l’assaggerebbero gli squadristi di Mussolini. Siccome il proletariato ha il compito di spezzarlo questo vostro maledetto ordine, per costruire il suo sulle rovine di esso, il suo peggior nemico è chi si propone di mantenerlo con maggior energia7.

Oggi, forse, la richiesta dello Stato forte, che pur non manca nel panorama attuale grazie alle politiche di progressiva concentrazione del potere nelle mani di tecnici mai eletti dai cittadini, è più sottilmente esposta, adombrandosi di manovre economiche, piani di ripresa e resilienza, di accordi sovranazionali che, apparentemente, sembrano spingere sullo sfondo il discorso dell’azione “forte” dello Stato “nazionale”. Nascondendo dietro alla questione dei “diritti” «un passo analogo a quello del neoliberismo che assorbe le spinte libertarie degli anni Sessanta e Settanta per ribadire l’ordine capitalistico. Il pensiero dominante diventa pensiero unico assimilando ciò che gli si oppone. Colonizzando completamente l’immaginario.»8

Un immaginario in cui il diritto individuale sopravanza qualsiasi esigenza di liberazione generale della classe e, conseguentemente, della specie. In cui l’“Io” idealizzato sottomette le esigenze collettive e in cui l’idea del “privato” distrugge qualsiasi esigenza comunitaria. Aprendo ulteriormente le porte, per converso, anche in certe sgangherate versioni dell’estrema sinistra, a tutte quelle rivendicazioni, tipiche del fascismo e delle destre tendenti a inserire/soddisfare l’individuo, emarginato e impoverito, negli schemi della Nazione “sovrana”, della Patria, della Razza, della Proprietà “privata” e della Famiglia, patriarcale e indissolubile.

Non è certo pertanto nella pania dei “diritti” oppure in quella delle rivendicazioni a carattere nazionalistico che si può individuare lo strumento più efficace per combattere un fascismo di facciata che nasconde la profonda aderenza al Fascismo vero di gran parte dei partiti politici italiani e della loro forma Stato. Ereditata quasi integralmente dalla mancata reale “sconfitta” del Fascismo storico. Grazie, soprattutto, alle politiche messe in atto del CLN, tese più a impedire la svolta rivoluzionaria e anticapitalista che una parte della Resistenza portava con sé, più che a rifondare lo Stato repubblicano su nuove basi (e d’altra parte come si sarebbe potuto farlo senza negarne radicalmente il modo di produzione sul quale si fondava?). Anche se occorre, a questo punto, fare un salto indietro, fino al 1924.

Prima di tutto: l’origine del fascismo.
Ho ricordato che il movimento fascista è per la sua origine storica collegato ad una parte di quei gruppi che invocarono l’intervento italiano nella guerra mondiale.[…] Questo gruppo si era completamente identificato con la politica della concordia nazionale e dell’intervento militare […]
La crisi governativa in Italia è stata caratterizzata da qualcuno nel modo seguente: il fascismo rappresenta la negazione politica del periodo durante il quale predominava da noi una politica borghese liberale e democratica di sinistra. Esso è la forma più aspra di reazione contro la politica di conces­sione attuata da Giolitti ecc. nel dopoguerra. Noi siamo invece dell’avviso che fra questi due periodi esista un legame dialettico: che l’atteggiamento originario della borghesia italiana durante la crisi in cui il dopoguerra precipitò lo Stato, non fu se non la naturale preparazione del fascismo.
[…] Siamo così giunti ad un punto in cui fascismo e democrazia si incontrano. Il fascismo ripete in sostanza il vecchio giuoco dei partiti borghesi di sinistra e della socialdemocrazia, cioè chiama il proletariato alla tregua civile.[…]
A base di tutto ciò sta ovviamente lo sfruttamento dell’ideologia nazionalistica e patriottica. Non si tratta di qualche cosa di completamente nuovo. Durante la guerra, nell’interesse nazionale, la formula della sottomissione di tutti gli interessi particolari all’interesse generale dell’intero paese era già stata ampiamente utilizzata.
Il fascismo riprende dunque un antico programma della politica borghese, ma questo programma appare in una forma che in un certo senso riecheggia il programma della socialdemocrazia e che d’altra parte contiene qualcosa di veramente nuovo […]
Il fascismo vorrebbe conciliare e fare tacere tutti i conflitti economici e sociali all’interno della società. Ma questa non è che l’apparenza esterna. In realtà, esso cerca di realizzare l’unità all’interno della borghesia, una coalizione fra gli strati superiori delle classi possidenti in cui esso appiani i contrasti singoli fra gli interessi dei diversi gruppi della borghesia e delle diverse aziende capitalistiche.
[…] Ma, in tal modo, si irretisce in una contraddizione insolubile, perché è estremamente difficile attuare una politica unitaria della classe borghese finché le organizzazioni economiche dispongono di una completa libertà di sviluppo e finché vige una completa libertà di concorrenza fra i singoli gruppi di imprenditori.
[…] Ma, nell’insieme, il suo programma sociale non è null’altro che il vecchio programma di menzogne democratiche, che rappresenta solo un’arma ideologica per il mantenimento del dominio della borghesia.
Il fascismo è molto rapidamente – prima ancora della presa del potere – divenuto “parlamentare”; ha governato per un anno e mezzo senza sciogliere la vecchia Camera che in grande maggioranza era composta di non fascisti e, in parte addirittura di antifascisti. Con la flessibilità che è una caratteristica dei politici borghesi questa Camera si è affrettata a mettersi a disposizione di Mussolini per legalizzare la sua posizione e concedergli tutti i voti di fiducia che a lui piacque di chiedere. Lo stesso primo gabinetto Mussolini – ed egli, nei suoi “discorsi di sinistra”, vi ritorna sempre – non fu costituito su basi puramente fasciste, ma abbracciò rappresentanti dei più importanti fra gli altri partiti borghesi: dal partito di Giolitti, dei Popolari, della sinistra democratica. Si trattava, dunque, di un governo di coalizione. Ecco cosa ha partorito il cosiddetto colpo di Stato! Un partito che nella Camera contava 35 deputati ha preso il potere e ha occupato la grande maggioranza dei posti di ministro e sottosegretario9.

A partire da queste prime considerazioni, è chiaro che anche l’antifascismo di cui troppo spesso si parla, soprattutto in tempi di elezioni, può assumere forme e contenuti diversi, quasi sempre solo di facciata, niente affatto conciliabili tra di loro.

Il proletariato è antifascista in base alla sua coscienza di classe; esso vede nella lotta contro il fascismo una poderosa battaglia destinata a capovolgere radicalmente la situazione e a sostituire la dittatura della rivoluzione alla dittatura del fascismo. Il proletariato vuole la sua vendetta, non nel senso banale e sentimentale della parola; vuole la sua vendetta in senso storico.
Il proletariato rivoluzionario capisce per istinto che al fatto dell’aumento e del predominio delle forze della reazione si deve rispondere col fatto della controffensiva delle forze di opposizione; il proletariato sente che solo attraverso un nuovo periodo di dure lotte e – in caso di vittoria – attraverso la dittatura proletaria lo stato di fatto potrà essere radicalmente cambiato. Il proletariato aspetta questo momento per restituire all’avversario di classe, con un’energia decuplicata dalle esperienze, i colpi che oggi è costretto a subire.
L’antifascismo dei ceti medi ha un carattere meno attivo. Si tratta, è vero, di una forte e sincera opposizione, ma alla base di questa opposizione è un orientamento pacifista: si vorrebbe con tutto il cuore ristabilire in Italia una vita politica normale, con piena libertà di opinione e discussione… ma senza colpi di manganello, senza impiego della violenza. Tutto deve tornare alla normalità, sia i fascisti che i comunisti devono avere il diritto di professare le loro convinzioni. È questa l’illusione dei ceti medi, che aspirano ad un certo equilibrio delle forze e della libertà democratica.
Anche nella borghesia in senso stretto regnano oggi dei dubbi sull’opportunità del movimento fascista. Si nutrono delle preoccupazioni, di cui i due citati organi di stampa (“Corriere della Sera” e “La Stampa” – NdR) sono, fino a un certo punto, i portavoce. Essi si chiedono: è questo il metodo giusto? Non è esagerato? Nell’interesse dei nostri scopi di classe noi abbiamo creato un certo apparato che doveva rispondere ad alcune esigenze. Ma non andrà esso oltre le funzioni che gli attribuivamo e gli scopi che ci prefiggiamo? Non sarà costretto a far più di quanto è bene? Gli strati più intelligenti della borghesia italiana sono per una revisione del fascismo e dei suoi scantonamenti reazionari, per timore che questi portino necessariamente ad una esplosione rivoluzionaria. Naturalmente, è nell’interesse espresso dalla borghesia che questi strati della classe dominante conducano nella stampa una campagna contro il fascismo per ricondurlo sul terreno della legalità, per farne un’arma più sicura e flessibile dello sfruttamento della classe operaia10.

Continuando poi con le seguenti considerazioni, svolte a seguito dell’assassinio di Giacomo Matteotti:

l’opposizione borghese considera l’intera questione come un fatto giudiziario, come una questione di morale politica […] Per noi, al contrario, si tratta di una questione politica e storica, di una questione di lotta di classe […] Bisogna dichiarare apertamente che solo l’azione rivoluzionaria del proletariato può liquidare una situazione simile; una situazione che […] non può più essere sanata con puri provvedimenti giudiziari, col ristabilimento filisteo della legge e dell’ordine. A tale scopo è invece urgente la distruzione dell’ordine esistente, un capovolgimento completo che solo il proletariato può condurre a termine.
[…] All’ordine del giorno è anche la questione del giudizio del fascismo italiano da parte della opinione pubblica internazionale, della campagna di propaganda condotta contro di esso dai paesi civili. Si crede addirittura di vedere nell’indignazione morale della borghesia degli altri paesi un mezzo per liquidare il movimento fascista.
I comunisti e i rivoluzionari non possono abbandonarsi a questa illusione sulla sensibilità democratica e morale della borghesia degli altri paesi. Anche là dove oggi si presentano ancora tendenze pacifistiche e di sinistra, domani il fascismo sarà usato senza scrupoli come metodo di lotta di classe. Noi sappiamo che il capitale internazionale può solo rallegrarsi delle imprese del fascismo in Italia, del terrore che esso esercita laggiù contro operai e contadini.
Per la lotta contro il fascismo […] si tratta di una questione di lotta di classe. Noi non ci rivolgiamo ai partiti democratici degli altri paesi, alle associazioni di idioti e di ipocriti come la Lega per i diritti dell’uomo, perché non vogliamo fare sorgere l’illusione che si tratti per essi di qualche cosa di sostanzialmente diverso dal fascismo, o che la borghesia degli altri paesi non sia in grado di preparare alla sua classe operaia le stesse persecuzioni e di compiere le stesse atrocità che il fascismo in Italia11.

E’ un chiaro richiamo alla necessità della lotta quello che il rappresentante del PCd’I espone nella sua relazione sul Fascismo e sui modi per combatterlo, che anticipa di vent’anni le modalità espresse poi dalla spontanea Resistenza degli oppressi e dei militari tornati dai fronti bellici. Come ad esempio esprimeva benissimo Nuto Revelli, nel suo diario della campagna di Russia12: «Cialtroni! Più nessuno crede alla vostre falsità, ci fate schifo: così la pensano i superstiti dell’immensa tragedia che avete voluto. Le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti. Raccontatela a chi la pensa come voi: chi ha fatto la ritirata (di Russia – NdR) non crede più ai gradi e vi dice: Mai tardi…a farvi fuori!»13

Certo, la lotta è possibile solo con la partecipazione delle masse. La gran massa del proletariato sa molto bene che la questione non può essere risolta con l’offensiva di una avanguardia eroica. Questa è una concezione ingenua […] Non è così facile fare la rivoluzione!
Noi siamo assolutamente convinti dell’impossibilità di intraprendere la lotta con qualche centinaio o qualche migliaio di comunisti armati. Il P.C. d’Italia è l’ultimo ad abbandonarsi a simili illusioni. Siamo fermamente convinti della necessità inderogabile di attirare nella lotta le grandi masse. Ma l’armamento è un problema che può essere risolto solo con mezzi rivoluzionari […] Ma dobbiamo liquidare l’illusione che una manovra qualsiasi ci metta un giorno in condizione d’impadronirci dell’apparato tecnico e delle armi della borghesia, cioè di legare le mani ai nostri avversari prima che passiamo all’attacco contro di essi.
Combattere questa illusione che spinge il proletariato alla pigrizia in senso rivoluzionario non è terrorismo […] Noi non diciamo affatto che siamo dei comunisti “eletti” e che vogliamo sconvolgere l’equilibrio sociale con l’azione di una piccola minoranza. Al contrario, vogliamo conquistare la direzione delle masse proletarie, vogliamo l’unità di azione del proletariato; ma vogliamo anche utilizzare le esperienze del proletariato italiano che insegnano che delle lotte sotto la direzione di un partito non consolidato – anche se di massa – o di una coalizione improvvisata di partiti portano necessariamente alla sconfitta. Vogliamo la lotta comune delle masse lavoratrici nelle città e nella campagna, ma vogliamo la direzione di questa lotta da parte di uno stato maggiore con una linea politica chiara, cioè del partito comunista.
Questo il problema che ci sta di fronte14.

Ieri come oggi il soggetto antagonista non può affidarsi alle promesse elettoralistiche e alle chimere parlamentariste per sconfiggere il suo avversario, sia che si nasconda sotto le spoglie di Giorgia Meloni che di Letta, Salvini, Renzi, Calenda, Berlusconi, Di Maio o altri ancora. Compresi i «sinistri» che accampano ancora motivi tipici del Fascismo e del Nazionalismo, quali Sovranità e Nazione, in un paese in cui più che la difesa dei confini sarebbe necessario farla finita una volte per tutte con il capitale e i suoi scherani. In divisa militare o in abito grigio da parlamentare che siano.

Strategia perdente, quella dell’attuale “antifascismo” da elezioni, che spinge i giovani a doversi accontentare del piagnisteo ipocrita di “Repubblica” del 21 settembre sulle manganellate distribuite a Palermo dalle forze del dis/ordine sui contestatori del comizio di Giorgia Meloni, dimenticando però che proprio quel giornale rappresenta una delle voci più autoritarie nei confronti dei movimenti reali. Com il suo direttore, Maurizio Molinari ha ben dimostrato sempre nei confronti del Movimento NoTav, definito terrorista dallo stesso.

Mentre, solo per fare un esempio, il fatto che al sorgere di un movimento dal basso e concreto nelle istanze, come quello rappresentato nel Regno Unito da «Don’t Pay» che ha raccolto in poco tempo più di centomila aderenti, che potrebbero diventare un milione, intorno a una richiesta fondamentale, ovvero «la riduzione delle bollette energetiche a un livello accessibile», il governo “conservatore” di Liz Truss ha dovuto rispondere con un provvedimento del valore compreso tra i 150 e i 200 miliardi di sterline indirizzato al contenimento del caro-bollette per i prossimi 24 mesi.

Anche se tale provvedimento si è reso necessario prima di tutto per fornire un aiuto alle aziende, è chiaro che il potenziale pericolo rappresentata dal movimento, sul piano della lotta di classe, ha costituito uno dei fattori chiave per una svolta in tal senso. Considerato anche, come ha affermato Salvatore Toscano su «L’indipendente», che: «L’iniziativa, come si legge sul sito, ricalca un’idea realizzata nel Regno Unito alla fine dello scorso millennio, quando 17 milioni di persone si rifiutarono di pagare la Poll Tax, contribuendo alla caduta del governo e all’inversione delle sue misure più dure».

Insomma, la lotta concreta dal basso è l’unica che paga e, talvolta, può essere addirittura sufficiente che il suo spettro si aggiri per l’Europa15.


  1. Franco Rosso, La Costituzione non è difesa dal partito di Letta, «il manifesto», martedì 9 agosto 2022, p.15  

  2. F. Rosso, art. cit.  

  3. Cui Fratoianni ha lasciato il seggio di Pisa – NdA  

  4. ivi  

  5. Per fare solo un esempio, quale dovrebbe essere la concezione della proprietà privata, del lavoro, dell’organizzazione socio-politica in una situazione in cui una rivoluzione radicale e proletaria prendesse il sopravvento? Potrebbe ancora basarsi sui principi liberali oppure dovrebbe affermarne, come pensa l’estensore di queste note, altri? Magari assolutamente diversi e contrari a quelli attualmente in vigore?  

  6. A. Bordiga, Del governo, «Il Comunista», 2 dicembre 1921  

  7. A. Bordiga, art. cit.  

  8. Fabio Ciabatti, Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /2, «Carmilla on line», 23 agosto 2022  

  9. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista (Ventitreesima seduta, 2 luglio 1924)  

  10. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  11. Ivi  

  12. N. Revelli, Mai tardi, Einaudi, Torino 1967 – prima edizione Panfilo editore, Cuneo 1946  

  13. N. Revelli, op. cit., p. 210  

  14. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  15. “Il Sole 24 Ore” del 10 settembre 2022 rivela che dal Rapporto Coop 2022 emerge che un italiano su tre entro Natale potrebbe non riuscire più a coprire le spese per le utenze di luce e gas, mentre il 57% degli italiani si sarebbe già dichiarato in difficoltà nel pagare l’affitto.  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money! https://www.carmillaonline.com/2022/05/18/il-nuovo-disordine-mondiale-15-follow-the-money/ Wed, 18 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72027 di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

]]>
ESCLUSIVO Il figlio etiope di Indro Montanelli ipoteca le redazioni dei giornali. Vuole miliardi per danni e diritti d’autore. https://www.carmillaonline.com/2021/05/30/esclusivo-il-figlio-etiope-di-indro-montanelli-ipoteca-le-redazioni-dei-giornali-vuole-miliardi-per-danni-e-diritti-dautore/ Sun, 30 May 2021 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66402 Intervista a cura di Luca Baiada

Diamine, sono nato nel 1936, o quando, se no? L’omo si sfoga, ’un c’è verso. Mamma era giovane, ogni italiano aveva una sciarmutta, due, tre. La parola minorenne qui ’un c’era. Venga, venga, ma attento a dove mette i piedi, ho fatto l’orto. Le sciarmutte vietate? Sì, all’italiana. E poi, via, in ogni conquista c’è la preda, come nel Grand Tour dei signori. Goethe a Roma aveva una ragazzetta, Rousseau a Venezia manteneva una bimba di undici anni, diceva che gli sonava il pianoforte. La [...]]]> Intervista a cura di Luca Baiada

Diamine, sono nato nel 1936, o quando, se no? L’omo si sfoga, ’un c’è verso. Mamma era giovane, ogni italiano aveva una sciarmutta, due, tre. La parola minorenne qui ’un c’era. Venga, venga, ma attento a dove mette i piedi, ho fatto l’orto.
Le sciarmutte vietate? Sì, all’italiana. E poi, via, in ogni conquista c’è la preda, come nel Grand Tour dei signori. Goethe a Roma aveva una ragazzetta, Rousseau a Venezia manteneva una bimba di undici anni, diceva che gli sonava il pianoforte. La verità prude, eh? «E lascia pur grattar dov’è la rogna». Certo, ho un dantino rilegato, lo scordò qui babbo e lo tengo sul canterano. Ogni tanto sciacquo i panni in Arno anch’io. Aisha! Aisha, karkadè per due e poi vattene in cucina!

Mi danno del bugiardo? A me che voglio bene a tutti? De Benedetti, per esempio, mi fa venire i lucciconi. Ha trattato così male «Repubblica», «l’Espresso» e «Limes», che ’un gli è rimasto nulla. Un quotidiano organo ufficiale delle persone intelligenti, un settimanale che parlava di scandali quando «Playboy» era indeciso fra le parole e le fotografie, e una rivista col titolo in latinorum. Sicché: ogni giorno in maschera da cittadini, una volta a settimana chiacchieroni e tutto l’anno reazionari. E sull’assortimento, ci fai un fiocco col riprillo.

Il mi’ babbo? ’un lo vedevo mai. Stava fra giornali e salotti ammodo. Ma guardi, se Lei crede di venir qui a fare un pettegolaio, può tornarsene in Italia. I miei diritti hanno le loro ragioni.
Sono l’erede. Sono pronto a qualsiasi esame. Le analisi del DNA le avete inventate voi. Una volta tanto, andranno a pro di un affricano. Che sono l’unico, è più facile crederlo che negarlo: diamine, Lei pensa che quell’omo rinsecchito, vecchio anche da giovane, amabile come un cignale e largo come Stenterello, spezzasse il cuore alle dame? A Fucecchio – un borgo grande come un tucul ma diviso in due clan – gli garbavano le sassaiole fra quelli del monte e quelli del piano: «insuesi» e «ingiuesi». In Affrica venne a sfogarsi e scappò. Da ammogliato, burrasche. E dopo, la compagna che preferiva sui ginocchi era l’Olivetti. Altri figlioli, ’un ce n’è di sicuro. Se qui riesco a fare il vino e l’olio? o perché lo dovrei dire a Lei?

Parliamo del carattere. Non si vedeva? I modi ferrigni di una zitella, gli occhi strabuzzati peggio del duce, sempre a pungere e lisciare, più nascondino d’una serpe. E stia attento, perché qui viene il bello. Il giornalismo di babbo era fatto di divagazioni, di lingua sciolta, era un libro di stroncature e adulazioni, un discorso allusivo. Le sue battute lasciavano il segno, ma solo sui deboli, come coltelli senza manico che feriscono chi li impugna, a meno che abbia le mani guantate di ferro. Halima, non c’è bisogno che pulisci qui, ora! spazza e dai il cencio di là!

Le sue inchieste arrivavano sull’uscio del fastidio. Il trucco era lasciar capire che si sa molto, rivelare qualcosa, come un filo piccino picciò, che il giornalista potrebbe tirare, se gli garbasse, per far venire fuori il gomitolo. Allora si fa carriera: io so, tu sai che potrei dire, ruzzo, mi cheto e te mi paghi. Ci vogliono fiuto, parola abile, contatti, passato disinvolto, memoria da elefante. Ho detto il trucco era, ma alla precisa: il trucco è. Dire e non dire, dare e non dare. Assaggi un cantuccino, prego. No, le briciole le metta qui, poi ci governo le galline.

Certo, i fatti d’Ungheria nel ’56. A maggior ragione, un capolavoro. Budapest era insorta, la stampa borghese voleva una rivolta per il mercato. Babbo fu furbo: avanti la verità, essere il primo, avanguardista del giornalismo della guerra fredda: i ribelli erano comunisti contro il Cremlino, libertari e contrari al blocco sovietico. Spiazzò tutti. In gamba, non c’è che dire. Fece intendere che sapeva e lo riconobbero. Chi sa dire davvero, davvero sa tacere. Fermo, non dia nulla al gatto, ché altrimenti non piglia i topi.

No, guardi: su codesto, gnorri. La storia del telegramma, quella la trova in L’orgia del potere di Mario Guarino. Babbo riuscì davvero, alle Poste centrali, a fermare un telegramma spedito per disguido? Il telegramma che avrebbe svelato alla prima moglie di Berlusconi la relazione con Veronica Lario? Primo, Le ho detto niente pettegolaio. Secondo, che i giornalisti facciano molti mestieri non è un segreto. Vada a chiedere a Eugenio Scalfari i suoi rapporti con Lino Iannuzzi o perché trattò Antonio Ingroia a quella maniera. Oppure vada a scoprire come ha fatto Renato Farina, l’agente Betulla, a continuare a lavorare. Poi riveda i battibecchi tra Gad Lerner e Giuliano Ferrara, quando si danno le dita nell’occhi e le pedate negli stinchi su Berlusconi e Agnelli. A proposito di Ferrara, gli chieda come fece ad avere in anticipo l’articolo di Antonio Tabucchi destinato a «Le Monde». E già che c’è, si rigoda Marco Travaglio su Berlusconi, dopo averne detto peste e corna. Cosa c’è, Nyala? Non hai finito, all’acquaio? Vai e lustra ammodo, lesta!

E per colmo di burletta, i giornalisti gridano contro i traffici e i privilegi degli altri. Se ne rammenta, di quel libro? La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che ne vendettero e ne vendettero e a me nulla mi dettero. Come se non si conoscessero i nepotismi, le ambizioni, la fregola, le bizze, la prosopopea del giornalismo italiano. Ma lo sa che Paolo Mieli da moccioso promise a sua madre di diventare il direttore del «Corriere della sera»? Volitivo, il bimbo, eh? Poi vai a vedere le famiglie, e ne trovi pochi sopportati dalla moglie. Sì, c’è anche qualche buon marito, fra i giornalisti: qualche marito in tailleur, con la permanente e il rossetto che cola di sudore.

Ma sia chiaro: dei quattrini che Berlusconi diede a babbo quando uscì dal «Giornale», io non ebbi neanche un centesimino. Comunque, a guadagnarci non fu punto il cavaliere. Babbo rifece filotto come in Ungheria, fu il migliore sul campo, con più di ottant’anni sul groppone. Da un giorno all’altro, campione della libertà di stampa, a reti unificate. Lui che tanti anni prima si era ridotto a Telemontecarlo, per smoccolare che in Italia c’era il comunismo. Sì, codesta è panzanella, ne vuole un cucchiaino? Il pane secco lo fo ammollare a buio, quando controllo che tutte abbiano rigovernato ammodo, queste pigrone sciabisolche. Qui ’un si butta via nulla.

Dicevo, non è un caso, se «il Fatto Quotidiano» prese babbo per bandiera. Se lui fosse rimasto con Berlusconi, gli antiberlusconiani non avrebbero avuto la loro immaginetta da capezzale. Corro troppo? No, è l’aria dell’Affrica: è Lei, che ha corti il fiato e la vista: la stampa italiana ha un debito col mio babbo. Per aver seguito l’esempio? Bah, sì e no. Per averlo usato e tradito, direi: lui sapeva scrivere, inventava bene e ti scodellava una prosa scoppiettante che scànsati. E ora? Si vergognano tanto del loro chiacchierume, che danno spazio al sondaggista, all’esperto, al profondo conoscitore, all’analista, al politologo. I giornali son tutti uguali, tutti in favella dormitiva: o battutame trito e rivogato, o litanie struggine da mortorio. Minestre riscaldate e senza sale; brodo di zucca e vin di bozzacchioni. Un po’ per diritti d’autore, un po’ per danni, devono pagare, e io sono l’erede.

Cosa ci farò coi quattrini, lo so io. Qualità, diamine, assortimento, igiene. Clientela pulita, commercio onesto. Di chi… ehm, voglio dire di che cosa, è affar mio. Per le persone di volontà, c’è sempre posto. E riserbo garantito, niente trappoloni per la gente di riguardo; per intenderci, niente trattamento Marrazzo, via: che a incastrare quel citrullo furono più i politici e i giornalisti che le guardie. Insomma, la merce l’ho già, e non tutta usata, anche fresca da rinnovare, bella soda. Bisogna far partire l’organizzazione. E che debbano pagare uno con la pelle scuretta, buon pro, a me mi fa un baffo. Pagheranno uno che si comporta da persona educata. Faizah, portami le pianelle! Pillaccherona, sei sorda?!

Sulla Toscana, non fo il nesci. La toscaneria caricaturale va bene per le cartoline degli alberghi marca agriturismo, tutti uguali e finti come i discorsi di Matteo Renzi. Al fondo c’è un argento vivo battagliero, e non è un caso, se i due campioni della contesa, della linguacciutaggine, del bastiancontrario, vivi anche da morti, sono toscani: babbo e Oriana Fallaci. Anche il sardo Gramsci, dalla galera ammirava Machiavelli per far dispetto al papa. Ha capito? No?! Allora è duro di comprendonio! Mettiamola così: prendi il cinismo di Machiavelli e la schiena comodina di Guicciardini, mettici sopra l’estro di Curzio Malaparte e l’arroganza di Alessandro Pavolini, insudicia ogni cosa con un Risorgimento mancamentato dal fascismo, e avrai una voce toscana di successo. Ma di giochi di parole non mettercene troppi, altrimenti ti ritrovi alla Leopolda, con un bastraone che crede di rottamare tutto e perde il referendum e il governo in un colpo solo. Aisha! Questo karkadè è un troiaio! Fallo rifare da Zeina o da Kadida!

Quanto a Mondadori e gruppo «Repubblica», a maggior ragione. Partiamo dall’inizio della ricolonizzazione, fra l’assassinio di Enrico Mattei e la prima crisi petrolifera. Abbia pazienza, sa, ma io ragiono da qui, dall’Affrica. Dagli anni Sessanta la mafia ricicla denaro nel mattone e nell’industria, intanto la manifattura automobilistica condivide la spartizione del potere e cambia il volto dell’Italia. E il giornalismo? Poche eccezioni messe alla zitta nel sangue, e si adegua. Poi arrivano la droga e il suo riciclaggio nelle televisioni private. Col lodo Mondadori c’è una prima resa dei conti, attraverso la corruzione di magistrati. Il resto segue, ne conviene?

Che adesso si mescano lacrime di coccodrillo perché i padroni dei giornali ingavonano tutto in un mucchio, anche con un colosso multinazionale dell’automobile, Le pare tanto strano? È lo stesso aggeggiare, rimescolando le carte del mazzo. Siamo alle solite. E i giornalisti italiani, dentro i fatti, ci dovrebbero ficcare bene l’occhi; invece ci mettono le mani, il portafogli e le mutande. A quella maniera, faranno sempre un giornalismo smanaccione, arraffino e mutandaio.

Poi, vede, si fa presto. Quando venne in Affrica nel ’35, mi’ padre scrisse che la guerra era una villeggiatura, un premio agli italiani dato da Mussolini il «gran babbo». E ora? I giornali son pieni di figli di papà, il potere parla un linguaggio paternalistico che ohimmei, il giornalismo ha voglia di padre padrone e tratta i lettori come bimbetti. È il granbabbismo del mio babbo che ha fatto scuola. Il colonialismo ha ipotecato la comunicazione, e io non dovrei ipotecare i giornali?

Non mi parli della strage del Padule di Fucecchio, adesso. Sì, sì, quei dugento contadini ammazzati nel ’44. Ma non creda di saper tutto, Lei, perché c’ha fatto un libriccino. Babbo vedeva il mondo da vicino e da lontano. Mi segua. Nel ’37 ci fu la rappresaglia italiana qui, a Debra Libanos. Fu proprio di maggio, come ora, ero piccino e m’andò bene, poteva toccare anche a me. A Graziani gli s’era fatta la bua a una gamba, e ammazzarono migliaia di etiopi, anche i monaci. La più grave strage coloniale di cristiani, in questo continente, la fecero i cristiani di Roma. Allora, quando babbo seguì il processo su Fucecchio, nel ’47 per il «Corriere d’informazione», che poteva dire? che i tedeschi non dovevan fare in Toscana quello che gli italiani avevan fatto qua? E dopo, quando nel ’98 andò a testimoniare al processo di Theo Saevecke, che aveva comandato le SS a Milano mezzo secolo prima?! Ma andiamo!

Il processo Saevecke, sull’eccidio a Milano nel ’44, usciva dall’Armadio della vergogna, l’archivio sulle stragi naziste che a Roma era rimasto nascosto all’opinione pubblica, nei locali della magistratura militare, fino al ’96. Non mi segue? Ah, ma allora Lei non sa un accidente! A Milano i tedeschi avevano catturato e liberato babbo, e anche Ferruccio Parri, e anche Mike Bongiorno. O chi c’era, a Milano? Saevecke! Nel dopoguerra, Parri è l’antifascismo perbene, Mike Bongiorno fa la televisione perbene e babbo il giornalismo perbene. La vedo groggi. Si accorge ora, che il perbenismo italiano postbellico era passato per i comandi delle SS? Il giornalismo non è un mestiere per gente schizzignosa.

Il mio giudizio sul governo di Mario Draghi? È così tecnico che ha bisogno delle consulenze del McKinsey, ma così politico che ’un si deve dire se è destra o sinistra. E poi, giù, ’ndiamo: il giornalismo si divide fra chi a Draghi gli porta l’acqua con l’orecchi e chi lo critica per finta. E anche questo, non dimostra il credito di babbo? Allora, i diritti sono miei. Il governo è quello ideale, in questo momento. Il problema è quanto dura, questo momento, perché nel momento in cui lo dico, il momento potrebbe essere passato. E non scriva che sono polemico, guardi che sono un Montanelli anche se non c’è sul passaporto.

La mia ipoteca su tutte le redazioni, a cancellarla non ci penso né punto e né poco. Io sono l’erede, da quella notte in cui una sciarmutta diede un po’ d’amore a un fascista. Per lui, un momento tenero in una vita di stizza e d’aceto.
Aspetti, le regalo un ovo. Lo prenda. No, giù codeste ditacce! Ecco: questo piccino.

]]>
Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

]]>
Craxi e Ricraxi https://www.carmillaonline.com/2020/01/19/craxi-e-ricraxi/ Sun, 19 Jan 2020 20:57:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57490 di Alessandra Daniele

L’installazione dei missili nucleari NATO a Comiso. Le complicità neocolonialiste in Somalia. Lo smantellamento della Scala Mobile che adeguava i salari al costo della vita. La retorica delle Riforme adoperata per cancellare diritti e garanzie. Il doppio accordo spartitorio con la Democrazia Cristiana a livello nazionale, e col PCI a livello locale, per l’occupazione bulimica di tutti i posti di potere raggiungibili, la cosiddetta “politica dei due forni”. L’epurazione del Partito Socialista Italiano da qualsiasi traccia di socialismo, e la sua trasformazione in lista personale, Cerchio Magico [...]]]> di Alessandra Daniele

L’installazione dei missili nucleari NATO a Comiso.
Le complicità neocolonialiste in Somalia.
Lo smantellamento della Scala Mobile che adeguava i salari al costo della vita.
La retorica delle Riforme adoperata per cancellare diritti e garanzie.
Il doppio accordo spartitorio con la Democrazia Cristiana a livello nazionale, e col PCI a livello locale, per l’occupazione bulimica di tutti i posti di potere raggiungibili, la cosiddetta “politica dei due forni”.
L’epurazione del Partito Socialista Italiano da qualsiasi traccia di socialismo, e la sua trasformazione in lista personale, Cerchio Magico di fedelissimi, cortigiani e miracolati.
Il minaccioso disprezzo per critiche e dissenso. La vanagloria faraonica.
La corruzione elevata a sistema, a infrastruttura statale, e rivendicata come imprescindibile strumento di azione politica.
Bettino Craxi non è soltanto una delle più perniciose incarnazioni dell’arroganza del potere che la Storia d’Italia ricordi. È anche l’origine dell’orrido timeloop nel quale siamo prigionieri.
Un sub-universo che si forma negli anni ’80. Come quello di Donnie Darko.
Risvegliando il nefasto archetipo mussoliniano del cosiddetto “uomo forte”, Bettino Craxi il Decisionista dà inizio a quella serie di Cazzari, a quella spirale discendente di Re Sòla che arriva fino a Matteo Salvini.
Negli anni ’80, Craxi consegna tutta la televisione commerciale a quello che sarà il primo dei suoi successori nella spirale, Silvio Berlusconi, facendone il Demiurgo del sub-universo italico appena formato. Mentre i viceré craxiani alla Rai, per una barzelletta, ordinano il Daspo TV per Beppe Grillo, accreditandolo come martire della satira, dell’onestà e del libero pensiero agli occhi dei futuri grillini.
Craxi è il punto d’origine.
Per questo il suo spettro continua ad apparire per indicare la strada (sbagliata) ai suoi successori, gusci sempre più vuoti.
Matteo Salvini non lavora per i russi.
Non lavora per gli americani.
Matteo Salvini non lavora.
Si esibisce.
Ha cominciato come concorrente Mediaset de Il Pranzo è Servito, adesso batte le campagne – elettorali – baciando mortadelle e rosari (in quest’ordine) e mangiando tutto quello che gli passa davanti, nell’attesa spasmodica di tornare Re Sòla.
Anche Matteo Renzi, che di Craxi si ritiene l’unico erede legittimo, non si rassegna che il suo giro di giostra come Cazzaro in carica sia già finito, e continua ad azzannare le caviglie del bisConte.
Mentre la spirale decade però le iterazioni diventano sempre più rapide, il sub-universo s’avvia all’implosione.
Che sia salvino o sardino, il prossimo a svegliarsi come Donnie Darko al richiamo dello spettro del Duce Decisionista potrebbe non fare neanche in tempo ad alzarsi dal letto.

]]>