Barbet Schroeder – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 76 https://www.carmillaonline.com/2016/12/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-76/ Thu, 15 Dec 2016 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34800 di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979 Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: [...]]]> di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979
Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: ho sbrigliato la mia fibra ottica e, voilà, eccovi il resoconto di quanto ho visto. Purtroppo.
Che si tratti di un’epocale fetecchia è evidente dopo pochi secondi di visione: si parte con il monumento a Lenin e il picchetto d’onore sulla piazza Rossa. Poi scene della ridente Mosca brezneviana, grigia e piovosa. Stacco e c’è una bella bruna che ansima a gambe larghe e un bel tomo le zompa addosso e con voce off si rivolge a noi malcapitati spettatori: “Vi chiederete come mai mi trovi in un posto come questo… Mosca intendo”. Capisco che si arriverà a vette sublimi. Ma come siamo giunti a questo punto? Dunque: Scott è un giornalista di Seattle minacciato di licenziamento; gli fanno vedere un filmino hard e veniamo a sapere che in URSS sta proliferando la pornografia underground con funzione dissidente e la leader è tale Librianna: Scott deve andare a intervistarla, costi quel che costi. E per entrare in Unione Sovietica basta chiedere, no? Il protagonista arriva come turista sul Mar Nero (che non è chiaramente il Mar Nero) in treno (da Seattle!) e poi da lì a Mosca in aereo, con intrattenimento orale gentilmente offerto in volo da una compagna (“Abbiamo infranto la barriera del suono”). Scott finisce sulla piazza Rossa (e c’è sul serio! E fa quasi più impressione che ci sia del contrario!) e si chiede, da vero segugio: come trovare Librianna? Basta andare ai magazzini GUM, e dove, se no? (C’è solo una milionata di russi, del resto, a guardare i prodotti, pochi). È il momento più godibile dell’immonda pellicola: Scott salta fuori qui e là nelle location moscovite come un Paolini in cerca di notorietà. Però gli va sempre buca: decide allora di provare la fortuna alla parata che celebra la Rivoluzione d’Ottobre. Del resto è logico: più gente c’è, più è probabile che si trovi lì anche Librianna… La logica viene ulteriormente violentata grazie a un tizio che vende al mercato nero la dritta verso tale Maya, una con il tatuaggio di una stella rossa su una chiappa, giuro. Ovvia copula ma il lavoro di intelligence va in malora perché Maya è un’agente KGB. Arrestato e interrogato, Scott riesce a scappare (non è dato sapere come: la mai abbastanza celebrata grandezza dell’ellisse narrativo!) ed è Librianna a contattarlo. La leader controrivoluzionaria è una ninfomane che vuole liberarsi del giogo comunista e si masturba con i libri di storia sovietica: sa tutto di Scott e lo ha seguito insieme al suo servo, un personaggio incappucciato chiamato Igor. Riceve lo straniero nel suo covo segreto, lo invita a farsi un bagnetto e gli concede l’agognata intervista. Lui le chiede come mai sia così ricca e riesca nella sua attività porno-politica e lei gli risponde come se parlasse a un deficiente: in URSS sono tutti così timorosi di fare domande che nessuno le fa e questo le permette di prosperare. Ma pensa! E da qui prosegue l’assortimento di bestialità, con una trama pensata da qualcuno che ha ingestito peyote grossi come birilli, farcita di scene pornografiche eccitanti come in un film di Rocco – ma Buttiglione non Siffredi – con fotografia amatoriale, musiche stonate e montaggio e regia che farebbero augurare un’effettiva permanenza in Siberia degli autori di cotanta vaccata. C’è tutto il repertorio: sopra, sotto, davanti e dietro, ma è sempre tutto di una bruttezza indicibile, assolutamente inibente qualunque desiderio sessuale, anche a causa di attori orrendi, senza distinzione di genere, tutti, maschi e femmine, oltretutto pelosi anche oltre le folte abitudini dell’epoca. Lui sembra un Kevin Costner con la frangetta, finito sotto una pressa e senza un bagliore di intelligenza negli occhi ed è un attore bestiale, asinino ma non dove ti aspetteresti che lo sia un attore porno. Lei è una non irresistibole tettona alla Russ Meyer, dal volto cubista e con parrucca platinata. Il top della comicità involontaria è toccato con la scena di seduzione della bionda nei confronti di Scott: passeggiata sulla spiaggia, bacetti, cena a lume di candela e ballo lento, con lui con un completo enorme che andrebbe forse a Galeazzi e lei vestita come Moira degli elefanti. Tra le altre perle la liberazione di Igor da un gulag entro il circolo polare artico, impresa irrisoria perché “sanno impedire alla gente di uscire dai campi, ma non di entrarci”. Infine la conclusione: Scott torna a casa, pubblica il suo articolo e si riguarda beato i filmini della sua avventura, con il degno finale di lui che possiede Librianna con addosso un costume da orso sovietico, scena degna del peggior film porno mai visto, ma mai brutto come questo. (22/8/11)

ddv7602877 – La bestia nel cuore – e temo anche alla regia – di Francesca Comencini, Italia 2006
Premetto: farò di tutto per non scadere nel querelabile. E aggiungo: non escludo che cattiva digestione, ansie professionali e meteopatia possano avere influenzato il mio giudizio. La prendo larga: per quel che mi riguarda questo film è disastroso ed è l’epitome (ehi, ho usato la parola “epitome”) di tanto cinema italiano, tronfio e insopportabile. La cosa che soffro di più è il testo, mortificante, tutto scritto, legato, finto: la regia insistita e non granché originale contribuisce a questo senso di poca spontaneità, in una generale piattezza talvolta interrotta da qualche lampo d’invenzione, alternanza – rara – che insinua il dubbio della casualità e dell’inconsapevolezza. La drammaturgia è gestita come un macellaio tratta un nodino, con improvvisi apici recitativi scomposti, tra urla e gemiti. Poi arriva il momento leggiadro, sentimentale e, zac!, parte la Gnossiénne numero 5: povero Satie, ridotto a stereotipo musicale. Giovanna Mezzogiorno non recita, ma sussurra ai limiti dell’inudibile e sembra avere qualche problema di dizione e siccome l’argomento è scottante la si premia, anche in memoria del padre Vittorio che in vita, invece, ce l’eravamo filati poco nonostante avesse lavorato con Peter Brook. Luigi Lo Cascio se la cavicchia, ma qui non mi sembra un problema di capacità attoriali, ma proprio di gestione delle stesse, con una regia che anestetizza tutto fino alla prossima accelerazione isterica, passando da personaggi narcotizzati a giulivi e poi tragici. In certi momenti il film sembra Boris, ma per comicità involontaria. Finale con rallenti e fermo immagine: non vado oltre se no finisco nel penale. Audio brutto, luci e scene finte, con interni irreali, case vuote, senza tende o persiane (la metafora? Spero di no ma pure potrebbe). Dialoghi da manuale, ma di quelli per principianti: più che indignato, sono incredulo e Barbara mi è testimone dello scempio cui assistiamo. La trama è tratta da un romanzo della regista e si può sintetizzare il più brevemente così: papà è pedofilo e incestuoso, ma la figlia ha rimosso nonostante l’evidenza dei ricordi. E certo, se no il film non si fa. Lei incinta va in USA dal fratello per rasserenarsi dato che la turba l’immagine ricorrente della patta aperta del padre che la raggiungeva nel suo lettino di bimba. E chissà mai cosa sarà potuto accadere. Ma in USA non ha il coraggio di chiedere esplicitamente al fratello. Poi annuncia che è incinta e quando la cognata dice che la gravidanza le farà dimenticare tutto, che questa nascita la salverà, arriva il picco drammatico: “Salva da cosa!?!”, urlando all’improvviso. E da lì rivelazioni a cascata e ritorno in Italia con ulteriori vicissitudini che culminano nella scena stracult del delirio preparto, con camera zenitale che ondeggia sulla Mezzogiorno in deliquio. Candidato per l’Italia al premio Oscar, il film non è stato però premiato e chissà poi perché. Mentre scrivo, cioè il giorno dopo questo supplizio, la Comencini ha presentato il suo nuovo film a Venezia, tratto da un altro suo romanzo. Ci son state risate a scena aperta durante le scene drammatiche. Lei ha accusato i critici maschi, e te pareva. Mi dispiace, ma dopo questo La bestia nel cuore non ho dubbi su chi possa aver ragione. Critico no, ma maschio sì, sorry, e non significa che devo accettare sullo schermo ogni cosa solo perché la regista si ritiene intoccabile per nascita, eh. Vabbeh, basta: ho una fame nera, comunque, e vorrei capire perché se basta una sera per prendere un chilo, serve un mese per abbatterlo e perché a 20 anni mangiavo 5 etti di patatine fritte e non avevo problemi e adesso non posso più farlo. È un mondo cattivo, con la bestia nel cuore, certamente. (Diretta su RaiMovie; 6/9/11)

ddv7603879 – L’incantevole, giuro, Come d’incanto di Kevin Lima, USA 2007
Galeotto fu il trailer in un dvd Disney visto recentemente. Le bimbe pretendono e il pessimo padre obbedisce. Il concept è imbattibile (personaggio da favola, simil-Principessa, immerso in realtà metropolitana odierna) e il risultato finale è ottimo perché si tiene il ritmo delle trovate e non si sbraca mai. La prima parte funziona benissimo ma è anche la più facile (per modo di dire) da scrivere. È la parte destruens, con tutta l’ironia – anche cattiva – sul mondo disneyano e gira a mille con equivoci, gag e anche battute azzeccate. Il primo Shrek era tutto così ed era amabile. Ma era solo così: parodia, geniale perché inedita, ma solo parodia. Diventa difficile però portare avanti il gioco, la parte construens: come far funzionare la trama, come risolvere tutto ed è qui che io batto le mani perché tutto si incastra alla perfezione, sempre con autoironia e plausibilità narrativa. È un ottimo lavoro, sinceramente, e non l’avrei mai detto, ma mai mai mai. Brava la protagonista principale, Amy Adams, e anche il belloccio contemporaneo, tale Patrick Dempsey, che, mi spiega Barbara, si tratta di gnoccolone riverito dall’universo mondo femminile intiero in quanto protagonista di Grey’s Anatomy, uno di quei telefilm di bassa lega che ha conosciuto immensa popolarità in tempi recenti (ne ho visto una volta una puntata e l’unica cosa curiosa era che protagonista fosse una cinese con la faccia più storta che avessi mai visto, tolti due quadri di Picasso). Film adorato dalle bambine (le mie, intendo) e pure apprezzato da me, com’è evidente. (1/10/11)

ddv7604880 – Boris – Il film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2011, non vale il Boris che conoscevamo
La partenza è buona, con la sentenza definitiva sul fare tivù (“è come la mafia: non se ne esce, se non da morti”, confermo) e con il racconto dolorosamente attendibile del sottobosco cinematografico: la cialtronaggine dei produttori finti e veri, le fisime intellettuali degli sceneggiatori, i salari rubati, le pose acculturate. Finisce che René Ferretti accetta di girare un improbabile La casta, provando il colpaccio con un’operazione in stile Gomorra. Ovviamente finirà tutto in vacca, rassegnati – anche su pellicola – a riprodurre le modalità lavorative della televisione. Perfetta la caratterizzazione della grande attrice italiana, che non parla ma sussurra ed è piena di fobie, ritrattino che mi sembra adattabile a un numero imprecisato di attrici (ma facciamoli ‘sti nomi: la Mezzogiorno, la Morante, la sempre nevrotica Buy). Ci sono alcune trovate azzeccate, ma più che ridere si sorride e in alcuni momenti si subiscono stasi esiziali e la questione è che da un film così vorresti avere una brillantezza insuperabile, come nella serie tivù. Invece si rimane in superficie in troppi momenti. La seconda parte ricalca le dinamiche note nella serie, ma senza la freschezza e la velocità cui eravamo abituati e la morale finale l’abbiamo già vista in tre finali di serie, anche se Barbara parte con le ipotesi: e se fosse stato un sogno? Ma non cambia il risultato: René quello sa e deve fare, la tivù cialtrona, ammesso che ne esistano altre possibili. Gli attori sono tutti bravi e ben diretti. Sermonti è l’unico che mi risulta fastidioso, ma non per limiti suoi, ma perché il suo ruolo non ha più misura, è completamente fuori controllo e non credibile nel pur poco credibile livello di realtà. Cameo grandioso di Nicola Piovani che si riscatta dall’amorazzo con Giovanna Melandri e rende meritevole l’Oscar vinto anni fa con La vita è bella. (1/10/11)

ddv7605886 – Babylon A.D., una babelica stronzata di Mathieu Kassovitz, Francia 2008
Questo film fa cacare, ma dolorosamente, con crampi e nebulizzazioni diarroiche tipo spray. È di sconcertante bruttezza, dalla trama intorcinata e inspiegabile, senza alcun fascino visivo e narrativo. Pure le scene d’azione fanno schifo e Vin Diesel non ha una battuta una che sia decente. Di contorno una Rampling truccata come The Joker (e con qualcosa della Moratti, ecco) e un Depardieu conciato da cattivo in maniera grottesca con un nasone immenso e i denti marci. Brutto tutto, la fotografia buissima, la musica che si dimentica subito. Prevedibili gli sviluppi della trama, sono implausibili anche nel campo dell’implausibilità della fantascienza i motori narrativi della vicenda. Tremendo. Rai4 sta comunque diventando il nostro canale preferito del digitale terrestre: ha un programma denso di vaccate assolutamente godibili. Ti siedi, accendi e subisci, sdivanato e assente. Sembra una Italia1 di 15 anni fa, piena di film d’azione di cui uno non sospetta neanche l’esistenza. Barbara s’è vista due film dedicati alla Banlieue 13, che io invece ho assunto a tratti. Scene d’azione sempre godibili, montate freneticamente ma anche con bei cinematismi, inventivi, cosa che nel film di Kassovitz mancava clamorosamente togliendo anche uno dei pochi motivi di visione. Le trame e i dialoghi invece facevano schifo, ma la colpa magari è della traduzione, chissà. (No, non credo). Ad ogni modo il secondo episodio finisce con gli eroi della banlieue (arabi, dropout, punk, delinquentelli, sballati etc.) che fanno tenerezza al presidente francese improvvisamente illuminato, tutti vanno d’amore e d’accordo, egalité, fraternité, Beyoncé, e si completa il piano del cattivone di turno (il capo della flicaille) che voleva bombardare la banlieue per realizzare una pesante speculazione. La si bombarda sì, ma tutti decidono che la si ricostruirà migliore e con del verde. Ma che buffoni! (Diretta su Rai4, 21/10/11)

hqdefault888 – Fulminati e persi ne La Vallée di Barbet Schroeder, Francia 1972
Moglie di diplomatico annoiata conosce 4 hippie storti che nella verdeggiante Nuova Guinea vogliono trovare l’uccello del paradiso in una valle misteriosa. Ovviamente la ciccetta si diletta di ornitologia in altra maniera, con consumo entusiasta di droghe, tronata e libera da convenzioni piccolo borghesi, e l’allegra combriccola intraprende un trekking: il film diventa quasi un documentario, con facce, usi e costumi degli aborigeni e la consueta uccisione dei maiali (sembra un obbligo narrativo degli anni Settanta) presi a legnate in faccia, in una scena abbastanza cruenta e insistita. Il viaggio prosegue imperterrito sinché la compagnia arriva stremata in cima a una montagna. Sono tutti affamati, sporchi, distrutti da fame, sete e fatica e – con un effettaccio tipo TeleTubbies che simula la rifrazione dei raggi solari – la protagonista si risveglia e dice: la vedo, ecco la valle! (letteralmente, come da titolo: la vallée!) e poi “FIN” e buonanotte ai suonatori. Eeeeh? E nonostante ciò il film ha un suo perché: è lentissimo e ipnotico, drogato e drogante, nel senso che non riesci a metterlo giù nonostante l’azione pressoché nulla e il finale stupefacente nel suo lasciarti a bocca asciutta. La Nuova Guinea, è un’isolaccia immensa, pressoché disabitata se non da tribù che vivono su altipiani a 2000 metri e senza quasi risorse alimentari (ho appena letto Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond, bellissimo, sull’evoluzione dell’uomo e ‘sti poveretti sono (stati) cannibali per la drammatica mancanza di proteine nella loro dieta). Per altro gli indigeni seminomadi sono fisicamente stranissimi, come degli aborigeni australiani, ma più scuri, con niente in comune con gli orientali né tanto meno gli occidentali. I paesaggi sono maestosi: sembrano alpini, ma con foreste intricatissime, ed è sempre nuvolo, con una percepibile umidità che solo a guardare il film mi sentivo venire i reumatismi. Sono andato su Google Maps a dare un’occhiata e in effetti è ovunque chiazzato di nuvole. La colonna sonora (per canzoni) è dei Pink Floyd, contenuta nell’album Obscured By Clouds, come la valle paradisiaca, sconosciuta e introvabile in quanto non fotografata nelle ricognizioni aeree perché oscurata dalle nubi. La musica è usata poco e male ed è un peccato perché è una delle opere più originali dei Pink. Realizzata in due settimane, praticamente buona alla prima, ha un piglio rock niente male (dall’hard fino a due pezzi invece inusitatamente pop, con David Gilmour in bella evidenza) e stupisce al confronto del coevo Dark Side of the Moon. O forse mi piace perché c’è quell’inconfondibile sonorità, ma su pezzi non così rifiniti, non cesellati, puliti, quasi asettici come nel capolavoro di cui si celebrano in questi giorni i 40 anni con edizioni clamorosamente costose e ricche (di roba inutile: un capolavoro per pulizia progettuale e interpretativa ti viene rivenduto con gli scarti zozzi? mah!). La protagonista Bulle Ogier è interessante, sembra una bambolina, così compita coi suoi occhioni azzurri e i capelli biondi. Gli hippie invece sono mostruosi, non particolarmente convincenti come attori e ce n’è uno che a un certo punto indossa il chiodo da metallaro… in Nuova Guinea! Alle volte, i corto circuiti temporali e climatici, mah! Il film l’ho cominciato a guardare in treno sul computer e al 15° minuto ‘sti qui trombano, come se fosse la cosa più normale del mondo. E forse lo era. (Quando sarebbe interessato a me, no. Dopo neanche. Oggi neppure). Comunque non potevo vederlo col timore che arrivasse alle spalle un controllore mentre due copulano sullo schermo. Vabbeh, l’ho spento e rivisto con più calma a casina mia. Interessante spaccato di vita quotidiana, nevvero? (29/10/11)

ddv7607889 – La libertà irripetibile di Alpe del Vicerè 1973 e Re Nudo di Luigi Salvaggio e Dario Vergani, Italia 2010
Raccolta di documenti visivi (che si accompagnano a un divertente libro di Matteo Guarnaccia) che rinuncia programmaticamente alla forma filmica e alla nostalgia. Si tratta di diversi reperti storici dei primi raduni pop in Italia, genuinamente underground e realizzati con pochi soldi e tanta energia e idee. Le immagini sono attualizzate con interviste ai testimoni dell’epoca, realizzate tecnicamente un po’ coi piedi e con poca severità nei tagli, ma comunque interessanti e congruenti allo spirito rievocato. E non puoi che voler bene a queste persone che non ostentano alcun reducismo post sessantottino. Nelle immagini vediamo maree di giovani e c’è meno politica “parlata” di quanto si possa credere, piuttosto tanta politica praticata. Le sequenze di Alpe del Vicerè sono straordinarie e c’è un Battiato che se non lo vedi non ci credi. Ha una testa di capelli che al confronto Angela Davis era una dilettante calva: magrissimo e simpaticissimo, era già geniale allora, ma questo lo sa chiunque abbia ascoltato Fetus. Tra i protagonisti dell’epoca anche Finardi che racconta sullo sfondo di San Michele di Pagana, tra Rapallo e Santa Margherita. Quando lo vedo, penso: ma quegli scogli io li conosco! Incredibile: questo va da sempre nella spiaggia in cui andavo io da bambino (ho un evidente legame sotterraneo con Eugenio Finardi: veniva d’estate anche a Champoluc e oggi abita vicino a me: prima o poi devo intervistarlo). Dopo questo tuffo nella memoria, emozionante e per nulla compiaciuto, mi son rifatto la bocca con il finale del grandioso Trappola d’amore, un disastroso thriller sentimentale con un risibile Richard Gere al top della forma, tra pianti e scenate isteriche: prima o poi si impone una visione integrale con doverosa disamina critica. (3/11/11)

ddv7608890 – Il grande freddo di Drive, di Nicolas Winding Refn, USA 2011
Raggelato, stilosissimo, intrigante: il kitsch anni Ottanta che diventa stile. Mi ricorda uno Scorsese, ventenne nei temi e cinquantenne nella forma, ma c’è molto di più, è chiaro. C’è il Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, per esempio, e altre cose ancora che i critici seri sanno e io non ricordo più e neanche ho voglia di farlo. Drive è girato benissimo, con una lentezza ostentata che va di pari passo col mutismo del protagonista: non ricordo se l’ha detto Ryan Gosling o Refn proprio, ma sarebbe un sogno, o potrebbe esserlo, con le sequenze finali come uniche ambientate nella realtà. Ma non mi interessa, il film viaggia bene così. Titoli con lettering e colori fluo a sottolineare la curiosa adesione estetica di cui dicevo: si veda anche la musica di plastica, decisamente azzeccata (anche se a film finito non la sentirei manco sotto tortura). Bravi gli attori, bello il montaggio e intelligenti le piccole deviazioni narrative che ti ingannano per pochi secondi. (12/11/11)

ddv7609893 – Altrimenti ci arrabbiamo!, sempre!, di Marcello Fondato, Italia Spagna 1974
In realtà lo abbiamo visto a rullo per un mesetto circa, ma con continuità io l’ho rivisto solo stasera. E con che stolido piacere, signori miei. Pochissimo dialogo, tutto memorabile però, nella sua semplicità archetipica: quando l’ho visto nell’agosto 1979 ricordo che con Pier Paolo citavamo a memoria – e dopo una sola visione – tutte le frasi del duo Bud and Terence, manco declamassimo versi dell’Ariosto. E oggi lo vedo fare a mia figlia. I due protagonisti erano in stato di grazia e affiatatissimi, ma anche i personaggi di contorno sono perfetti (su tutti Donald Pleasance!), così come le caratterizzazioni (i duri della banda nemica, il killer Paganini). Le musiche dei fratelli De Angelis alias Oliver Onions sono eccezionali (e non solo la frizzante Dune Buggy, anche il Coro dei pompieri, Across the Fields che accompagna il rally iniziale e Il ballo, in tutte le scene danzerecce). Un giorno m’è venuto lo sghiribizzo di fare un controllino e ho verificato che lo stadio era quello dell’Atletico Madrid (Google Map è uno strumento prodigioso: certe volte passo un’ora a passeggiare virtualmente in posti che conosco. Sono un cretino, lo so). Poi ho googlato e trovato un sito con estensione Tokelau di un simpatico matto che ha perlustrato Madrid ritrovando tutti i luoghi del film 40 anni dopo. Vabbeh. Di solito coi film amati nell’infanzia, quando si rivedono dopo tanto tempo, si prova una sensazione agrodolce, scoprendo quanto fossero irrisolti, salvati dalla benevolenza della memoria. E invece no: Altrimenti ci arrabbiamo sta in piedi non solo dignitosamente, ma proprio benissimo e potrebbe correre la maratona. L’incasso fu stratosferico e non ho né voglio cercare le pezze d’appoggio, ma insieme a Fantozzi e a Ultimo tango a Parigi credo sia uno dei film più visti dal popolo italiano. D’accordo che c’erano le seconde visioni, le terze e i parrocchiali (io il film – del 1974 – l’ho visto al cinema sia nel 1979 che nel 1980) e la televisione era quella del monopolio Rai (e non ancora del monopolio Nano), ma Benigni, Aldo Giovanni e Giacomo, Zalone e Giù al sud, gli fanno una pippa ad Altrimenti. E anche non fosse un semplice calcolo sui biglietti staccati o sugli incassi, io parlo proprio di immaginario, perché non c’è persona tra i 40 e i 50 che non sia stato segnato dalla visione di questi film. Comunque che si continui a parlare d’incasso più grosso di tutti i tempi basandosi solo sul valore nominale dell’incasso e non sull’effettivo valore considerando la svalutazione, beh, è una coglionaggine che non ha veramente senso. (5/12/11)

ddv7610895 – Voglio i Gremlins di Joe Dante, USA 1984
Approfittando del sonno pomeridiano della piccola Elena, Sofia e io ci concediamo una peccaminosa visione di un film che mamma Barbara sconsiglia. Ma vinciamo noi e, non avendo visto il film all’epoca, capisco a chi si riferisca il nome della band attualmente à la page dei Mogwai. Noto anche che il mio amore Phoebe Cates era proprio patatissima, nonostante certe camicette emetiche tipicamente anni Ottanta. Invece il protagonista non l’ho mai più visto. Dunque: siamo alla vigilia di Natale e un inventore senza arte né parte regala al figlio un curioso mostricciattolo peloso scovato in un robivecchi cinese. Ma, attenzione: niente luce, niente acqua e guai a dargli da mangiare dopo mezzanotte. Cose che puntualmente accadono e mentre sulla tivù girano prima La vita è meravigliosa e poi L’invasione degli ultracorpi, la cittadina viene invasa da mostruose creature devastatrici. È una fiaba di Natale horror, dove il buonismo spielberghiano viene sbeffeggiato (complice Spielberg stesso che produce). Rimandi cinefili e tanta ironia: altro che E.T.: questi gremlins sconquassano lo status quo, pervertono e perturbano anarchicamente tutto, sfasciano, fumano, sbevazzano, fanno pure giustizia dei tanti personaggi negativi della cittadina, ma ovviamente l’orrore sano non può vincere su quello reale, di un paese ormai finto, che finge di credere a Babbo Natale e che si sente assediato dagli stranieri (tantissime volte, se ne parla e si vedono prodotti esteri). Insomma, ne esce un film più intelligente di quanto vuol dare a vedere – con la sua estetica infantile e smaccatamente falsa (ma i mostri finti in modo pacchiano sono anche un omaggio alla fantascienza maccartista degli anni Cinquanta). Però rimane il solito problema: si ride e si scherza e si dicono pure cose non banali, ma il film non va bene per gli adulti (a meno che non siano un po’ rimbambiti) né per i bambini, perché al di là della vicenda (molto prevedibile) i temi sono fin troppo alti. Sofia ha visto tutto senza fare un plissé né reagendo al clamoroso spoiler: Babbo Natale non esiste! (9/12/11)

ddv7611897 – Fumata nera per Habemus Papam di Nanni Moretti, Italia 2011 Dvd
Naaaa. Non riuscito. Parte con un tema interessante che però non viene granché sviluppato: la solitudine della scelta di un uomo sembra lasciata esattamente al protagonista e la regia e la trama non provano a darci altre indicazioni. Un po’ comodo, quando invece si indugia su stupidaggini autoreferenziali (la partita a pallavolo che non finisce più, il tormentone prevedibilissimo della mancanza di accudimento) o alcune macchiette irritanti (il giornalista del Tg2 che poi, per fortuna, viene perso di vista). Un’occasione persa, insomma. C’è l’intelligenza di Moretti, ci mancherebbe, ma anche tante scorciatoie che lasciano l’amaro in bocca. A me che Nanni faccia Nanni, un po’ incazzoso e monomaniaco, non dispiace. Oh, è ben per questo che lo abbiamo amato, ma non si può cadere nella parodia di sé. Cosceneggiatori Francesco Piccolo (che ha venduto mille milioni di copie di un trascurabile liberculo intitolato Momenti di trascurabile felicità) e la genovese Federica Pontremoli che mai sono riuscito a incrociare tra Lumière e altro. (11/12/11)

ddv7612899 – Le colpe dei padri… Children of the Revolution di Shane O’Sullivan, Irlanda/Germania 2011
Curioso documentario dal repertorio iconografico storico clamoroso che racconta la storia di due madri “rivoluzionarie”, Fusaku Shigenobu e Ulrike Meinhof, e delle loro figlie, figlie della rivoluzione, senza padri e sballottate per il mondo, senza identità. Il film è apologetico e non “critico” o storiografico: sceglie di non dedicarsi alla storia delle madri in maniera approfondita, non entra nelle polemiche sui crimini commessi o meno né si occupa granché della morte della Meinhof. Circoscrive l’indagine privilegiando gli aspetti privati ed essendo un ritratto emotivo fallisce proprio perché rimane asettico, senza far scattare una vera empatia. Mai una scintilla, dell’affetto, una partecipazione, anche tra gli stessi protagonisti. Bettina Meinhof è una derelitta incarognita che ha pagato eccome per le colpe della madre, se la madre ne ha avuto, ancora ossessionata dai fan postumi. Le amiche di Ulrike che la raccontano sono delle anziane borghesi che sembrano non aver capito il travaglio della Meinhof (che a loro si ribellava) e tendono a giustificarla dando la colpa – ‘anvedi – alle cattive compagnie o ai problemi neurologici della giornalista (che si portava una bella piastra di metallo in testa che potrebbe averle cambiato la personalità). Mah. Delle due storie la più riuscita è decisamente quella di May Shigenobu, persona realizzata e dalla vita interessante. La madre Fusaku Shigenobu è stata partecipe in maniera onorevole, proprio secondo l’accezione giapponese – che non conosco, ma ci siamo capiti – della lotta palestinese per la libertà, assieme al FPLP, e non si può che provare simpatia quando la traducono in carcere, indifesa, innocua, dopo 30 anni di latitanza e lotta ideale, giacché dopo la partecipazione ai dirottamenti degli anni Settanta non ha più fatto nulla, se non vivere in fuga. I vecchi compagni della Shigenobu sono invece dei mai domi compagni nipponici, sorridenti, capaci di ironia, ancora irrequieti. Come del resto lei, di cui si vedono le immagini della cattura nell’aprile 2011, salda e sicura. Edizione sottotitolata in inglese quando i protagonisti non lo parlano direttamente (alcuni militanti palestinesi in maniera atroce e incomprensibile). Film interessante, non so quanto riuscito. (16/12/11)

(Continua, forse – 76)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 53 https://www.carmillaonline.com/2013/09/27/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-53/ Thu, 26 Sep 2013 22:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9539 di Dziga Cacace

It’s late September and I really should be back at school (Rod Stewart)

ddv5301522 – Sempre attuale, Sistemo l’America e torno di Nanni Loy, Italia 1974 Altro straculto della mia adolescenza, visto più volte in pace con mia sorella Francesca quando il possesso del telecomando era ancora questione di rapporti di forza. L’impacciato Giovanni Bonfiglio da Busto Arsizio è in affari in USA per conto di un volgare industrialotto brianzolo. Viene incaricato di portar con sé in Italia anche un giovane campione di pallacanestro, per la Frigor, la squadra di famiglia del paròn. Bonfiglio (un Villaggio misuratissimo, prima [...]]]> di Dziga Cacace

It’s late September and I really should be back at school (Rod Stewart)

ddv5301522 – Sempre attuale, Sistemo l’America e torno di Nanni Loy, Italia 1974
Altro straculto della mia adolescenza, visto più volte in pace con mia sorella Francesca quando il possesso del telecomando era ancora questione di rapporti di forza. L’impacciato Giovanni Bonfiglio da Busto Arsizio è in affari in USA per conto di un volgare industrialotto brianzolo. Viene incaricato di portar con sé in Italia anche un giovane campione di pallacanestro, per la Frigor, la squadra di famiglia del paròn. Bonfiglio (un Villaggio misuratissimo, prima dei Fantozzi di pregio e poi di quelli ripetitivi e scadenti) ha però un problema: Ben Ferguson (l’incredibile Sterling St. Jacques, ancora senza le lenti decolorate che – vuole la leggenda metropolitana – lo avrebbero fatto diventare cieco) è un attivista delle Pantere Nere che, prima di partire per l’Europa, vuole sistemare due o tre cose. E si tratta di politica, famiglia e amore. La strana coppia attraversa l’America, con l’impiegato – che sa a malapena l’inglese – che deve inseguire un rivoluzionario nero. Assieme, i due si conoscono e gradualmente (Ferguson a Bonfiglio: “Ora mi piaci 10%” e via di seguito, in crescendo percentuale) diventano amici, aggregandosi anche a un gruppo di sballoni hippie. Il travet impara a rispettare le donne e ad apprezzare l’arte primitiva black (con l’immortale battuta al poliziotto che lo mena e che gli chiede se gli piacciano i quadri esposti in una sede delle Black Panther: “Mi laikano moltissimo… vaffanculo!”). E se prima i suoi problemi erano i cessi a pagamento e la mania negli alberghi yankee di inamidare tutto, adesso diventano il sistema sanitario, la violenza della società, la solitudine e il problema dell’integrazione razziale. Finisce grandiosamente male, ma è un pregio straordinario: un tempo ci si permetteva di non addolcire la pillola e non si trattava di furori politici compiacenti col pubblico giovane. Detto schiettamente, l’ho ritrovato bello, ma sul serio, senza macchiette e caricature, con un’asprezza politica controllata ma non riconciliata.  Ed è un film che oggi non sarebbe possibile realizzare perché verrebbe subito bollato come antiamericano, sovversivo e, come dice quello là, “cumunista”. Mi piace 90%: credo che lo rivedrò ancora. Più volte, lo merita. (Vhs da RaiUno; 17/02/05)

ddv5302523 – Prima e dopo di un rimbambito, USA 1996
Venerdì sera placido. Stanchi morti, evitiamo di rimaniere invischiati nel pessimo Vertical Limit su Italia1. Accade di peggio. Seguiamo Otto e mezzo dedicato al rogo di Primavalle e alla violenza degli anni Settanta (per conto mio in studio troppi fascisti, ex e post). Durante il dibattito, Barbara crolla in letargo come un plantigrado. Io – per non tornare alla violenza succitata, perché ce ne sarebbero i motivi a sentire cosa dicono in trasmissione – comincio a giocare al solitario sul PC (Spider, magnifico per assentarsi mentalmente) e non mi accorgo che l’emissione di La7 ci traghetta a Prima e dopo, drammone drammatico di Barbet Schroeder di cui non ricordo neanche l’uscita cinematografica. Toccare il telecomando stretto tra le sue braccia conserte significa svegliare la gravida e subirne l’indignazione, per cui subisco il filmaccio. Trattasi di genitori alle prese con figlio assassino per breve attimo di follia. C’è l’avvocato spregiudicato che vuole salvarlo, c’è il babbo generoso e testone che distrugge le prove e c’è la madre che – d’accordo che i figli so’ piezz’e core, ma qui non siamo in Italia – vuole però la verità. Intanto i concittadini fanno telefonate minatorie e spaccano i vetri alla famigliuola. Una solenne pellicola di merda, registicamente fiacca, con attori imbalsamati e nessun guizzo. Il babbo è Liam Neeson, attore cane quant’altri mai e inspiegabilmente considerato bel fustacchione pur presentando un profilo con la fronte schiacciata come un australopiteco. Mammà è la democraticissima, ingenua e onesta Meryl Streep, dalla recitazione ormai anestetizzata. Il piccolo assassino involontario è quell’Edward Furlong, già monello bestiale in Terminator 2. La prima parte del film l’ho per lo più ascoltata, la seconda – con Barbara rediviva e schifata – l’ho vista proprio. Uno strazio incomprensibile per un regista un tempo dignitoso. A fine pellicola la Streep vuota il sacco e la vicenda shifta verso la fantascienza: il giudice è comprensivo, capisce l’incidente e condanna il ragazzino a soli 5 anni (2 con buona condotta etc.: i leghisti farebbero un casino della miseria). Tutto ciò mentre io pensavo: burn, baby burn! Ho assistito al film in pura ottica genitoriale: PAURA! E per il carattere fecale del prodotto e per le visioni da incubo che evocava, tipo mia figlia a 13 anni vestita come una velina, con la vita dei calzoni sotto le ginocchia, mentre ciancica rumorosamente una cevingomma e con aria strafottente mi dice le fatidiche parole: “Tu non hai mai capito un cazzo!”. Aaaargh! (Diretta tv su La7; 18/02/05)

ddv5303524 – Di corsa!, Chariots of Fire di Hugh Hudson, Gran Bretagna 1981
Sabato sera, dopo cena Barbara si stende sul divano tenendosi la ventrazza. Io produco il confettino per la serata, un Dvd prezioso. Lei sbuffa ma tanto so che ronferà dopo pochi minuti. 1919: a Grande Guerra finita, il Regno Unito è pomposo, legnoso e classista e il giovane Harold Abrahams vuole emergere, sconfiggere i pregiudizi e diventare parte della nazione che ha accolto suo padre, immigrato ebreo lituano. Nel college di Caius a Cambridge trova cavallereschi compagni d’avventura e – correndo correndo – arriverà con loro fino a Parigi, per i Giochi Olimpici del 1924. Parallelamente alla crescita agonistica e umana di Abrahams, seguiamo l’edificante storia del pastore protestante Eric Liddell, diviso tra fede e voglia di correre. E vincere, come farà nel modo più inaspettato, in una specialità non sua (i 400 metri), rifiutando di correre i 100, le cui batterie di qualificazione si tennero la domenica, il giorno del Signore. Oleografica e compiaciuta ricostruzione del bel mondo che fu, senza alcuna vena critica del Sistema (anche se Lindsay Anderson come rettore del college è un bello sberleffo, per chi lo coglie), Momenti di gloria è stato, per me dodicenne, il film perfetto. A un’età in cui tutto il cinema è bello, senza se e senza ma, che cosa mi poteva fregare dell’accondiscendenza di Hudson? Cosa potevo desiderare, più di una storia di onore, riscatto e sport? E ora, anziano e bolso, non mi sposto di un millimetro: sono altri i film che devono fare la Rivoluzione, questo deve solo regalarmi il dolce sapore del ricordo. Mi aspettavo un film lento, impacciato registicamente, un po’ piatto. A rileggere le critiche di allora, sembra che fosse un film vecchio, una sòla. E invece, con grande sorpresa, ho trovato un’opera moderna, che gestisce con estrema intelligenza il montaggio (specie nelle gare) e mette a frutto in maniera superba uno score musicale in alcuni momenti straniante, in altri trascinante (trattasi di Vangelis elettronico). Fotografia stilosa, movimenti di camera accurati, recitazione superiore (con Ian Holm su tutti). Degli attori protagonisti, purtroppo, poi s’è visto poco, ma questo film li consegna, se non alla storia del cinema, perlomeno alla mia personale storia del cinema, che francamente mi è più cara. Un po’ di ricordi: una serata dell’estate del 1986, a Champoluc, Pier Paolo e io che entriamo in casa di Luca Ruffinato alle 20 e 30 e lo costringiamo a farci vedere Momenti di gloria, gli piaccia o no. E poi, la prima volta, nella primavera del 1982, nell’allora cinema parrocchiale della chiesa di San Francesco d’Albaro di Genova, l’odierno pessimo Ritz: una domenica pomeriggio, mio padre ed io, lui con un cuscino per ovviare alle tremende sedute in legno. Film commovente e pieno di memorie. Per me, il massimo. (Dvd; 19/02/05)

ddv5304525 – All That Jazz, e non basta mai, di Bob Fosse, USA 1979
Altro che Chicago, salutato due anni fa come il nipotino erede della bellezza di questo All That Jazz. Quello era una liberatoria cagatina come da titolo, questo è quasi un capolavoro. Dico “quasi” perché son venuto su così, rompiballe, e devo notare che nel prefinale (il delirio malato del regista Joe Gideon che mette in scena le sue ardite fantasie coreografiche) avverto un po’ di stanchezza e ripetitività. Ma avercene di film così. Joe (Roy Scheider) sta allestendo il suo musical più audace, è al termine del montaggio di un film su uno stand-up comedian e tenta di salvare qualcosa della sua vita privata. Una sigaretta dopo l’altra, pasticche a gò-gò, alcol, l’immancabile scopata, poco sonno, molte incazzature, lezioni di vita dalla figlia e troppi pescicani da evitare: la facciata pubblica di Gideon è tutta di successo, quella nascosta, un disastro. E poi il braccio sinistro è un po’ troppo dolorante. Montaggio stupefacente (da Oscar) che dà i punti a tanti esagitati odierni che credono che la velocità sia data dal numero di stacchi e non dalla sapienza degli stessi. Gran colonna sonora, coreografie geniali, fotografia coloratissima di Giuseppe Rotunno e ruolo della vita per Scheider (che non delude). Grandissimo film, una gioia per occhi e orecchie. (Dvd; 22/02/05)

ddv5305526 – L’occhiuto My Little Eye di Marc Evans, USA 2002
Un horror, tanto per gradire, e attenti che racconto il finale, caso mai vi pungesse vaghezza di vederlo. Dunque: siamo molto casalinghi e, convinti da buone recensioni, ci buttiamo su questo Grande Fratello estremo: cinque ragazzi chiusi in una casetta, nella neve, senza sapere dove ci si trova, con l’obbiettivo di resistere fino all’ultimo giorno per dividersi il premio finale. Ma qualcosa non convince i partecipanti e il paranoico Rex sostiene che li vogliano ammazzare tutti, nello snuff movie definitivo, in diretta Internet. Arriva un ospite inaspettato che si tromba la più arrapata del gruppo e poi se ne va. Crescono i sospetti. Chi paga per tutto questo spettacolo? E qual è il prezzo? La prima vittima s’impicca. La seconda rimane sacchettata, la terza accettata, la penultima (che ha già provato a far secchi tutti) sparata. L’ultima rimane ferita in un mattatoio e il film finisce nella tragica attesa. Agghiacciante. Atmosfera alla Blair Witch Project in un bel prodottino, cattivo, amaro, abbastanza lento a ingranare, un po’ troppo veloce nel risolvere, ma c’è più di un momento di bella tensione. Discreto. Cassetta affittata da Blockbuster che soffre di un riversamento a tutto schermo, immagine spanata, neri che sono grigi spappolati: un’autentica merda, insomma. (Vhs originale; 24/02/05)

ddv5306527 – Lo strazzacore Million Dollar Baby di Clint Eastwood, USA 2004
Cautela con lo spoilerone, eh? Il vecchio allenatore di boxe Frankie Dunn (Eastwood) va tutte le mattine in chiesa a cercare una risposta, attraverso quesiti che hanno una solo risposta: la fede. Nella sua palestra arriva ogni giorno Maggie (Hilary Swank), trent’anni, cameriera che risparmia al centesimo e che, con gli avanzi di carne dei clienti, fa finta di farsi il doggy bag pur di mangiare lei un po’ di proteine. Il sogno? La boxe professionistica. Frankie non la vuole tra i piedi ma dagli e ridagli, si forma l’accoppiata. Allenamenti, combattimenti e i saggi consigli dell’ex pugile Eddie Scrap con l’occhio guasto ma che vede lontano (Morgan Freeman). Clint è scolpito nel legno, Hilary ha una gran bella faccia: la coppia funziona, fino al match che risulterà fatale. Maggie rimane paralizzata e realizzo: qui finisce che non si scopa, sai? Infatti il paterno Frankie la eutanasizza in un finale straziante. Film solido e commovente, non perfetto, ma dignitoso. C’è una prima parte gagliarda, molto Rocky ma con classe (“coglionazzo!”), con intreccio edipico accluso. La parte centrale, con l’ascesa di Maggie, è un po’ tirata via, ma la conclusione nobilita il tutto. Siccome si fa fatica a trovare film decenti, s’è parlato di capolavoro. Non è vero, ma Eastwood è l’ultimo della vecchia scuola che sa raccontarti una storia senza ricorrere ai maghi degli effetti e del marketing. Scrive e gira film classici come non se ne vedono più e in questo caso non rinuncia a qualche bell’interrogativo (la fede, il rapporto padre-figlia, l’eutanasia, il diritto a sognare). Visto all’Orfeo con luci accese al primo titolo, incomprensibili gelidi spifferi condizionati e invadente sonoro delle altre sale. Il cinema è nuovo e si merita un vaffanculo a braccio levato. Film visto la sera prima della vittoria agli Oscar. (Cinema Orfeo, Milano; 25/02/05)

ddv5307528 – L’ortodontico Marathon Man di John Schlesinger, USA 1976
Is it safe? Is it safe? Negli occhi, fin da adolescente, le immagini di un dentista dai capelli d’argento. Finalmente sento la voce originale di Sir Laurence Olivier che chiede insistentemente se sia “sicuro”. E intanto pinze, tenaglie e bisturi penetrano nella polpa. Aaaargh. Gran thrillerone ricco di suggestioni, questo Maratoneta: c’è una New York autunnale dove, nascosti nella folla, si nascondono nazisti e spie del governo molto poco affidabili. C’è un Dustin Hoffman assolutamente poco credibile nei panni dello studentello Babe Levy (ha quarant’anni e qui li dimostra più che nei film che sarebbero seguiti), ma perfetto come uomo investito dalla Tragedia, dal Dubbio e dalla Vendetta. E poi c’è Roy Scheider, tonico e con la faccia dura come il cuoio lavorato di una sella. A poco a poco si viene presi dentro la rete vischiosa (e non chiarissima) dell’intrigo e non si fa più caso a facce troppo vissute: il nazi Szell, conosciuto come Weisse Engel quando operava ad Auschwitz, ha una fifa boia che, fuori da una banca di New York, ci sia qualcuno ad aspettarlo per fottergli la valigetta con dentro la cascata di diamanti che gli ha lasciato il fratello. Manhattan è piena di ebrei e di reduci dai campi e lui, trent’anni dopo, è ancora troppo riconoscibile. Per cui, ripetiamo la domanda: “è sicuro?”. L’ho visto la prima volta al liceo, con mia sorella terrorizzata. L’ho rivisto poi, ma mai negli ultimi quindici anni, anche se posso vantare la lettura del libro di William Goldmann da cui è tratto. L’allucinante parte dentistica e di fuga (preponderante nel ricordo) è in realtà abbastanza breve, ma incisiva e ha sicuramente influito sull’igiene orale di tantissima gente del mondo che ha preferito tenersi le carie piuttosto che farsi mettere gli strumenti odontotecnici in bocca. A corredo del film, due documentari: il primo, del 1976, è una divertente – perché tronfia – autocelebrazione in cui il produttore Evans magnifica le qualità della pellicola. Il secondo, del 2001, è più dettagliato e ricco d’interviste, ma anche un po’ ingessato e anonimo, con tutti i protagonisti 25 anni dopo, chi invecchiato bene (Marthe Keller, per esempio) chi male (Scheider, che sembra Emilio Fede sciolto). Gran film. (Dvd; 27/02/05)

ddv5308529 – From Hell di Allen e Albert Hughes, USA 2001
Jack lo Squartatore, il primo serial killer della Storia; una vicenda classica, bella pronta da aggiornare secondo il truculento gusto moderno: i direttori del marketing della casa produttrice si saranno date grandi pacche sulle spalle per l’ideona. Londra, 1883; nel malfamato quartiere di Whitechapel, sventrando prostitute, si esercita quel mattacchione di Jack the Ripper. Sulle sue tracce si mette un visionario investigatore, oppiomane e incline all’assenzio: scopre la verità, s’innamora di un puttanone dal cuore d’oro, deve rimangiarsi tutto perché è coinvolta la famiglia reale, infine muore solo. Johnny Depp ha lo sguardo allucinato giusto e sembra sempre in debito di qualche doccia, Ian Holm dà la consueta lezione di classe estrema e Heather Graham sgrana occhioni e tettone (la poveretta è prigioniera di un’industria che la tratta come Serena Grandi). C’è pure la povera Katryn Cartlidge, morta prematuramente ma viva nel ricordo cinefilo di chi l’ha conosciuta durante gli anni Novanta. Confezione curata, bella fotografia. Non credo abbia avuto alcun riscontro particolare al botteghino: pescava nel torbido ma con sfortunata anticipazione della moda del complottismo di templari e massoni, che hanno sbancato due anni dopo con Il codice Da Vinci (romanzo pedestre e inconsequenziale, ma furbo come pochi). Difetti di From Hell? Qualche prolissità, rapporto Depp/Graham prevedibile, personaggio di Holm molto rozzo (prima buonissimo, poi efferato, senza mediazioni e ambiguità). Ad ogni modo film passabile, mentre Milano si ammanta di candida neve e sulla nazione imperversa il festival di Sanremo, il reality canoro definitivo dove i management inventano coppie come Toto Cutugno e Annalisa Minetti. (Pochi lo sanno ma lei ha protestato invano: “Avevo semplicemente chiesto un cane guida”). (Che cattiveria gratuita). (Dvd; 2/03/05)

ddv5309530 – The Thir13en Ghost di un onesto cialtrone, USA 2001
Un ricco pazzo che gode nell’imprigionare spiriti irrequieti e un poveretto – vedovo e con famiglia carico – che eredita la straordinaria casa di vetro dove gli spiritelli sono rinchiusi. Si parte malissimo, con una prima scena che fa temere il peggio per montaggio esagitato, musiche sparate a tutto volume e recitazione allo stato brado. Poi, cambiata location, il film si fa vedere anche perché la cornice scenografica è strepitosa e la trama viene dipanata con diligenza, senza far danno. Extra con borioso racconto della produzione da parte di Joel Silver. Di ogni cosa (trucco, effetti speciali etc.) viene ingigantita la lavorazione, magnificando ore di lavoro, energie profuse e professionalità spese. A dire il vero, mi sembra tutta una ganassata poco credibile, ma agli yankee piace così. Film appena discreto del carneade Steve Beck: per nulla imprescindibile, tutto sommato non sgradevole. Fuori dallo schermo, invece, si ha conferma che agli americani il Sismi piace solo quando piazza bombe fasciste, depista e assassina. Su Giuliana Sgrena appena liberata vengono scaricati mitra e fucili. Muore Nicola Calipari, credo l’unico uomo nella storia dei servizi segreti italiani a finire sui giornali senza infamia. Bocche cucite, imbarazzi, scuse ingessate: come si può fare la pelle a una giornalista che ha raccontato cosa siano le cluster bomb? Basta non avvertire chi pattuglia la strada verso l’aeroporto e confidare nell’arruolato americano che teme l’agguato iracheno. O far finta che. (Dvd; 4/03/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 53)

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