autogestione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 08:49:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un diverso contributo alla storia dell’Autonomia (proletaria) https://www.carmillaonline.com/2023/11/21/un-utile-contributo-per-ridefinire-un-pezzo-di-storia-dellautonomia-proletaria/ Tue, 21 Nov 2023 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80027 di Sandro Moiso

Francesco Schirone (a cura di), L’Utopia concreta. Azione libertaria e Proletari autonomi. Milano 1969-1973, Volume I, Zero in Condotta, Milano 2023, pp. 382, 25 euro

[Per Autonomia operaia] Intendiamo la lotta (in tutte le sue espressioni, dal momento dell’esecuzione materiale e di tutti gli altri momenti riflessivi) di quegli strati che vivono nella condizione proletaria; una lotta che si ponga sempre in posizione antagonistica e mai unificante con gli interessi del sistema organizzato dello sfruttamento; una lotta condotta unicamente nel metodo della convenienza proletaria e non con quello della convenzione del legalitarismo democratico-borghese (vedi sindacalismo, parlamentarismo, ecc.); [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco Schirone (a cura di), L’Utopia concreta. Azione libertaria e Proletari autonomi. Milano 1969-1973, Volume I, Zero in Condotta, Milano 2023, pp. 382, 25 euro

[Per Autonomia operaia] Intendiamo la lotta (in tutte le sue espressioni, dal momento dell’esecuzione materiale e di tutti gli altri momenti riflessivi) di quegli strati che vivono nella condizione proletaria; una lotta che si ponga sempre in posizione antagonistica e mai unificante con gli interessi del sistema organizzato dello sfruttamento; una lotta condotta unicamente nel metodo della convenienza proletaria e non con quello della convenzione del legalitarismo democratico-borghese (vedi sindacalismo, parlamentarismo, ecc.); una lotta il cui potere di gestione sia tutto nelle mani delle masse proletarie sfruttate (autogestione) ripudiando ogni forma di delega di potere decisionale, usando solo il metodo dell’azione diretta. (Spunti per una discussione sul sociale e sull’autonomia proletaria – Proletari autonomi, marzo 1973)

Per uscire, una volta tanto, dalla narrazione “operaista” della nascita e dello sviluppo dell’Autonomia, si rende utile e necessaria la lettura di questo primo volume, edito da Zero in condotta, sull’esperienza dei gruppi anarco-consigliaristi, soprattutto milanesi, che tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta fornirono un impulso organizzativo e nuove ipotesi di riflessione allo sviluppo di un movimento, allora, vivace e allo stesso tempo caotico che avrebbe dato vita e motivi di rinnovamento politico ai movimenti antagonisti di quel periodo attraverso innumerevoli spoglie ideologiche.

Non si tratta, però, qui di stabilire primati, diritti di prelazione o di prima nascita di sigle, teorizzazioni e formule che avrebbero caratterizzato in seguito i movimenti e il dibattito politico al loro interno, ma, piuttosto, di cogliere, come sempre si dovrebbe fare in questi casi, che tutte le varie formule e gli espedienti organizzativi e politici che quegli stessi finirono col produrre e riprodurre affondavano le loro radici non nelle teste dei singoli, nelle idee o in formulazioni ideologiche predefinite in anticipo da partiti o intellettuali più “di mestiere” che rivoluzionari “di professione”, ma nella concreta realtà dello sviluppo delle ribellioni proletarie e operaie, giovanili e studentesche di quegli anni.

Lotte e moti spontanei di rivolta, nelle fabbriche e nei quartieri, nelle strade e nelle università e scuole, che derivavano da concrete condizioni materiali di sfruttamento e oppressione, molto prima e molto più radicalmente di quanto qualsiasi ideologia, dottrina “scientifica” e ipotesi politica o sindacale avesse potuto prevedere in anticipo o con precisione. Da questo punto di vista un certo spontaneismo, termine con cui troppo spesso un’ortodossia, sempre farlocca, vorrebbe bollare tutte le iniziative che sfuggono ai suoi parametri interpretativi, era frutto della spontaneità e della immediatezza delle lotte. Per lungo tempo imprevedibili, tanto per i “padroni” che per i “bonzi” sindacali o di partito.

Se è vero dunque che qualsiasi sistemazione o interpretazione politica o storica delle lotte e delle loro finalità non può avvenire altrimenti che ex post, è altrettanti vero che spesso l’immediatezza dell’idea di azione diretta di stampo anarchico costituisce il primo “sentire” di avvenimenti in corso di maturazione ed evoluzione. Primo “sentire” che spesso si lascia irretire, talvolta, da formulazioni e da utopie sociali un po’ troppo semplicistiche (ma non lo sono, forse, tutte le Utopie?), ma che ha l’indubbio pregio di cogliere l’immediatezza dei fatti, senza per forza costruirvi intorno subito, magari in seguito poi sì, formule teoriche e organizzative che troppo spesso finiscono, nella loro magniloquenza e pretesa affermazione di autorità e verosimiglianza, col dividere gli stessi movimenti da cui sono nate e cui devono le loro concrete origini materiali.

Ecco, allora, che il titolo scelto per la raccolta di saggi, articoli, testimonianze, pagine di giornali e volantini curata da Franco Schirone, L’Utopia concreta, è davvero perfetto. Nelle sue pagine si tratta, infatti, dell’”Utopia concreta” che scaturì dall’unione tra pensiero e azione anarchica e lotte operaie e proletarie non solo in quel di Milano, in cui alcuni dei gruppi che animarono quell’esperienza ebbero origine e sede, ma anche in altre parti d’Italia.

Non a caso, la citazione posta in esergo a questa recensione è tratta da un ciclostilato distribuito come supplemento al n° 1 e 2 di “Proletari Autonomi”, edizione per la Sardegna e ciclostilato a Cagliari nel marzo del 1973. L’ampia raccolta documentaristica inclusa nel volume riesce così a ricreare la memoria di fatti che dalla persecuzione deli anarchici dopo la strage di piazza Fontana alla manifestazione dell’anno successivo in cui nella stessa data della strage, 12 dicembre, morì lo studente Saverio Saltarelli, ammazzato dalle forze del disordine, come diceva la canzone, con una bomba al cuore.

Su su, oppure se preferite giù giù, fino alle cronache delle lotte operaie e alla nascita dei comitati operai e di quei consigli di fabbrica, prima irregolari poi sempre più inquadrati dai sindacati confederali negli anni successivi, oppure ancora alla rivolta di Reggio Calabria del 1970. Una storia dei movimenti e delle loro lotte che, attraverso testimonianze dei protagonisti di allora e dei fogli scritti e ciclostilati di quel tempo, ricostruisce anche lo sviluppo di un’idea di autonomia di classe che iniziatasi nel gruppo Kronstadt (nomen omen) di Milano e dall’esperienza di Azione libertaria (gruppo anarco-sidacalista-consigliare), nel 1969-1972, darà poi vita, dal 1972 al 1974, a Proletari Autonomi, gruppo di discussione teorica che raccoglieva compagni militanti in differenti collettivi autonomi e che, a seguito di una divisone interna, avrebbe poi dato vita, dal 1974 al 1980, al Centro Comunista di Ricerche sull’Autonomia Proletaria (C.C.R.A.P.) e successivamente, ancora, a Collegamenti, fondando l’omonima rivista. Da cui sarebbero ancora derivati, nel 1975-77, «La fabbrica diffusa», rivista milanese di analisi e intervento sulla figura dell’operaio sociale e, dal 1981 al 1983, al foglio che dal 1983 si sarebbe unito a «Collegamenti» per dare vita alla rivista «Collegamenti-Wobbly», fino alla primavera del 1994.

Una storia lunga come si può vedere da questo fin troppo rapido excursus, anche se questo primo volume si occupa specificamente del primo periodo dal 1969 al 1973, mentre resta in preparazione un volume successivo che si occuperà del periodo dal 1973 al 1982. Una storia che, come ci ricorda Giorgio Sacchetti, nasce dall’idea che, al contrario di quanto ha rivelato ancora una volta la sottomissione confederale all’Autorità statale, così tanto e spesso invocata dai sindacati confederali, in occasione dello sciopero “generale” del 17 novembre: «all’origine del movimento operaio non c’era lo Stato, ma l’idea di far da sé, di autogestione e di azione diretta»1.

Tocca però a Cosimo Scarinzi, testimone e protagonista di quell’esperimento fino ed oltre «Collegamenti-Wobbly», nella sua prefazione al testo, elencare per sommi capi le caratteristiche di quella esperienza, sia nella novità, che ebbe modo di rappresentare, che nei suoi limiti, visibili a cinquant’anni di distanza.

1. La critica radicale dei sindacati individuati come strumento di integrazione della classe anche nelle loro forme più estremiste e democratiche. Da ciò un giudizio negativo dello stesso “sindacato dei consigli” la cui “democratizzazione” ci parve , in maniera per certi versi unilaterale, una trasformazione volta a recuperare e inquadrare le stesse lotte più radicali.
2. La critica altrettanto radicale dei partiti della sinistra che si stendeva coerentemente ai gruppi della nuova sinistra di orientamento leninista giudicati non solo autoritari ma espressione degli interessi di una piccola borghesia parassitaria che cerca di utilizzare le lotte degli operai per occupare spazi di potere nell’apparato statale e sindacale.
3. Una differenziazione rispetto alla componente maggioritaria dello stesso movimento anarchico percepito come chiuso rispetto al conflitto di classe e troppo legato alla salvaguardia di una tradizione rispettabile ma talle da bloccare l’azione. Fuori dalle passioni dl tempo a chi scrive quel giudizio appare eccessivo e, in alcuni casi, ingeneroso ma era parte del nostro sentire che aveva alcune ragioni.
Guardando oggi a quelle vicende appare evidente che la nostra eresia era, per molti versi, un ritorno a un’ortodossia, non all’ortodossia […].
Mi piace, a proposito del mio/nostro operaismo radicale, ricordare come mi colpì quanto mi disse una volta Lea Melandri, una femminista molto conosciuta che frequentava i nostri ambienti, che mi fece rilevare come il proletariato tenda all’integrazione non, o non principalmente, per l’influenza della malefica piccola borghesia parassitaria ma proprio per il suo essere classe di questa società volta a migliorare, magari con lotte radicali, la propria condizione all’interno dei rapporti sociali dominanti2.

L’Utopia concreta, come afferma infine Roberto Brioschi nella seconda parte della Prefazione al testo, «è la inedita ricostruzione e proposizione della esperienza rivoluzionaria antiautoritaria degli anni dal 1968 al 1982 […] Anni che videro il tentativo cogente della abolizione del cosiddetto ordine capitalistico». Per poi concludere, poco dopo, affermando:

Un ribaltamento tutt’ora celato, temuto ed esorcizzato poiché rappresenta una storia che non è più una cronaca temporale dell’avvicendarsi di un Potere sopra ad un altro ma diviene Storia di liberazione sociale, collettiva ed individuale, propria di un immaginario che diventa realtà. Oggi più che mai bisogna tornare ad essere in grado di immaginare la vita altra e di realizzarla, ora3.


  1. G. Sacchetti, Milano, un laboratorio del sindacalismo conflittuale, Introduzione a Francesco Schirone (a cura di), L’Utopia concreta. Azione libertaria e Proletari autonomi. Milano 1969-1973, Volume I, Zero in Condotta, Milano 2023, p.13.  

  2. C. Scarinzi, Azione Libertaria e l'”eresia operaista”, prefazione a L’Utopia concreta, op. cit., p.15. Sul punto sottolineato da Lea Meandri si veda anche Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì, Milano 2017.  

  3. R. Brioschi, In punta di matita, prefazione a L’Utopia concreta, op. cit., p.16.  

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Liberare la specie, realizzare la vita https://www.carmillaonline.com/2019/07/10/autogestione-e-auto-organizzazione-per-liberare-la-vita/ Tue, 09 Jul 2019 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53400 di Sandro Moiso

Raoul Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana. Contributo all’emergenza dei territori liberati dall’impresa statale e mercantile, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 140, Euro 12,00

Quel che è in atto sotto i nostri occhi non è nient’altro che un cambio di civiltà

Raoul Vaneigem, classe 1934, ultimo e forse più significativo rappresentante (dopo Guy Debord, assente però dal mondo dei viventi fin dal 1994) dell’esperienza dell’Internazionale Situazionista (da cui pur si allontanò volontariamente nel 1970), dimostra ancora una volta, nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi, come non sia solo l’età anagrafica [...]]]> di Sandro Moiso

Raoul Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana. Contributo all’emergenza dei territori liberati dall’impresa statale e mercantile, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 140, Euro 12,00

Quel che è in atto sotto i nostri occhi
non è nient’altro che un cambio di civiltà

Raoul Vaneigem, classe 1934, ultimo e forse più significativo rappresentante (dopo Guy Debord, assente però dal mondo dei viventi fin dal 1994) dell’esperienza dell’Internazionale Situazionista (da cui pur si allontanò volontariamente nel 1970), dimostra ancora una volta, nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi, come non sia solo l’età anagrafica a definire la giovinezza e l’attualità di un pensiero, ma anche come la critica radicale sia ancora un valido ed irrinunciabile strumento per comprendere le tendenze implicite nei movimenti reali attuali e per definire un autentico percorso di liberazione della specie dalle pastoie e dai vincoli imposti dal modo di produzione dominante.

Tale giovinezza e validità delle formulazioni contenute nell’opera (infinita e difficilmente elencabile in una bibliografia che dovrebbe comprendere anche un numero enorme di scritti lasciati anonimi oppure attribuiti ad autori ed autrici dai nome inventati dallo stesso) del militante, pensatore e studioso anarco-situazionista (non sono però del tutto sicuro però che questa definizione piacerebbe all’autore) è rivelata immediatamente dalla continuità tra questo ultimo scritto e quell’Avis aux civilisés relativement à l’autogestion généralisée, contenuto nel numero 12 del 1969 dell’ “Internationale Situationniste”.

Cinquant’anni esatti sono passati e l’attualità delle riflessioni di Vaneigem non è data dalla volontà di difendere e di ripetere come mantra le affermazioni di una stagione passata da tempo (come purtroppo accade ancora troppo spesso per molte formulazioni enunciate talmudicamente dalle svariate sette marxiste e libertarie, distanti dal presente e poco coscienti dello svolgersi implacabile di una Storia che si dimostra sempre tutt’altro che lineare), ma proprio dall’utilità delle stesse per comprendere e analizzare i percorsi di liberazione già in atto nella società. Soprattutto quelli meno riconducibili al più vecchio e canonico immaginario di sinistra e sindacale.

D’altra parte il fatto che tali movimenti, quasi mai direttamente citati ma evidentemente riassunti in quel territori liberati compreso nel titolo, siano in qualche modo la rappresentazione fisica e viva della vivacità di quel pensiero conferma anche che è stata l’azione pratica dei viventi ad andare nella direzione indicata da tempo dal militante e teorico di origine belga e non sia affatto dovuta invece a qualche escamotage dello stesso per riadattarsi o riadattarlo ai tempi.

Basterebbe la dedica contenuta in esergo a riassumere il principio ispiratore di tutto il testo e di tutta l’opera di Vaneigem: A tutti quelli che preferiscono lottare per vivere piuttosto che battersi per sopravvivere.
La lotta non può mai essere per un obiettivo posticipato e lontano.
La lotta non può essere un obiettivo in sé. Tanto meno sul piano prettamente politico-militare.

Ma nell’immediato della lotta, soprattutto quando questa si pone il compito di liberare classi e specie dal lavoro subordinato e dalla subordinazione sociale agli obiettivi dell’impresa statale e mercantile, ovvero del Capitale, già si devono realizzare gli obiettivi principali della stessa: la felicità individuale e collettiva e la liberazione del singolo soggetto e dei soggetti collettivi dai rimasugli di una società patriarcale, consumistica e repressiva che è ormai destinata ad estinguersi, ma che da perfetto zombie continua a nutrirsi dei corpi e dei cervelli delle sue vittime.

Mi sembra infine utile riportare, qui di seguito, una lunga citazione tratta dal testo che riassume perfettamente l’orientamento fin qui enunciato.

Io non concepisco altro movente alla lotta rivoluzionaria che l’istituzione di una felicità universale.
Esiste un godimento inerente alla ricerca del vivente. Quel che lo qualifica con diritto come un godimento insurrezionale è l’incompatibilità assoluta della sua gratuità con un sistema fondato sul profitto. Non lo diremo mai abbastanza: l’economia mercantile è un crimine contro la vita.
Il godimento degli esseri e delle cose revoca la loro appropriazione. La ricerca del vivente è l’arte di essere conquistati dai doni del cuore e della terra. L’aberrazione che ha consegnato le concezioni di Marx all’ideologia (di cui diffidava, del resto), è stata quella di non aver visto nel lavoro di sfruttamento della natura la causa della nostra alienazione; più drammaticamente ancora, di aver identificato il lavoro con un processo di umanizzazione dell’uomo e della donna.

[…] Succede che lo Stato faccia l’elemosina di una riforma, che abroghi una legge, si mostri conciliante con i movimenti di contestazione ostinati. Tuttavia, le sue apparenti marce indietro sono solo furbizie ed esitazioni. Quando temporeggia, il suo affanno prelude a nuove offensive. Lascia che il militantismo si esalti per un’apparente vittoria militare perché per lo Stato ogni campo di battaglia è un terreno di conquista.
Il militante potrebbe cogliere l’occasione per distinguere dentro di sé la frontiera che separa il gioco per vivere da quello in cui la morte conduce la sua partita a scacchi. Non gli suggerisco di lanciarsi nell’introspezione per chiarire come la pulsione di vita sia soggetta a dei voltafaccia inopinati. Auspico soltanto una riflessione sul tema: la militarizzazione non s’iscrive forse in una prospettiva di morte?
Dall’istante in cui la solidarietà revoca lo spirito di sacrificio, una radicalità si fa giorno. Essa si manifesta nei militanti in lotta contro l’esclusione degli immigrati, contro l’espulsione degli occupanti di una zona da difendere (ZAD), contro la devastazione dei paesaggi, contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, dei cibi. Anche se molti di questi impegni sono recuperati dal gauchismo, dal radicalismo dei pretesi libertari, dall’umanesimo politico e dal mercato della carità, essi conservano il fermento di una radicalità capace di spargere i suoi semi ben oltre il gesto e il movente iniziale.
Ogni collettività animata dalla volontà di far prevalere l’umano sull’economia inaugura una terra in cui la barbarie è bandita, una terra che fertilizza la gioia di vivere.
Anche se è destinata ad affievolirsi, a calmarsi, la collera ha in sé di che superare l’appagamento di uno sfogo, di un risentimento eiaculato precocemente. L’hubris emana da una pulsione di vita impaziente di frantumare gli ostacoli. Sotto la stupidità del cittadino che crede in uno Stato più giusto e più compassionevole spunta la voglia segreta di farla finita con tutte le forme di governance e di potere.
Lo Stato agisce attraverso la politica del fatto compiuto. È una prerogativa dei principi incoronati democraticamente. Quando il militante è per di più un elettore, accorda la sua cauzione a quel che combatte e accondiscende a farsi menare per il naso due volte.

[…] Fare dei buchi nella tela di ragno nella quale il capitalismo parassitario ci intrappola, non basta. Per sradicarne la nocività, non c’è che la poesia fatta da tutti, la coscienza e la passione di elaborare una società in cui la vita revochi ogni forma di oppressione.1


  1. R. Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana, pp. 50-53  

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Galassie da difendere https://www.carmillaonline.com/2018/09/21/galassie-da-difendere/ Fri, 21 Sep 2018 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48823 di Pereira e Maurizio (partecipanti no-tav all’incontro intergalattico tenutosi dal 27 agosto al 2 settembre all’Ambazada della Zad)

Nel recente appello che ha convocato “la settimana intergalattica“ alla Zad, riprendendo l’espressione usata in Chiapas per intitolare i grandi incontri dei “pueblos zapatistas”, si analizza come dopo la vittoria tanto attesa contro il progetto dell’aeroporto, si esca da una primavera per usare un eufemismo “complicata”.

Quest’ultima si scrive nell’appello “ è stata marcata da due fasi di espulsioni durante le quali il governo si è consacrato a vendicarsi dell’affronto rappresentato dalla zad nel corso di tanti anni. Un territorio senza “stato [...]]]> di Pereira e Maurizio (partecipanti no-tav all’incontro intergalattico tenutosi dal 27 agosto al 2 settembre all’Ambazada della Zad)

Nel recente appello che ha convocato “la settimana intergalattica“ alla Zad, riprendendo l’espressione usata in Chiapas per intitolare i grandi incontri dei “pueblos zapatistas”, si analizza come dopo la vittoria tanto attesa contro il progetto dell’aeroporto, si esca da una primavera per usare un eufemismo “complicata”.

Quest’ultima si scrive nell’appello “ è stata marcata da due fasi di espulsioni durante le quali il governo si è consacrato a vendicarsi dell’affronto rappresentato dalla zad nel corso di tanti anni. Un territorio senza “stato di diritto “ secondo lo Stato Francese, una Libera Repubblica secondo l’espressione No Tav.
Queste grandi manovre poliziesche hanno causato il ferimento di molte persone e portato alla distruzione di una parte dei luoghi di vita della zad, oltre ad una lunga presenza militare.”
“ La resistenza sul campo, la solidarietà altrove, e il processo di negoziazione hanno portato ad un accordo sul mantenimento di decine di abitati, spazi comuni piuttosto che di attività sulla gran parte delle terre prese in carico dal movimento.
Lo Stato nonostante la vera e propria campagna politica/militare contro la Zad ha dovuto rinunciare all’obbiettivo di sradicare la presenza “zadista .

Continuano a scrivere nell’appello “Mentre la zad si riprende dalle sue ferite, si ricompone, mentre i lavori sui campi e di costruzione riprendono, noi slanciamo in avanti sulle lotte dei prossimi mesi. Queste vanno oltre le nostre persone, e si legano ad altre lotte condotte dappertutto nel mondo. Sono lotte che riguardano l’uso collettivo e rispettoso della terra, la condivisione dei beni comuni, la messa in discussione degli stati-nazione e delle frontiere, la riappropriazione degli abitati, la possibilità di produrre e di scambiare liberandosi dalle costrizioni del mercato, le forme di auto-organizzazione sui territori in resistenza e il diritto di vivere liberamente…”

La settimana intergalattica dal 27 agosto al 2 settembre ha visto l’inaugurazione dell’Ambazada, una nuova, straordinaria costruzione in legno, argilla, paglia e terra battuta, a fianco della foresta di Rohanne, silenziosa e fresca in queste giornate di fine Agosto, spazio destinato tra altri ad accogliere sulla zad di Notre-Dame des Landes lotte e popoli ribelli dal mondo intero, luogo dove realizzare incontri aperti tra territori e battaglie in cerca di autonomia per contribuire a ridare slancio e orizzonti alle mobilitazioni in corso in Francia come nel resto del pianeta.
Nella settimana che è trascorsa molte delle questioni che hanno interrogato durante tutta la stagione passata gli “zadisti”, e che spesso interrogano i rivoluzionari sono state riflessione e condivisione comune dell’incontro tra i territori in lotta quali : l’ancorarsi in durata a un luogo senza per questo lasciarsi addomesticare, il rapporto di forza più o meno frontale con lo Stato, la valutazione delle nostre forze e di quelle del nemico, la possibilità che le vittorie abbiano risultati duraturi, come organizzarsi, quali progetti e quale posizionarsi terreni di lotta sia in caso di vittoria che di sconfitta, l’uso dalle barricate di sassi e di quelle di carta, come prendere le decisioni, quale legame con il filo rosso delle lotte precedenti i tempi delle lotte come tempi tattici e tempi strategici, il ruolo dell’immaginario dei movimenti e quale legame con il filo rosso delle lotte precedenti nel saper ritrovare gli elementi della nostra storia.

Durante tutta la settimana hanno avuto luogo proiezioni, dibattiti multilingue con traduzione simultanea, incontri, scambi e convergenze tra  le tante lotte ed esperienze di autogestione e di contropotere , dai quartieri-squat di Lentilleres (Dijon, France), Errekaleor (Gasteiz in Euskadi ), Christiania (Copenhagen, Danimarca), ai luoghi della resistenza No Tav contro le grandi opere come da noi in Valsusa e il movimento NO MUOS (Niscemi, Sicilia), alle reti contro il nucleare del Wendland (Bassa Sassonia, Germania ) e di Bure (Grand-Est, Francia) alla lotta per l’abitare con i sindacati inquilini di Barcellona.
Contributi vivi e militanti, con attenzione particolare alla lotta delle donne e dell’ecologia sociale , alla tematica del dominio, alla critica e all’autocritica, con contributi da parte di compagn* attiv* in Kurdistan come nel Chiapas.

Ed ogni sera, al calar del sole, l’Ambassada ha accolto proiezioni e retrospettive sui movimenti sociali che oggi costituiscono la costellazione di riferimento per tanti e tante che combattono in Francia e non solo contro il capitalismo e il suo mondo.

Dalla la battaglia in Giappone contro la costruzione dell’aeroporto internazionale di 
Tokio-Narita negli anni ’60,all’Autonomia italiana degli anni Settanta e quella tedesca negli anni Ottanta, dalla meteora inglese di Reclaim The Streets negli anni ’90, fino ai moti insurrezionali anti-CPE in Francia nel 2005 e 2006 -questi ultimi precursori delle recenti proteste contro la “loi travail” sino ai movimenti studenteschi francesi dello scorso inverno.

Nel corso della settimana ci sono state serate di festa con musiche dei diversi territori in lotta e momenti di lavoro collettivo dalla raccolta delle patate, alla cura delle piante medicinali, alla costruzione/ ricostruzione dei diversi luoghi colletivi. In particolare attività agricole e artigianali in corso di impianto sulla ZAD, che a fianco a fianco della nuova rete “la cagette des terres”, si propongono di sostenere scioperanti, occupanti e migranti nella zona di Nantes e in tutta la Francia. Momenti di lavoro comune, di narrazione e di festa come momenti di costruzione della comunità.

Lunedì 27 Agosto, giornata di apertura della settimana, la discussione è entrata nel vivo delle lotte su diritti,rovesci e storia recente del movimento con e dei migranti “sans papier” nella vicina Nantes. In città decine di profughi/profughe hanno occupato, durante lo scorso inverno, un edificio sfitto di proprietà dell’Università grazie al sostegno dei movimenti studenteschi dando origine ad una straordinaria esperienza di autogestione e condivisione di spazi e lotte comuni.
Dopo lo sgombero di questo e di tanti altri luoghi occupati, oggi centinaia di migranti hanno piantato le tende in pieno centro. In queste tendopoli improvvisate che sfidano la facciata borghese di una città che punta sul turismo e sulla gentrificazione per garantirsi un comunque impossibile futuro di crescita economica, le condizioni di vita già precarie rischiano di diventare insostenibili con l’arrivo della stagione autunnale. E emerso quindi come siano fondamentali in questo contesto le mense popolari, come quella adiacente all’Ambassada, che durante tutta la settimana intergalattica ha nutritole persone presenti con pasti preparati in autogestione, semplici e a prezzo libero e il cui Il ricavato servirà a nutrire le lotte di domani nella zona di Nantes e non solo.

I migranti presenti sia come animatori delle mense popolari che come partecipanti al dibattito hanno ribadito l’importanza di luoghi comuni in cui vivere e discutere senza lasciare nessuno indietro, hanno spiritosamente raccontato come di fronte ad alcune “anime buone “ che portando dei cibi e vestiari si stupivano di trovare solo migranti neri hanno provveduto facendoli parlare con due Tuareg bianchi.

Hanno altresì denunciato installazioni come il Muos in Sicilia che non solo danneggino il territorio in cui sono istallate e avvelenino la popolazione che li abita, ma siano i luoghi da cui si aggredisce il pianeta come nel caso della Libia.

Una settimana intensa di riflessione teorica, di lavoro comune, di festa, che ha dimostrato una volta di più come alcune categorie del nostro passato siano oggi inutilizzabili.
Come sia necessario pensare ad andare oltre alle grandi dimensioni urbane, come sia necessario ragionare su tempi lunghi di costruzione rivoluzionaria, sul sottrarre territori agli stati e come su questo sia importante studiare l’esperienza indigena e come la fiaccola dell’ insurrezione venga presa i mano dalle differenti lotte come faro destinato a rilanciare e a dare forza alle altre esperienze.

Come il capitalismo, finito il periodo in cui cercava di presentarsi con “un volto umano” oggi in ogni angolo del pianeta proponga nuove forme di fascismo, violenza e distruzione, devastando, cementificando, sfigurando corpi, esseri, territori, imponendo ovunque guerre e politiche securitarie.

In questa situazione le tante galassie che in questi giorni si sono incrociate – trasformando ciascuna collisione in fattore di unione, si sono date appuntamento nelle lotte in divenire:
contro l’estensione del cantiere Tav in Valle di Susa, il 29 e 30 Settembre per occupare nuovi terreni alla Zad, al prossimo G7 che si terrà nel Paese Basco e ovunque si accenderà un fuoco di resistenza perché sempre di più vi siano luoghi sottratti agli stati e tante “libere repubbliche” federate nella lotta.

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Il dottor Sócrates. Il tacco che la palla chiese a Dio… col vizio del bere e del pugno alzato https://www.carmillaonline.com/2018/07/06/il-dottor-socrates-il-tacco-che-la-palla-chiese-a-dio-col-vizio-del-bere-e-del-pugno-alzato/ Thu, 05 Jul 2018 22:02:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46897 di Gioacchino Toni

Andrew Downie, Il Dottor Socrates. Calciatore, filosofo, leggenda, Le Milieu, Milano, 2018, pp. 319, € 19,90

«Questo libro è un micidiale colpo al cuore: alla nostra nostalgia, alle nostre illusioni. No, non può essere esistito un campione e un uomo come il dottor Sócrates. Downie è il nuovo Platone, un Platone del pallone. E ci racconta, dalla nascita alla morte (nel giorno dell’agognato scudetto al Corinthians), dai primi gol alle delusioni (come quel pomeriggio, triste solitario y final, del 5 luglio 1982 al “Sarrià” di Barcellona: 3-2 per l’Italia del [...]]]> di Gioacchino Toni

Andrew Downie, Il Dottor Socrates. Calciatore, filosofo, leggenda, Le Milieu, Milano, 2018, pp. 319, € 19,90

«Questo libro è un micidiale colpo al cuore: alla nostra nostalgia, alle nostre illusioni. No, non può essere esistito un campione e un uomo come il dottor Sócrates. Downie è il nuovo Platone, un Platone del pallone. E ci racconta, dalla nascita alla morte (nel giorno dell’agognato scudetto al Corinthians), dai primi gol alle delusioni (come quel pomeriggio, triste solitario y final, del 5 luglio 1982 al “Sarrià” di Barcellona: 3-2 per l’Italia del rinato Pablito Rossi, “la morte della bellezza” per i brasiliani), dalla laurea al sogno, realizzato, della Democrazia in una nazione, dal 1964 al 1984, ferita e offesa da una vergognosa dittatura, quel calciatore (quasi) per caso, uno dei protagonisti più limpidi del Novecento brasileiro» (Darwin Pastorin)

Con queste parole Darwin Pastorin introduce il libro che Andrew Downie dedica al “nostro” Sócrates, quello che ha saputo entrare nella leggenda di un popolo che, debordando i confini brasiliani, ha finito col comprendere tutti coloro che anche davanti ad una partita di calcio sanno riconoscere le caratteristiche del ribelle e del sognatore che si muove praticando l’obiettivo della libertà.

Aggrappati alle gabbie arrugginite costruite per preservare, pateticamente, i sacri luoghi dello sport dalla marmaglia che occupa gli spalti della vita di tutti i giorni o davanti agli schermi di una tv, che tutto sommato svolgono la medesima funzione, in tanti hanno riconosciuto in quel magrone sgraziato e barbuto qualcosa in più di un grande calciatore. In tanti hanno visto in lui, continua Pastorin, «la voce alta e vigorosa di un popolo che chiede, anche ai campioni di calcio, di lottare per un bene collettivo, di scendere in campo non solo per la vittoria, ma per le conquiste di chi desidera uscire dal cono d’ombra, per farsi definitivamente luce e libertà, per diventare artefice e non succube del proprio destino» (pp. 7-8).

Chissà, in quest’epoca di calcio da play station, quanti, tra i più giovani, hanno sentito parlare della Democracia Corinthiana. E chissà quanti, tra i più attempati, se ne ricordano ancora dopo che si sono bevuti il cervello a suon di applausi registrati e di sensi di colpa per aver osato sognare in grande.

Il libro di Downie si apre raccontando del Brasile sceso in campo ai mondiali spagnoli del 1982, raccontando di quella seleção capace di esprimere una bellezza di gioco che si è impressa nell’immaginario collettivo degli appassionati di calcio di tutto il mondo. Era la squadra di Zico, Toninho Cerezo, Leandro, Júnior, Serginho e di Sócrates. Era il mondiale in cui questa generazione d’oro brasiliana ha visto interrompersi, inaspettatamente, allo Stadio di Sarrià, contro l’Italia, un cammino che sembrava tracciato e che sarebbe dovuto culminare con l’alzata al cielo del trofeo. Ma il calcio può essere spietato. «Abbiamo perso con l’Italia, abbiamo perso con la fottuta Italia del cazzo», ha ripetuto più volte Paulo Isidoro quel giorno raggiungendo lo spogliatoio. Zico ha parlato di morte del calcio. Secondo Sócrates la seleção «non avrebbe mai più offerto uno spettacolo così scintillante».

«Tuttavia, quella sconfitta non si trasformò in una sorta di alfa e omega per un uomo la cui esistenza andò ben oltre il calcio. Anche quando il Brasile si stava preparando per affrontare l’Italia nell’incontro più importante della sua vita, Sócrates pensava a battaglie più grandi. Aveva già dato vita a quella che sarebbe diventata la Democrazia Corinthiana, la più audace dimostrazione di potere dei calciatori in una squadra di alto livello. I calciatori del Corinthians stavano prendendo il controllo del club ed esigevano di avere voce in capitolo nella sua gestione. Sócrates chiedeva libertà, e non solo per sé. Voleva che tutto il Brasile facesse lo stesso, destituendo la dittatura militare e riappropriandosi del paese. Aveva forza e personalità, e una nazione di centotrenta milioni di persone che osservava ogni sua mossa. Un sogno si era spento in Spagna. Ma non si sarebbe lasciato sfuggire così facilmente anche l’altro: la democrazia» (p. 18).

Sócrates, pur con tutte le sue contraddizioni, è sempre stato diverso. «In un paese dove il melodramma viene sbandierato rumorosamente ad ogni angolo di strada, sugli schermi televisivi e in ogni rapporto umano, Sócrates era l’esatto opposto dei suoi emotivi compatrioti» (p. 19). Non capiva quell’esagerato attaccamento al calcio; per quanto divertente era pur sempre un gioco. «Quando le persone mi chiedono qual è stato il periodo più glorioso che ho vissuto nel calcio, rispondo: “Fanculo, la gloria per me sono stati gli inizi con il Raio de Ouro”, perché viaggiavo sul retro di un camion insieme a un mucchio di ragazzi tutti diversi tra loro […] Ciascuno aveva una vita diversa e bisogni diversi. Cazzo, io a pranzo avevo mangiato, e alcuni di loro no, e stavamo andando a giocare a calcio! È stata un’esperienza che mi ha insegnato cose che a scuola non avevo mai imparato; cose che nessuno a casa mi aveva mai raccontato. Perché mio padre aveva dovuto passare tutto questo. Solo col tempo ho scoperto tutte le difficoltà che ha dovuto superare. Non ha mai voluto che noi lo sapessimo» (p. 24).

Sedicenne Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, entrò a far parte delle giovanili del Botafogo ma se il calcio lo divertiva, il suo vero sogno era quello di diventare medico, tanto da riuscire a strappare alla società la possibilità di saltare qualche allenamento settimanale al fine di seguire una scuola serale che lo preparava al test di ingresso all’università. Trovava semplicemente ridicolo correre intorno al campo o saltellare sul posto; lui voleva soltanto avere il pallone tra i piedi. Una certa libertà rispetto agli allenamenti riuscì a mantenerla anche quando il giovane calciatore, nel 1973, riuscì a firmare un contratto col Botafogo che gli garantiva un, seppur misero, salario.

Passato velocemente dalle giovanili alla prima squadra, Sócrates si accorse di avere una condizione atletica nettamente inferiore rispetto agli avversari e, a suo dire, fu proprio questo deficit a spingerlo a inventarsi movenze e giocate alternative. «Il colpo di tacco divenne il suo marchio di fabbrica e lo identificò come uno dei calciatori più originali ed eccitanti della sua epoca. I tifosi ruggivano di piacere davanti a quelli che sembravano tocchi di ostentazione gratuita, sebbene raramente lo fossero. Era un calciatore pragmatico che si serviva di quel gesto per un fine, non per attirare attenzione. Zico diceva che questo lo rendeva un enigma per i difensori avversari, che non sapevano come comportarsi. Pelé ironizzò sul fatto che fosse più bravo lui voltato di schiena che la maggior parte degli altri giocatori di fronte alla porta» (p. 37). Poi sarà la volta del passaggio al Corinthians, squadra in cui esordì nella partita d’apertura del Campeonato Paulista davanti a più di centomila spettatori e, nel 1979, della prima convocazione in nazionale.

All’epoca la gran parte dei tifosi di calcio era di provenienza popolare e molti di loro non si interessavano alla politica, come d’altra parte gli stessi calciatori. Le cose cambiarono dopo il 1979 quando, «sulla scia dei primi scioperi di massa contro il regime organizzati dai metalmeccanici di San Paolo […], la politica fece la sua comparsa sugli spalti» (p. 82). Dopo la revoca di uno dei decreti più duri dei militari alcuni tifosi del Corinthians presero coraggio e nel corso di una partita esposero uno striscione che chiedeva un’amnistia generalizzata.

«Sócrates non intellettualizzava il calcio. In realtà, non ne parlava nemmeno più di tanto. Riteneva che dovesse essere giocato o guardato, ma che non dovesse essere oggetto di dibattiti. […] In compenso parlava di tutto il resto. La sua immagine pubblica, specie dopo le prime pagine conquistate per il suo attivismo politico e sociale, era quella di un uomo serio con la voce roca, che dispensava con noncuranza parole sagge su argomenti seri. Ma con chi passava del tempo con lui, con la famiglia, gli amici, gli intervistatori, con quelli che ne ascoltarono conversazioni e presentazioni dopo il suo ritiro, era tutt’altro che serioso. Anzi, era spassoso e autoironico, e ogni scusa era buona per prendere in giro, che fossero gli altri o se stesso» (p. 117).

Durante le interviste, dopo aver risposto brevemente alle domande calcistiche, il dottore spostava velocemente la conversazione su questioni politiche ed economiche, sullo stato dell’istruzione e della sanità. «Il suo attivismo coincise con una crescente richiesta di cambiamento in tutti i settori della società brasiliana. Il cambiamento era sulle labbra di tutti, e Sócrates era una delle voci che si spendevano con più veemenza in suo favore. Per la prima volta nella storia brasiliana uno sportivo aveva un megafono, e i tifosi lo ascoltavano» (p. 164). Negli anni Ottanta la stragrande maggioranza dei calciatori brasiliani veniva dagli ambienti più poveri del paese e le élite brasiliane vedevano nel calcio «un rifugio per delinquenti che non avevano alternative per fuggire alla miseria che opprimeva il paese». I compagni di squadra di Sócrates al Corinthians erano giovani con scarsa istruzione che vedevano nel calcio l’unica via di fuga possibile dalla miseria e quando «parlava di teorie politiche o li incitava a migliorarsi da un punto di vista personale, loro gli ridevano in faccia» (p. 168).

Il trionfo del Corinthians coincise con un anno importante per Sócrates non solo dal punto di vista sportivo. Nel corso della finale di andata il dottore celebrò il gol alzando il pugno chiuso al cielo inaugurando così una modalità di festeggiare che sarebbe divenuta ricorrente. «Aveva visto Reinaldo festeggiare le reti in quel modo, e nutriva un grande rispetto per il sostegno mostrato dall’attaccante dell’Atlético Mineiro nei confronti di neri, omosessuali e indigeni. In seguito avrebbe menzionato le Black Panthers di Città del Messico del 1968, di cui conosceva sicuramente la storia anti-fascista. Non era la prima volta che lo faceva – aveva festeggiato alcuni gol in quel modo già nel 1978 – ma era perfetto per la marcia progressista che aveva sposato e cominciò a ripeterlo con più frequenza» (pp. 173-174).

«Forse la decisione più memorabile degli ultimi mesi del 1982 fu presa in un’università, e non da un calciatore, da un allenatore o da un dirigente. Sebbene esistesse da quasi un anno, il movimento non aveva ancora un nome. La gente ne parlava utilizzando l’espressione “giocatori al potere”, o chiamava il Corinthians “La Squadra Democratica” e le vicende che lo riguardavano “Rivoluzione Corinthiana”. La svolta avvenne a novembre, dopo un dibattito tenutosi alla Pontificia Universidade Católica de São Paulo. Quel giorno, Olivetto, Sócrates e Adilson sedevano su un palco davanti a centinaia di studenti e tifosi per discutere del movimento e dei suoi obiettivi, accompagnati nel ruolo di animatore dell’incontro da Juca Kfouri, che a un certo punto con tono sarcastico riassunse i temi affrontati nel corso della serata: “Quindi, se i calciatori continueranno a prendere parte alle decisioni del club, se i dirigenti non li fermeranno e se la stampa illuminata non smetterà di supportarli, quella che vedremo sarà una democrazia, una Democrazia Corinthiana”» (p. 174).

L’esperienza della Democrazia Corinthiana cambiò la vita quotidiana del club. I giocatori decidevano collettivamente le strategie in campo e la vita fuori da esso. La stampa brasiliana era inevitabilmente divisa a proposito di tale scelta autogestionaria. Se alcuni giornalisti appoggiavano l’esperienza, la stragrande maggioranza palesava ostilità nei suoi confronti. «La gente comune, nel frattempo, osservava con attenzione e discuteva della sua importanza in una fase storica che somigliava sempre più a uno spartiacque. Il Brasile nel 1983 era ormai sul filo del rasoio, e gli ultimi effetti del boom economico stavano scemando. All’inizio dell’anno la moneta si svalutò del 30%, l’inflazione toccò i livelli mensili più alti degli ultimi due decenni e il governo introdusse una politica di controllo dei prezzi nel tentativo di sostenere l’economia. La disoccupazione non cessava di crescere, così come il debito pubblico, e le tensioni si riversarono per le strade, dove scioperi e saccheggi divennero la normalità» (p. 179).

Dopo la delusione del mondiale spagnolo, nel 1984 il calciatore passò dal Corinthians, ove aveva realizzato 172 gol in 298 incontri, alla Fiorentina. «Il primo giorno ufficiale nel suo nuovo club, Sócrates si aggregò ai compagni per una serie di visite mediche. Mentre aspettava il suo turno per salire sul tapis roulant per i test cardiaci e respiratori, con nonchalance si accese una sigaretta. Quando il dottore entrò nella stanza non voleva credere ai suoi occhi. «Ma che sta facendo, fuma? Stiamo per fare la spirometria!» gridò. “Appunto, dottore, mi sto scaldando i polmoni” rispose lui impassibile. I compagni scoppiarono a ridere e il medico uscì disgustato dalla stanza» (p. 207).
«È stato come passare dal carnevale di Salvador de Bahia a un convento benedettino», affermò il dottore giunto nel campionato italiano. «Gli allenamenti in altura e una preparazione intensa non erano il suo forte. Durante la prima corsa svenne, mentre nella seconda gettò la spugna dopo dieci minuti. Quando i compagni terminarono la mezz’ora di jogging, ad attenderli trovarono l’infelice brasiliano e una delle sue tipiche domande socratiche. “Perché devo correre su e giù per le colline? Io voglio correre con la palla”» (p. 208).

Se al Corinthians i compagni correvano per lui e lo ammiravano non solo per le doti calcistiche ma anche per il carisma dell’uomo, in Italia i calciatori non giocavano per divertimento e faticavano a sopportare la sua mancanza di professionalità e il suo scansare continuamente i sacrifici. Certo il suo atteggiamente palesava qualche contraddizione rispetto ai proclami collettivisti. «La riluttanza degli italiani a socializzare era un problema serio per chi come lui considerava fondamentali l’amicizia e il cameratismo, e la freddezza mostrata nei suoi confronti accrebbe il suo senso di solitudine» (p. 212).

Sócrates si presentò ai tifosi fiorentini in visibilio per il suo arrivo salutandoli col pungo chiuso e la cosa mandò su tutte le furie i proprietari del club, i democristiani Pontello. L’esperienza della Democrazia Corinthiana era nota ai dirigenti viola: «Eravamo preparati e sapevamo cosa aspettarci da lui. Ricordatevi che Firenze è una città storicamente di sinistra, e anche i tifosi della sua squadra lo sono. Per noi non era un problema. Eravamo più interessati alle sue prestazioni sul terreno di gioco. Ma era così diverso e sui generis che i compagni lo trovavano strano. Se sei diverso e fai vincere la squadra, allora i problemi svaniscono. Ma se i risultati non arrivano, tutto si complica. Era un buon giocatore, ma non era sufficiente. I motivi per cui non ha fatto bene non sono né tattici né tecnici. Semplicemente non si è adattato alla vita italiana. Non si è mai integrato. Abbiamo tentato di parlare con i suoi amici per aiutarlo, ma non è cambiato nulla» (p. 215).

Nella breve esperienza italiana il rapporto con i compagni e con la proprietà non decollò mai. «Alla terz’ultima di campionato la Fiorentina affrontava in casa l’Udinese, e l’infortunato Sócrates assistette alla gara in pantaloncini e infradito. Arrivò in ritardo, e invece che dirigersi in tribuna autorità, si prese una birra e si mise dietro alle recinzioni a pochi metri dalla linea laterale. Ignorò i gesti dei dirigenti che lo invitavano a sedersi al suo posto. A un certo punto venne raggiunto da un amico, un comico locale, a cui all’intervallo propose di andare a seguire il secondo tempo in Curva Fiesole, tra gli ultrà. I due furono accolti come eroi, e l’esperienza di passare quarantacinque minuti accanto ai veri tifosi è rimasta per sempre uno dei ricordi più vividi della sua esperienza italiana. Tuttavia, la bravata servì soltanto a inasprire i rapporti con dirigenti e compagni di squadra. I Pontello erano furiosi per essere stati snobbati e i calciatori pensavano fosse fuori di testa. Le distanze tra le parti ormai erano incolmabili» (p. 217).

In occasione del carnevale Sócrates organizzò, insieme ad altri brasiliani, una grande festa: «passò settimane a registrare cassette con le sue canzoni di samba preferite, comprò duecento litri di birra, antipasti sufficienti per nutrire uno stadio pieno e un maialino da latte per fare una grigliata all’aperto nonostante le temperature sotto lo zero» (p. 218). Alla festa invitò anche la squadra. «I compagni si presentarono tutti in giacca e cravatta, mettendo in mostra la tipica eleganza italiana, e lui, nella sua solita divisa fatta di vestiti spiegazzati e scarpe da ginnastica fatiscenti, non perse tempo a rendere la festa più brasiliana. Prese un paio di cesoie da giardinaggio e ridacchiando si mise a tagliuzzare le cravatte di Armani e Dolce & Gabbana dei suoi ospiti. Oriali, Massaro, Galli e Gentile furono solo alcuni di quelli a finire tra le sue grinfie, e non poterono far altro che arrendersi di fronte a quello scherzo. Passarella si mise in ginocchio implorandolo di risparmiare il suo costosissimo accessorio. Antognoni dichiarò sull’orlo delle lacrime che la sua cravatta era un regalo della mamma. Ma Sócrates li ignorò e le tagliò con fare scherzoso una dopo l’altra, prima di stringerli in un abbraccio […] “Ora siamo una vera squadra di calcio” disse. “Ora, possiamo davvero lasciare che lo spirito della Democrazia Corinthiana prenda piede”» (pp. 218-219).

Le cose non andarono così. Il dottore non riuscì mai ad ambientarsi in Italia e, nonostante avesse ancora un anno di contratto, nel 1985 decise di fare le valige per far ritorno in Brasile giocando al Flamengo, al Santos per poi chiudere la carriera nel 1989 al Botafogo. Sócrates non aveva mai amato le partite di addio dei grandi calciatori; «definiva quelle occasioni assurdità sentimentali, e se ne andò alla sua maniera, con meno fanfara possibile. In realtà aveva immaginato un addio che sarebbe rimasto irrealizzato, con birre e amici, e non con una partita di calcio e ancor meno davanti a una folla in adorazione. “Avrei voluto radunare tutte le persone a cui ho voluto bene, e fare scorta di birra e tutto il resto” disse. “La mia gente, ecco cosa mi immaginavo, non certo una partita di calcio. Avrei voluto farlo così, riunire tutti, anche i dirigenti, tutti quelli che avevano recitato un ruolo nella mia vita e con i quali in qualche maniera avevo avuto un buon rapporto. Avrei voluto invitarli per una grigliata, e poi avremmo giocato a calcio. Ecco come me lo immaginavo. Ma un addio? No, non mi piacciono gli addii”. Invece, non potendo concludere la propria carriera con il Corinthians, e dopo aver respinto offerte anche dal Giappone, Sócrates salutò il Santos e tornò al Botafogo per un breve canto del cigno dove tutto era iniziato quasi due decenni prima. […] Il 26 novembre 1989, Sócrates scese in campo per l’ultima volta da professionista nel pareggio per 1-1 contro l’Itumbiara, nello stato di Goiás. Solo mille spettatori lo videro dirigere il centrocampo prima di uscire trotterellando a metà del secondo tempo. Era finita. Non ci furono né clamore né annunci ufficiali per il suo addio. Il dolore era insopportabile, così come le seccature. Dopo diciassette anni, oltre settecento gare e più di trecento gol, uno dei più carismatici calciatori della storia del Brasile diceva basta. Almeno come giocatore» (pp. 269-271).

Terminando la sua introduzione al libro sul calciatore che voleva imparare l’italiano leggendo Le lettere dal carcere di Antonio Gramsci per l’importanza che il testo aveva avuto nella sua «formazione umana, sociale e filosofica», così scrive Pastorin: «il Dottore è stato entrambe le cose: Sogno e Realtà, Ragione e Fantasia, il senso di una straordinaria “immaginazione al potere”. Un rivoluzionario in tempi difficili, un fuoriclasse nel crepuscolo dell’allegria del calcio. Quel fratello che in tanti abbiamo amato e che ameremo per sempre» (p. 9).

Il dottor Sócrates, il tacco che la palla chiese a Dio… col vizio del bere e del pugno alzato, aveva pronosticato di morire il giorno in cui il Corinthians avrebbe conquistato un titolo. E così andarono le cose. Il 4 dicembre 2011, a soli cinquantasette anni, con il fisico stremato anche a causa degli eccessi alcolici, se ne è andato «il capitano della seleção più forte a non vincere un Mondiale, il leader della Democrazia Corinthiana, il movimento progressista più straordinario che abbia mai scosso l’antiquato mondo del calcio brasiliano». Se ne è andato in sordina come si conviene a chi detesta l’idolatria, mentre il suo Corinthians vinceva, come pronosticato. «Voglio morire di domenica, il giorno in cui il Corinthians vince un titolo». E così sono andate le cose.

 


Sócrates  su Carmilla:

Segnali di fumo: Sócrates – Lorenzo Iervolino
di Nicola Gobbi e Simone Scaffidi
[segnalazione a fumetti del libro L. Iervolino, Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario (2014)]

Sócrates: vita, morte e rivoluzione in un libro
di Simone Scaffidi Lallaro
[recensione del libro L. Iervolino, Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario (2014)]

 

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