auto-organizzazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’anno degli anniversari / 1871-2021: Comune di Parigi https://www.carmillaonline.com/2021/09/08/lanno-degli-anniversari-2-1871-2021/ Wed, 08 Sep 2021 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67867 di Sandro Moiso

Goffredo Fofi (a cura di), I giorni della Comune. Parigi 1871, con una cronologia di Mariuccia Salvati, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 208, euro 9,00

Per chiunque si ritenga nemico dell’attuale modo di produzione e, allo stesso tempo, si sforzi di immaginare un modo per uscire dal medesimo attraverso una differente organizzazione sociale e politica, il centocinquantesimo anniversario della Comune di Parigi avrebbe dovuto costituire l’anniversario più importante da celebrare nel corso di quest’anno.

Purtroppo non è stato così. Tra i fasulli “mea culpa” e i tardivi guaiti [...]]]> di Sandro Moiso

Goffredo Fofi (a cura di), I giorni della Comune. Parigi 1871, con una cronologia di Mariuccia Salvati, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 208, euro 9,00

Per chiunque si ritenga nemico dell’attuale modo di produzione e, allo stesso tempo, si sforzi di immaginare un modo per uscire dal medesimo attraverso una differente organizzazione sociale e politica, il centocinquantesimo anniversario della Comune di Parigi avrebbe dovuto costituire l’anniversario più importante da celebrare nel corso di quest’anno.

Purtroppo non è stato così. Tra i fasulli “mea culpa” e i tardivi guaiti di dolore comparsi su quotidiani come Repubblica, solitamente indirizzati alla criminalizzazione di ogni forma di conflitto di classe (si pensi soltanto alla posizione costantemente assunta dal quotidiano romano nei confronti della lotta No Tav), destinati a celebrare, ancora una volta, una sconfitta del movimento in occasione dei vent’anni trascorsi dal G8 di Genova del 2001 e l’eccessivo spazio concesso, in ogni ambito, all’attuale, infruttuoso e fuorviante dibattito sul green pass (considerati anche i numeri “reali” delle piazze e delle “stazioni” e i limiti di un discorso incentrato quasi esclusivamente sul diritto e il sentire “individuale”), il ricordo di uno degli episodi più luminosi (poiché illuminante anche per l’oggi e per il domani) della storia della lotta di classe, e della rivolta della specie contro la devastazione politica, economica e sociale prodotta dal capitalismo imperante, è passato praticamente sotto silenzio.

Poche sono state le pubblicazioni dedicate quest’anno a quella fiamma che per alcuni mesi incendiò la Francia e indicò il divenire dello scontro sociale, costringendo prima Marx e poi Lenin a posare saldamente i piedi nell’esperienza prodotta dall’auto-organizzazione e dalla spontanea riflessione di un movimento che della guerra di classe aveva fatto il suo inestirpabile baricentro. Ieri come oggi, e forse proprio questo ha contribuito a far sì che si preferisse rimuoverne il ricordo quasi in ogni ambito di informazione e discussione.
Poi dicono…la memoria e la sua importanza
Come al solito dipende sempre da quale memoria e di cosa o chi.

Per questo motivo l’agile libretto curato da Goffredo Fofi, e pubblicato nella collana Piccola Biblioteca Morale (PBM), ci è sembrato uno dei migliori, anche se in realtà si tratta di una selezione di articoli di giornali della Comune tratta da una ben più ampia raccolta curata da Mariuccia Salvati nel 1971 (quando la forza dei movimenti di classe si vedeva dalla capacità di imporre anche l’agenda degli anniversari e il corretto uso della memoria)1.
Così, prima di continuare con il discorso sulla Comune e i suoi giornali, sembra utile ricordare qui l’intento della collana delle edizioni e/o proprio attraverso le parole del suo curatore che, immancabilmente, rinviano anche a quanto qui si è fino ad ora detto.

Riprendere oggi la Piccola Biblioteca Morale2 significa per noi reagire all’abulia della cultura di questi anni, dominata dal narcisismo, dal flusso delle mode, dalla decadenza di figure intellettuali forti […]. Sono stati sostituiti costoro, da branchi di professionisti della cultura, di ratificatori delle scelte del potere e non di suoi critici oppositori; sono stati sostituiti da masse di scriventi da cui ben di rado si distaccano figure di scrittori e di studiosi all’altezza delle necessità del nostro tempo, che i più avvertiti giudicano estremamente critico o addirittura prefinale, proprio nel senso di una possibile fine della natura e fine della società umana. Quando le politiche in fatto di ecologia e di frontiere e di interessi finanziari mettono in dubbio la possibilità stessa di un futuro per il pianeta e per i suoi abitanti, quando gli stati cedono ai privati rinunciando alle responsabilità verso le collettività e finiscono quasi ovunque in mano ad avventurieri senza scrupoli, torna ad essere urgente guardare al presente con occhi ben aperti sulle sue storture e i suoi pericoli, dando voce , per il poco che si può fare, a chi ancora si ostina a pensare e a proporre, in funzione di una risposta, di un agire individuale e per gruppi piccoli e grandi, per comunità collettive.
La nuova Piccola Biblioteca Morale questo cercherà di fare, scovando il pensiero che più può esserci utile là dove ancora viene prodotto e recuperando dal passato le lezioni che ancora servono a capire e ad agire3.

Ecco allora che tutte le questioni poste in essere dall’esperimento comunardo e dal grande assalto al cielo tentato dal proletariato parigino, ma non solo, intercorso tra la sconfitta dell’esercito francese a Sedan ad opera dei prussiani e la feroce repressione della Comune messa in atto dal medesimo esercito nazionale, una volta riarmato ad hoc dai prussiani stessi, può rivelarsi ancora di grande attualità e di aiuto, non soltanto per comprendere la storia del movimento antagonista di classe, ma anche per provare a dirimere alcuni dei dilemmi politico-sociali che si pongono oggi.

Il fatto che quell’esperienza, già ampiamente documentata nei ricordi di Louise Michel o Hyppolite-Prosper-Olivier Lissagaray (solo per citare due dei testimoni e protagonisti più accreditati) e analizzata in alcune delle opere più significative di Karl Marx, Michail Bakunin, Kropotkin e Lenin, sia vista attraverso la testimonianza diretta di quei giorni, tratta da i giornali editi in quel periodo rende, poi, il tutto più utile e diretto.

Furono decine i giornali pubblicati in quel periodo e ventisei quelli dai quali furono tratti gli articoli scelti dalla Salvati per la sua opera originale del 1971. Oltre naturalmente a manifesti, proclami ed editti dello stesso periodo che compaiono anche, pur se ridotti complessivamente a circa sessanta testi, nelle pagine del volume curato da Fofi.

La Comune, attraverso questi testi, ci “parla”, direttamente e senza, soprattutto, il sovrapporsi di interpretazioni ideologiche e critiche interessate espresse a posteriori che, vista la permanente contrapposizione tra anarchismo e socialismo, rischiano sempre di spostare l’attenzione del lettore dal fatto o dal “detto” concreto alla sua valutazione di carattere filosofico-politico.

Carta canta si sarebbe detto un tempo e, in effetti, quei giornali cantano ancora: una canzone di rivolta, presa di coscienza, organizzazione, battaglia e determinazione. Mai il piagnisteo percorre quelle pagine, mai l’allusione a generici “diritti umani”, mai la rivendicazione di un diritto strettamente individuale. Tutti gli articoli, anche se espressi da giornali di diversa tendenza, diventano espressione di una voce collettiva. Sia che si tratti di editti, analisi dei fatti, considerazioni sulla vita della Comune o anche dell’organizzazione di un Museo, è sempre chiaro che attraverso quelle righe, poche o tante che siano, si esprime una volontà collettiva… Se ci sono errori, e in una realtà vitale sono inevitabili, vi è sempre la possibilità di correggerli o rivederli. Insieme.

La vita è magmatica, non è un percorso ben ordinato e tale fu la vita, intensissima anche se breve, di quel primo radicale esperimento di società “altra” da quella del capitale. Anzi ci sarebbe da dire che proprio là dove regna l’ordine, come a Parigi dopo la semaine sanglante o come a Berlino dopo la repressione dei moti spartachisti, là regna la morte.
Alla faccia di tutti coloro che, utopisti o stalinisti o altro che fossero o siano, immaginano un processo rivoluzionario o l’organizzazione di una nuova società come un percorso ben ordinato e determinato dalle direttive di “un partito” o di un nucleo scelto di militanti.

Un autentico processo rivoluzionario integra tra di loro realtà differenti, sessi, classi e frazioni di classe potenzialmente nemiche del Capitale, per le quali l’eventuale egemonia politica di una di esse può essere soltanto condivisa con e dalle altre, mai imposta. Come ci insegnano la Comune stessa, le donne e gli uomini del Rojava e, ancora, i movimenti in difesa delle comunità e dell’ambiente come quello No Tav.

La vita è disordine creativo, la lotta e la rivoluzione disordine determinato, dai fatti oggettivi e dalle iniziative collettive. Tutto il resto è fuffa, volontarismo, centralizzazione autoritaria, deviazione opportunistica dagli obiettivi che si vanno invece meglio definendo nella polemica costruttiva, nel confronto collettivo e nelle battaglie condotte insieme. Anche sul piano militare, perché la pace, soprattutto tra chi sta in basso e chi sta in alto, oggi come ai tempi della Comune, può essere sventolata come bandiera soltanto da chi vuol mantenere un sempiterno status quo.

Può così risultare curioso, oggi, leggere sulle pagine del n° 131 del «Journal Officiel» dell’11 maggio 1871 un appello che la Federazione dei massoni e dei compagni di Parigi rivolge ai fratelli della Francia e del mondo intero.

Essendo state riprese le ostilità con un odio indescrivibile da parte di coloro che osano bombardare Parigi, i massoni si riunirono il 26 aprile allo Châtelet, e decisero che il sabato 29 sarebbero andati solennemente a fare adesione alla Comune di Parigi, e a piantare le loro bandiere sui baluardi della città, nei luoghi piùminacciati, sperando che avrebbe portato la fine di questa guerra empia e fratricida.
Il 29 aprile, i massoni, in numero di 10-11.000, si recarono all’Hôtel de ville, seguendo le grandi arterie della capitale, in mezzo alle acclamazioni di tutta la popolazione paerigina; arrivati all’avenue dela Grande Armée malgrado le bombe e le raffiche di mitraglia, inalberarono sessantadue delle loro bandiere di fronte agli assalitori.
[…] E’ da Versailles che sono partiti i primi colpi, e un massone ne è stato la prima vittima […]
No! massoni e compagni, voi non vorrete permettere che la forza bruta l’abbia vinta, voi non sopporterete che ritorniamo nel caos, ed è quello che avverrebbe se voi no foste con i fratelli di Parigi che vi richiamano alla riscossa.
Agite di concerto, tutte le città insieme, gettandovi davanti ai soldati che combattono, loro malgrado, perla peggiore causa “quella che non rappresenta che degli interessi egoisti”[…]
Voi sarete benemeriti della patria universale, voi avrete assicurata la felicità dei popoli per l’avvenire.
Viva la Repubblica!
Viva le Comuni di Francia federate con quella di Parigi!4.

Citare questo episodio non significa andare a cacca di curiosità storiche, ma sottolineare come l’idea della federazione di Comuni ovvero di comunità in lotta e auto-organizzate contro lo stato autoritario centralizzato e le alleanze imperialiste avesse pervaso tutto il tessuto sociale di Parigi e della sua resistenza al ritorno all’ordine precedente, anche in settori inaspettati.

Ma non del tutto, considerato ciò che lo stesso Marx annotò a proposito di alcuni provvedimenti della Comune: «Una parte rilevante della classe media ha aderito alla guardia nazionale di Belleville. I grandi capitalisti hanno pianto, quando i piccoli affaristi e gli artigiani andarono con la classe operaia.[…] I decreti sugli affitti e sugli effetti cambiari sono realmente due colpi magistrali, senza di essi i tre quarti dei piccoli uomini d’affari e degli artigiani sarebbero andati in bancarotta»5.

Sono, questi, solo degli esempi dell’attualità dell’insegnamento comunardo: vivo, presente, utile e battagliero. Senza pentimenti, senza renitenze, senza piagnucolii. I Comunardi, dalle pagine dei loro giornali, sembrano ancora dirci: Abbiamo assaltato il cielo e non ce ne siamo mai pentiti, ma adesso tocca a voi!

Il centenario della Comune di Parigi, che sia Marx che Bakunin considerarono la novità decisiva nella storia della classe operaia e dei “ceti subalterni” e delle loro lotte per una società egualitaria e solidale, per il socialismo, cadde nel 1971 a poca distanza dal ’68. E il movimento studentesco seppe appropriarsi di quell’anniversario finanche nelle sue frange “maoiste” e indicare la Comune come il primo modello della sua rivolta, in giro per il mondo ma in particolare in Francia dove la Comune era esplosa. Ma dopo, un pesante e cupo silenzio ha circondato quella storia […]
Prima dei “codici” staliniani che costrinsero le arti nella retorica e nel “culto della personalità”, anche nella Russia sovietica la Comune era additata come il punto di svolta nella storia dell’umanità6, una concreta esperienza rivoluzionaria di “potere al popolo”[…]
Nonostante le derive staliniane, nonostante le retoriche dell’intellighenzia borghese e piccolo-borghese di ieri ( e specialmente di oggi, quella che ha osato dirsi comunista), la Comune è stata e continuerà a essere il punto di riferimento di tante e vere rivolte, e in particolare ha dato ai popoli in lotta il modello di modi di organizzarsi, anzi di auto-organizzarsi, nel legame tra mandanti e rappresentanti, dentro una giusta comunanza di intenti e di pratiche (anche tra i sessi). Sotto – ne scrisse il ragazzo Rimbaud – “il gran sole carico d’amore”7.


  1. Mariuccia Salvati (a cura di), I giornali della Comune. Antologia della stampa comunarda 7 settembre 1870 – 24 maggio 1871, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 460  

  2. La collana era infatti nata, per lo stesso editore, già negli anni ’90 – NdA  

  3. Goffredo Fofi, Piccola Biblioteca Morale, in G. Fofi (a cura di), I giorni della Comune, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 205-206  

  4. cit. in G. Fofi, I giorni della Comune, op. cit., pp. 139-142  

  5. Appunti di un discorso di Karl Marx sulla Comune parigina in Karl Marx, 1871 La Comune di Parigi. La guerra civile in Francia, edizione integrale con annessi i lavori preparatori ed altri inediti. Edizioni International – Savona e La vecchia Talpa – Napoli, 1971, p. 428  

  6. Come avrebbe affermato nel corso del ‘900 Amadeo Bordiga, dopo la Comune non sarebbe più potuto esserci in Europa alcuna alleanza tra Capitale e Proletariato – NdA  

  7. Goffredo Fofi, Introduzione a op. cit., pp. 5-7  

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Sull’epidemia delle emergenze e sulla catastrofe come campo del possibile https://www.carmillaonline.com/2020/03/04/sullepidemia-delle-emergenze-e-sulla-catastrofe-come-campo-del-possibile/ Wed, 04 Mar 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58473 di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e [...]]]> di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e di vita capitalistico.

Il Coronavirus ha avuto un tempismo perfetto, cascando nel bel mezzo di una congiuntura che vedeva già intrecciarsi l’inizio di una nuova macroscopica crisi finanziaria ed economica, con una profonda crisi politica delle istituzioni locali, nazionali e globali e con una tensione crescente alla guerra, che solo in questi giorni prende una nuova accelerata, con masse di profughi che premono ai confini d’Europa e la Turchia che tenta di mangiarsi la Siria e conquistarsi un primato che non sarebbe più solo regionale.

Una grande situazione di possibilità, in fondo, che però trova pronta ad accoglierla una parte delle associazioni imprenditoriali1, ma non trova nessuno a raccoglierla tra le fila del “partito rivoluzionario”, sempre ammesso che ne esista ancora uno. Questo perché ci sembra che, dalle nostre parti, smarrite le bussole del conflitto, ci si adagi nella denuncia dell’emergenza accodandosi alla sua narrazione mediatica, senza coglierne le complessità né i margini di azione che ci offre.

La discussione sviluppata negli ambiti di movimento ci sembra in questo caso paradigmatica: un’oscillazione tra i poli dello scientismo e del politicismo, condito una tantum dal complottismo anti-americano vecchio stile. Insomma, un immancabile guardarsi la lanugine nell’ombelico mentre attorno tutto brucia.

Ai seguaci della scienza accordiamo, ad esempio, il fatto che non è possibile non tenere conto della dimensione molto concreta di un’epidemia reale con effetti reali e che, a meno che non si sia studiato medicina, non si hanno le competenze minime per dire quanto siano o meno reali certe minacce. Il problema di questo ragionamento però è che rischia di sfociare nell’abdicazione della propria posizione in virtù della ragion di Stato e del buonsenso: in ogni caso non possiamo dimenticare che compito dell’antagonismo è sempre cercare quegli spazi di conflittualità e inimicizia dati dalle contraddizioni del reale, forzarli fin dove è possibile, fino a farli esplodere possibilmente, invece di aspettare il ritorno ad una normalità che ci è sempre stata ostile.

C’è qui da porsi, poi, qualche altra domanda sulla questione Scienza.
Oggi in questo ambito si fa una gran confusione: tolti gli scettici e gli opinionisti, da una parte c’è chi finge che questa sia una branca asettica, immacolata e intoccabile della conoscenza umana e dall’altra chi, scientemente, ne condanna ogni aspetto negandone la validità in assoluto. D’altra parte, pur senza svilire l’attendibilità di medici e scienziati, come possiamo fidarci totalmente della scienza medica prodotta nei laboratori dei colossi dell’industria farmaceutica, delle loro invenzioni interessate, dei loro affari nei sistemi sanitari di tutto il pianeta2?

Occorre denunciare gli stretti legami tra ricerca, organismi sanitari, taglio della spesa pubblica e investimenti in ricerche finalizzate soltanto al profitto. Ma la denuncia non basta, occorre andare oltre, assumendoci responsabilità che troppo spesso sembrano andare al di là della capacità reale dei movimenti di pensare, organizzare e agire.
E’ anche questo un lavoro enorme. Bisogna rifondare la conoscenza e liberarne le possibilità, scientifiche e non, che in quella attuale sono state limitate o rimosse per il puro interesse finanziario e politico. Quello della riappropriazione della conoscenza, non solo scientifica, è un lavoro che occorre sviluppare durante la lotta, proprio come uno dei suoi motori.

Anche perché il trionfalismo scientista e tecnologico di cui l’attuale modo di produzione ha fatto sfoggio negli ultimi decenni oggi mostra tutta la sua debolezza. Il famoso “progresso” con cui i portavoce del capitale hanno giustificato qualsiasi impresa, dalla gara spaziale all’obbligo per qualsiasi tipo di vaccinazione, fino all’estrattivismo e alla devastazione ambientale, così come tutti i trionfalismi a proposito di sistemi 4.0, 5.0 o n.0 oggi mostrano tutta la loro fragilità e la vacuità delle loro certezze. Anche per questo non denunciarne la sistematica opera di rimozione di tutto quanto poteva essere d’ostacolo all’iniziativa privata significherebbe rischiare di vedere vanificate in blocco anche le conquiste reali della scienza con la S maiuscola. Quella che si è sempre mossa senza nascondere le proprie incertezze e i propri dubbi sui risultati raggiunti, facendo in realtà di questi ultimi, sempre momentanei e incompleti, il vero motore dell’avanzamento della ricerca e della conoscenza disinteressata.

Cosa ribattere a chi invece ignora o sottovaluta le dimensioni del fenomeno Coronavirus prendendolo per mera tecnica di governo? L’analisi della situazione solo da un punto di vista politico, senza tener conto dei fenomeni reali fa sì che, spesso, si perdano i contorni della realtà e si finisca per applicare concetti teorici in maniera meccanica e produrre così i fatti a partire dalle proprie opinioni.

A ragionar così, si prende il nemico per una sorta di monolite in cui non c’è differenza o contraddizione tra gli attori in campo: media, Stati, grandi capitali, organismi internazionali, tutti sfumati fino a diventare un unico Moloch per cui ogni emergenza è pura propaganda, ogni provvedimento preso è volto direttamente alla soppressione di libertà e di dissenso organizzato quando la prima si può reprimere facilmente in ogni momento emergenziale e il secondo, banalmente, non si sa dove sia finito. A continuare su questo sentiero, ci si troverebbe presto a difendere le borghesissime virtù del lavorare e consumare.

Paradossalmente, non affrontando il tema reale dell’epidemia e riducendolo a escamotage politico, si perdono completamente i termini dell’operazione, ci si scolla dalla realtà e ci si rinchiude nel vicolo cieco della retorica, perdendo di vista anche il campo delle possibilità.
Ai complottisti geopolitici abbiamo poco da dire. Uscite di casa, respirate aria fresca e chiedetevi se esistano capitalismi buoni, prima di ricondurre una malattia sorta in Cina ad un malefico piano statunitense3.

Ora, questo è il tenore della discussione sul Virus, ma crediamo valga su ogni altra Emergenza ed è invece proprio sul senso profondo di queste perenni emergenze che occorre indagare piuttosto che sulle loro forme contingenti.
C’è uno stretto rapporto che intercorre tra dichiarazione delle emergenze nazionali, o di altro tipo, e il controllo politico-militare, da parte dello Stato e dei suoi apparati repressivi, di territori e opinione pubblica.
Praticamente ogni emergenza corrisponde, nei fatti, ad una sorta di stato di guerra cui i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione sociale, politica o di età, dovrebbero rispondere uniti per amor di Patria e di unità nazionale di fronte a un pericolo esterno.
Non varia questo significato in presenza di guerre, epidemie o di catastrofi più o meno naturali.
Accettare la collaborazione con gli apparati dello Stato significa sempre inchinarsi alla volontà del nostro più feroce nemico4.

E’ come se di fronte ad una guerra dichiarata dal “nostro” Stato fossimo obbligati per default ad essere accondiscendenti con le misure prese per contrastarne i rischi. L’avevano compreso fin dal primo conflitto mondiale i giovani della Federazione giovanile socialista che diedero vita alla frazione intransigente del PSI poi divenuta, di fatto, la frazione comunista di Livorno. Fu il disfattismo rivoluzionario a guidare i giovani socialisti nella loro lotta alla guerra e al collaborazionismo, anche quando questa si travestì da “collaborazione nell’ora del pericolo” e dei soccorsi umanitari, dopo Caporetto, nei confronti dei profughi veneti investiti dalle armate austro-tedesche5.

Roba vecchia per qualcuno, ma estremamente attuale per chi voglia opporsi a tutte le strategie messe in atto per far rientrare le dissidenze nel “dolce” alveo della compatibilità sistemica.
Ma allora, qualcuno penserà, non dovremo più aiutare le popolazioni colpite da disastri e calamità? Dovremmo rifiutare la solidarietà attiva ai migranti in fuga? Certo che no, ma questo andrà fatto, e questa è un’altra assunzione di responsabilità oggi troppo spesso ignorata, non dimenticando mai di denunciare gli artefici dei disastri (militari o naturali), le cause intimamente legate al profitto e all’interesse privato oppure alla concorrenza imperialistica e, soprattutto, attraverso una propria organizzazione ovunque questo sarà possibile.

Non ci interessa scimmiottare la Croce Rossa, i boy-scouts o la Chiesa; ci interessa, sempre e comunque, tenere aperto ed allargare il conflitto sociale.
Allora, l’analisi che deve interessare il militante rivoluzionario non è quella che cerca il pelo nell’uovo della teoria o si piega alla ragion di stato per evitare di far danno dove non è competente. L’unica analisi che ci deve interessare è quella che parte dalla situazione data per coglierne le fragilità e agire su esse; il nostro unico cruccio deve essere sempre quello di spezzare le maglie del dominio; siamo gli irriducibili nemici di questo mondo, ogni sua debolezza deve essere sfruttata.

Quindi, il campo di battaglia che ci si dà è quello dell’Emergenza in quanto attore imprevisto che nell’arco di poco tempo ed alle soglie di una crisi finanziaria, politica e militare macroscopica, è in grado di gettare nel panico la classe dirigente mettendola in crisi sulla sua capacità di gestione della catastrofe. Vero che il rischio fa parte del capitalismo, vero anche che il rischio e il capitalismo non escludano il fallimento.

L’allarmismo emergenziale serve spesso per giustificare tutto e per “sorprendere” il pubblico6. Ma il perenne e catastrofico accumularsi di emergenza su emergenza ci parla anche dell’impossibilità di mantenere in piedi questo modo di produzione, anzitutto, nel momento in cui il suo primato sulla vita mette in pericolo anche sé stesso e disvela tutta la sua fragilità: il colosso cinese che rischia di andare in pezzi per una brutta influenza è un’immagine abbastanza rivelatrice.
Nella necessità di trovare una soluzione alle emergenze, si finisce sì per sperimentare tecniche assolute di controllo della vita ma anche per minare lo stesso modo di produzione capitalistico che si vuole proteggere. Ed ecco allora gli attori finanziari strepitare, le borse colare a picco, i capi di Stato rassicurare i mercati. La prima emergenza è in casa del nemico.

Da qui vediamo come di giorno in giorno la situazione di caos istituzionale, retto quasi soltanto dall’autoritarismo e dalla militarizzazione dimostra ben più di quanto si è detto a proposito del contenimento sociale. Da tempo, non a caso, si parla di guerra civile come unica risposta degli Stati alle richieste dei movimenti e dei cittadini, intesa come pacificazione, repressione e militarizzazione dei territori e delle risposte istituzionali: questo perché sono stati svuotati di qualsiasi funzione parlamentare, politica, economica autonoma e affidati soltanto alle decisioni prese in altri consessi7.
Motivo per cui di fronte ad ogni imprevisto e al conflitto rimangono in piedi soltanto grazie al collante dell’autoritarismo e dei provvedimenti eccezionali come la militarizzazione dei territori.

La figura dello Stato fa quindi, per ora, da parafulmine al capitale, e questo “stato d’emergenza” ci parla del suo agire in campo come attore obbligato a governare la catastrofe, ma la crisi di cui è vittima ormai da tempo si rende fortemente visibile nel momento in cui il controllo del territorio e la compressione delle libertà sono gli unici strumenti di cui dispone mentre non riesce a garantirsi una via d’uscita dal problema; le necessarie misure di contenimento finiscono per frammentare il consesso delle grandi potenze e così indebolire anche le indicazioni di quegli organismi sovranazionali che si trovano in condizione di difficoltà nel trasmetterlo attraverso una catena del comando fattasi, velocemente, assai ingarbugliata. Inoltre, la difficoltà gestionale dell’emergenza a cui non si era preparati, il suo inserirsi in una sequenza accelerata e perenne di emergenze, fa sì che si aprano delle falle nel dispositivo in cui è possibile far filtrare il bacillo della sovversione.
Ecco un compito per noi, quello del disfattismo anticapitalistico.

Qui entriamo su di un piano molto materiale e vediamo che il terreno del conflitto risiede in quell’insubordinazione spontanea che parte dalle necessità di vita. Sta anche qui, e non solo nell’azione statale, il disvelamento della guerra civile in atto, la lotta per le risorse e le possibilità di vita: non è la paura del controllo o di un golpe biopolitico a scatenare l’inimicizia, è il fatto che ci chiudono in casa e ci vietano di uscire ma non sono in grado di fornirci, fino ad ora, assistenza medica né approvvigionamenti; è il fatto che hanno massacrato il SSN fino a trovarsi incapaci di fare dei banali tamponi agli infermieri8; è il fatto che ci chiudono le scuole, le università, i cinema, i musei, vietano gli spostamenti ma comunque ci costringono a lavorare ed esporci al rischio senza niente di più in cambio; è il fatto che nell’emergenza ne approfitti il vampiro del mercato alzando i prezzi dei beni necessari senza che tra le misure ritenute draconiane ci sia un calmiere dei prezzi.
Questa risposta non può che generare scontento, conflitto e necessità di auto-organizzazione, ed qui che si deve inserire l’antagonista militante per coltivare l’ostilità e il malcontento, organizzare la deflagrazione sociale. Ad esempio, denunciando le condizioni e appoggiando oggi le richieste di coloro che sono in prima linea; come quelle espresse dai medici che denunciano apertamente gli scarsi mezzi messi a disposizione di chi col coronavirus deve fare i conti in ambulatorio e negli ospedali. Attaccando quella sanità privata che nell’emergenza si è rivelata fino ad oggi totalmente inutile e latitante.

Oppure rivendicando la salvaguardia del salario e del posto di lavoro per tutti i lavoratori dipendenti delle aziende toccate dalla crisi epidemica, denunciando il tentativo di abbassare il primo e di modificare le condizioni di lavoro, magari attraverso una ulteriore parcellizzazione e precarizzazione dello stesso per mezzo della diffusione del telelavoro, anche per la fase successiva all’epidemia. Contrastando ogni tentativo di ridurre gli spazi di lotta come, di fatto, impone la richiesta della Commissione di garanzia per una moratoria degli scioperi fino al 31 marzo (qui). Oppure, ancora, organizzando il blocco dei flussi e la ridistribuzione autonoma delle merci e dei beni su cui speculano gli sciacalli, i centri commerciali lasciati aperti quando si è fatto divieto di manifestare e, in genere, il mercato dove lo Stato ha preferito tutelare l’accumulazione di capitale.

Indagando, per esempio, quanto l’azione incrociata di Erdogan e Unione Europea (insuperabile nella sua ipocrisia) stia portando alla formazione di una nuova coscienza comune tra gli emigranti di diverse, e spesso ostili, nazionalità9. Sedimentata nei lager in cui per troppo tempo sono stati rinchiusi e saldata dall’azione comune concreta più che dalle vuote promesse di solidarietà provenienti da chi li sfrutta e imprigiona o li respinge e dalla reazione alla violenza degli apparati e delle ronde fasciste di Alba Dorata. Una coscienza, che si muove a prescindere dalla solidarietà dei movimenti europei ma che ci parla di forte conflittualità spontanea e autodeterminazione e ci impone, una volta per tutte, a ripensare un approccio politico rivoluzionario al fenomeno delle migrazioni e del loro soggetto cardine.

Al di là di tutti gli altri esempi che si potrebbero fare, ciò che occorre sottolineare è proprio questo: di fronte allo sgretolarsi degli Stati e dei loro rappresentanti partitici l’unica alternativa ragionevole, se non unica, è quella dell’auto-organizzazione politica dei territori e dei movimenti che li abitano, la costruzione delle sue articolazioni su scala globale. Purtroppo oggi molti, che stanno nei movimenti e sui territori, si abbandonano ancora a riflessioni riduttive, quasi mai di carattere generale ma, al massimo, massimaliste. Sembra che per troppo tempo il movimento antagonista si sia abituato a non assumersi le piene responsabilità che l’attuale situazione dei rapporti sociali dovrebbe imporre.

È nelle pieghe della quotidianità del dominio che stanno le possibilità da cogliere e da organizzare; lo stato d’emergenza, in questo senso, non fa che esasperare e mettere a nudo un dispositivo che è in atto quotidianamente in maniera sibillina, mentre la catastrofe, per quanto discorso governamentale che richiama a ubbidienza e unità, lascia intravedere tutta la debolezza dei sovrani, è il canto del cigno che ne precede la morte e apre possibilità di collasso che, a chi tiene ferma la bussola dell’abbattimento della modernità capitalista, sono un tesoro da saccheggiare rapidamente.
Tutto il resto sono sciocchezze dettate dal timore di affrontare il nemico vero su scala globale e nella maniera più adatta. Che non può più essere quella del parlamentarismo, della democrazia rappresentativa borghese o del pianto sulle vittime, né tanto meno della difesa debole degli ultimi ridotti rimasti a quello che un tempo chiamavamo Movimento.

Dobbiamo uscire una volta per tutte da questa psicosi dell’emergenza continua che ci fa rincorrere, come novelli giornalisti d’accatto, le notizie delle prime pagine che fanno più rumore. Il nostro pensiero strategico deve tagliare e attraversare di netto questa coltre di emergenze e colpire il nemico in profondità, nella sua intima catastrofe10 .

Il parto della civiltà capitalistica, in prossimità del XVI secolo, fu anticipato da doglie che agitarono un plurisecolare periodo di guerre, rivolte, saccheggi di nuovi continenti, cambiamenti climatici11 ed epidemie12 che Albrecht Dürer seppe cogliere nelle xilografie realizzate per illustrare l’Apocalisse di Giovanni nel 1498.
Sapremo fare altrettanto incidendo nelle lotte e nelle coscienze l’immagine della società futura di cui già da tempo avvertiamo i dolori delle doglie e i movimenti tellurici che l’annunciano?

Abbiamo di nuovo bisogno di eroismo collettivo, di determinazione infrangibile e instancabile, di intelligenza strategica, di lucidità e presa di distanza da tutto ciò che ancora rappresenta la miserabile eredità del modo di produzione attuale. Se è vero che viviamo nel tempo degli stati d’eccezione e delle emergenze permanenti, allora la regola di fondo che ci guida è una sola: uscire dall’emergenza e saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità.


  1. Si pensi soltanto al presidente di Confindustria, Boccia, che continua in questi giorni a soffiare sul fuoco delle Grandi Opere Inutili e Dannose (ma ritenute necessarie per il rilancio dell’economia), confermando il discorso sviluppato, già a partire dagli anni ’50, da Amadeo Bordiga sulla stretta interconnessione tra dinamica capitalistica, sciacallaggio economico e catastrofi “naturali”- A. Bordiga, Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra editore, Milano 1978  

  2. Sulla possibile “creazione” del Covid-19 in laboratorio si veda qui  

  3. Qui invece due recenti articoli tratti da «Repubblica» e dal «Corriere» sulle paure americane  

  4. Si veda, ad esempio, lo strappo istituzionale voluto da Macron e dal premier, Edouard Philippe per far passare all’Assemblea nazionale, il 1° marzo, la legge sulle pensioni, approfittando del divieto di manifestare indetto per “fronteggiare” il Coronavirus  

  5. Si veda in proposito: L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno editrice, Roma 2019  

  6. È di queste ore la “sorpresa” per la vittoria di Biden nel Super-tuesday elettorale americano, come se già non si sapesse che Biden è l’unico candidato ammissibile per l’establishment americano, sia democratico che non  

  7. Di cui, per altro, anche gli europeisti più convinti cominciano a dubitare:
    “Oggi l’Unione Europea rischia di essere travolta da due emergenze globali […] La prima è l’epidemia di coronavirus. La seconda la nuova crisi dei migranti riaperta dalla Turchia, che usa i profughi siriani come arma di ricatto […] Entrambe le crisi sono figlie del fallimento degli stati nazionali nell’affrontare emergenze che sarebbero di loro competenza. Le politiche sanitarie non prevedono una gestione comune, così come la sorveglianza delle frontiere esterne e dei flussi migratori rientra nella sovranità delle capitali, che da tempo non riescono a intendersi su una linea di condotta unica. Ma le emergenze non rispettano i trattati europei. Così, dopo che ogni governo della Ue ha cercato di fermare l’epidemia per conto proprio, tutti si devono tardivamente arrendere al fatto che il contagio è un problema comune. Ma questo non basta a decidere di centralizzare la lotta al virus a livello europeo, proprio a causa dell’incertezza su come agire. Qual’è il punto di equilibrio tra la tutela della salute difesa dell’economia e della vita sociale delle nostre comunità? Poiché nessuno conosce la risposta, ognuno pensa di avere la propria verità in tasca e vuole applicarla a modo suo” (Andrea Bonanni, Due crisi, stesso fallimento, la Repubblica 2 marzo 2020)  

  8. Si vedano qui le conseguenze del taglio della spesa sanitaria proprio nel Lodigiano e qui più in generale su quello lombardo  

  9. “Arrampicata sul ramo più alto, nella campagna tra la turca Edirne e la regione greca dell’antica Tracia, la vedetta afghana sa che dipende tutto dal suo segnale. Non si va più in solitaria. La coalizione dei respinti si è data una strategia. Per una volta i contrasti etnici, le scazzottate negli accampamenti tra pachistani e indiani, le gelosie tra afghani e iraniani, la diffidenza dei somali, la malinconia dei siriani, lasciano il posto ad un’alleanza inedita […] si sono dispiegati lungo chilometri e chilometri di frontiera. Impossibile per le guardie greche sigillare il confine” Nello Scavo, Bastonate e spari sui migranti in fuga dalla Turchia alla Grecia, Avvenire 3 marzo 2020  

  10. L’etimologia della parola catastrofe è da ricondurre al verbo greco καταστρέϕω (katastrepho) = io capovolgo. Da tale verbo, il sostantivo καταστροϕή (katastrophé) = capovolgimento, ribaltamento, stravolgimento…
    Il termine fu utilizzato dagli scrittori greci per indicare un esito spesso imprevisto, ma sempre disastroso, doloroso e luttuoso del dramma o di una qualche impresa, fatto o accadimento umano o naturale. Così, la parola catastrofe, che di per sé sarebbe stata di valenza neutra, indicando semplicemente un radicale e spesso repentino cambiamento della situazione, fu utilizzata, sin dall’antichità come sinonimo di sciagura, disastro, rovina, distruzione… A noi il compito di reinterpretarlo nel suo genuino significato di cambiamento radicale  

  11. Si veda, per il clima del XVI secolo e la cosiddetta “piccola glaciazione”, Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi, Torino 1982  

  12. Per il peso che cambiamento climatico ed epidemie ebbero invece nel contesto della fine dell’impero romano, si veda il recentissimo Kyle Harper, Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019  

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Liberare la specie, realizzare la vita https://www.carmillaonline.com/2019/07/10/autogestione-e-auto-organizzazione-per-liberare-la-vita/ Tue, 09 Jul 2019 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53400 di Sandro Moiso

Raoul Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana. Contributo all’emergenza dei territori liberati dall’impresa statale e mercantile, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 140, Euro 12,00

Quel che è in atto sotto i nostri occhi non è nient’altro che un cambio di civiltà

Raoul Vaneigem, classe 1934, ultimo e forse più significativo rappresentante (dopo Guy Debord, assente però dal mondo dei viventi fin dal 1994) dell’esperienza dell’Internazionale Situazionista (da cui pur si allontanò volontariamente nel 1970), dimostra ancora una volta, nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi, come non sia solo l’età anagrafica [...]]]> di Sandro Moiso

Raoul Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana. Contributo all’emergenza dei territori liberati dall’impresa statale e mercantile, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 140, Euro 12,00

Quel che è in atto sotto i nostri occhi
non è nient’altro che un cambio di civiltà

Raoul Vaneigem, classe 1934, ultimo e forse più significativo rappresentante (dopo Guy Debord, assente però dal mondo dei viventi fin dal 1994) dell’esperienza dell’Internazionale Situazionista (da cui pur si allontanò volontariamente nel 1970), dimostra ancora una volta, nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi, come non sia solo l’età anagrafica a definire la giovinezza e l’attualità di un pensiero, ma anche come la critica radicale sia ancora un valido ed irrinunciabile strumento per comprendere le tendenze implicite nei movimenti reali attuali e per definire un autentico percorso di liberazione della specie dalle pastoie e dai vincoli imposti dal modo di produzione dominante.

Tale giovinezza e validità delle formulazioni contenute nell’opera (infinita e difficilmente elencabile in una bibliografia che dovrebbe comprendere anche un numero enorme di scritti lasciati anonimi oppure attribuiti ad autori ed autrici dai nome inventati dallo stesso) del militante, pensatore e studioso anarco-situazionista (non sono però del tutto sicuro però che questa definizione piacerebbe all’autore) è rivelata immediatamente dalla continuità tra questo ultimo scritto e quell’Avis aux civilisés relativement à l’autogestion généralisée, contenuto nel numero 12 del 1969 dell’ “Internationale Situationniste”.

Cinquant’anni esatti sono passati e l’attualità delle riflessioni di Vaneigem non è data dalla volontà di difendere e di ripetere come mantra le affermazioni di una stagione passata da tempo (come purtroppo accade ancora troppo spesso per molte formulazioni enunciate talmudicamente dalle svariate sette marxiste e libertarie, distanti dal presente e poco coscienti dello svolgersi implacabile di una Storia che si dimostra sempre tutt’altro che lineare), ma proprio dall’utilità delle stesse per comprendere e analizzare i percorsi di liberazione già in atto nella società. Soprattutto quelli meno riconducibili al più vecchio e canonico immaginario di sinistra e sindacale.

D’altra parte il fatto che tali movimenti, quasi mai direttamente citati ma evidentemente riassunti in quel territori liberati compreso nel titolo, siano in qualche modo la rappresentazione fisica e viva della vivacità di quel pensiero conferma anche che è stata l’azione pratica dei viventi ad andare nella direzione indicata da tempo dal militante e teorico di origine belga e non sia affatto dovuta invece a qualche escamotage dello stesso per riadattarsi o riadattarlo ai tempi.

Basterebbe la dedica contenuta in esergo a riassumere il principio ispiratore di tutto il testo e di tutta l’opera di Vaneigem: A tutti quelli che preferiscono lottare per vivere piuttosto che battersi per sopravvivere.
La lotta non può mai essere per un obiettivo posticipato e lontano.
La lotta non può essere un obiettivo in sé. Tanto meno sul piano prettamente politico-militare.

Ma nell’immediato della lotta, soprattutto quando questa si pone il compito di liberare classi e specie dal lavoro subordinato e dalla subordinazione sociale agli obiettivi dell’impresa statale e mercantile, ovvero del Capitale, già si devono realizzare gli obiettivi principali della stessa: la felicità individuale e collettiva e la liberazione del singolo soggetto e dei soggetti collettivi dai rimasugli di una società patriarcale, consumistica e repressiva che è ormai destinata ad estinguersi, ma che da perfetto zombie continua a nutrirsi dei corpi e dei cervelli delle sue vittime.

Mi sembra infine utile riportare, qui di seguito, una lunga citazione tratta dal testo che riassume perfettamente l’orientamento fin qui enunciato.

Io non concepisco altro movente alla lotta rivoluzionaria che l’istituzione di una felicità universale.
Esiste un godimento inerente alla ricerca del vivente. Quel che lo qualifica con diritto come un godimento insurrezionale è l’incompatibilità assoluta della sua gratuità con un sistema fondato sul profitto. Non lo diremo mai abbastanza: l’economia mercantile è un crimine contro la vita.
Il godimento degli esseri e delle cose revoca la loro appropriazione. La ricerca del vivente è l’arte di essere conquistati dai doni del cuore e della terra. L’aberrazione che ha consegnato le concezioni di Marx all’ideologia (di cui diffidava, del resto), è stata quella di non aver visto nel lavoro di sfruttamento della natura la causa della nostra alienazione; più drammaticamente ancora, di aver identificato il lavoro con un processo di umanizzazione dell’uomo e della donna.

[…] Succede che lo Stato faccia l’elemosina di una riforma, che abroghi una legge, si mostri conciliante con i movimenti di contestazione ostinati. Tuttavia, le sue apparenti marce indietro sono solo furbizie ed esitazioni. Quando temporeggia, il suo affanno prelude a nuove offensive. Lascia che il militantismo si esalti per un’apparente vittoria militare perché per lo Stato ogni campo di battaglia è un terreno di conquista.
Il militante potrebbe cogliere l’occasione per distinguere dentro di sé la frontiera che separa il gioco per vivere da quello in cui la morte conduce la sua partita a scacchi. Non gli suggerisco di lanciarsi nell’introspezione per chiarire come la pulsione di vita sia soggetta a dei voltafaccia inopinati. Auspico soltanto una riflessione sul tema: la militarizzazione non s’iscrive forse in una prospettiva di morte?
Dall’istante in cui la solidarietà revoca lo spirito di sacrificio, una radicalità si fa giorno. Essa si manifesta nei militanti in lotta contro l’esclusione degli immigrati, contro l’espulsione degli occupanti di una zona da difendere (ZAD), contro la devastazione dei paesaggi, contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, dei cibi. Anche se molti di questi impegni sono recuperati dal gauchismo, dal radicalismo dei pretesi libertari, dall’umanesimo politico e dal mercato della carità, essi conservano il fermento di una radicalità capace di spargere i suoi semi ben oltre il gesto e il movente iniziale.
Ogni collettività animata dalla volontà di far prevalere l’umano sull’economia inaugura una terra in cui la barbarie è bandita, una terra che fertilizza la gioia di vivere.
Anche se è destinata ad affievolirsi, a calmarsi, la collera ha in sé di che superare l’appagamento di uno sfogo, di un risentimento eiaculato precocemente. L’hubris emana da una pulsione di vita impaziente di frantumare gli ostacoli. Sotto la stupidità del cittadino che crede in uno Stato più giusto e più compassionevole spunta la voglia segreta di farla finita con tutte le forme di governance e di potere.
Lo Stato agisce attraverso la politica del fatto compiuto. È una prerogativa dei principi incoronati democraticamente. Quando il militante è per di più un elettore, accorda la sua cauzione a quel che combatte e accondiscende a farsi menare per il naso due volte.

[…] Fare dei buchi nella tela di ragno nella quale il capitalismo parassitario ci intrappola, non basta. Per sradicarne la nocività, non c’è che la poesia fatta da tutti, la coscienza e la passione di elaborare una società in cui la vita revochi ogni forma di oppressione.1


  1. R. Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana, pp. 50-53  

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