bad girl – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Sep 2025 12:52:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 C’è del marcio in Danimarca /1: Dal rock’n’roll di Detroit all’insurrezione di Varsavia del 1944 https://www.carmillaonline.com/2022/01/17/ce-del-marcio-in-danimarca-1-dal-rocknroll-di-detroit-allinsurrezione-di-varsavia-del-1944/ Mon, 17 Jan 2022 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70112 di Sandro Moiso

Something is rotten in the state of Denmark (Hamlet – William Shakespeare)

E’ da poco giunta la notizia della morte, avvenuta il 15 gennaio scorso, di Rachel Nagy, cantante e fondatrice del gruppo rock Detroit Cobras. Una voce roca, sensuale, ispirata alle radici blues e country del rock’n’roll, probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei lettori di Carmilla. Bad girl per antonomasia e degna erede di Wanda Jackson, di cui agli inizi della carriera del gruppo ripropose una versione altrettanto trascinante di Funnel of Love, e di Rose Maddox, avrebbe [...]]]> di Sandro Moiso

Something is rotten in the state of Denmark (Hamlet – William Shakespeare)

E’ da poco giunta la notizia della morte, avvenuta il 15 gennaio scorso, di Rachel Nagy, cantante e fondatrice del gruppo rock Detroit Cobras. Una voce roca, sensuale, ispirata alle radici blues e country del rock’n’roll, probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei lettori di Carmilla. Bad girl per antonomasia e degna erede di Wanda Jackson, di cui agli inizi della carriera del gruppo ripropose una versione altrettanto trascinante di Funnel of Love, e di Rose Maddox, avrebbe ispirato a sua volta altre interpreti femminili, non ultima, forse, Amy Winehouse.

Ma non siamo qui per scrivere un pur meritato e commosso elogio della cantante, il cui cognome ne indicava le origini ungheresi1, ma piuttosto per segnalare come in tale occasione i media e i social, non solo italiani almeno per una volta, abbiano riportato tutti che la cantante sarebbe morta all’età di 37 anni, senza cogliere l’evidenza dell’errore nel fatto che se la cantante fosse davvero nata nel 1984, come appunto si afferma da più parti, avrebbe avuto poco più di dieci anni al momento delle prime incisioni del gruppo avvenute nel 1995.

La storia della Nagy era più lunga e complessa di quella di una ragazzina di 11 anni, come sarebbe stata se l’età riportata fosse quella giusta, avendo la stessa esercitato l’attività di “danzatrice esotica” nei night club di Detroit prima di esordire nella carriera di cantante rock’n’roll, soul e blues che, con alterne fortune, non avrebbe più abbandonato fino alla fine dei suoi giorni. I Detroit Cobras erano infatti emersi prepotentemente alla metà degli anni novanta dalla scena garage di Detroit (qui) trovando come possibili rivali nel loro genere soltanto i californiani Bellrays di Lisa Kekaula che li avevano preceduti di qualche anno.

Ora però, sarebbe bastato affidarsi non soltanto al sentito ricordo di uno dei componenti del gruppo di Detroit in cui si afferma che Rachel sarebbe morta all’età indicata dalla maggior parte dei social media, per scoprire, sulla pagina facebook ufficiale dei Detroit Cobras, che in realtà la cantante era nata nel 1971.
Certo, nulla di grave sta nel fatto che l’amico l’abbia voluta ricordare all’epoca in cui Rachel aveva inciso l’ultimo album con il gruppo2, ma la superficialità con cui i media riportano la notizia rivela ancora una volta come la disinformazione imperante non sia frutto di volontarie e strumentali fake, ma soltanto dell’ignoranza e della faciloneria che dominano l’età della rete e dei blog fai da te.

Inutile continuare a stupirsi delle balle e delle narrazioni tossiche che circolano in rete, dalle scie nel cielo al terrapiattismo fino al fatto che il Covid-19 non esisterebbe oppure sarebbe strumento di chissà quale complotto, magari satanico ad ascoltare monsignori quali Carlo Maria Viganò: basta guardare alla dis/informazione ufficiale per capire dove hanno origine le montagne di bufale e frottole che ci accompagnano quotidianamente, specialmente sui social.

Se l’esempio della Nagy sembrasse un po’ riduttivo, varrebbe allora la pena di sottolineare uno svarione storico ben più grave, riportato senza alcuna nota di biasimo, in un libretto appena apparso in edicola, per le edizioni de «il Sole 24 ORE», dedicato all’insurrezione di Varsavia del 19443 e curato da Paolo Colombo, professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso l’Università Cattolica di Milano, che si picca di promuovere la conoscenza storica attraverso il dialogo con il pubblico e l’uso di strumenti mediatici e letterari.

Beato chi gli crede se già a pagina 2 del suo libretto egli riporta, da un testo di storia contemporanea in uso all’Università4, una citazione in cui si afferma che l’insurrezione di Varsavia del 1944, successiva a quella del ghetto ebraico della stessa città del 1943, sarebbe avvenuta a partire dal settembre di quell’anno e non dal 1° agosto 1944 come effettivamente fu. Senza segnalare l’errore e senza, poi, riportare nemmeno in bibliografia gli importanti testi di Marek Edelman, comandante militare dell’insurrezione del ghetto, su quella del 19435.

In 63 giorni di insurrezione, i combattenti dell’esercito di liberazione polacco riuscirono a respingere gli occupanti nazisti dal centro cittadino, sotto lo sguardo immobile di Stalin e delle truppe sovietiche che si erano fermate al di là della Vistola, senza avanzare sulla città fino a molte settimane dopo che ogni traccia di resistenza era stata annientata dalle armi tedesche.
La città in quei due mesi fu distrutta all’87% (uno dei tassi più elevati di distruzione urbana dell’intero secondo conflitto mondiale) e due terzi degli abitanti, di una città che inizialmente ne contava un milione e trecentomila, furono eliminati dalla violenza, dalla fame e dalle conseguenze degli incessanti bombardamenti e delle rappresaglie successive alla sconfitta dell’insurrezione.

Se la vera età della Nagy è questione “leggera” e conta poco e se anche i morti polacchi, forse, pesano ancora meno, quello che conta allora davvero è il fatto che la verità mediatica scritta e divulgata, più per ignoranza e dabbenaggine che per un piano contorto, deve comunque sempre trionfare. Purtroppo però quello che rende tutto ciò invisibile e credibile, allo stesso tempo, è l’ignoranza uguale, e talvolta peggiore, di chi vi si dovrebbe opporre. Studiare, confrontare i fatti, verificare i dati, pensare sembrano attività diventate ormai difficili, se non addirittura impossibili, mentre parlare e scrivere costa ormai nulla, manco l’apprendimento delle conoscenze più elementari. Facendo sì che la legge del “copia e incolla” e dei “like”, resa possibile dagli strumenti di comunicazione elettronici e dalla rete, finisca con il dominare oggi ogni forma di riflessione (di fatto annullandola).

Ma come il triste principe danese torneremo ancora sul marciume ideologico e sull’ignoranza profonda che tutto circonda e pervade in questo periodo di emergenze armate e di movimentismo imbelle.


  1. Imre Nagy era il nome del primo ministro ungherese che per aver solidarizzato con gli insorti del 1956 fu impiccato per tradimento dai sovietici nel 1958  

  2. L’ultimo disco ufficiale dei Detroit Cobras, Tied & True, è infatti uscito il 24 aprile 2007, anche se lo stesso gruppo, sempre guidato da Rachel Nagy, ha continuato ad andare in tournée almeno fino al 2019  

  3. Paolo Colombo, Varsavia 1944. Storia della distruzione di una città, Il Sole 24 Ore – Cultura, sabato 15 gennaio 2022, pp. 85  

  4. AA.VV., Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997  

  5. Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia in lotta, a cura di Wlodek Goldkorn, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012; Hannah Krall, Arrivare prima del Signore Iddio. Conversazioni con Marek Edelman, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2010; Rudi Assuntino, Wlodek Goldkorn (a cura di), Il guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio editore, Palermo 1998 e Marek Edelman, C’era l’amore nel ghetto, Sellerio editore, Palermo 2009  

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La narrazione audiovisiva all’americana. Dal muto al classicisimo hollywoodiano https://www.carmillaonline.com/2017/08/11/36343/ Thu, 10 Aug 2017 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36343 di Gioacchino Toni

John_Ford_Nicholas_Ray_Le tematiche, i valori, i miti e gli eroi della narrazione all’americana dall’epoca del muto alla contemporaneità nei film e nelle serie televisive sono sinteticamente ricostruiti da Federico di Chio nel suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016). In questo scritto prendiamo in esame il periodo compreso tra il muto ed il classicismo hollywoodiano riservando ad un successivo intervento il compito di esaminare la parte del saggio – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione [...]]]> di Gioacchino Toni

John_Ford_Nicholas_Ray_Le tematiche, i valori, i miti e gli eroi della narrazione all’americana dall’epoca del muto alla contemporaneità nei film e nelle serie televisive sono sinteticamente ricostruiti da Federico di Chio nel suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016). In questo scritto prendiamo in esame il periodo compreso tra il muto ed il classicismo hollywoodiano riservando ad un successivo intervento il compito di esaminare la parte del saggio – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

L’analisi proposta dal saggio prende il via da quando, nella prima metà degli anni Dieci del Novecento, ai cortometraggi, che sin dagli anni precedenti vengono proiettati a ciclo continuo da mattina a sera nei nickel-odeon popolari, si affiancano i lungometraggi ed alla working class che frequenta le sale si aggiunge un pubblico di ceto sociale più agiato. Molto velocemente il cortometraggio è soppiantato dal nuovo formato capace di raccontare storie più elaborate ed avvincenti secondo un’articolazione in tre macro-generi caratterizzati da una netta e stereotipata contrapposizione tra bene e male: l’avventuroso, il comico-dinamico ed il drammatico.

Iron Horse (1924, John Ford)

Iron Horse (1924, John Ford)

Nel corso degli anni Venti, in un clima di crescita dei consumi negli Stati Uniti, l’etica del sacrificio e della parsimonia borghese-puritana si allenta ed il cinema sembra riflettere un nuovo modo di guardare ai valori della famiglia tradizionale, alla figura femminile ed alla sessualità. Il western è probabilmente il genere che meglio riesce a dare immagine allo spirito di ottimismo individualista ricorrendo al mito della conquista ed al principio del destino manifesto. I lungometraggi tendono dunque a celebrare e promuovere i valori della libertà individuale e della proprietà in storie che narrano del conflitto tra operosi coloni ed insidiosi villain che hanno le sembianze dei banditi, degli indiani e degli speculatori.

I generi si fanno via via più complessi ed ai successi della commedia romantica brillante si affiancano quelli dei light drama «che narrano la parabola di affermazione di esponenti del ceto medio-popolare […] o, di contro, la parabola di discesa e conversione di altezzosi aristocratici o di ricchi industriali messi alla prova dal destino» (pp. 24-25). Amore, benessere materiale ed affermazione dell’individuo divengono gli elementi trainanti del cinema muto.

Il saggio analizza anche lo sviluppo della figura della flapper, una giovane donna ammaliata dal sogno della ricchezza e dalla libertà dei costumi che, solitamente, sul finire della narrazione, si rende conto dei rischi della deriva intrapresa e sceglie di recuperare i valori tradizionali fondamentali.

In generale la narrazione nel cinema muto americano è decisamente più dinamica rispetto alle produzioni europee dello stesso periodo, tanto che l’incalzante ritmo narrativo ne diviene un tratto distintivo. Secondo lo studioso la produzione hollywoodiana del periodo sembra adottare due forme base: «La prima centrata sull’azione efficace e spettacolare del protagonista che sconfigge i malvagi villain o supera gli ostacoli della sorte, restituendo a sé stesso e alla comunità l’equilibrio perduto. La seconda forma base è invece centrata sulla reazione del personaggio, costretto in una condizione di passività» (p. 28). La struttura narrativa è orientata al risultato che, il più delle volte, significa il ristabilimento dell’equilibrio iniziale.

Sul finire degli anni Venti del Novecento nel cinema americano arriva il sonoro e ciò impone una costosa trasformazione del sistema-cinema. Mentre nuove star sostituiscono quelle del muto ed il linguaggio del cinema cambia, il paese si trova a fare i conti col crack economico-finanziario del ’29 che assesta un colpo pesante all’immaginario del mito americano e molti Studios, in preda alla crisi, finiscono nelle mani di grandi banche. La ristrutturazione dell’industria cinematografica comporta una maggiore standardizzazione produttiva e narrativa ed il cinema per riconquistare pubblico gioca soprattutto la carta del sensazionalismo.

Anche se è entrato in vigore nel 1930, il codice di censura Production code inizia ad essere realmente applicato soltanto attorno alla metà del 1934. Il periodo compreso tra l’avvento del sonoro (fine anni Venti) e la reale applicazione del Codice viene identificato come Pre-Code Era ed è caratterizzato da una certa licenza espressiva e contenutistica, tanto che numerose pellicole insistono su storie di lussuria, adulteri e rapine. Nonostante i personaggi positivi restino in primo piano, un certo rilievo viene concesso a protagonisti negativi come gangster, personaggi violenti, bad girl, gold digger (ciniche cacciatrici di un buon partito), fallen women, shyster (farabutti dell’alta società) ecc.

american-storytellingDal punto di vista narrativo, sottolinea l’autore, i primi anni Trenta palesano notevoli differenze rispetto alle produzioni del muto. «Da un parte, le storie hanno un andamento lineare, scandito dal ritmo serrato e incalzante degli eventi e della varietà delle soluzioni; dall’altra, però, si tratta di una linearità episodica, più che vettoriale: le relazioni causa-effetto, motivazione-azione, sono un po’ lasche e i processi trasformativi non sono affatto pronunciati […] la parabola del protagonista procede per tappe […] Ellissi, passaggi bruschi da un filone dell’intreccio a un altro, equivoci inspiegabili, decisioni immotivate, coincidenze sorprendenti, interrogativi che restano senza risposta sono all’ordine del giorno in un modo di raccontare che non ha ancora trovato non solo fluidità espositiva, ma anche la “necessità” logica di fondo» (p. 37).

A puntellare tali narrazioni si inseriscono parecchi momenti di attrazionalità. A livello narrativo, si sostiene nel volume, alla trasformazione si sostituisce sovente una semplice risoluzione ed i protagonisti si mostrano incapaci di gestire totalmente le situazioni in cui si imbattono per poterle condurre a buon fine. In un’epoca di crisi sociale che mina le fondamenta del sogno americano è difficile dare spazio ad eroi risolutivi.

Il western, che già negli anni Venti è il genere trainante della produzione hollywoodiana, agli inizi del nuovo decennio è in sofferenza tanto per le difficoltà derivate dal sonoro (che per qualche tempo limita le riprese in esterno) che per il mutato immaginario; l’ottimismo nel progresso, il mito della frontiera e le capacità performative del personaggio che contraddistinguono il decennio precedente, inevitabilmente stentano di fronte alla Depressione. «Enfatizzare il ruolo del destino o del caso nelle vite degli uomini e denunciare la loro incapacità di incidere sulle cose significa però anche ridimensionare le responsabilità. In questo, dunque, la drammaturgia hollywoodiana del periodo [sfida] la diffusa convinzione secondo cui le ragioni della debolezza o della devianza di un uomo sono da ricondurre alla sua indole e non alle difficoltà del contesto sociale in cui vive» (pp. 40-41).

Di pari passo al New Deal si assiste al recupero dell’american dream e con esso al bisogno di eroi; non è un caso, sottolinea Federico di Chio, che sul finire degli anni Trenta nascano eroi di carta come Superman e Batman.
Con l’applicazione del Codice il cinema abbandona i soggetti più scabrosi e si allontana dalla vita quotidiana. Tutti i generi subiscono una forte trasformazione ed a partire dalla fine degli anni Trenta il western torna a conquistare il suo spazio lungo due direttrici: da una parte attraverso racconti di taglio epico-storico, volti a far coincidere il progresso collettivo con il sogno individuale, dall’altra attraverso storie di pistoleri che, seppur frequentemente poco inclini a sottostare alla legge, risultano dotati di un forte senso di giustizia che li porta a difendere i più deboli dal grande capitale.

Giunti a metà degli anni Trenta si entra nell’età di quel “cinema classico” che appare ormai capace di gestire il sonoro ed è in tale periodo che, secondo lo studioso, si giunge alla forma forte della narrazione cinematografica che ha le sue radici nel racconto popolare mitico, epico e d’avventura, tanto da mutuarne «il pattern vettoriale (stimolo)-motivazione-azione-obiettivo-(risultato)» (p. 50). È l’azione che determina il corso degli eventi e rivela i caratteri dei personaggi ed in tale tipo di narrazione forte la progressione lineare segue «una struttura di implicazione aperta, tipica delle sequenze domanda-risposta: ogni scena suscita questioni, interrogativi, possibilità che aspettano una risoluzione nelle scene successive» (p. 50).

Se l’eroe del cinema muto nel conseguire l’obiettivo non trasforma il mondo né se stesso, l’eroe del cinema classico con la sua azione cambia il mondo e se stesso e tale azione si mostra del tutto proporzionata dal punto di vista qualitativo e quantitativo alle finalità. Nella forma debole del racconto, invece, i personaggi sono in condizione di passività rispetto alla sorte ed alle azioni altrui e non riescono ad incidere sugli eventi.

Dall’introduzione del Codice, inoltre, segnala Federico di Chio, la distinzione tra personaggio positivo e negativo torna ade essere netta ma si delinea un’articolazione interna ai due poli. Quando il protagonista non appare del tutto positivo compare un secondo personaggio come incarnazione del bene assoluto e lo stesso accade per i ruoli negativi.

Interessante anche la distinzione proposta da Robert B. Ray (A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, 1985) tra official hero ed outlaw hero. Nel primo caso si ha a che fare con un rappresentate delle istituzioni, integrato nella comunità, rispettoso delle leggi e votato al conseguimento dell’interesse comune, nel secondo caso, invece, abbiamo un personaggio individualista ed anticonformista che fatica a sottostare alle leggi ed all’autorità, che agisce in linea non tanto con ciò che impone la legge ma con ciò che ritiene essere giusto.

Angels with Dirty Faces (1938, di Michael Curtiz)

Angels with Dirty Faces (1938, di Michael Curtiz)

Secondo lo studioso «lo schema narrativo classico, nella sua dimensione valoriale, traccia anzitutto un confine tra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, e definisce poi i ruoli dei personaggi in relazione a questa assiologia» (p. 63). Lo schema prevede che il protagonista agisca all’interno del negoziabile mentre l’antagonista deve restane fuori. La drammaturgia classica impone il confronto tra il soggetto e l’altro-da-sé (l’antagonista) e tra il soggetto e un altro-possibile-sé (il deuteragonista che rappresenta ciò che il protagonista potrebbe essere). «In questo schema, a differenza di quanto succedeva nel regime preclassico, l’attenzione si concentra pertanto sul terreno del negoziabile e sulle sue dinamiche interne, lasciando sullo sfondo il grande conflitto tra bene e male assoluti» (p. 64).

Come accade per il cinema Pre-Code, l’autodeterminazione resta una componente importante per i protagonisti ma ora essa appare temperata dal confronto con altri valori. Nel cinema classico l’esito resta sostanzialmente positivo grazie all’intesa spesso raggiunta tra le diverse istanze ma tale sintesi comporta spesso sacrifici e rinunce. Anche se la dialettica valoriale va a buon fine non è detto che si giunga ad un unico punto di sintesi.

Nello sforzo di conciliazione valoriale cercato dal cinema classico, volto alla tenuta ed all’evoluzione simbolico-culturale della società nordamericana, si combinano due spinte: «La prima, più profonda, di lungo periodo e di natura culturale, è legata alle forme della mentalità americana che […] si caratterizza […] proprio per la volontà di non eliminare […] alcuna opzione dal proprio orizzonte di possibilità: ogni scelta di campo compiuta è virtualmente connessa a quella opposta, che rimane un’opzione sempre possibile e la cui insistenza dà continuamente senso alla decisione presa. In questo senso il reconciliatory pattern andrebbe inteso […] come una sorta di “forma simbolica”, uno schema a priori della coscienza americana. La seconda spinta, più contingente […] deriva dall’adozione del Production Code» (pp. 70-71). L’autoregolamentazione, secondo lo studioso, stabilisce un framework negoziale complesso tra valori contrastanti, e se è vero che per diverso tempo parecchi temi, valori e visioni del mondo restano escluse, occorre ammettere che quando anche questi sono presenti nel cinema Pre-Code lo sono soprattutto per finalità spettacolari gratuitamente scandalistiche.

Nel saggio  si insiste anche su come sia limitativo mettere in luce il solo aspetto censorio del Codice; esso si pone anche l’obiettivo di promuovere una determinata visione del mondo. Sarebbe però altrettanto sbagliato non cogliere come, nonostante il Codice, si siano prodotte opere in cui si trovano suggestioni non del tutto normalizzate.

Alla produzione degli anni Quaranta viene fatta risalire la “seconda classicità” del cinema americano. La Seconda guerra mondiale incide profondamente sull’immaginario statunitense ed Hollywood, nel corso di questo decennio, sembra prendere due direttrici principali: da una parte lo smarrimento che attraversa la società americana viene rispecchiato ed interpretato dai film (il noir, il social drama, il male drama ed il woman’s film…), dall’altra il cinema tende a compattare e motivare il paese durante il conflitto e la ripartenza successiva.

Durante il periodo bellico ad avere la meglio sono certamente i film che, in un modo o nell’altro, insistono sul mito collettivo della nazione senza però annullare i miti individuali. Il war movie è sicuramente il genere che meglio di ogni altro riesce a miscelare le due mitologie: spirito di gruppo e leader capaci, cooperazione ed individualismo, bene collettivo e volontà del singolo.

Se nella prima parte degli anni Quaranta il war movie si sostituisce al western, a partire dalla metà del decennio il western viene rilanciato tanto da vivere la sua stagione d’oro e tutto ciò avviene grazie alla rinascita del mito della frontiera e dell’espansionismo americano.

Nel saggio viene evidenziato anche come l’immediato dopoguerra acuisca conflitti culturali e valoriali interni: il mondo agreste-pastorale Vs. il mondo tecnologico industriale, la vita di provincia Vs. la massificazione delle grandi metropoli ecc.

Nel western di questo periodo lo schema narrativo insiste nel giustificare il ricorso alla violenza, anche estrema, attraverso un processo emotivo in cui essa viene motivata e legittimata moralmente. Anche i moventi passionali o la degenerazione dei legami all’interno della comunità famigliare o comunque ristretta hanno il loro spazio.

Knock on Any Door (1949, di Nicholas Ray)

Knock on Any Door (1949, di Nicholas Ray)

Il disincanto e l’amarezza emergono soprattutto in generi come il noir ed il drama in tutte le sue sfaccettature. «Il sogno americano, qui, non è più “destino manifesto”, e neanche un’opportunità dura ma possibile, ma un miraggio lontano. Colpa della scarsa rilevanza del singolo in una società sempre più massificata, segnata da irrimediabili diseguaglianze [e] colpa della fragilità psicologica e della misera levatura morale dell’individuo che non è più all’altezza delle sue aspirazioni» (p. 76).

Relativamente agli anni Quaranta risultano di particolare interesse i generi noir e quelli che concedono spazio alla figura femminile. Nel primo caso si «lavora essenzialmente sulla parabola esperienziale della “discesa agli inferi”, declinandola in varie direttrici narrative: a) l’investigazione su un mistero apparentemente insolubile […] b) l’esperienza tragica di persone accusate ingiustamente […] c) la caduta morale e psicologica di individui che compiono un crimine per debolezza o per necessità […] d) il confronto tra criminali psicopatici, capaci di manipolare/ingannare gli altri, e le loro vittime» (pp. 76-77).
Per quanto riguarda le figure femminili occorre far riferimento soprattutto ai cosiddetti woman’s film che, rispetto al passato, concedono particolare attenzione al protagonismo della donna nella società e nel mondo del lavoro. Noir e woman’s film sembrano indirizzarsi verso la ricerca della verità celata dietro le apparenze. Ad essere indagata è la “soggettività” che si manifesta attraverso le azioni e le espressioni.

Dal punto di vista narrativo a partire dal 1940 la visione veicolata dai film è quella del protagonista che non di rado in voice over introduce gli eventi mostrati in soggettiva o con soluzioni tecniche che rimandano a pensieri e ricordi personali. «La narrazione […] da oggettiva, impersonale, procedente da un’istanza superiore, collocata a una giusta distanza dalle cose, si fa “situata”, incardinata nel soggetto inscena e nella sua interiorità, e dunque parziale. Corrispondentemente, lo spettatore perde il dominio sugli accadimenti. Gli intrecci si fanno complicati, assumendo un andamento non lineare, sia logicamente che cronologicamente, e si sciolgono a fatica» (p. 78).

Il cinema americano del dopoguerra rivela anche la crisi simbolica del maschio che si ritrova in una società che comprime l’individualismo e l’autodeterminazione e deve confrontarsi con figure femminili che non intendono rinunciare all’indipendenza ed all’autonomia a cui si sono abituate durante il conflitto. Da questo punto di vista è il macro genere del drama a palesare le difficoltà che uomini e donne hanno nel negoziare un equilibrio nella nuova realtà.

Nel prossimo intervento esamineremo la parte di American storytelling – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

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