banalità del male – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La fabbrica della cura mentale. Storie di banalità del male in tempo di pace https://www.carmillaonline.com/2017/08/04/39424/ Thu, 03 Aug 2017 22:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39424 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2013, 176 pagine, € 14,00

«C’è una frase di De André che sempre mi accompagna nei momenti di maggior conflitto con il mio mestiere: “Chi va dicendo in giro che amo il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo…”. Credo che essere basagliano trent’anni dopo la 180, voler continuare a deistituzionalizzare, a negare l’istituzione del male mentale e dei manicomi, significhi essere un po’ bombarolo. Bombarolo come Basaglia» (Piero Cipriano, p. 56).

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di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2013, 176 pagine, € 14,00

«C’è una frase di De André che sempre mi accompagna nei momenti di maggior conflitto con il mio mestiere: “Chi va dicendo in giro che amo il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo…”. Credo che essere basagliano trent’anni dopo la 180, voler continuare a deistituzionalizzare, a negare l’istituzione del male mentale e dei manicomi, significhi essere un po’ bombarolo. Bombarolo come Basaglia» (Piero Cipriano, p. 56).

Tra il 2013 ed il 2016 Piero Cipriano ha dato alle stampe tre testi importanti a proposito della gestione coercitiva istituzionale di chi è afflitto da sofferenza mentale. Di due dei tre testi che compongono la trilogia ci siamo già occupati in passato: Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla], che ricostruisce l’avvento dell’era della psichiatria chimica e La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ove l’aspetto diagnostico è indicato come meccanismo di conferimento di identità e destino all’individuo. Non resta che presentare La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), primo volume della trilogia dello psichiatra riluttante, come ama definirsi Cipriano.

Anche ne La fabbrica della cura mentale, come negli altri libri, l’autore alterna racconti di esperienze vissute in prima persona come essere umano, ancor prima che come psichiatra, all’interno dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, a riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni e da letture di saggi e romanzi. Dunque, il testo alterna dati scientifici, esperienze tra i pazienti e storie d’invenzione.

«Se il SPDC [Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura] non è un manicomio io direi che assomiglia a una catena di montaggio. Il manicomio ricordava un campo di concentramento, il SPDC ricorda una fabbrica. Il che è un passo avanti […] Il SPDC è meglio del manicomio. Però guardiamo da vicino, trent’anni dopo la 180, come viene ricoverato nella gran parte dei SPDC d’Italia, un malato con crisi mentale acuta. Come inizia la sua carriera di malato di mente. Come, anche se il manicomio non c’è più, il malato viene ugualmente ridotto a cosa, a un corpo rotto» (p. 31). Al malato che giunge in un SPDC particolarmente agitato, trattenuto da più persone (agenti, infermieri, medici…), viene praticata una terapia sedativa prima di essere ricoverato. Se il malato manifesta (o ha fama) di essere “problematico”, viene legato al letto così, quando si risveglia, rimbambito dai farmaci, si ritrova bloccato da quattro fasce e capisce che è meglio “non disturbare”, che conviene adeguarsi alle regole del reparto, ai suoi orari ed ai suoi rituali. Una volta data prova di sottomissione, il paziente (paziente per forza), accompagnato, può uscire dalla porta del reparto costantemente chiusa ma se non si è “normalizzato a sufficienza”, anche nel caso si sia presentato in reparto volontariamente, il ricovero si trasforma praticamente in TSO.

Una volta dimesso, nel caso il paziente si dimostri ancora “grave e pericoloso”, «va in una Casa di cura Convenzionata, a far ricchi gli imprenditori della follia. Lì passa uno, due o tre mesi con l’autorizzazione del medico del Centro di Salute Mentale (CSM), così nel frattempo respira […] Prima o poi, però, esce anche dalla Casa di Cura e deve essere ripreso in carico dal CSM. Purtroppo, tranne eccezioni virtuose, è il paziente che deve raggiungere il CSM, dato che gli operatori non si possono muovere per andare al suo domicilio perché sono pochi o non ci sono le macchine o per altri motivi […] Per cui, dopo un po’, il paziente addomesticato si inselvatichisce di nuovo e si dà alla macchia […] dopo qualche settimana o mese, quello ritorna in crisi acuta in SPDC, perché i parenti o i vicini hanno chiamato il CSM […] e ricomincia il gioco della porta che gira» (pp. 32-33).

È terrificante. Ma è così che funziona la fabbrica della cura mentale. «Il SPDC è una fabbrica. Il primario è il direttore della fabbrica. Che ha una catena di montaggio a cui badare. Uno Psichiatra è un tecnico specializzato addetto a questa specie di catena di montaggio umana, dove il malato è la macchina biologica rotta, che deve essere aggiustata non con la parola, con la relazione o con un po’ d’umanità, ma con il farmaco» (p. 33).

Già, la psichiatria chimica si sostituisce alle parole perché queste, continua Cipriano, gli psichiatri le conservano «per il pomeriggio, per lo studio privato, per i pazienti più danarosi, meno gravi, meno malati, meno sporchi, più colti, quelli più piacevoli da vedere (della stessa classe sociale del terapeuta, si sarebbe detto in altri tempi). In SPDC basta il farmaco. E se non basta ci sono le fasce» (p. 33). Ma se farmaco e fasce non bastano, ecco che «il paziente viene inviato di soppiatto, senza dirlo troppo in giro, in qualche casa sicura attrezzata per la terapia elettrica, terapia che […] se non altro toglie la memoria e la consapevolezza di sé» (p. 33). Grazie l’elettrochoc il malato viene internato per qualche mese ed il medico può rifiatare in attesa di ritrovarselo alle porte del reparto.

Cipriano dedica qualche pagina al lessico adottato dai medici; un linguaggio incomprensibile ai più che contribuisce a mantene i camici bianchi unici depositari del “segreto della salute e della malattia” ed intanto ai tirocinanti viene insegnato a riconoscere i sintomi, così da poter collocare il caso in un quadro clinico al fine di formulare una diagnosi, quella diagnosi che, come ottimamente spiegato dal Nostro psichiatra riluttante nel volume La società dei devianti, conferisce identità e destino all’individuo.

Tornando ai Dipartimenti di Salute Mentale italiani, sostiene Cipriano, la Legge 180 del 1978 è male applicata in buona parte di essi, visto che, in molti casi, non viene messa in discussione la centralità del ricovero, il primato della clinica rispetto ai luoghi della vita delle persone. Roberto Mezzina, psichiatra del DSM triestino, denuncia questa logica sottolineando come non vi sia alcuna necessità scientifica di confinare l’individuo in un luogo se non lo si concepisce come “corpo da custodire” affinché questo venga controllato e “riparato” prima di restituirlo al corpo sociale. Dunque, aggiunge Cipriano, si tratta di un’operazione di controllo e «per far sì che la questione del controllo sociale dell’emergenza urbana non si concluda inevitabilmente con l’arrivo nel luogo magico del pronto soccorso, e con il passaggio ultimo e definitivo nel SPDC, è necessario ripensare i servizi territoriali, i cosiddetti Centri di Salute Mentale, spesso ridotti a meri ambulatori dove si prescrivono psicofarmaci» (p. 38).

Cipriano indica alcuni esempi alternativi di trattamento dei malati; tra questi i CSM aperti ventiquattro ore al giorno triestini, che ospitano i pazienti in luoghi aperti basati sulla relazione e non sull’internamento coatto, e il modello di cura alternativo Soteria, ideato dallo psichiatra americano Loren Mosher, basato su un’abitazione ospitante un numero ridotto di individui affetti da primi episodi di psicosi in cui non si ricorre ad alcuna etichetta nosografica e, soprattutto, si selezionano gli operatori in base alle loro caratteristiche di empatia e disponibilità. Tra i motivi della scarsa diffusione di tali modalità di cura alternative, Cipriano indica come secondo alcuni psichiatri critici «il vero motivo del dogma della farmacologizzazione precoce delle psicosi è la forte collusione [degli operatori e delle istituzioni] con le multinazionali dei farmaci e le università, grazie alla quale si è mantenuta, in cinquant’anni di psicofarmacologia, la stessa approssimazione degli anni Sessanta» (p. 40). È talmente strutturata l’idea che terapia psichiatrica significhi somministrazione di psicofarmaci che lo psichiatra che anche solo diminuisce la terapia farmacologica ad un paziente, rischia di essere condannato da un tribunale. «Basaglia sosteneva che gli psicofarmaci servono a sedare, più che il malato, l’ansia dello psichiatra» (p. 42).

Nel volume ci si sofferma anche sulla pratica del legare i pazienti con disturbi psichici. Pratica che, nonostante non sia menzionata dai libri di psichiatria, continua ad essere diffusamente praticata. Il ricorso alle fasce di contenzione, secondo Cipriano, è diffuso anche a causa di carenze legislative ma questo non basta a spiegare il fenomeno. Nemmeno la motivazione economica (legare costa meno che aumentare le risorse umane nei reparti), secondo lo psichiatra riluttante è sufficiente a spiegare il diffuso ricorso a tale pratica. Probabilmente si tratta di «una questione di etica e di cultura» (p. 53). Occorrerebbe cambiare la testa degli operatori.

«Quando un matto agitato viene catturato dalle forze dell’ordine, ammanettato e portato nel pronto soccorso di un ospedale, e lo psichiatra non fa altro che sostituire le manette con le sue fasce, ecco, in quel caso non ha fatto lo psichiatra, ma ha fatto il poliziotto, si è adeguato alla misura poliziesca, ha fatto l’antipsichiatra, insomma. Per cui io ribalterei la vecchia dicotomia degli anni Settanta tra psichiatria e antipsichiatria. Il vero antipsichiatra per me non è colui che ricusa le fasce, ma è colui che lega; viceversa, il vero psichiatra non è colui che lega, ma colui che non accetta di adoperare le fasce» (p. 54).

Riflettendo sul ricorso alla contenzione da parte di tanti operatori, Cipriano riprende le riflessioni di Hannah Arendt circa la banalità del male; in effetti, sostiene, questi operatori che ricorrono alle fasce non sono sadici torturatori, eppure lo fanno. Riprendendo e parafrasando brillantemente l’incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj – “Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” – Cipriano giunge alla conclusione che «ogni psichiatra che non lega si assomiglia; e non lega per un motivo molto semplice, perché ha compreso che non è giusto, non è terapeutico, anzi è antiterapeutico, è una tortura, è un crimine. E per questo è felice […] uno psichiatra che non lega è felice. Viceversa, ogni psichiatra che ritiene giusto, utile, terapeutico legare un altro uomo “è infelice a modo suo”» (p. 55). In tale varietà di “infelici” c’è chi lega per paura, chi perché è autoritario, chi perché semplicemente lo ha sempre fatto senza chiedersi nulla, chi perché di notte in reparto vuole dormire, chi perché non conosce bene i farmaci e via dicendo. Gli infelici legano per tanti diversi motivi. «Gli psichiatri felici, invece non legano. E non legano per un solo motivo» (p. 55).

La tortura è ovviamente qualcosa di diverso da un ricovero psichiatrico ma, afferma Cipriano, il rapporto che lega torturato e torturatore a volte non è poi così diverso dal rapporto tra il ricoverato in un SPDC e lo psichiatra che lo lega al letto. A tal proposito l’autore de La fabbrica della cura mentale riprende alcune considerazioni sulla tortura di Françoise Sironi (Persecutori e vittime) provando a confrontarle con la psichiatria coercitiva. Ecco allora che la domanda “Come si può curare chi è stato vittima di torture?”, pensando ad un paziente ricoverato in maniera coatta, magari legato e sedato, può diventare: “Come può la psichiatria curare una vittima della psichiatria?”. Oppure, se a proposito della tortura Sironi mette in luce il suo essere un’esperienza incomunicabile, avvolta dal silenzio sia da parte di chi la pratica che di chi la subisce, di cui si può, eventualmente, avere informazioni soltanto dalle testimonianze delle vittime, non molto diversa è la situazione dei ricoveri psichiatrici; chi è stato legato al letto ripetutamente per giorni e giorni, difficilmente può essere testimone dell’accaduto anche a causa della poca credibilità che gli viene concessa. In tal caso la coltre di silenzio può essere infranta solo da qualche operatore dissenziente. Altro esempio di analogie è dato dal fatto che nelle pratiche della tortura non di rado si ricorre al terrore generato dal costringere i torturati ad assistere alla tortura di altri prigionieri. Ebbene, continua Cipriano, nei reparti psichiatrici i pazienti si trovano ad assistere al bloccaggio ed alla contenzione di altri ricoverati e tutto questo non può che generare in essi il terrore che ciò possa accadere anche a loro se non si comportano secondo le regole del reparto. Oppure, ancora, nelle prigioni spesso si alternano carcerieri buoni a carcerieri cattivi esattamente come accade nei reparti psichiatrici. Nelle galere è prevista la medicazione non terapeutica a scopo punitivo, pratica diffusa anche nei reparti psichiatrici e così via…

Sul finire del libro, Cipriano, riprendendo il triste caso dell’anarchico Franco Mastrogiovanni – a cui l’autore ha fatto riferimento anche nel suo scritto “Lo specialista pericoloso” [su Carmilla] -, riflette amaramente sul ruolo che lo psichiatra si trova a ricoprire di questi tempi. «Siamo meri esecutori dei crimini in tempo di pace. Perché fuori facciamo i comunisti, i progressisti, ci iscriviamo ad Amnesty International, votiamo Sinistra, Ecologia e Libertà o Partito Democratico, compriamo “La Repubblica”, “il manifesto”, “L’Unità” o “Il fatto quotidiano”, siamo contro i leghisti che vogliono gli stranieri fora da le bal. Ma quando siamo in camice, dentro al nostro ospedale, dentro al nostro reparto psichiatrico, diventiamo carnefici come il potere ci vuole. E leghiamo la gente. E la chiudiamo dentro. E la sorvegliamo e la puniamo. Fora da le bal allo strano, al diverso, all’alienato. Nella nostra pratica professionale non siamo più comunisti, progressisti, democratici, tolleranti, ma perfetti fascisti» (p. 158).

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Etica e/del genocidio: i crimini nazisti e la responsabilità morale https://www.carmillaonline.com/2016/08/04/32322/ Thu, 04 Aug 2016 21:30:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32322 di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895). Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia [...]]]> di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).
Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale crimine.
Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato – secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica (nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una (contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio di milioni di uomini.

Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann, constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”, “inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui solitamente considerabili come “persone per bene”.

Fatto questo che aggiunge sconcerto all’orrore dinanzi alla vastità senza precedenti e senza pari della violenza scatenata nel dodicennio nazista, da molti interpretata come una cesura assoluta nel corso degli eventi umani e storici, uno scisma che ha prodotto uno iato, una soluzione di continuità non ricomponibile e che ha azzerato le capacità cognitive ed interpretative della ragione, con il conseguente approdo ad una sorta di “ermeneutica negativa” dinanzi alla indicibile incommensurabilità del male. Posizione questa della indicibilità meta-storica della Shoah che ha trovato uno dei più convinti sostenitori nel recentemente scomparso Elie Wiesel, ma che gli autori di Orgoglio e genocidio rifiutano con decisione, assumendo piuttosto un punto di vista che ci sembra riconducibile a quello adorniano della Dialettica negativa. Come diceva il pensatore francofortese, il fatto che Auschwitz sia potuta accadere in mezzo a tutta la tradizione dell’arte, della filosofia, della scienza europee, dimostrando il fallimento della cultura illuministica, non deve però condurre al disarmo della ragione, la quale conserva, anzi amplifica, la propria funzione critica e pratica, nel momento in cui deve abbandonare la pretesa panlogistica di essere riconosciuta come sostanza della realtà. «È hybris il fatto che ci sia l’identità, che la cosa in sé corrisponda al suo concetto. Ma non si dovrebbe semplicemente buttarne via l’ideale: nel rimprovero che la cosa non è identica al concetto, vive anche la speranza che lo possa diventare» (Th.W.Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1982, p. 134). Alla capacità critica della ragione è demandato quindi il compito di comprendere l’assurdo, di analizzare al fine di giudicare. Se infatti, come vogliono i sostenitori della indicibilità meta-storica del genocidio, quest’ultimo permanesse immobile nella sua tetragona incomprensibilità, allora verrebbe meno anche la possibilità del giudizio – il che equivarrebbe ad una paradossale ed ingiustificabile assoluzione dei colpevoli – essendo analisi e comprensione le condizioni ed i presupposti di ogni atto valutativo, anche di quello morale.

copertina BurgioDal punto di vista della metodologia seguita e degli strumenti applicati gli autori intendono fare interagire i contributi della storiografia, della sociologia storica, della psicologia sociale (ma anche della antropologia, della psichiatria e della psicanalisi), rifiutando gli insufficienti approcci monocausali in ragione della complessità dell’argomento affrontato e la compresenza e la convergenza di molteplici chiavi di lettura contribuiscono a rendere il libro ricco e molto articolato, complesso e completo, cioè capace di fornire un quadro d’insieme dettagliato dei risultati raggiunti, nei differenti ambiti disciplinari, nello studio del nazismo, dei suoi crimini e della Shoah e soprattutto della questione della responsabilità e della colpa tedesche.

Ma Burgio e Costerbosa – ed è questo uno dei tanti temi interessanti ed originali del libro – ritengono che spetti propriamente alla filosofia il compito della ricostruzione dell’intero, della sintesi complessiva e della comprensione alla luce di un punto di vista “universale”, superiore a quello delle singole scienze umane, vincolate alla parzialità di uno sguardo che deve attenersi ai limiti “scientifici” della verifica empirica, seppur secondo le modalità proprie delle scienze dello spirito. Questo non vale per la filosofia, sia per l’universalità della sua prospettiva sia perché alla ragione filosofica spetta il compito dell’indagine sul perché, sul senso complessivo sulla «forma della mente o dell’anima degli attori di questa vicenda [per arrivare] al fondo ultimo dei loro pensieri […] dal quale scaturiscono i giudizi, nel quale si strutturano le scelte, le decisioni e le azioni». (p. 10)
L’interesse della filosofia è per l’intero; il suo fine è euristico e conoscitivo; gli strumenti sono polivalenti e la sua natura è “modestamente” aporetica, non pretendendo la ragione filosofica di formulare ipotesi falsificabili, cioè scientificamente oggettive e pertanto è in grado di avventurarsi in un terreno «che né la storiografia né gli altri saperi accettano di percorrere: lo spazio della soggettività […] intesa come ciò che dà logica e senso alla vita conscia e inconscia della mente». (p.10) Spetta quindi alla filosofia tracciare un coerente quadro d’insieme e, soprattutto, disegnare il contorno della forma mentis genocida.

Tra i tanti individuabili all’interno del libro, tre ci sembrano i punti di riferimento teorici che accompagnano costantemente il dipanarsi del ragionamento e del discorso di Burgio e Costerbosa: Raul Hilberg, Hanna Arendt e Immanuel Kant.
Hilberg perché, nonostante – secondo Burgio – il tratto tendenzialmente deterministico del suo approccio prevalentemente funzionalista (determinismo che, come vedremo, gli autori del libro sottopongono a puntuale critica), il suo modello analitico ed interpretativo, per la prima volta proposto nell’ormai lontano 1961, mantiene la sua validità ed affronta il problema delle responsabilità tedesche attribuendole alla società, alle istituzioni e allo stato tedeschi nel loro insieme, evidenziando anche come ogni componente di essi abbia dato un proprio fondamentale contributo attivo, fattivo, se non addirittura solerte, e quindi non solo meramente passivo, alla realizzazione dello sterminio.

Delle riflessioni di Hanna Arendt sul nazismo e la Shoah i due studiosi utilizzano soprattutto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, considerato da Burgio un lavoro talvolta riduttivamente interpretato, ma ancora insuperato dal punto vista – che è proprio quello che Orgoglio e genocidio ripropone – di un approccio cognitivo di tipo filosofico alla questione del genocidio e della responsabilità morale. Perché è nel campo dell’etica che gli autori collocano la materia del loro discorso ed è all’individuazione delle responsabilità individuali e collettive di coloro che in misura differente parteciparono allo sterminio e alla comprensione delle ragioni e delle dinamiche della loro scelta (im)morale genocida che si indirizzano le finalità del libro.
Autonomia del soggetto morale, consapevolezza della scelta, responsabilità rispetto alle conseguenze e moralità dell’azione: sono questi i “paletti” dentro ai quali dobbiamo collocare l’azione dei carnefici e dei tanti altri che in modi estremamente diversi parteciparono alla politica genocida del Terzo Reich.

Infine, proprio l’attenzione per la questione della “responsabilità” e della “scelta” come istanze imprescindibili per la retta comprensione del genocidio nazista conduce ad un costante riferimento ai principi fondanti dell’etica kantiana (l’autonomia del soggetto morale; la libertà come condizione e sostanza dell’agire; la dignità dell’uomo e il suo rispetto come elementi costitutivi dell’imperativo etico) e alla frequente riproposizione di stilemi di pensiero kantiani.

Il libro si compone di sei capitoli, di cui il primo, il quarto e il sesto scritti da Alberto Burgio, il secondo, il terzo e il quinto da Marina Lalatta Costerbosa.
Nel primo capitolo (Crimini condivisi), il discorso di Burgio prende le mosse dall’intento di sottoporre ad una generale e complessiva critica quelle interpretazioni – soprattutto storiografiche – del nazismo (e dei suoi crimini) che nell’insieme si possono considerare viziate da un comune determinismo. Come è noto, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la storiografia del nazismo si è articolata e divisa nelle due grandi correnti degli intenzionalisti e dei funzionalisti, a loro volta poi internamente articolate in un ventaglio di diverse posizioni a seconda del radicalismo o della moderazione con cui l’idea portante delle rispettive posizioni viene proposta. Impostazioni critiche che, per quanto nel corso degli anni sostituite da altre, costituiscono due contrapposti macro paradigmi interpretativi del regime hitleriano, ma convergenti su un punto fondamentale: una lettura deterministica dei meccanismi e delle modalità di funzionamento del regime, delle sue istituzioni e dell’intera società tedesca e, nella fattispecie che interessa a Burgio, del comportamento dei carnefici e dei loro collaboratori. In queste letture prevale la forza del condizionamento esogeno (di volta in volta il volere del Führer, la catena di comando, il fascino seducente dell’ideologia, la pervasività della propaganda, l’inflessibilità della repressione, gli effetti atomizzanti della società di massa, le dinamiche spersonalizzanti delle pratiche burocratico-amministrative dello Stato moderno, ecc) che si traduce nella equazione totalitarismo = eterodirezione assoluta dell’individuo, attore pressoché inconsapevole di comportamenti prevalentemente indotti, rispetto ai quali, conseguentemente, è da ritenersi scarsamente responsabile.

Fatto salvo l’assunto che a tutti i fattori sopra elencati occorre riconoscere pro quota un ruolo ed un’importanza rilevanti in relazione all’affermazione e al funzionamento di un regime totalitario in generale e di quello nazista nel particolare e che – riteniamo – anche le dinamiche esogene siano da tenere nella giusta considerazione, condividiamo, con Burgio, l’opportunità di indebolire il paradigma eterodirettivo e di riportare al centro dell’attenzione l’analisi delle intenzioni, delle motivazioni, delle scelte libere e consapevoli e quindi responsabili che, comunque e sempre, stanno alla base del comportamento umano, anche di quello più esternamente e strutturalmente condizionato.
A ciò si aggiunga che le letture di tipo deterministico rischiano, ben al di là delle loro intenzioni, di fare propri o di avvallare i teoremi giustificativi o autoassolutori dei carnefici stessi che ricorrono sempre agli argomenti della necessità o inderogabilità degli ordini, della inconsapevolezza circa le conseguenze della loro azione, o della cosiddetta “obbedienza cadaverica”, cioè l’esecuzione di un ordine in quanto ordine (Befehl ist Befehl), argomentazioni nelle quali i principi del determinante condizionamento situazionale e della spersonalizzazione della scelta fanno da denominatore comune.

Burgio si rifà al noto saggio di Hilberg, Carnefici, vittime e spettatori, ma integra la tipizzazione dello storico austro-statunitense inserendo la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati”. Per quanto riguarda questi ultimi, si devono considerare innanzi tutto gli uomini delle SS, dei battaglioni di polizia, delle Einsatzgruppen, i soldati e gli ufficiali della Wehrmacht, ai quali poi si aggiungono tutti gli uomini e le donne di quei ministeri, apparati, istituzioni, uffici dello stato tedesco che attivamente e assiduamente presero parte (ancora una volta il riferimento è allo schema hilberghiano di La distruzione degli Ebrei d’Europa) alla identificazione, all’espropriazione, alla ghettizzazione e infine allo sterminio degli ebrei. Un totale di – calcola Burgio – 200/500 mila tra tedeschi, austriaci e Volksdeutsche (tedeschi etnici), per i quali le argomentazione deresponsabilizzanti prima riportate non reggono dinanzi ad una dettagliata analisi dei casi e alla luce dei documenti e delle testimonianze. Ciò che invece sempre emerge è che costoro «seppero e vollero compiere i propri crimini» (p. 40) nei lager o altrove, infierendo sulle loro vittime.
Si trattò di una libera scelta all’interno di un ventaglio di possibili opzioni di comportamento; gli unici che – ricorda Burgio – non avevano scelta, che si trovarono di fronte a “scelte senza scelta” furono le vittime, non certo i carnefici.

L’inconsistenza degli argomenti dell’inconsapevolezza, dell’impossibilità di fare altrimenti et similia si applica anche al caso della “zona grigia” dei “collaboratori”, che Burgio, facendo propria la tesi di Hilberg della consustanzialità e coincidenza di stato e società tedesche e regime nazista, individua nelle élites militari (grate a Hitler per l’eliminazione delle S.A. e per la politica di riarmo); negli esponenti del mondo accademico e universitario (profondamente coinvolto nell’opera di elaborazione e divulgazione della Weltanschauung nazista e razzista) e in particolare nella categoria dei medici (il cui contributo alla criminale politica eugenetica di salute e difesa della razza germanica fu essenziale); nel personale dell’apparato burocratico del Reich («una massa di normali burocrati ambiziosi ed accondiscendenti» (p.47) nonché solerti e competenti); negli imprenditori privati (che non si lasciarono sfuggire l’occasione di fare affari, che fiutarono come conseguenza della politica antisemita del governo); ed infine nei delatori, cioè «quanti permisero alla Polizia politica del regime di invadere ogni spazio […] e di stendere sull’intera società tedesca una pervasiva rete di controllo» (p.50).

Infine gli “spettatori”, cioè coloro che non parteciparono ai crimini, ma che comunque per lo più «condivisero e sostennero. E parteciparono anche evitando di agire quando avrebbero potuto farlo». (p. 57) In questo caso, per spiegare il comportamento dell’”uomo della strada” si rende necessario affrontare – sostiene Burgio – la questione del consenso politico, problematica particolarmente complessa e di difficile analisi soprattutto quando assume la forma del “consenso totalitario”, ma che nella Germania del dodicennio nazista, di fatto, fu raccolto in modo solido e consistente dal regime. Si trattò di una adesione diversamente motivata ed estremamente differenziata per tipologia e grado, ma che produsse l’effetto di una condivisione di massa, da parte di molti milioni di tedeschi, dei programmi e delle azioni politiche del regime e quindi anche delle sue pratiche criminali e genocide, che il popolo tedesco, forse non nei minimi particolari, ma certamente nella sostanza, conosceva e che quindi – ancora una volta – volle, decise liberamente di appoggiare o almeno di non ostacolare.

Se uno degli alibi preferiti dai criminali nazisti o una delle argomentazioni autoassolutorie più frequenti era quella secondo cui “la legge è la legge” e ad essa si deve obbedire comunque, indipendentemente dal contenuto che ordina, allora risulta di cruciale importanza prendere in considerazione – come fa Marina Lalatta Costerbosa nei capitoli secondo (Il cavallo di Troia della legalità) e terzo (Legalità e consenso. I capi e la società) – le modalità e le conseguenze dei processi di ridefinizione dei concetti e dei principi di legalità e giustizia e di stravolgimento del diritto che si verificarono in Germania successivamente alla ascesa al potere del partito nazionalsocialista. Ridefinizione dei fondamentali principi giuridici che agì da supporto alla politica criminale del regime, legittimandone la catena delle norme e dei comandi e rassicurando i destinatari dei medesimi ordini circa la legittimità dell’operato conseguente, anche di quello criminale. Lo studio di queste problematiche e di queste dinamiche può contribuire – secondo la studiosa – alla comprensione della complessa questione del consenso di massa, di milioni di uomini comuni, ai regimi totalitari.

Centrale nella disamina del problema proposta da Costerbosa è la tesi per cui il nazismo adottò, piegandoli alle proprie necessità, i concetti giuspositivistici di legalità e giustizia, che si definiscono sulla base dell’assunto fondamentale del giuspositivismo stesso, che pone una irriducibile differenza tra il diritto e la morale, in quanto quest’ultima è esterna ed estranea al diritto; diritto che ha natura imperativa, coincidendo col comando del potere sovrano a cui si deve obbedienza. Come vuole Kelsen, il diritto è moralmente neutro ed indipendente dal giudizio morale e la giustizia si identifica con la legalità, ovvero l’applicazione di una norma positiva, che non riguarda il contenuto della norma medesima.

Se da un lato non è difficile comprendere come le istanze fondamentali della teoria giuspositivistica del diritto si prestassero ad essere estremizzate e strumentalizzate dal nazismo, dalla sua visione gerarchico-militare della società e dei rapporti sociali, dalla sua idea totalitaria del potere, da quell’essenziale Führerprinzip che considera il Führer fonte di diritto e di giustizia, per diventare infine parte integrante della dottrina nazionalsocialista del diritto; dall’altro è indispensabile riconoscere che il regime fu capace di recuperare, stravolgendoli al punto da capovolgerli, anche principi e idee della dottrina del diritto naturale, per i quali la legalità va messa in relazione alla legittimità, cioè con la giustizia intesa come moralità dei contenuti della norma positiva.
Il nazismo quindi elaborò propri contenuti (a)morali che fecero da fondamento della legittimità delle leggi e delle norme emanate, ma mentre qualsiasi forma di giusnaturalismo si incardina sull’idea essenziale che prioritaria e assoluta sia la difesa dei diritti soggettivi, in quanto per l’appunto naturali, il “giusnaturalismo nazista” considerò “naturali” dei (non)diritti razzisti e disumani che violavano e negavano i diritti soggettivi. «Si pensi che si giunse addirittura a qualificare il Naturrecht (diritto naturale) come völkisch (nazionalistico) oppure nationalethnisch (etnonazionalistico): una palese contraddizione in termini». (p. 111)

Ne conseguì un violento stravolgimento del diritto e della legalità, preparato e permesso anche da quei prodromi negativi che erano presenti nella Costituzione di Weimar: Marina Lalatta Costerbosa si riferisce (p.121) in particolare a quell’articolo n.48 della Costituzione repubblicana che agì da condizione di possibilità della Ermächtigungsgesetz (la Legge dei pieni poteri) del 28 febbraio del 1933, in quanto, consentendo, in condizioni eccezionali, al presidente di sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, permise al Cancelliere da un mese in carica, Adolf Hitler, di cancellare lo stato di diritto e tra le altre cose di istituire i campi di concentramento. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», aveva scritto nel 1922 Carl Schmitt in Politische Teologie.

Quanto arrogante era stato lo sfregio del diritto nel dodicennio nazista tanto profondi dovettero essere il ripensamento e la riformulazione dei principi giuridici fondamentali dopo il 1945. A tal proposito l’autrice si riferisce in particolare all’opera di Gustav Radbruch che nel 1947 ritenne necessario riproporre con forza la teoria secondo cui vi è un diritto oltre e al di sopra della legge positiva, rispetto al quale quest’ultima può risultare un “torto legale”. Al fine di fissare un criterio sostanziale ed universale che fosse in grado di dirimere tra legge legittima e torto legale, Radbruch – ricorda Costerbosa – definisce il concetto di “equità”, che significa «giustizia essenziale, il requisito minimo di moralità che una norma, una legge, un istituto, una sentenza deve esibire per potersi dire tale. […] Funziona al negativo: tutto rientra nella sfera scarna ma costitutiva dell’equità, salvo ciò che manifesta un grado di ingiustizia, appunto di iniquità, non sopportabile, palese, al di là di ogni ragionevole dubbio, con ogni evidenza, secondo ogni intuizione razionale». (pp. 90-91)
Pertanto Radbruch parlò di “ingiustizia legale” e di “giustizia sovralegale”: la prima sistematicamente perpetrata, la seconda regolarmente ignorata dai nazisti.

Sempre Radbruch scriveva, anticipando – fa notare Lalatta Costerbosa – Hanna Arendt di quindici anni: «Fu grazie a due principi che il nazionalsocialismo seppe incatenare a sé i suoi seguaci, da un lato i soldati, dall’altro i giuristi: “Un ordine è un ordine!” e “La legge è la legge”». (p. 97) E proprio il secondo principio, secondo l’imperante pensiero giuspositivistico, valeva incondizionatamente.
Per Radbruch invece tre sono i valori che conferiscono validità alla legge: in ordine di importanza, la giustizia, la certezza del diritto e l’utilità o conformità allo scopo. Per il filosofo del diritto tedesco, pertanto, «giusta è la legge certa che sancisce l’uguaglianza tra le persone entro la comunità umana». (p. 100) Ma anche alla certezza del diritto, come vuole la tradizione del giuspositivismo, vanno riconosciuti valore ed importanza e pertanto, secondo Radbruch, in caso di conflitto tra giustizia e certezza del diritto occorre individuare un criterio-soglia al di sotto del quale è opportuno far prevalere la certezza anche a fronte di inutilità ed ingiustizia della legge, ma al di sopra del quale la certezza non ha più valore e la legge diventa un torto, o meglio si capovolge nel suo opposto, in non-diritto.

Questo criterio-soglia, questo limite fu violato sistematicamente per tutta la durata del Terzo Reich, che si presenta quindi come un esempio nella storia dei sistemi giuridici di “Stato del non-diritto”.
Osserva infine Costerbosa: «Ma se non erano leggi [quelle naziste], non era scontato il dovere di sottomissione e a decadere sarebbero stati anche gli effetti giuridici da esse generati». (p. 98)
Milioni di tedeschi, invece, assolutizzarono dogmaticamente il precetto giuspositivistico della legge per la legge e nascondendosi dietro questo paravento di immorale ed illegale legalità prestarono al regime la loro disponibilità al male e al crimine genocida.

Nel capitolo quarto (Il problema delle motivazioni) è di nuovo Alberto Burgio a portare avanti l’interessante ed approfondita analisi sull’etica del genocidio nella Germania nazista, affrontando la questione decisiva delle intenzioni e dei motivi, delle convinzioni e dei pensieri che mossero la volontà di tanti tedeschi a seguire e a realizzare i programmi omicidi del governo. La storiografia, pur non potendo eludere completamente il problema, fatica a formulare una risposta e pertanto il discorso si estende ad altri approcci, alla sociologia storica, alla psicologia sociale, ma anche alla antropologia, alla psichiatria e alla psicanalisi.

Secondo Burgio, come è importante tenere conto del fatto che il nazismo ha rappresentato una cesura epocale che ha marcato una discontinuità profonda nella storia contemporanea, così lo è altrettanto cogliere i nessi e le relazioni di continuità con il contesto storico di lungo periodo nel quale si colloca, con la tradizione della storia, della cultura e della mentalità tedesche, cioè considerare la «capacità che il regime ebbe non solo di intercettare bisogni della popolazione, ma anche di porsi in comunicazione con il senso comune del tedesco medio». (p. 164) In queste pagine Burgio si serve soprattutto di Norbert Elias che nel suo I tedeschi definisce «l’”habitus nazionale” tedesco, segnato in modo particolare da due corollari del militarismo: il bisogno di ordine (la deferenza verso l’autorità, la gerarchia, la disciplina e l’obbedienza) e il nazionalismo aggressivo (a sua volta risultante dalla combinazione di comunitarismo e imperialismo)». (p. 165)

nazi0009Il principio dell’autorità e di conseguenza quelli della incondizionata sottomissione, della esecuzione scrupolosa degli ordini, del rispetto delle gerarchie costituite (dallo Stato all’esercito, dalla scuola alla famiglia, ecc) erano componenti essenziali e determinanti della mentalità e del costume medi dei tedeschi nati a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La tipologia di relazione interpersonale e sociale paradigmatica divenne quella gerarchica (in sostanza militare) che si estese a tutti i settori della società. Questo fenomeno da un lato produsse la tendenza dei tedeschi ad affidarsi agli ”ordini superiori”, a delegare al più alto per grado o per ruolo l’onere e la responsabilità della decisione; dall’altro – osserva Burgio – produsse «con ogni probabilità anche l’assunzione feticistica del principio di prestazione, in base al quale non conta cosa l’autorità ordini di fare ma il farlo bene, fino in fondo, soddisfacendo le aspettative dei superiori». (p. 166)
Conseguenza del principio di prestazione, come modalità di approccio al proprio lavoro o alla azione in genere che si è chiamati a svolgere, è da ritenersi anche la «peculiare Gründlichkeit tedesca», ossia la “maniacale scrupolosità”, consistente nel “bisogno” di portare fino in fondo l’incarico assunto, di svolgere a tutti i costi il compito assegnato, quasi identificandosi completamente con quell’incarico. Come fece notare Arendt, per un tedesco «essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce». (p. 95)

Evidentemente una mentalità ed un costume di questo genere conducono alla deresponsabilizzazione, alla rinuncia al dovere di giudicare del valore delle cose, del bene e del male delle azioni compiute; produce – dice Burgio – il passaggio dalla “coscienza” alla “coscienziosità”, dalla consapevolezza critica di sé e del proprio agire alla scrupolosa, ma irresponsabile, esecuzione di un compito.
Il militarismo prussiano, ereditato dalla Germania di Bismarck e di seguito guglielmina, esercitò senza alcun dubbio un ruolo determinante nella modellatura di tale forma mentis, prona dinanzi all’autorità, ligia al dovere, solerte e meticolosa nella esecuzione dei compiti, ma è soprattutto al modello educativo che si rivolge l’attenta analisi di Burgio, sulla scorta delle considerazioni di Elias: «un modello educativo mutuato dall’organizzazione militare e teso a consolidare l’autorità costituita e i sistemi gerarchici di comando, inibendo e delegittimando anche sul piano morale l’esercizio individuale dell’autonomia critica e plasmando, tendenzialmente, personalità per le quali le autocostrizioni imposte dalla coscienza funzionano soltanto se assoggettate a loro volta all’”eterocostrizione” di un potere superiore». (p. 167)

Al bisogno di ordine, al feticismo della disciplina e dell’autorità si collegò poi l’altra istanza portante dell’habitus nazionale tedesco, cioè il nazionalismo aggressivo, che soprattutto in età guglielmina divenne il principio guida della politica estera tedesca (Weltpolitik). Burgio considera le ben note differenze concettuali sottese alle due parole che nella lingua tedesca si usano per esprimere il concetto di patria: Vaterland e Heimat.
Vaterland letteralmente significa “padre-patria”, “terra-padre”, è la patria intesa come nazione che assume i tratti autoritari, duri ed impositivi del padre prepotente che pretende di essere obbedito senza remore; Heimat invece e la “piccola patria”, cioè il luogo di nascita, la “terra-madre”, accogliente e rassicurante in quanto custode dell’identità e dell’animo del Volk.
In realtà, al di là delle differenze, i due concetti sono complementari e si cementarono tra loro, creando un’ideologia organicistica e comunitaria (Gemeinschaft) e popolare (Volk), su cui si innestò poi il mito della omogeneità e della purezza della comunità, che presto divenne mito della purezza del “sangue” e del suo vitale legame con il “suolo” e infine mito della razza, della purezza e superiorità della Volksgemeinschaft ariana.

Il bisogno comunitario di sentirsi parte di un corpo organico, di una comunità coesa tenuta assieme dal feticismo della disciplina, dal principio di prestazione e dell’obbedienza cieca produsse – osserva Burgio – «una paradossale etica della responsabilità che tendeva a risolversi nella sua antitesi: in un’etica della “minorità” (del servilismo e della complicità) che nobilitava la rinuncia all’autonomia e induceva alla delega della responsabilità personale a beneficio dei poteri sovraordinati». (pp. 174-175) Non a caso Burgio usa il temine “minorità” per qualificare questa “paradossale” etica, che sorda all’illuministico e liberatorio appello kantiano di abbandonare lo “stato di minorità”, di esso faceva il proprio habitus.
Il logico corollario di una simile ideologia comunitaria fu un’aggressiva mentalità manichea, portata all’esclusione e alla contrapposizione del gruppo di “noi” al gruppo di “loro”, di chi è fuori dalla comunità o, peggio ancora, è ritenuto un pericolo, una minaccia.

Hitler e il nazismo non si limitarono ad ereditare i caratteri dell’habitus nazionale germanico, ma li portarono alla loro suprema espressione e fornirono un codice di (non)valori tagliato e cucito su misura della forma mentis qui descritta: una autentica etica del disumano che la maggioranza del popolo tedesco non faticò particolarmente ad introiettare. In un contesto oltremodo inquieto e problematico, come quello della sconfitta nella Grande Guerra e dei trattati di Versailles, delle crisi economiche ed in particolare di quella del ’29; in un clima di delusione, disorientamento, di esacerbato rancore e di perdita di fiducia nelle istituzioni della repubblica e nei suoi partiti, il nazismo seppe incanalare le angosce dei tedeschi e Hitler compì un lavoro di emersione, estraniazione e ipostatizzazione dei “demoni” che latenti erano cresciuti ed avevano prosperato nell’animo del popolo. I traumi e le paure furono proiettati fuori dalla coscienza collettiva e oggettivati in una serie di nemici concreti contro i quali combattere per la salvaguardia della comunità. Dinanzi al disordine e al caos politico degli ultimi anni di Weimar, «il desiderio di sicurezza e di ordine divenne impellente, e così la domanda di unità, di appartenenza, di protezione e di rassicurazione. Alle paure […] molti tedeschi reagirono invocando lo spirito della comunità germanica. […] Chiedevano nuove certezze, nuovi miti redentivi. […] sulla scelta di consegnare la Germania ai nazisti influì […] una spasmodica attesa di redenzione e di fusione in una collettività mistica». (pp. 180-181)

E il nazismo ed il suo leader carismatico tutto questo furono in grado di fornirlo al popolo tedesco, ma ad un prezzo altissimo, quello della rinuncia alla coscienza e alla volontà individuali in funzione della fusione con una comunità di uomini “minori”, irresponsabili, che hanno rinunciato alla propria autonomia di individui liberi e consapevoli; uomini che furono pronti ad adottare la “tavola dei valori” di una nuova etica che – Burgio sottolinea con forza come questo sia uno degli aspetti distintivi e più significativi del nazismo – il regime pretese di elaborare attraverso la negazione e il capovolgimento dei precetti etici tradizionali ed in particolare cristiani. Nuovi valori nazisti in cui credere, anche solo parzialmente, o in cui fingere di riporre fiducia al fine di innescare un meccanismo di rassicurante autoinganno assolutorio utile per la gestione di un conflitto morale che non poteva non insorgere, anche nei carnefici più violenti, davanti all’orrore da loro stessi prodotto.

Di grande interesse sono le pagine in cui Burgio redige la tavola di questi valori etici nazisti, partendo dall’assunto per cui, come ogni dottrina etica, anche quella nazista associa il bene alla vita, ma il valore della vita non viene più declinato in termini universalistici, ma in termini particolaristici ed esclusivi, compartimentati. A contare è solo la vita del Volk, la sua salute e quella dei Volksgenossen, non quella degli altri, che, al contrario, diviene ostacolo, pericolo da combattere. Pertanto, con un paradossale rovesciamento dei termini, per garantire la vita di alcuni uomini è buono e moralmente legittimo ucciderne altri (altre razze o le vite “non degne” perché malate, ecc). È una «etica etnocentrica e razzista […] intessuta di “valori” correlati alla superiorità dello Herrenvolk». (p. 200) «Giungiamo così rapidamente al cuore dell’etica nazista, dove la distruzione dell’umanità come universale si connette alla eroicizzazione dei “carnefici” e questa alla produzione di un lessico dell’orgoglio genocida» (p. 204), a cui fa da contraltare – ancora una volta per ribaltamento dei criteri morali tradizionali – la colpevolizzazione delle vittime. Ne consegue che la somma virtù divenne la “durezza” – cioè la spietatezza, il disprezzo per la compassione e per ogni altra forma di sentimento umanitario – a cui associare la più ferrea abnegazione nel portare avanti l’opera di realizzazione di una volontà altrui: quella del Führer.
Ancora una volta – come ci insegna Burgio – decisiva fu la scelta, dei carnefici, dei collaboratori e di buona parte dei tedeschi, di non decidere, di “farsi decidere da altri”; ma si trattò pur sempre di una decisone, che richiede l’assunzione di responsabilità.

E sulla natura e sulle diverse tipologie della responsabilità ragiona il quinto capitolo (La molteplice responsabilità) scritto da Marina Lalatta Costerbosa, che, dopo aver ricostruito il panorama completo delle forme di responsabilità, si concentra su quella più pertinente alla problematica affrontata dal saggio: la “responsabilità morale e personale”, imputabile ai perpetratori diretti del genocidio nazista e ai loro collaboratori, innanzi tutto e al popolo tedesco nel suo complesso, di conseguenza. Si tratta – scrive l’autrice – «della responsabilità riferita ad un soggetto umano capace di intendere e di volere, quella responsabilità che ha a che fare con l’agire dell’uomo. E questo non sotto il profilo giuridico (civile e penale) […] bensì dal punto di vista morale e nelle sue diverse gradazioni, ovvero, a seconda dei differenti livelli di coinvolgimento e di intenzionalità nell’azione e nelle condotte d’azione sotto esame». (p. 230)
Fanno da sfondo generale alle considerazioni di Costerbosa le riflessioni di Hans Jonas e del suo Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica in cui il filosofo tedesco chiarisce come la responsabilità, pur non costituendo di per sé ancora la morale e non ponendo da sé degli scopi all’azione, sia la condizione preliminare della morale stessa. La responsabilità, continua Lalatta Costerbosa, significa «capacità di autocontrollo rispetto ad azioni che fuoriuscirebbero dal perimetro di ciò che è ritenuto moralmente lecito» (p. 232), ciò vuol dire «capacità di impedire a se stessi di compiere un’azione determinata, rispettando la norma che la vieta». (p. 239)

Pertanto, la responsabilità, presupposto e condizione dell’azione morale, a sua volta presuppone la deliberazione autonoma, l’autonomia e l’indipendenza del soggetto morale, come bene ha chiarito nella Critica della Ragion pratica Kant, recisamente contrario a letture deterministiche dell’esperienza etica, oggigiorno rilanciate come conseguenza dello sviluppo delle neuroscienze.
Quattro sono secondo Costerbosa le condizioni di possibilità della responsabilità morale: l’assenza di qualsiasi forma di determinismo etico; la consapevolezza, almeno parziale, delle conseguenze dell’azione intrapresa; l’autocontrollo, come sopra definito; la percezione del sentimento di responsabilità.

Ancora il filosofo di Königsberg ed Agostino, letti attraverso Paul Ricoeur, fanno da punti di riferimento essenziali della breve, ma molto interessante, ricostruzione operata dalla studiosa di un problema annoso della riflessione filosofica (e teologica), quello della natura ed origine del male; il problema della teodicea.
La teoria agostiniana della non sostanzialità del male, interpretato come un nihil privativum, come una privatio boni, a cui fa da contraltare l’equazione tra essere e bontà e da corollario l’incommensurabile distanza ontica tra creatore e creatura, causa dell’imperfezione dell’uomo e condizione di possibilità del peccato, cioè del suo libero allontanamento dalla via maestra del bene di dio, trovava una soluzione (che incontrò molta fortuna) tanto sul piano ontologico della spiegazione della natura del male in relazione all’essere e a dio, quanto sul piano morale dell’origine dell’azione malvagia.
Secondo Costerbosa e come osserva Ricoeur, i termini della riflessione filosofica sul male dopo secoli di riproposizione del paradigma agostiniano mutano grazie a Kant, con il quale viene meno l’impostazione onto-teologica della teodicea e il male riguarda solo la sfera pratica e soggettiva dell’azione e della riflessione morale, non più quella oggettiva dell’ontologia; con Kant «non si può più domandare donde viene il male, ma donde viene che noi lo facciamo». (p. 245)
È un processo di laicizzazione (il male radicale prende il posto del peccato originale) e di soggettivizzazione della questione del male quello che avviene con Kant, che pone al centro dell’esperienza morale l’autonomia del soggetto che avverte in sé la propensione al male a fronte della predisposizione al bene come termini estremi della libera scelta individuale.

E ancora a Kant fa riferimento Marina Lalatta Costerbosa per definire il concetto di dignità umana e per ricondurre il discorso al tema delle responsabilità dei crimini nazisti. Il dovere del rispetto della dignità dell’uomo in se stessi e negli altri è imperativo categorico assoluto per Kant e «l’idea kantiana di dignità riesce a spiegare via negationis l’ottundimento della responsabilità» avvenuto in modo generalizzato nella società tedesca del dodicennio nazista: offende e perde la propria dignità di uomo il burocrate che ottusamente esegue il proprio compito senza farsi domande; nega e violenta la dignità dell’altro il carnefice che scarica la sua furia criminale su vittime precedentemente disumanizzate; e la vittima cerca disperatamente di difendere o di trattenere una minima parte di quella dignità umana che le viene strappata dalla violenza altrui.

Laddove e quando l’universale etico del rispetto della dignità umana lascia il posto al disprezzo della vita si producono le condizioni affinché gli uomini possano compiere l’irresponsabile scelta del male estremo. Questo ci fa pensare alle riflessioni che Karl Jaspers nel 1946 propose nel suo La questione della colpa circa le responsabilità del popolo tedesco. Come è noto il filosofo articolava il concetto di colpa secondo quattro tipologie, tutte imputabili ai tedeschi, individualmente e collettivamente – colpa giuridica, politica, morale ed infine metafisica – e l’ultima, la “colpa metafisica”, consiste nella violazione del principio di solidarietà che dovrebbe unire gli uomini tra loro e che rende ogni individuo corresponsabile in parte delle ingiustizie e dei torti subiti dall’umanità, soprattutto quando questi avvengono in sua presenza o quando ne è a conoscenza e pertanto non ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto per impedirli.

Hannah-Arendt009Il riferimento a Jaspers è funzionale al passaggio all’analisi del sesto ed ultimo capitolo di Orgoglio e genocidio (Un’ottusità deliberata), in cui Alberto Burgio fa risalire proprio al confronto tra Hanna Arendt e il maestro Karl Jaspers, interrottosi nel 1933 e ripreso nel 1946, il ripensamento compiuto dalla filosofa di Hannover delle posizioni sul nazismo da lei stessa espresse in Le origini del totalitarismo, nonostante il carteggio tra il maestro e l’allieva di un tempo avvenga cinque anni prima della pubblicazione delle Origini (1951) e non nei dodici che separano questa opera dalla Banalità del male (1963), in cui tale ripensamento produce i suoi principali e più importanti effetti.
Nello scritto del 1951, infatti, il discorso della Arendt muove dall’analisi della società di massa, nella sua versione totalitaria e sfocia in conclusioni rigidamente deterministiche, che, applicando il modello eterodirettivo, pongono l’accento sulla «assoluta subordinazione degli individui assoggettati al potere della dirigenza nazista, ridotti a semplici marionette» sedotte dall’ideologia e mosse dalla pervasiva propaganda capace di creare un mondo fittizio «nel quale milioni di tedeschi sarebbero vissuti per dodici anni come prigionieri ignari» (p. 287) e pertanto anche scarsamente responsabili delle loro azioni; «uomini in senso proprio de-menti, privi di volontà e di coscienza». (p. 289)

Ma Burgio mostra come in uno scritto del 1945, Colpa organizzata e responsabilità universale, e nelle comunicazioni con Jaspers, Arendt avesse già iniziato ad elaborare concetti che, dopo un periodo di latenza di più di quindici anni, sarebbero stati poi alla base del saggio sul processo ad Eichmann. In questo scritto, infatti, troviamo un primo abbozzo del concetto di “normalità” di quegli uomini che si trasformarono in carnefici, grazie alla capacità del regime di sfruttare l’antropologia del “bravo cittadino borghese”, «buon lavoratore e rispettabile “pater familias”, preoccupato del benessere del proprio nucleo famigliare e tendenzialmente indifferente verso la sfera pubblica» (p.295), che in cambio di sicurezza e tutela degli interessi privati prestò al regime la propria disponibilità all’azione criminale, rassicurato dal senso di impunità e dalla irresponsabilità prodotti dall’alibi autoassolutorio della catena di comando, degli ordini superiori ricevuti all’intero dell’apparato burocratico dello stato. E – ribadisce con forza l’autore – si trattò «di uno scambio nel quale il regime aveva concesso vantaggi materiali e ottenuto consenso e complicità. Ma uno scambio del genere […] chiamava in causa la libera scelta dei tedeschi di accettare le proposte del regime […]. Da una parte benessere e sicurezza, con in più la garanzia dell’impunità; dall’altra, la violenza nei confronti dei deboli, dei diversi, degli estranei: una scelta sin troppo ragionevole (propria di accorti homines oeconomici) e persino paradossalmente morale, dettata dal senso di responsabilità verso la famiglia». (p.296)

EichmannNe La banalità del male Arendt sviluppa questa linea di pensiero e la applica allo studio di un caso che intende presentare come paradigmatico, il significato del quale cioè trascende la specificità del caso medesimo e si allarga fino a comprendere e a spiegare il comportamento della maggioranza dei tedeschi: il processo svoltosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann. Per rispondere alla domanda essenziale – che, come abbiamo visto, secondo Burgio solo la filosofia è in grado di affrontare in modo pertinente – “perché Eichmann ha voluto essere un carnefice?”, Arendt enuclea e descrive una nuova e desolante configurazione della mente, quella della “ottusità morale”, della “stupidità”, della Banalität, come già l’aveva definita Jaspers.
Si tratta della questione filosofica dell’enigma della libertà dell’uomo, di un uomo consapevole e libero e al tempo stesso “normale”, cioè non affetto da turbe mentali o mentalmente debole, che prende la decisione autonoma di compiere il male, un male criminale ed estremo. Ne consegue che – dice Burgio – quello che «Arendt elabora è un dispositivo filosofico, teoretico, che non si limita a recepire e riformulare problematiche storiografiche o psicosociali ma le integra con l’analisi dello stile cognitivo e riflessivo del soggetto, e della sua prospettiva morale ed etica […] sulla base del presupposto dell’autonomia e della responsabilità personale». (p. 299)

Il male compiuto da uomini come Eichmann è vuoto, privo di senso e di profondità, superficiale, insensatamente eccessivo e in tal senso “banale”; può distruggere il mondo perché – scrive Hanna Arendt – «si espande sulla sua superficie come un fungo» (p. 303), si propaga come un’epidemia ma non ha la “profondità” del “male radicale” kantiano. E chi è colui che pratica questo male “banale” e nella sua banalità estremo e senza limite? La risposta di Arendt è nota: l’attore di questa esperienza è un soggetto “insulso”, “sconsiderato”, un uomo “privo di pensiero”, thoughtlessness.
Ma il pensiero di cui si denuncia l’assenza non è né quello logico, del calcolo e del ragionamento strumentale – di cui Eichmann diede ampiamente ed indiscutibilmente prova – né quello argomentativo, colto o erudito. A mancare è la capacità di riflessione autonoma, critica e disinteressata sul senso delle cose, sul proprio e l’altrui esserci, sul valore e il senso della vita e del mondo. È la razionalità intesa come capacità di discernimento tra ciò che è giusto ed ingiusto, tra il bene ed il male, tra ciò che è umano e ciò che non lo è; è il pensiero inteso come la capacità di giudicare del valore delle cose e delle azioni.

Se – riflette Burgio – tutti, come voleva il Cartesio del Discorso sul metodo, sono in grado di saper ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, in quanto tutti gli uomini posseggono la quantità necessaria e sufficiente di buon senso per tale scopo, allora ne consegue che chi si astiene dall’esercizio della ragione così intesa, dall’applicazione del buon senso, lo fa per scelta, per volontaria decisione di – potremmo dirlo con Max Horkheimer di Eclisse della ragione – identificarsi totalmente con una “razionalità soggettiva”, meramente calcolistica, utilitaristica ed avalutativa, allontanando da sé la “razionalità oggettiva”, critica e valutativa, che guida l’uomo nell’atto della comprensione e del giudizio.

È in questo modo – secondo Arendt – che l’uomo si predispone all’eterodirezione, all’adesione incondizionata alle regole e ai poteri vigenti, astenendosi dal valutare e dal pensare criticamente ed autonomamente. Ma si tratta comunque e sempre di una libera predisposizione alla sottomissione, di una volontaria decisione di abbandonare la propria volontà per identificarsi con quella altrui, fino al punto che tale condizione di “ottusità della mente”, di “assenza di pensiero”, di “annullamento delle capacità di discernimento e giudizio” diventa un vero e proprio abito mentale, una “seconda natura”, con la quale ci si identifica totalmente.
La “seconda natura” dell’”assenza di pensiero” produce una chiusura narcisistica dell’individuo su se stesso; una fissazione manichea sul proprio gruppo di appartenenza che esclude recisamente gli altri, i diversi; un’incapacità sostanziale di immedesimarsi negli altri e di nutrire compassione.
Si produce un effetto di “compartimentazione” della coscienza morale, che include solo il gruppo di “noi” ed esclude quello degli “altri”; un blocco di quel dialogo interiore che imporrebbe ad ogni individuo il confronto con la propria coscienza; infine lo scivolamento in una condizione di “minorità” morale, cioè di esternalizzazione e perdita della propria coscienza e della propria volontà.

Ora, se il ragionamento paradigmatico ed analogico di Hanna Arendt – come ritiene Burgio – è ancora pienamente valido e pertinente, si deve concludere che nella Germania tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento si sia verificato un vero e proprio “crollo morale”, una “pandemia di ottusità morale”, che, seppur con responsabilità differenti e a livelli di coinvolgimento molto diversi tra loro, ha travolto ed “infettato”, come Eichmann, tanti milioni di cittadini “normali” del Terzo Reich.

Per concludere questa lunga presentazione di un libro ricchissimo ed interessantissimo, pensiamo che – proprio per dare maggiore fondatezza all’idea della valenza paradigmatica della “normalità criminale” di Eichmann e per evitare che la spiegazione del passaggio da “uno” a “molti”, dalla minoranza dei casi esemplari dei grandi criminali alla maggioranza degli “uomini della strada” si trasformi, paradossalmente, in una nuova forma di meccanicismo di tipo analogico (come i pochi… così i molti) – sia opportuno, come d’altra parte anche Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa riteniamo sostengano, fare interagire ed integrare maggiormente i due piani dell’autonomia (cioè della scelta soggettiva, libera e responsabile) e dell’eteronomia (cioè del condizionamento, del contesto, dell’intervento esogeno), della libertà soggettiva e della costrizione oggettiva, dell’individuo e della struttura.

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Risorse (in)umane: la rigenerazione della forza lavoro tedesca nei lager nazisti https://www.carmillaonline.com/2016/04/20/risorse-inumane-la-rigenerazione-della-forza-lavoro-tedesca-nei-lager-nazisti/ Wed, 20 Apr 2016 21:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29889 di Armando Lancellotti

apertura guardianiFabrice d’Almeida, Il tempo degli assassini. I guardiani dei campi di concentramento e le loro attività ricreative (1939-1945), Ombre Corte, Verona, 2015, pp.175, € 16,00

«Giuro che sarò fedele e obbedirò ad Adolf Hitler, capo del Reich e del popolo tedesco, e che svolgerò coscientemente e disinteressatamente i miei doveri di servizio». (p. 40) Pronunciando queste parole uomini e donne tedesche assumevano il ruolo di guardiani dei lager e contemporaneamente anche un potere pressoché illimitato sui detenuti intrappolati nel terribile sistema concentrazionario dei KL nazisti, i Konzentrationslager. [...]]]> di Armando Lancellotti

apertura guardianiFabrice d’Almeida, Il tempo degli assassini. I guardiani dei campi di concentramento e le loro attività ricreative (1939-1945), Ombre Corte, Verona, 2015, pp.175, € 16,00

«Giuro che sarò fedele e obbedirò ad Adolf Hitler, capo del Reich e del popolo tedesco, e che svolgerò coscientemente e disinteressatamente i miei doveri di servizio». (p. 40)
Pronunciando queste parole uomini e donne tedesche assumevano il ruolo di guardiani dei lager e contemporaneamente anche un potere pressoché illimitato sui detenuti intrappolati nel terribile sistema concentrazionario dei KL nazisti, i Konzentrationslager.
E proprio dei guardiani dei lager ci parla l’interessante ed originale studio di Fabrice d’Almeida, storico dell’università Paris II Panthéon-Assas, uscito nel 2011 con il titolo Ressources inhumaines. Les gardiens de camp de concentration et leurs loisirs e tradotto e pubblicato in italiano da Ombre Corte nel 2015.

Un libro che si colloca all’interno di quell’ambito di analisi e studi storiografici, sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni (si vedano a questo proposito i saggi di Ch. Browning, D. J. Goldhagen usciti a metà degli anni ‘90 e di altri), che affronta il tema dei lager e della Shoah concentrandosi sui carnefici e non sulle vittime, sugli esecutori dello sterminio o comunque, come in questo caso, sui guardiani dei campi e non sui detenuti.
Una scelta di argomento e di prospettiva che comporta – precisa l’autore – la violazione di almeno due resistenze psicologico-morali e se la prima, soffermarsi sugli assassini o sui loro collaboratori e non sulla tragedia dei deportati, può più facilmente essere superata perché rispondente all’intento di una lettura completa ed esaustiva del fenomeno che tenga conto di tutte le parti coinvolte, la seconda, tralasciare le violenze e la ferocia praticate dai sorveglianti dei campi per studiare l’organizzazione del loro “lavoro” e soprattutto del tempo libero e la predisposizione di spazi e azioni di svago per questa risorsa (in)umana dell’industria concentrazionaria del Terzo Reich, potrebbe sembrare provocatoria, irrispettosa della memoria delle vittime e straniante.

Ma proprio lo studio degli aspetti inizialmente e comprensibilmente considerati meno urgenti dalla storiografia del Terzo Reich e della Shoah in particolare può contribuire oggi ad una comprensione del fenomeno sempre più ampia, ora che la letteratura sull’argomento, sui meccanismi del sistema concentrazionario e del processo di sterminio nazisti può dirsi già copiosa ed approfondita.
Pertanto la scelta di Fabrice d’Almeida di considerare le attività ricreative dei guardiani dei lager, il loro tempo libero e più in generale la politica tedesca di gestione del personale delle unità speciali delle SS impiegate nei campi di concentramento e sterminio – le Totenkopfverbände – ci sembra non solo di grande interesse, ma oltremodo fertile sia per quantità sia per qualità dei contributi euristici forniti, in quanto se da un lato chiarisce aspetti certamente meno noti di altri del funzionamento dei campi di internamento nazisti, dall’altro conferma e rafforza alcune delle principali tesi interpretative di questo capitolo della storia novecentesca. E ci riferiamo non solo alla arendtiana “banalità di un male” che risulta sempre più tale, cioè banale, quando osserviamo ad esempio gli scatti dell’album fotografico Höcker, custodito all’Holocaust Memorial Museum di Washington dal 2007, che documentano momenti di svago e divertimento di ufficiali e ausiliarie SS del campo di Auschwitz (e proprio dal ritrovamento di questo peculiare materiale fotografico ha tratto spunto lo studio di d’Almeida), ma ci riferiamo anche alle tesi di Raul Hilberg riguardo al coinvolgimento “sistemico” dell’intera Germania nazista nel processo di sterminio e alle riflessioni di Zygmunt Bauman sulla “modernità” e razionalità industriale della macchina concentrazionaria e di annientamento predisposta dal Terzo Reich.

ALBUM HOCKER 1_2_3Ma proseguiamo con ordine: se consideriamo le tre fotografie dell’album Höcker qui riportate nella loro probabile successione esecutiva, vediamo un gruppo di una dozzina di persone, di cui tre uomini, che evidentemente distesi e spensierati si divertono, scherzano e si fanno fotografare, mentre ridono, suonano e presumibilmente cantano. Insomma una normale, ordinaria, in questo senso “banale”, scena di svago di gruppo.
Le risate sembrano fragorose e prolungate; il divertimento è accompagnato dalle note di una fisarmonica suonata dall’uomo sulla destra; la donna che gli sta vicino assume ludiche pose svenevoli in tutti e tre gli scatti, mentre, nell’ultimo dei tre, due amiche sulla sinistra si slanciano di corsa e allegre verso il fotografo, che forse – proviamo ad immaginare – le provoca e le motteggia. Ma se osservate ripetutamente, queste immagini, nonostante la loro apparente ordinarietà, provocano in noi un crescente disturbo; c’è qualcosa di stonato, di sghembo che produce un effetto di spaesamento. E l’effetto straniante è determinato non solo e non tanto dai lucidi e neri stivali militari sotto le impeccabili uniformi da SS indossate dai tre uomini e da quelle di ausiliarie SS delle donne, quanto piuttosto dalla consapevolezza che il prato attorno e la macchia scura di betulle sullo sfondo che incorniciano questa altrimenti insignificante scena di svago si trovano ad Auschwitz, dove i tre ufficiali e le ausiliarie SS, una volta terminato quel momento di riposante distrazione, torneranno ad infierire brutalmente sui detenuti, seminando terrore e morte.

Una delle tesi più importanti espresse da d’Almeida è quella secondo cui «i guardiani non sono lo scarto delle formazioni militari, come hanno voluto far credere i dirigenti perseguiti all’indomani della seconda guerra mondiale per crimini contro l’umanità», ma sono parte di «un’istituzione che si considera l’élite della società tedesca» (p. 12), soprattutto quando, dopo la “notte dei lunghi coltelli” e il depotenziamento delle SA, organizzazione, gestione, controllo e sfruttamento dei lager vengono assegnati alle SS, a quell’”ordine nero” che del nazionalsocialismo pretende di incarnare l’essenza politica e razziale ed in particolare alle SS – Totenkopfverbände, le “unità testa di morto”. «Per il nazismo, i prigionieri sono secondari. Essi sono il nulla. Ciò che interessa sono i guardiani, coloro che sorvegliano l’interno e l’esterno dei campi. Il loro lavoro appare semplice: consiste nel sorvegliare ed eliminare i nemici della società e della razza tedesche» (p. 11).

Una élite di custodi e sentinelle dell’ordine nazionalsocialista che è parte costitutiva e consustanziale – è questa un’altra delle idee portanti del ragionamento di d’Almeida – del progetto di ingegneria sociale del Terzo Reich, che intende riorganizzare la società sulla base di un darwinismo sociale, politico e razziale che richiede un’eugenetica azione di isolamento ed eliminazione del nemico, dell’inadatto. Ne consegue che il ruolo dei sorveglianti dei campi è una tessera fondamentale dell’intero mosaico sociale nazista ed è in relazione integrante con altri apparati ed istituzioni del regime, in primo luogo «la polizia, che finirà per essere inclusa nello stesso ministero […]. Il partito nazista, naturalmente, che invia loro i mezzi e li colloca al centro della sua dottrina. Le SS, di cui costituiscono una delle forze d’élite. Anche altri “corpi” hanno con loro contatti a intervalli regolari, come quello degli impiegati postali, dei ferrovieri, dei pompieri e soprattutto dei militari, che proteggono da lontano le istallazioni. Si aggiungono a queste amministrazioni dei partner economici, dal momento che le imprese approfittano dello sfruttamento della mano d’opera raggruppata nei campi» (p.11)

Alla realizzazione del progetto nazista di ingegneria sociale, di cui la deportazione, la detenzione e l’eliminazione dei nemici nei lager è la chiave di volta, l’intera società tedesca, articolata in apparati ed istituzioni, partecipa attivamente. Si tratta di un coinvolgimento sistemico che – come già aveva sostenuto Raul Hilberg a partire dagli anni ’60 – non diminuisce, parcellizzandola e distribuendola, la responsabilità delle singole istituzioni, ma, al contrario, ne aumenta la somma totale.
E se il darwinismo razziale fa da orizzonte di comprensione del progetto sociale del nazismo, la metodologia e la logica della sua messa in atto sono quelle burocratiche moderne – come dalla fine degli anni ’80 va dicendo Zygmunt Bauman – e nella fattispecie dei lager quelle industriali fordiste. Osserva infatti d’Almeida che negli «anni precedenti e seguenti la prima guerra mondiale, il taylorismo e il fordismo avevano portato a considerare in maniera scientifica i rapporti fra il lavoro e le conseguenze che esso produce sugli individui. Lo sviluppo delle teorie sul tempo libero e la riduzione dell’orario lavorativo con l’introduzione dei giorni festivi avevano incentivato la riflessione sulle attività al di fuori degli uffici e delle fabbriche. L’esercito stesso se n’era fatto portavoce, grazie al sistema delle licenze intensamente presente anche durante la Grande Guerra». (p. 16)

d'almeida COPERTINA-1Di questa ristrutturazione fordista della società novecentesca, che nella massificata e massificante Grande Guerra conosce un passaggio fondamentale, l’industrializzazione operata dal nazismo della detenzione e, come suo sviluppo ed esito, dello sterminio costituisce un ingranaggio essenziale. «Le SS contribuiscono alla modernizzazione della gestione delle organizzazioni propria della produzione industriale e della disciplina dei comportamenti». (p. 17) Pertanto, l’amara conseguenza tratta dall’autore da questa premessa è che dal «punto di vista della storia dell’ingegneria sociale e della gestione delle risorse umane, la svolta rappresentata dal genocidio degli ebrei e degli zingari è comunque eccezionale e pone una quantità di domande, che spesso sono state affrontate in prospettiva psicologica». (p. 18) Approccio quest’ultimo che d’Almeida non intende praticare, preferendo un’osservazione e culturale e materiale del fenomeno dei sorveglianti dei campi di concentramento. Analisi che nell’ottavo ed ultimo capitolo del libro (Il secolo dei guardiani) si allarga ad altri esempi novecenteschi del fenomeno concentrazionario, in particolare a quello dei Gulag sovietici, muovendo dalla convinzione che quella del guardiano del lager sia una figura essenzialmente novecentesca, che trova poi nel totalitarismo il contesto ideale della propria definizione.

Nell’organizzazione industriale e fordista della repressione sociale per via concentrazionaria rientra pertanto il “tempo libero”, quello che contribuisce alla rigenerazione e alla maggior efficienza della forza lavoro. «La vita delle guardiane e dei guardiani doveva essere sufficientemente piacevole nel quotidiano, affinché potessero attivare tutta la loro violenza in seno all’istituzione concentrazionaria. Non dovevano soffrire a causa dell’inattività o dell’ozio, quando lasciavano il loro luogo di lavoro per il riposo, per quanto fosse breve. In questo senso il nazismo è il primo esempio di gestione di risorse umane». (p.19)
Ovviamente anche il salario gioca un ruolo importante in un “rapporto di lavoro”, come dimostra – osserva d’Almeida – il caso delle ausiliarie SS, delle guardiane, che vengono arruolate a partire dal 1938 per garantire la sorveglianza soprattutto, ma non solo, delle prigioniere. Il personale femminile viene formato, inquadrato ideologicamente, in particolare nella scuola creata apposta nel campo femminile di Ravensbrück dal 1940, ma – sostiene l’autore – a differenza di quanto accade per i «loro omologhi maschi, la scelta di mettersi a servizio della politica concentrazionaria non dipende, nel loro caso, da forti motivazioni ideologiche» (p. 40), quanto piuttosto dal salario. «La remunerazione di base di una giovane guardiana è di 185 Reichsmark, superiore di un terzo a quella di un’operaia non qualificata impiegata nell’industria tessile, e con le indennità di servizio può arrivare quasi a raddoppiarsi». (p. 40) Questo da un lato aiuta a capire perché – come scrive lo storico – solo il 4% delle guardiane si sia iscritto al partito e dall’altro ci sembra dimostri una volta di più quanto sia complessa e problematica, sfaccettata e spesso indecifrabile la questione del consenso ideologico all’interno di un regime totalitario.
In questo caso, comunque, sono le logiche del mercato della mano d’opera che contribuiscono a fare la differenza, ad attrarre personale verso l’impiego nei campi di concentramento e a integrare ed includere socialmente, come parte della struttura economico-produttiva, l’inumanità della segregazione concentrazionaria.

Nei capitoli dal terzo al sesto d’Almeida prende poi in esame nel dettaglio le attività dell’ultimo dei sei dipartimenti (Abteilung VI) in cui venne articolata l’organizzazione di tutti i campi, secondo il modello introdotto a Dachau da Theodor Eicke, stretto collaboratore di Himmler; a loro volta tutti i lager tedeschi rispondevano alla IKL – Inspektion der Konzentrationslager, con sede a Berlino dal 1934. È «l’Abteilung VI a mettere a disposizione del personale gli strumenti per il suo intrattenimento, al fine di mantenere la condizione di spirito necessaria per l’adempimento dei servizi richiesti […]. Ottiene le sue risorse dai ministeri della Propaganda e dell’Educazione popolare, diretti da Joseph Goebbels, e, dal 1940 al 1945, diventerà lo strumento indispensabile nell’attuazione dei principi di gestione delle risorse umane, nel periodo in cui l’esplosione della violenza nei campi va verso il suo apogeo». (p. 32)

E così apprendiamo, per fare alcuni esempi, che per quanto riguarda la vita sessuale, secondo d’Almeida è doveroso abbandonare lo stereotipo, perché non supportato da dati ed elementi probanti sufficienti, di una sfrenata attività sessuale attribuita al personale SS di sorveglianza nei campi, così come quello di una sessualità disturbata, spesso attribuita agli ufficiali di più alto grado. Secondo lo studioso francese si tratta di un cliché sorto dopo la guerra «allo scopo di stigmatizzare la mostruosità dei carnefici – come se fosse stato necessario aggiungere ai loro crimini comportamenti che oltrepassavano il senso comune». (p. 67)
Piuttosto la sessualità del personale tedesco dei campi era regolamentata dai divieti conseguenti alle leggi razziali e di difesa del sangue tedesco: «nessuna relazione omosessuale, nessun rapporto interrazziale, nessun contatto intimo tra detenuti e sorveglianti. Nei fatti, i comportamenti sono più variegati». (p. 66)

Di certo fu incoraggiato il ricorso al bordello e ne furono aperti alcuni appositamente per il personale dei campi. «Contrariamente alle case chiuse destinate ai lavoratori forzati, situate nell’area dei rispettivi campi e poste sotto la sorveglianza dei guardiani, come nel caso di Buchenwald, pare che quelle destinate al personale fossero poste al di fuori dei reticolati. Ad Auschwitz, per esempio, le SS potevano recarsi in centro città due giorni a settimana, tra le 17 e le 23, quando era loro riservato un bordello che, altrimenti, era frequentato da cittadini tedeschi e, in particolare, dai militari della Wehrmacht». (p. 71)

ALBUM HOCKER ALTRE 1Proseguendo, ci viene detto che uno dei modi di trascorrere il tempo libero preferiti consisteva nel mangiare e bere insieme, attività ricreativa che veniva incentivata dalle autorità, dal momento che poteva cementare lo spirito di gruppo ed il cameratismo. Ma anche l’ascolto di musica attraverso l’invio ai diversi campi di un ricco materiale discografico fu utilizzato come mezzo di divertimento e distrazione. Molto apprezzate e richieste erano le radio, in linea con i costumi e le abitudini dei tedeschi, essendo dagli anni ’30 la distribuzione di apparecchi radio particolarmente capillare in Germania. Ma non mancavano naturalmente le carte da gioco, i giochi di società, i giornali e le riviste e le librerie, i cui cataloghi, in larga parte uguali in tutti i lager, da d’Almeida vengono attentamente spulciati, dal momento che in questo caso alla funzione di svago si aggiungeva quella di formazione ed inquadramento politico ideologico. A tutto ciò, si aggiungevano, infine, spettacoli, attività e gare sportive, insomma un interno inventario di pratiche ludiche e ricreative del tutto ordinarie e comuni, se non fosse che per nulla ordinario e comune era il contesto in cui tutto ciò accadeva. Pertanto, scrive d’Almeida proprio nelle ultime righe del suo lavoro, «la conclusione che si impone è racchiusa in una frase. Nei campi di concentramento e di sterminio, gli esecutori non hanno solo massacrato donne e bambini: essi hanno anche ammazzato il tempo». (p. 162)

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“Andonno e l’ammazzonno”: Padule di Fucecchio, 23 agosto 1944 https://www.carmillaonline.com/2016/03/10/andonno-e-lammazzonno-padule-di-fucecchio-23-agosto-1944/ Wed, 09 Mar 2016 23:01:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29070 di Sandro Moiso

padule testo Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016, pp.331, € 25,00

La strage di Fucecchio è la quinta, per ordine di grandezza, fra quelle compiute in Italia dalle truppe tedesche di occupazione. 174 morti accertati e di quelle attribuibili direttamente alla Wermacht, e non alle SS, è la maggiore. Luca Baiada, magistrato che ha indagato anche sull’«Armadio della vergogna», l’insabbiamento dei fascicoli sulle stragi naziste in Italia rimaste impunite, e che collabora alle riviste “Il Ponte” e “Questione giustizia” [...]]]> di Sandro Moiso

padule testo Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016, pp.331, € 25,00

La strage di Fucecchio è la quinta, per ordine di grandezza, fra quelle compiute in Italia dalle truppe tedesche di occupazione. 174 morti accertati e di quelle attribuibili direttamente alla Wermacht, e non alle SS, è la maggiore.
Luca Baiada, magistrato che ha indagato anche sull’«Armadio della vergogna», l’insabbiamento dei fascicoli sulle stragi naziste in Italia rimaste impunite, e che collabora alle riviste “Il Ponte” e “Questione giustizia” oltre che ad altre pubblicazioni politiche e giuridiche, ha dedicato alla ricostruzione dell’evento molti anni di attività. Sia in veste di magistrato che di storico.

Ma assimilare il suo ultimo testo sull’eccidio del 23 agosto 1944 ad un’opera di carattere soltanto storico o giuridico sarebbe estremamente riduttivo.
Nell’arco dei diversi anni che l’autore le ha dedicato, la ricerca si è trasformata in un’autentica ricerca partecipata in cui in gioco non sono entrati soltanto i testi consultati, le sentenze emesse, le testimonianze degli accusati e degli accusatori (ovvero dei soldati ed ufficiali tedeschi autori diretti o responsabili della strage e dei superstiti della stessa), ma anche le sue personali memorie famigliari, la passione e la lingua dei sopravvissuti, le testimonianze inscritte nel paesaggio e nel tempo e anche quella, apparentemente muta, di coloro che egli chiama i diversamente vivi. I morti, appunto, che parlano ancora attraverso le parole, i sogni, gli incubi e gli stessi silenzi dei loro congiunti rimasti in vita.

Un’opera unica nel suo genere, che scatena nel lettore un’autentica tempesta di sentimenti, passioni, dolore e orrore. La stessa che lo stesso Baiada non nasconde di aver vissuto sia come magistrato che come ricercatore e scrittore. “Scrivo con le lacrime agli occhi” afferma ad un certo punto l’autore e in un’altra parte spiega: “L’esito di questo libro riconduce all’impossibilità e insieme alla necessità di dire l’indicibile, perché questa contraddizione è un altro volto della necessità e dell’impossibilità di dare un senso all’insensato, del rischio di giustificare l’ingiustizia. Il testo è nato per accumulo, poi per frammentazione, e so che non esaurisce i fatti, e che per questo si rifiuta di riordinarli in un andamento lineare. E’ una caratteristica che rivendico e che in fondo mantiene la promessa, quella appunto di non dire l’ultima parola su una strage fra le più gravi dell’occupazione tedesca in Italia, forse la più assurda. L’incompiutezza può sfidare a proseguire il cammino, la memoria non si ferma” (pag. 306)

La precisione non è la verità” aveva affermato in un suo testo Henry Matisse e, anche se il contesto della pittura moderna e quello della ricerca storica sembrano così distanti, è vero che la trasmissione delle realtà umana, sensibile ed extrasensibile (quella dei ricordi, del dolore, dei sentimenti e delle passioni), non può avvenire soltanto attraverso la fredda rappresentazione o catalogazione dei fatti mentre la loro interpretazione non può sfuggire all’influenza dell’inconscio collettivo, o anche soltanto di chi scrive o dipinge, e dei suoi percorsi. Tutti elementi che introducono in qualsiasi rappresentazione più di un elemento contraddittorio che soltanto una necessità di riordinamento e aggiustamento, detta altrimenti spiegazione, istituzionale o politica che sia, può far finta di rimuovere oppure cancellare del tutto.

C’è un sentiero del lavoro intellettuale che è difficile da percorrere, ma che è più solido e più piacevole, proprio perché non è dell’intelletto ma del sentimento. Pochi riescono ad attingerlo […] Persino le ricerche e gli studi , a volte, tradiscono questa consapevolezza, quando verificano ossessivamente i dettagli, illudendosi che la maggiore esattezza significhi migliore memoria e più condivisione” (pag.290)

E’ un tema scottante quello che Baiada, con estrema lucidità, porta alla ribalta e che contiene al suo interno diversi elementi di carattere giuridico, politico, conoscitivo e di classe. Perché anche la verità può non coincidere con la realtà. Troppo spesso, infatti, la ricostruzione delle storie delle lotte oppure delle violenze del potere diventano retoriche, pur essendo magari partite con le migliori intenzioni. Mentre le spiegazioni che vogliono essere definitive o complete, troppo spesso finiscono col giustificare, anche indirettamente, ciò che è ingiustificabile. La brutalità dell’oppressore viene così inserita in una strategia spiegabile, forse addirittura condivisibile; al contrario delle strategie di resistenza messe in atto dagli oppressi, che continuano ad essere molte volte considerate irrazionali o inadeguate, sia nel caso in cui prevedano l’uso della violenza sia nel caso opposto. Diciamolo pure: una mal interpretata obiettività del lavoro storico rischia così, molte volte, di colpevolizzare le vittime quanto i carnefici.

Nel leggere il testo sulla strage del Fucecchio vengono in mente in continuazione riferimenti ad episodi a noi più vicini, dalle stragi americane in Vietnam, agli agenti di polizia che ingiuriano e umiliano e torturano i giovani della scuola Diaz oppure ai tormenti dei milioni di disperati che cercano di sfuggire a guerre odiose ( ma quando mai una guerra non lo è?) finendo col ritrovarsi soltanto in una terra di nessuno (Calais, la frontiera macedone o ungherese o qualsiasi altro luogo in Europa o nel Vicino Oriente) dove, così come gli sfollati, gli sbandati, i disperati e i renitenti alla leva rifugiatisi nel padule, potrebbero essere in qualsiasi momento trasformati in corpi da eliminare e rimuovere. Con qualsiasi mezzo.

Episodi talvolta altrettanto gravi ed altre no, ma che sempre vedono tra i loro esecutori uomini e soldati comuni. Nel caso di Fucecchio soldati dei reparti esplorativi meccanizzati della Wermacht. Non delle SS che la vulgata popolare, troppo spesso, tende ad individuare come uniche colpevoli degli atti di crudeltà; mentre dal magnifico saggio “La banalità del male” di Hannah Arendt in avanti abbiamo imparato che sono troppo spesso proprio gli uomini, e talvolta le donne, comuni1 a perpetrare i crimini più orrendi soltanto perché hanno burocraticamente ricevuto un incarico

E’ la guerra” sembra essere spesso la spiegazione più ricorrente, in cui il pur sotteso intento morale finisce sempre con lo sfociare semplicemente in una giustificazione. Generale e non vera, perché, come afferma chiaramente Baiada, non si tratta soltanto di guerra.
Certo le truppe tedesche nel 1944 stavano abbandonando Firenze (dove la battaglia con gli insorti italiani appoggiati dagli Alleati si era protratta fino al 20 agosto), dopo aver già abbandonato Roma il 4 giugno.

Così “Si può immaginare che in un angolo buio la percezione della disfatta inducesse i tedeschi a lasciarsi dietro una scia di lutti […] in cui i superstiti avrebbero letto un monito indelebile: anche vincendo una guerra, mettersi contro i tedeschi costa troppo sangue […] Potrebbe esserci il sangue delle stragi nel fatto che nel volgere di un secolo la Germania, pur avendo perso due guerre, ha un peso che nel 1914 sarebbe stato inimmaginabile. La domanda sul perché, insomma, potrebbe nasconderne un’altra: per chi?” (pag.263)

Perché “intorno al Padule di Fucecchio, soprattutto lungo i suoi margini settentrionali e orientali, i tedeschi irrompono nelle case, percorrono i campi, invadono le aie, e uccidono e uccidono, anche donne, bambini, vecchi.[…] L’eccidio è in un’area povera, con legami tra vaste famiglie “ (pag.11), ed evitano accuratamente di addentrarsi nel cannellaio, il centro della palude, dove effettivamente si nascondono i membri di una formazione partigiana. “Per i tedeschi la distinzione tra partigiani e italiani è confusa quando si uccide. Ma nitida quando c’è da combattere. Non entrano nella palude, sopravvalutando la formazione partigiana, ma uccidono nella zona circostante dove non rischiano nulla […] Qui gli armati si dirigono contro i disarmati e ne fanno strage” (pag.60)

Ma all’autentica festa di morte svoltasi nel padule non partecipano nelle vesti di aguzzini soltanto soldati ed ufficiali tedeschi: ci sono anche italiani. Fascisti, in veste di interpreti, informatori, spie e guide. Spesso mascherati, con divise tedesche e cappucci per non farsi riconoscere da coloro che saranno uccisi o che vedranno le loro famiglie massacrate. Gli stessi che dopo essersi ritirati al seguito delle truppe germaniche, ritorneranno di lì a qualche anno sul luogo del delitto. Impuniti e ancora capaci di incutere timore tra i superstiti. Alla faccia di tutti i piagnistei della destra e dei “pacificatori democratici” sugli omicidi di fascisti e le vendette che sarebbero state consumate dopo la Liberazione.

La cosa più straziante e allo stesso tempo bella del libro è costituita dal fatto che a narrare i fatti, gli omicidi, gli stupri, l’assoluta arbitrarietà della violenza, la paura non è quasi mai la voce distaccata dello storico o del giureconsulto, ma la voce dei testimoni diretti, nel loro dialetto così distante dal fiorentino esibito dall’attuale premier o dai comici di regime. L’uno così vivo, nonostante tutto, e l’altro così morto.

E’ la lingua dei poveri e degli incolti a narrare, cioè proprio di coloro la cui testimonianza è spesso rimossa dai testi di storia, scritti quasi sempre dai depositari di una “istruzione” lontana dai meno abbienti. Privarli della parola può costituire infatti, troppo spesso, l’ultima e più crudele forma di espropriazione e di esclusione, facendo così che anche la memoria dei “vinti” della storia diventi patrimonio dei “vincitori”.

Ne è consapevole una delle testimoni superstiti, Maria Grazia Gallegani, che rileggendo, nel 1997, gli atti del 1945, quando fu sentita dai britannici, si domanda: ”La storia viene sempre poi, cioè, artefatta, perché non riporta mai le cose vere, non capisco perché. Come fanno i posteri poi a sape’ la verità?” – Intervistatore: “Beh, guardando questi documenti” – “Eh, lo so. Ma non corrispondono sempre, alla verità” (pag.292)

Non è il caso di Baiada che, al contrario, organizza un saggio di autentica storia orale ricostruita attraverso le testimonianza rilasciate in tempi diversi prima agli ufficiali britannici incaricati di indagare sulla strage nel periodo immediatamente successivo alla stessa, poi a carabinieri e in seguito ai magistrati dei processi. Ma raccolte anche dallo stesso autore tra i superstiti o i loro famigliari ed eredi ancora in vita.

Famigliari ed eredi cui i vari processi non hanno dato reali soddisfazioni. Così è possibile notare che “Una larga parte della strage avviene nella tenuta dei Poggi Banchieri, e stermina le famiglie dei loro contadini, dei parenti e degli sfollati che vi hanno trovato ospitalità. All’edificio padronale si accede dalla via Francesca, è una grande villa con giardino, e una targa dice: «Villa Banchieri Castelmartini, restaurata con il contributo dello Stato»; è probabile che lo Stato abbia dato più per il restauro della villa che per il risarcimento alle famiglie delle vittime” (pag.24)

A riassumere le vicende giudiziarie inerenti l’eccidio, successive alla fine del conflitto, basterebbe il titolo di uno dei capitoli: Settant’anni e quattro processi. Giustizia no.
I primi tre processi sono militari, “nessuno può chiedere i risarcimenti e di responsabilità dello Stato tedesco non se ne parla neanche; le condanne sono miti o espiate solo in parte” (pag.266). Tutti e quattro i processi, comunque, riguardano soltanto i militari tedeschi, mentre per i fascisti prosegue l’impunità iniziata con l’amnistia Togliatti.

Non a caso però nel processo di Firenze del 1948 a carico di uno dei comandanti dei militari coinvolti nell’eccidio si invocano e si ottengono le attenuanti “per coloro che, pur non appartenendo alle forze armate italiane, hanno, nel corso di un’alleanza, versato il loro sangue in una guerra comune”. Insomma poiché prima dell’8 settembre 1943 i tedeschi erano alleati degli italiani, ciò che hanno compiuto dopo quella data a danno delle popolazioni italiane può essere ritenuto meno grave. “Il giudice relatore è Enrico Santacroce: diventerà procuratore generale militare, e il 14 gennaio 1960 firmerà la sconcia «provvisoria archiviazione degli atti», lucchetto dell’armadio della vergogna” (pag.272)

Soltanto nel 2006, con il processo per le stragi di Civitella, Cornia e San Pancrazio, arriverà una prima condanna della Germania a risarcire i danni causati ai cittadini italiani in quei drammatici eventi. Ma già “nel 2008 la Germania ricorre alla corte internazionale di giustizia dell’Aia, che dopo un lungo procedimento le dà ragione, a febbraio 2012, con una sentenza che fa notizia […] Comunque, ancor prima della pronuncia della corte internazionale, per il solo fatto che Berlino ha proposto ricorso, l’Italia penalizza gli interessi dei suoi cittadini con due leggi. Non negano il diritto al risarcimento né la responsabilità tedesca: si limitano a sospendere l’esecuzione. Con le dovute proporzioni, lo stesso effetto della mancata estradizione degli imputati: condanna sì, esecuzione no” (pag. 274) Cosa che il riconoscimento, dalla municipalità tedesca di Engelsbrand, a uno degli uomini che si macchiarono di una delle peggiori stragi naziste, quella di Marzabotto, sull’Appennino bolognese, fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, Wilhelm Kusterer oggi 94enne, non fa altro che confermare con l’aggravante dell’autentica beffa per il dolore di chi quella strage la subì.

Germania che sembra rivendicare, nonostante le prese di distanza della Cancelliera Merkel dall’ultimo fatto, una sua precisa continuità d’azione, come ben dimostrano gli stretti rapporti con il regime turco del presidente Erdogan che sembrano rinnovare i fasti dell’alleanza tra Impero Ottomano e Impero Guglielmino ai tempi del primo conflitto mondiale e della strage degli Armeni2 che servì da modello alla successiva “soluzione finale” per gli Ebrei dell’Europa Orientale occupata dalle truppe naziste.

Nel dicembre del 1942, Hitler aveva dichiarato. “A chi porta le armi deve essere assicurata assoluta copertura, affinché il povero diavolo non si debba chiedere se poi sarà ancora chiamato a rispondere delle sue azioni” (cit. pag.194) La decisione sembra funzionare ancora oggi, tanto che con il decreto del 10 febbraio scorso, secretato per motivi di sicurezza, i nostri militari di unità speciali, per missioni speciali decise e coordinate da Palazzo Chigi, avranno le garanzie funzionali degli 007 e, dunque, licenza di uccidere e impunità per eventuali reati commessi.

All’epoca la Germania massacrava non per difesa o per costruire fortificazioni, come si è sentito ripetere dai difensori degli imputati in tanti processi, “ma per il controllo del territorio, in funzione del saccheggio e della deportazione” (pag. 278), in funzione primariamente terroristica. Ma l’imperialismo non si può processare, così “la giustizia negata è una prosecuzione del crimine con altri mezzi” (pag.249)

padule 1 Il grande merito di Luca Baiada e del suo terribile e magnifico libro, è proprio quello di voler mantenere aperta la ferita, di non volerla lasciar richiudere facendo finta che suturarla sia l’unica cosa utile e saggia da fare; perché quella suturazione consisterebbe soltanto nel buttare altra terra sui cadaveri delle vittime, cancellandone la memoria e favorendo una presunta pacificazione che non c’è mai stata e mai potrà esserci. Perché il tempo dei “vinti” continuerà a scorrere diversamente da quello dei vincitori fino a quando sopravviveranno le differenze di classe.

Vittoria Tognozzi, un’altra testimone superstite, nel 1999 affermava: ”Dice bisogna scusare, dice chi ha fatto male, dice, bisogna. Perdonare, dissi io? Io non farei altro, se l’avessi davanti all’occhi, dissi io, l’ammazzerei, subito immediatamente” (pag.154). Ricordando, successivamente, la morte di Ugo Romani, ucciso il 6 luglio 1944 mentre cercava di difendere la sua famiglia dallo stupro e dall’omicidio che i tedeschi intendevano mettere in atto, ricorda “E allora lui l’ammazzò un tedesco, lo spezzò col pennato 3 e lo buttò nel pozzo nero. E lui lo ‘mpicconno in cima alle scale” . Il tedesco fu tagliato in due, racconta Vittoria allo stesso Baiada e sorride soddisfatta mostrando come l’arnese possa andare su e giù. Mentre alla domanda perché secondo lei non ci sia stata giustizia , risponde: “Perché non c’è sangue nelle vene degli italiani” (pag. 45)


  1. Si legga anche in proposito il saggio di Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi 1999  

  2. Si veda La questione della complicità tedesca e Il genocidio armeno raffrontato all’Olocausto e ai processi di Norimberga in Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, Guerini e Associati 2003  

  3. roncola  

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