Arthur Rimbaud – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La “malinconia senza rimedio” di Valerio Zurlini https://www.carmillaonline.com/2024/05/06/la-malinconia-senza-rimedio-di-valerio-zurlini/ Mon, 06 May 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82459 di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto [...]]]> di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto degli eroi dei noir francesi), rivolge alla sua allieva Vanina (Sonia Petrova). Una “malinconia senza rimedio” è anche quella che, al pari della ragazza, prova il professore, è quella che promana da ogni singola inquadratura del film, ambientato in una livida Rimini invernale, fatta di gelide albe e tramonti, di giorni di pioggia che rintoccano nella quotidiana tristezza della provincia, di notti passate a bere e a giocare a carte, di mare in tempesta e di vento incessante, di strade alberate piene di foglie cadute. E, grazie al recente saggio di Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio, che proprio dalla battuta di Delon trae il titolo, adesso sappiamo che è anche quella di Valerio Zurlini, regista del film. Un grande autore per lungo tempo ingiustamente dimenticato, ‘riabilitato’ e riscoperto, se così si può dire, soltanto molti anni dopo la sua prematura scomparsa avvenuta nel 1982. Grazie al lavoro della studiosa, riusciamo infatti a scoprire molti lati della vita e dell’attività artistica di Zurlini poco noti al grande pubblico, non da ultime le delusioni e le malinconie derivate dall’impossibilità di realizzare diversi progetti, dal vedere sfumare all’improvviso dei film che erano sul punto di essere realizzati e che avrebbero potuto facilmente essere dei capolavori. Quando l’arte si inzacchera nel fango dell’economia, dei tornaconti delle produzioni e dell’universo aziendalistico della macchina-cinema (spietato oggi come negli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta), le stesse realizzazioni artistiche spesso si bloccano perché sono lontane dai compromessi e dai favoritismi. Zurlini è stato un cineasta libero come pochi: come sostiene anche Fioroni, se un progetto, frutto o meno di un compromesso, non gli andava a genio, era impossibile farglielo realizzare.

Eppure, insieme a molti progetti non realizzati a causa di forza maggiore, il regista bolognese ci ha lasciato diversi capolavori. È il caso, ad esempio, della cosiddetta “trilogia della Romagna” o “trilogia adriatica”, composta da tre film girati sulla riviera romagnola – Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961) e, appunto, La prima notte di quiete (1972) – alla quale Fioroni dedica largo spazio. L’ambientazione adriatica, secondo la studiosa, “più che un elemento decorativo facilmente identificabile, è un paesaggio dell’anima, una metafora della condizione umana”. Infatti, “Zurlini è il cineasta dei paesaggi come stati d’animo, ossia in tutti i suoi film l’ambientazione è sempre lo specchio della realtà interiore dei personaggi”. Sembra che la riviera adriatica, più che quella tirrenica, trasudi di malinconia: siamo lontani, in effetti, dall’atmosfera scanzonata della Castiglioncello de Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Si tratta di un paesaggio forse più ‘nordico’ e glaciale rispetto all’altro versante, che ha molto da dire anche nei momenti di fine estate o, addirittura, invernali, dalle toccanti descrizioni della spiaggia in settembre, quando il mare comincia a ingrossarsi e a cambiare colore, che incontriamo ne Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani (1958) fino alle malinconiche tonalità con le quali Pier Vittorio Tondelli lo descrive nell’articolo Fuori stagione (1985), appartenente alla raccolta Rimini come Hollywood e dedicato alla riviera in inverno, quando emerge la “vita segreta delle cose e degli oggetti”. Né bisogna dimenticare che lo stesso Zurlini, come leggiamo nel saggio, d’inverno amava ritirarsi in un albergo di Riccione a lavorare e a scrivere in solitario, assaporando di quel mondo i suoi aspetti più malinconici.

In tutti i film della trilogia (l’unico ambientato in estate è, ça va sans dire, Estate violenta) si narrano amori impossibili portati avanti da personaggi maschili che ridisegnano una nuova concezione di eroe: “un uomo trasognato, sensibile, vicino all’universo femminile con cui vuole entrare in contatto profondo, e ineluttabilmente destinato al fallimento”. La malinconia appare perciò come “un rifiuto consapevole del machismo e di una virilità grossolana, che sfocia in una rappresentazione queer cioè non normativa né tantomeno canonica della mascolinità”. Carlo Caremoli (Jean-Louis Trintignant), in Estate violenta, si innamora di Roberta (Eleonora Rossi Drago), ma sarà un amore impossibile a causa dei disastri della guerra e delle convenzioni sociali come impossibili saranno anche quelli che vedono coinvolti Lorenzo (Jacques Perrin) e Aida (Claudia Cardinale) ne La ragazza con la valigia e i già ricordati Daniele e Vanina ne La prima notte di quiete.

Nel libro di Federica Fioroni incontriamo però un’accurata analisi anche degli altri film di Zurlini, vale a dire Le ragazze di San Frediano (1955), Cronaca familiare (1962), entrambi tratti da romanzi di Vasco Pratolini, Le soldatesse (1965), Seduto alla sua destra (1968), Il deserto dei Tartari (1976), dal romanzo di Dino Buzzati. Sono film, tra l’altro, come Cronaca familiare in special modo, intrisi di fitti rimandi all’arte pittorica: di essa, Zurlini era un esperto ed un appassionato e allora, nel lungometraggio tratto da Pratolini, la fotografia si arricchisce di rimandi all’opera di Ottone Rosai come La prima notte di quiete ci offre un “momento di sospensione diegetica” (allo stesso modo di Nostalghia di Tarkovskij) dedicato alle inquadrature della “Madonna del Parto” di Piero della Francesca. Anche ne Il deserto dei Tartari la macchina da presa indugia spesso sui quadri appesi alle pareti instaurando altri momenti di pittura diegetica. Quest’ultima è presente altresì in Estate violenta, nel momento in cui Carlo e Roberta, nella casa del primo, ballano volteggiando vicino a un quadro di Carlo Carrà, Atleti in riposo (1935) e ad “un affresco che rappresenta la famiglia alla maniera di Picasso”.

È necessario ricordare che, oltre che da una bella prefazione di Marco Bertozzi, il libro è corredato da una interessante intervista a Francesco Zurlini, figlio di Valerio, il quale ci rivela – insieme ad altri episodi e aneddoti della vita del padre – che il cappotto cammello indossato da Delon ne La prima notte di quiete era del regista ed è stato successivamente indossato a lungo anche dal figlio Francesco. Come già accennato, il saggio, oltre che un rigoroso percorso di analisi attraverso l’opera del regista bolognese, è anche un prezioso e discreto avvicinamento al travaglio esistenziale dell’autore e, al pari dei film realizzati, vengono passati sotto setaccio anche i diversi ‘sogni infranti’ di Zurlini, cioè i progetti non realizzati. Se ne possono ricordare alcuni: un film su Arthur Rimbaud; un’opera dal titolo La zattera della Medusa, in cui il rimando al celebre dipinto di Géricault doveva tratteggiare metaforicamente l’esistenza di un gruppo di intellettuali americani che aveva ritrovato a Roma una “zattera di salvezza”; un altro film dal titolo Verso Damasco, incentrato su un’inchiesta sulla morte di Cristo realizzata da Saulo di Tarso (poi San Paolo), un progetto che sarà ripreso da Damiano Damiani nel 1986 con L’inchiesta.

Scopriamo perciò come i film di Zurlini rappresentino tante tappe autobiografiche del suo personale tormento, “un oscuro fardello che lo accompagna fin dalla sua nascita, una macchia di nera malinconia che si allarga sempre di più fino a inghiottire lo splendore di una vita destinata al successo, processo di cui lui stesso è lucidamente consapevole”. Ecco perché quella “malinconia senza rimedio” da cui siamo partiti – e da cui il saggio di Fioroni trae il titolo – non è soltanto quella di Vanina, o di Daniele, o degli altri personaggi zurliniani. Essa appare radicata nel profondo del suo cinema, nelle scelte artistiche ed estetiche, e trova il suo corrispettivo più riuscito nel paesaggio di Rimini e della riviera adriatica in inverno. Come Vanina, i personaggi zurliniani (e probabilmente lo stesso autore), immersi nella solitudine degli inverni sul mare, per esprimere la loro malinconia potrebbero usare anacronisticamente le parole de Il mare d’inverno, la canzone di Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone portata al successo da Loredana Bertè nel 1983, un anno dopo la morte di Zurlini: “Mare mare / qui non viene mai nessuno a trascinarmi via / Mare, mare / qui non viene mai nessuno a farci compagnia”.

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Il soprannaturale come strumento di libertà https://www.carmillaonline.com/2022/04/06/il-soprannaturale-come-strumento-di-liberta/ Wed, 06 Apr 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71296 di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti [...]]]> di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti letterari sui quali è imbastita la sua tessitura narrativa. Il romanzo giunge solo ora alle stampe ma è stato scritto circa vent’anni fa, sul finire degli anni Novanta, da uno dei più originali scrittori e saggisti contemporanei, Paolo Zanotti, scomparso prematuramente nel 2012.

La vicenda si svolge a Pisa, nell’ambiente universitario della seconda metà degli anni Novanta (lo stesso vissuto dall’autore e, fra parentesi, anche dal sottoscritto). A creare scompiglio fra i personaggi principali del racconto (Florian, regista del teatro “Sant’Andrea”, la sua fidanzata Emilia, l’ingegnoso Luca, il poeta Giacomo, il “seduttore punito” Simone, Oreste e Lodovico, padri rispettivamente di Florian e di Emilia), a un certo punto, sopraggiunge una bellissima ragazza sconosciuta, Ortensia, la cui identità è sfuggente e non definibile dal momento che assume anche nomi diversi a seconda della situazione, Viola, Lisa, Arabella. Ortensia è un personaggio fluido, nomadico, caratterizzato da una propensione naturale all’erranza, soprattutto notturna, aperto a una pluralità di ruoli e di identità ed è caratterizzato da tratti soprannaturali tanto da essere connotato, in diversi momenti, come una vampira. Anche un altro personaggio, Emilia, possiede in sé una fluidità di genere che si oppone al rigido schematismo maschile-femminile. A un certo punto, infatti, per mezzo di una vera e propria metamorfosi transgender, la ragazza si tramuterà – fasciandosi i seni e indossando abiti maschili, quasi come la protagonista del film Titane (2021) di Julia Ducournau – nel fantomatico fratello Edoardo, che ha abbandonato da anni la casa paterna per vivere all’estero.

E sul palcoscenico pisano (importanti, come vedremo, sono i riferimenti al teatro) agisce una sarabanda di personaggi che sembrano muoversi ininterrottamente da una parte all’altra della città, in un impianto narrativo tenuto saldamente insieme da una struttura di tipo picaresco. Il soprannaturale, però, non si insinua nella narrazione solo tramite il personaggio di Ortensia: ci sono altri personaggi evanescenti, eterei, onirici, connotati anche da una venatura a metà fra il diabolico e il buffonesco, come Tancredi, il gatto parlante di Florian, con tanto di stivali, che si esprime con una elegante cadenza francese da moschettiere, o come Titti e Osvaldo, i “fratellini infernali”, o il personaggio ambiguo e sfuggente di Francesco Paolo o, ancora, il misterioso Hermann Salice Contessa.

Chissà se, tra le fonti di ispirazione di Zanotti, figura anche Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrittori russi contemporanei, nato a Kiev nel 1891. L’atmosfera fiabesca e onirica che si respira in Trovate Ortensia!, venata di soprannaturale, ricorda molto quella che ci avvolge se sfogliamo le pagine del capolavoro dell’autore russo. Secondo Francesco Orlando, “il soprannaturale è qui prima di tutto scatenamento dei precedenti leggendari dentro il quotidiano”1. Nella quotidianità della Mosca degli anni Trenta fanno irruzione una serie di personaggi dai tratti soprannaturali: Woland, un misterioso professore straniero esperto di magia nera (che altri non è se non il Diavolo in persona) e i suoi accoliti, tra cui incontriamo l’enorme gatto Behemoth che, insieme a Korov’ev (Fagotto) crea scompiglio in tutta Mosca con i suoi poteri magici; poi Azazello, che porta sempre un pince-nez con un vetro rotto, Hella, un vampiro femmina il cui nome è un chiaro riferimento a “Hell”, “inferno” e, infine, Abadonna, signore della guerra e servo di Woland. Secondo Orlando, questo romanzo “propugna anche di fatto una solidarietà tra soprannaturale e letteratura, dimensione privilegiata del diritto alla fantasia e alla libertà”2.

Anche il soprannaturale che pervade le pagine di Trovate Ortensia! dischiude una dimensione di fantasia e libertà: apre al lettore un immaginario liberato e trasforma i momenti quotidiani di una città in una sospensione magica e incantata, attraversata in alcuni momenti da connotazioni veramente orrorifiche e infernali. Come già accennato, i personaggi sono persi in un vortice nomadico e picaresco, impegnati in scorribande cittadine che diventano viaggi onirici e fiabeschi in spazi senza confini. Come sempre osserva Orlando, rifacendosi alle teorie freudiane, “come i giochi del bambino, la letteratura apre uno spazio immaginario fondato sulla sospensione o neutralizzazione della differenza tra vero e falso, uno spazio in cui vige il diritto di rispondere al piacere dell’immaginario”3. In uno spazio aperto ad un immaginario liberato si muovono anche i piccoli protagonisti di Bambini bonsai (2010), in cui Zanotti racconta con grazia e maestria il viaggio di Pepe e altri bambini in un futuro post-apocalittico e eco-distopico, verso la “casa-nave” di Petronella. In Trovate Ortensia! non sono solo i tratti soprannaturali a dischiudere una dimensione di fantasia e di libertà ma anche la stessa struttura “polifonica” della narrazione. Sono anche le svariate voci che agiscono nel racconto a offrire spazi di libertà, sono anche i diversi registri stilistici e lessicali, aperti verso un pastiche quasi gaddiano che bene ingloba nella narrazione parole ed espressioni del vernacolo pisano (i cui termini sono spiegati in un glossario alla fine del libro), a plasmare nuove aperture verso il piacere dell’immaginario. E, non da ultimo, a permettere le vie di accesso a una fantasia liberata è anche la natura enciclopedica dell’opera, cui si è già accennato, quella pluralità di generi e di autori che si nascondono dietro la tessitura narrativa.

Una natura enciclopedica che è riscontrabile fin dal titolo, il quale è una vera e propria citazione da Rimbaud, da H, un componimento delle Illuminazioni – nel quale l’enigmatica figura femminile è caratterizzata da “mostruosità” e “gesti atroci” – che si conclude proprio con le parole “trovate Ortensia” (“trouvez Hortense”). Del resto, un preciso rimando a Rimbaud lo possiede anche il personaggio di Florian, caratterizzato, durante uno dei suoi vagabondaggi per la città, come un “Pollicino rêveur incapace di rintracciare il filo della prossima mollica”. In La mia bohème, è lo stesso poeta francese a definirsi come un “Petit-Poucet rêveur” (“Pollicino sognatore”) mentre vagabonda per strade e osterie nelle notti di settembre. Il romanzo ritrovato di Zanotti è costellato anche da criptocitazioni, le quali, parafrasate, si inseriscono quasi naturalmente all’interno della narrazione, perfettamente inglobate e ‘naturalizzate’ nel testo ospitante. Ad esempio, nel momento in cui Francesco Paolo, nel suo giardino, è intento a sfogliare un libro sul Madagascar, sopraggiunge Ortensia come un’apparizione fantasmatica e l’autore commenta: “Perché gli spettri ti possiedano non c’è bisogno di una stanza, non c’è bisogno di essere una casa”, frase che appare quasi come una parafrasi dei seguenti versi di Emily Dickinson: “Non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro” (One need not to be a chamber – to be Haunted / One not to be a House”).

Una spiccata letterarietà di fondo non risparmia neppure certe descrizioni trasognate dei personaggi. Nel momento in cui Emilia e Florian si incontrano per la prima volta, la reciproca attrazione che li travolge è rivestita di connotazioni romantiche venate di letteratura. Infatti, “Emilia era bella come una reincarnazione di Emilia Viviani, la Rapunzel dell’Ottocento rinchiusa nel convento di Sant’Anna e amata dal poeta Shelley esiliato a Pisa: Emilia Viviani, l’«anima amante che si slancia fuori del creato e si crea nel infinito un Mondo tutto per essa diverso assai da questo oscuro e pauroso baratro»”. Se Florian, nel guardare Emilia, possiede un filtro romantico e letterario, anche la ragazza, nel momento in cui vede il giovane per la prima volta, non è da meno: “E a questa apparenza di anima bella corrispondevano pensieri altrettanto romantici, se anche Emilia era riuscita allora a vedere in Florian, nei suoi riccioli e nella sua barba che sapeva di mare l’ultimo fiore di una lunga genìa di viaggiatori, pirati, avventurieri, liberatori della Grecia, garibaldini, anarchici cavalieri dell’ideale, partigiani, sessantottini e più in generale combattenti per la libertà”. Anche le descrizioni della città di Pisa sono incastonate in una dimensione letteraria e incantata. Se nella frase “in questo periodo, le notti di Pisa hanno qualcosa delle notti bianche”, la città toscana è immediatamente accostata all’immaginifica Pietroburgo di Dostoevskij, in quest’altro brano un po’ più lungo, la città, sotto lo sguardo di Ortensia, si trasforma letteralmente in uno scenario da romanzo:

Per le strade di Pisa, intanto, Ortensia cammina col suo passo ciondolante, eppure svelto e snello. Di tanto in tanto, senza fermarsi, sorride e ridacchia. Percorre via Vittorio Veneto, e poi via Battelli e via De Amicis fino all’arco e a piazza Gondole. Di lì inizia la scenografia notturna di via Santa Marta, e infine si arriva all’Arno. Dal ponte della Fortezza il fiume si vede più largo che dal ponte di Mezzo. Ci si può anche scendere e trovare un piccolo lembo di terra tra erbosa e sabbiosa. Ortensia si ferma sul ponte, ma guarda in alto. Al di sopra dell’Arno incombe un cielo romanzesco: metà turchino intenso, metà blu cobalto – forse domani pioverà (e forse è quello che stanno pensando tutti). Nella parte più chiara del cielo, le stelle vanno a comporre un percorso prefissato. Un aereo ne costeggia alcune e poi, sotto forma di automobile, si scontra con una stella più luminosa. Ortensia ridacchia e sorride, sorride e ridacchia, poi guarda al vecchio palazzo del lungarno Galilei, si rabbuia e se ne va (pp. 112-113).

Come in un esperimento di geopoetica, le vere strade di Pisa si trasformano in uno scenario narrativo e romanzesco. Con Trovate Ortensia! possiamo insomma divertirci a seguire un personaggio letterario sulla mappa reale di una città, come fa Umberto Eco con Parigi per scoprire “dove abitava quell’individuo reticente e misterioso che era Aramis”4 oppure a ripercorrere dal vero quelle stesse strade nella Pisa contemporanea che, da quella seconda metà anni Novanta, non è poi cambiata così tanto.

Una ben salda caratterizzazione letteraria (e musicale in quanto, in un’occasione, si trasforma quasi nella Marinella della celebre canzone di De André) la possiede anche Ortensia. Nella sua veste di personaggio etereo e fantasmatico viene infatti più volte avvicinata a una vampira. Non a una vampira qualunque, ma a Carmilla, la protagonista dell’eponimo romanzo di Joseph Sheridan Le Fanu del 1872, a cui si ispira anche il nome di questa webzine. I riferimenti alla vampira del romanzo dello scrittore irlandese vengono attuati anche tramite un sottile gioco allusivo, in quanto “Carmilla” è il nome di un locale di Pisa, molto frequentato dagli studenti nel periodo in cui si ambienta il romanzo. Ad esempio, a proposito di Viola-Ortensia così si esprime Luca: “Luca, per sdrammatizzare, gli disse che l’aveva scampata bella, perché questa Viola – che non a caso, beh, era finita al Carmilla – doveva essere tipo una vampira aliena che deve accoppiarsi, e all’uopo cerca il maschio più adatto […]”. E anche di fronte alle avances del “seduttore” Simone, Ortensia ha una reazione quasi vampiresca: “La reazione di Ortensia a queste effusioni si dimostrò, anzi, persino eccessiva, specie quando si chinò sul collo di Simone e iniziò a succhiarlo e baciarlo metodicamente, quasi a fargli male”. Successivamente, la ragazza appare preda di una misteriosa malattia – simile a quella da cui è afflitta Carmilla – che la illanguidisce e la fa dormire molto, rendendola ancora più evanescente ed eterea. Tra l’altro, ammalata, viene condotta a casa di Emilia, la quale le si affeziona nello stesso modo in cui, nel romanzo di Le Fanu, Laura, che vive con il padre in un castello isolato della Stiria, si affeziona alla languida e bellissima protagonista. E, non a caso, una volta che Ortensia si sarà ristabilita, Emilia progetta di portarla proprio al “Carmilla”: “Progetto per il prossimo fine settimana: la metto in tiro e la porto al Carmilla”. Un diretto rimando a Carmilla di Le Fanu è poi attuato da Florian, in riferimento alla possibilità che Arabella e Ortensia possano essere la stessa persona: “Però, se è veramente il suo vampiro, doveva averci il nome anagrammato: Carmilla-Mircalla. Ortensia, invece, non c’incastra con niente”. Si può ricordare che un riferimento alla protagonista del romanzo dello scrittore irlandese lo incontriamo anche in un racconto di Zanotti dal titolo La cella geografica (adesso, insieme ad altri racconti usciti sul “Caffè illustrato” fra il 2004 e il 2010, incluso nella raccolta L’originale di Giorgia e altri racconti, pubblicata nel 2017): qui, l’io narrante riveste di connotazioni quasi demoniche e soprannaturali una sua amica d’infanzia di nome Camilla, chiamata appunto con i due appellativi dei doppi di Carmilla, Mircalla e Millarca, anagrammi del nome della fanciulla vampiro.

Come già accennato, anche la dimensione teatrale riveste una notevole importanza in Trovate Ortensia!. Punto culminante della polifonia espressiva che anima l’intera narrazione è la messa in scena finale al “Sant’Andrea” del Racconto d’Inverno di Shakespeare: il teatro pisano si configura come lo spazio affabulatorio verso il quale convergono le erranze narrative del racconto e che vedrà riuniti tutti i personaggi. Il paradigma teatrale, nel romanzo di Zanotti, non è però rappresentato soltanto dal modello illustre di Shakespeare (pure se diverse opere dell’autore inglese appaiono come importanti ipotesti nel senso delineato da Gérard Genette). Esso compare anche, se così si può dire, in una sua dimensione più umile e popolare incarnandosi in una vera e propria rappresentazione di teatro vernacolare pisano attraversata dal registro stilistico più basso e buffonesco. Memorabile è la scenetta domestica, dominata da trovate comiche espresse con termini dialettali e popolari, che vede protagonisti il signor Lodovico, sua figlia Emilia, il signor Oreste e suo figlio Florian. Lodovico arriverà poi a trasformarsi quasi in un re che tiene imprigionata la figlia nella torre del suo castello per impedirle la frequentazione del pretendente Florian. Allora si scateneranno duelli, singolar tenzoni, avventure degne di un romanzo cavalleresco, monologhi drammatici in una granduignolesca mescolanza fra alto e basso.

Ogni dimensione narrativa appare dolcemente pervasa da un soprannaturale che, alleandosi con la letteratura, come osservava Orlando riguardo al Maestro e Margherita, permette il dischiudersi di un irrinunciabile diritto alla fantasia e alla libertà. È qui, credo, che risiede l’aspetto più significativo di Trovate Ortensia!, un vero e proprio gioiello letterario che finora era rimasto nascosto e che adesso, come un dispettoso e salvifico folletto, è riemerso dalle brume degli anni Novanta. E davvero, ai giorni nostri, c’è più che mai bisogno di una letteratura che, per mezzo di un immaginario venato di soprannaturale, possa offrire inediti slanci di liberazione a percorsi fin troppo obbligati. E allora ci rendiamo conto di quanto ci manca, oggi, la magica penna di Paolo Zanotti.


  1. F. Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, Einaudi, Torino, 2017, p. 159. 

  2. Ivi, p. 162. 

  3. Ivi, p. 22. 

  4. U. Eco, Lo strano caso di via Servandoni, in Id., Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, Bompiani, Milano, 1995, p. 124. 

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Al bar Pilade, fra bombe e complotti https://www.carmillaonline.com/2021/07/04/al-bar-pilade-fra-bombe-e-complotti/ Sun, 04 Jul 2021 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67001 di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano [...]]]> di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano al «banco di zinco» del bar nel «periodo in cui tutti si davano del tu, gli studenti ai professori e i professori agli studenti. Non parliamo della popolazione di Pilade: “Pagami da bere”, diceva lo studente con l’eschimo al caporedattore del grande quotidiano. Sembrava di essere a Pietroburgo ai tempi del giovane Sklovskij. Tutti Majakovskij e nessun Zivago»1.

L’ambientazione di quello stesso bar Pilade del Pendolo compare nella seconda parte del saggio di Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, uscito recentemente per Alegre, intitolata QAnon: filamenti di genoma transatlantico, collected from good authorities. Ho definito come “saggio” l’ultima opera di Wu Ming 1 ma probabilmente devo correggermi: si tratta, infatti, di un UNO, cioè – parafrasando l’acronimo UFO, “Unidentified Flying Object” – di un “Unidentified Narrative Object”, cioè un oggetto narrativo non identificato. L’espressione è stata coniata dallo stesso Wu Ming 1 in un intervento comparso su “Carmilla” nel settembre del 2008 (New Italian Epic 2.0): «gli UNO sono esperimenti dall’esito incerto, malriusciti perché troppo tendenti all’informe, all’indeterminato, al sospeso. Non sono più romanzi, non sono già qualcos’altro». Si tratta in sostanza di una forma ibrida, sorta sulla scia di quella linea multiforme e menippea messa in evidenza da Michail Bachtin soprattutto nel suo saggio su Dostoevskij. Del resto, nella letteratura è già possibile individuare una forma a metà tra romanzo e saggio, il cosiddetto “metaromanzo”, cioè un romanzo che riflette su stesso e sulle sue forme, individuabile già a partire da La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo (The Life and Opinions of Tristram Shandy Gentleman, 1759-1767) di Laurence Sterne fino a Petrolio (1992) di Pier Paolo Pasolini.

Però, gli UNO si pongono anche al di là del metaromanzo: sono, come accennato, forme ibride, composte da reportage giornalistici, stralci narrativi, poesie, prose poetiche, il tutto combinato insieme per mezzo di svariati stili secondo la tecnica del pastiche. Insomma, il bar Pilade è l’ambientazione dell’ultima parte di La Q di Qomplotto il quale, per il solo fatto di riallacciarsi ad una precedente opera come Il pendolo di Foucault assume delle caratteristiche peculiari. L’autore (che si trasforma in personaggio e narratore) fa un sogno («Fu quella notte che feci il sogno»: così si conclude la prima parte del libro, quasi in una citazione dell’incipit del romanzo di Eco, «Fu allora che vidi il pendolo») e si trova proiettato in una dimensione a metà fra gli anni Settanta e il gennaio 2021 («Un 2021 parallelo, dove i bar erano aperti e nessuno portava la mascherina», QdQ, p. 395). È qui che, novello Casaubon, l’autore-personaggio racconta a Belbo e Diotallevi, gli editori del Pendolo, storie di complotti italiani, poi messi a nudo. L’andamento saggistico del libro, prevalente nella prima parte, assume perciò un aspetto narrativo: il saggio si trasforma in romanzo pur non perdendo il suo aspetto saggistico, il quale viene adesso intervallato da piccole scenette che avvengono all’interno del bar dove, ad ascoltare la storia, si trovano anche alcune giovani studentesse. Mentre l’autore racconta, preso dal suo narrativo impeto onirico, alcune esplosioni fanno tremare i tavolini e il bancone del bar, perché – come afferma Belbo – «sono anni di bombe, quelli che viviamo» (QdQ, p. 533).

L’operazione realizzata da Wu Ming 1 a partire dal romanzo di Eco rientra all’interno delle pratiche ipertestuali analizzate da Gérard Genette in Palinsesti (uno studio sulla «letteratura al secondo grado»), e potrebbe essere definita come una «amplificazione» del Pendolo di Foucault, cioè una vera e propria espansione narrativa. Lo scrittore, infatti, aggiunge delle situazioni narrative non presenti nell’opera originaria creando anche un nuovo personaggio, Valentina Belbo, la giovane cugina di Iacopo. Del resto, La Q di Qomplotto è costruita come un’opera intertestuale e incline al pastiche (inteso come pratica ‘imitativa’), un mastodontico contenitore che include innumerevoli riferimenti alla cultura, alla società e alla politica. La parte finale della prima parte, a partire dal capitolo 22, significativamente intitolato La virulenza illustrata, è scritta con uno stile che rimanda esplicitamente a Nanni Balestrini (lo stesso titolo del capitolo è ricalcato su quello del romanzo di Balestrini, La violenza illustrata, del 1976): la narrazione si velocizza in uno stile rapido e dal taglio giornalistico mentre scompare praticamente del tutto la punteggiatura. Ma è indubbiamente Il pendolo di Foucault «il libro delle metastasi» (così è intitolato il capitolo 4), un’opera che Wu Ming 1 ha tenuto costantemente presente nella stesura del suo lavoro:

Il pendolo di Foucault era tante cose: un romanzo di formazione (e deformazione), un’enciclopedia esoterica impazzita, una testimonianza sull’industria culturale italiana nel passaggio tra anni Settanta e Ottanta, e soprattutto una riflessione sulle fantasie di complotto: come nascevano, come si sviluppavano, come parlarne. Riflessione molto più comprensibile trent’anni dopo, nel passaggio tra gli anni Dieci e Venti del nuovo secolo. Eco aveva raccontato – senza mai voler essere “futuribile” – il mondo in cui mi trovavo ora, mentre facevo inchiesta su QAnon e dintorni (QdQ, p. 70).

A partire dal romanzo di Eco l’autore arriva fino a «QAnon e dintorni» per dimostrare come «le fantasie di complotto difendono il sistema». Sotto il nome di QAnon si indica una teoria del complotto di estrema destra, sorta negli Stati Uniti, secondo la quale esisterebbe una sorta di deep state che trama contro l’ex presidente Donald Trump per scardinare l’ordine mondiale, colluso con reti di pedofilia e misteriose pratiche ebraiche. Secondo Wu Ming 1, le principali definizioni da applicare a QAnon sono cinque:

1. un gioco di realtà alternativa divenuto mostruoso;
2. un modello di business;
3. una setta che praticava forme di condizionamento mentale;
4. un movimento reazionario di massa che cercava di entrare nelle istituzioni;
5. una rete terroristica in potenza (QdQ, p. 21).

La teoria del complotto difende il sistema perché quest’ultimo viene additato come la vittima di un ipotetico e inesistente deep state: «Nella propaganda di QAnon il potere occulto era la megalobby satanista e pedofila che controllava il deep state, e il contropotere rivoluzionario era la Casa bianca di Trump. Nella propaganda nazista, che forniva il precedente più ovvio, il potere occulto era l’internazionale giudaica e il contropotere rivoluzionario era il regime di Hitler» (QdQ, p. 52). Infatti, «chi credeva a fantasie di complotto tendeva ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche» (QdQ, p. 163). E la violenza è una delle pratiche adottate per difendere il sistema: l’autore passa in rassegna gli omicidi targati QAnon nonché il tentativo di strage messo in atto da Maddison, un giovane della North Carolina che, nel dicembre del 2016, armato, si era recato a Washington D.C. per punire i perversi pedofili del Comet Ping Pong, un locale nei cui sotterranei, secondo la vulgata complottista, sarebbe stato schiavizzato e violentato un numero indefinibile di bambini.

L’autore, in modo abile, pone sotto la sua lente diverse narrazioni di complotto che si sono instillate nelle menti delle persone, a partire dalla caccia alle streghe di Salem fino alla teoria della sostituzione etnica e ai Protocolli dei Savi di Sion, passando attraverso le idee che consideravano l’allunaggio una messa in scena o quelle sulla ipotetica morte di Paul McCartney nonché sui retroscena esoterici delle canzoni dei Beatles. Il suo intento – ben riuscito e ben calibrato – è quello di un debunking, cioè di uno smascheramento delle fake news e delle narrazioni tossiche. Per arrivare, dagli Stati Uniti, fino in Italia. E allora, una serie di capitoli intitolati In viro veritas? analizza in modo sottile la narrazione virocentrica che si è sviluppata nel nostro paese a partire dall’emergenza Covid, nel marzo 2020. Una narrazione dominante che ha attraversato e continua ad attraversare le coscienze degli individui: come lo stesso collettivo Wu Ming (a cui appartiene l’autore di La Q di Qomplotto) ha evidenziato in una serie di lucidi articoli apparsi sul blog «Giap» nel periodo dell’emergenza (fra i pochi che, in quello stesso periodo, valeva la pena leggere), invece di dare la colpa dell’insorgenza del virus a un sistema capitalistico malato che commercia carne su larga scala, deforesta, crea ovunque industrie tossiche, si tendeva, appunto «ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche». Ecco allora la famigerata colpevolizzazione del cittadino, rilevata in modo lucido anche dal sociologo Andrea Miconi nel suo saggio Epidemie e controllo sociale (qui la recensione su “Carmilla”): la colpevolizzazione di chi esce senza motivo, dei runner, di chi non porta la mascherina all’aperto e via di seguito. Una narrazione dominante scaturita dall’emergenza pandemica perché, come nota Wu Ming 1 per mezzo di una efficace metafora, quella stessa emergenza «esasperava tutte le tendenze che andavo descrivendo, stagliandole contro una luce violentissima, una lampada da terzo grado puntata in faccia al mondo» (QdQ, p. 301).

Infine, nella già citata seconda parte del suo saggio che, sub specie narrationis, si ambienta al bar Pilade, lo scrittore analizza i «filamenti di genoma transatlantico di QAnon», dalla caccia alle streghe al «revival di Satana», attraversando e scandagliando gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Fino agli anni Novanta, per rivolgere la sua attenzione ancora all’Italia e al caso “Bambini di Satana”, quando nel 1996 viene arrestato a Bologna Marco Dimitri insieme ad altri esponenti dell’associazione «Bambini di Satana». Un’associazione culturale vicina alla sinistra antagonista che – è bene precisarlo – non ha niente a che fare col Maligno o l’Anticristo: «Per “satanismo”, Dimitri e soci non intendono una versione capovolta del cristianesimo ma una miscela di neopaganesimo, panteismo, libertinismo, anarchismo… I numi tutelari vanno da Aleister Crowley ad Arthur Rimbaud» (QdQ, pp. 515-516). Le accuse nei loro confronti sono svariate «e cambieranno di continuo, in un proliferare di fattispecie di reato: violenza sui minori, violazione di sepolcro, profanazione di cadavere…» (QdQ, p. 515). Stupri, rapimenti, bambini infilati nelle tombe, messe nere nei cimiteri della Bassa ma nessuno che si sia mai accorto di nulla. Nessuno si è mai accorto di nulla semplicemente perché non c’è stato niente di tutto questo, come non esisteva nessun sotterraneo al Comet Ping Pong. Lo stesso autore, insieme ad altri del collettivo Wu Ming, allora Luther Blisset Project, ha svolto all’epoca una controinchiesta per smascherare questa ridda di accuse, montate da diversi quotidiani e soprattutto da Il Resto del Carlino. La controinchiesta di Luther Blisset, come molte delle sue iniziative, ha una sottile origine letteraria, modellata sull’inchiesta realizzata dall’investigatore Dupin in Il mistero di Marie Rogêt di Edgar Allan Poe: nel racconto, Poe riflette su come la cronaca ha raccontato l’omicidio di Marie Cecilia Rogers, avvenuto a New York nel 1841, ricostruendo le incongruenze, giustapponendole e facendole giocare l’una contro l’altra. Così, «a partire dal settembre del 1996, semplicemente facendo le pulci al Carlino, esponiamo le aporie del teorema giudiziario, critichiamo la linea della procura e mostriamo le dinamiche della mostrificazione a mezzo stampa» (QdQ, p. 531). Alla fine, anche grazie a questa controinchiesta, le coscienze si smuovono, si creano delle brecce nella narrazione dominante e alla fine Dimitri (che si era fatto 400 giorni di carcere, molti dei quali in isolamento) e gli altri vengono assolti. Si è creata una breccia nel «satanic panic», in quel credere ciecamente nell’esistenza di una setta di satanisti pedofili che gode di protezione in alto e di cui fanno parte anche uomini di potere, già preesistente in Europa e in Italia prima di QAnon. Perché, come leggiamo in un articolo a firma Wu Ming uscito su «Giap», dal titolo Sulla morte di Marco Dimitri (13 febbraio 1963-13 febbraio 2021), «non sono “americanate”. Quella merda l’abbiamo inventata noi». E a Marco Dimitri (scomparso nel febbraio di quest’anno), che si era avvicinato al Luther Blisset Project e alla Wu Ming Foundation, è affettuosamente dedicato La Q di Qomplotto.

Ma non è finita qui: le ultime pagine del libro ci narrano, nell’ormai silenzioso e notturno bar Pilade, altre vicende di «satanic panic» nella bassa padana, accuse di pedofilia e presunto satanismo in quella che sembra ormai diventata – come suonava il titolo di una canzone dei CCCP – una vera e propria «Emilia paranoica». Ma la penna, la voce e la narrazione dell’autore continuano instancabili in una lucida opera di debunking, di smascheramento, nella volontà e convinzione di proferire una verità critica, quasi come un antico parresiastes. Infatti, come afferma Michel Foucault, la funzione della parresia (dire la verità a costo di un rischio) nella Grecia antica «non è di dimostrare la verità a qualcun altro, ma quella di esercitare una critica»2. Ed è una vera e propria critica in nome della lucidità di pensiero quella portata avanti dallo scrittore in tutte le cinquecentonovantuno pagine del suo libro, per smascherare paure e superstizioni, quelle narrazioni dominanti che si fanno largo fra bombe e complotti, per «creare un immaginario liberatorio e alternativo contro un immaginario tossico»3, fino agli ultimi lembi narrativi che si srotolano in quell’onirico e stupendo bar notturno.


  1. U. Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, 1994, p. 71 

  2. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 2005, p. 8 

  3. Come si è efficacemente espresso Alberto Prunetti in occasione di una recente presentazione del libro alla “Corte dei Miracoli” a Siena, insieme all’autore. 

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Pascoli poeta maledetto: uno sguardo antagonista https://www.carmillaonline.com/2021/05/13/pascoli-poeta-maledetto-uno-sguardo-antagonista/ Thu, 13 May 2021 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66282 di Paolo Lago

Francesca Sensini, Pascoli maledetto, Il melangolo, Genova, pp. 156, € 12,00.

Spesso, le narrazioni dominanti che si affermano sui classici li ingabbiano in formule-etichetta che non fanno altro che anestetizzare opere, artisti e pubblico. Sono convinto che ognuna di queste narrazioni dominanti che avvolgono e mummificano determinati autori debbano essere scardinate e smantellate proprio per poter guardare ad essi e alle loro opere con sguardo critico antagonista, teso a nuove letture e interpretazioni. Giovanni Pascoli è sicuramente uno di quegli artisti che è stato inglobato in una vulgata fatta di luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Francesca Sensini, Pascoli maledetto, Il melangolo, Genova, pp. 156, € 12,00.

Spesso, le narrazioni dominanti che si affermano sui classici li ingabbiano in formule-etichetta che non fanno altro che anestetizzare opere, artisti e pubblico. Sono convinto che ognuna di queste narrazioni dominanti che avvolgono e mummificano determinati autori debbano essere scardinate e smantellate proprio per poter guardare ad essi e alle loro opere con sguardo critico antagonista, teso a nuove letture e interpretazioni. Giovanni Pascoli è sicuramente uno di quegli artisti che è stato inglobato in una vulgata fatta di luoghi comuni, grazie anche alla colpevole complicità della scuola, che non ha fatto altro che mummificarlo: cantore delle ‘piccole cose’ campestri e della natura, poeta-fanciullo ipersensibile e pronto ad arrossire di fronte all’eros nonché placido signore borghese succube della sorella Maria. Certo, la narrazione dominante che lo ha ingabbiato è scaturita, non in minima parte, dal ritratto che ne ha offerto proprio la sorella. Adesso, a scardinare questa vulgata fatta di luoghi comuni interviene un brillante studio critico di Francesca Sensini, dal significativo titolo di Pascoli maledetto. Come la studiosa scrive nell’introduzione, si tratta di “un lavoro a tesi ed un lavoro di parte. La tesi è che Pascoli sia il nostro poeta maledetto o, detto altrimenti, che debba essere ricondotto a quella temperie estetico-filosofica e studiato in una prospettiva risolutamente europea. Pascoli maledetto, dunque, à la Verlaine e a modo suo, con un’originalità che ne fa un maestro unico della poesia europea moderna”.

Se guardiamo alla biografia del poeta, grazie alla studiosa, possiamo riscoprire un Pascoli giovane ribelle e rivoluzionario. Sul versante politico, il poeta si interessa a Aleksandr Ivanovic Herzen, teorico del populismo russo, e a Michail Bakunin, filosofo e rivoluzionario anarchico. Nel 1875, Pascoli ammette senza timore di aver contestato il ministro dell’Istruzione Ruggero Bonghi, “uno dei principali oppositori al monumento di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori a Roma, diventato all’epoca simbolo della battaglia del libero pensiero e dell’anticlericalismo”. La ribellione antiborghese degli anni giovanili, oltre che svilupparsi nell’abuso di alcool e laudano, si manifesta anche in alcune composizioni. Nel 1878, ad esempio, pubblica sul “Nettuno” i versi di La morte del ricco, “un testo di grande potenza in cui sfilano tutti gli spettri delle vittime del capitale, incarnato dal «ricco» sul letto di morte, assistito dal prete”. Inoltre, nel 2006, “viene pubblicato un inedito inno per l’Internazionale anarchica che contribuisce ulteriormente a demolire la narrazione sororale di un fratello ingenuo e influenzabile, trascinato da cattivi maestri e peggiori compagni, lontanissimo da ogni forma di violenza”. Bisogna anche ricordare che a Pascoli è attribuita un’Ode a Passanante, l’attentatore di Umberto I di Savoia: se Maria ne smentisce la paternità, gli amici di Giovanni la contraddicono. Nel 1879, il poeta fa parte di un gruppo di manifestanti che solidarizza con alcuni anarchici arrestati e, successivamente, anch’egli verrà arrestato per poi trascorrere tre mesi e mezzo in carcere.

Se poi, dal lato politico ci spostiamo a quello più strettamente privato, possiamo incontrare un personaggio alquanto diverso dal casto poeta spaventato dall’amore e dal sesso. Da giovane, e non solo, Pascoli si è lanciato in diverse avventure galanti: il fatto che, in definitiva, nessuna di queste si sia concretizzata in un matrimonio è ascrivibile proprio alla presenza ossessiva della sorella Maria con la quale il poeta aveva indubitabilmente instaurato un rapporto non del tutto ‘sano’. A Massa, dove insegna al liceo, incontra una ragazza bionda che lo attrae, Barbara Papini, mentre successivamente arriva a chiedere la mano di una cugina, Imelde. Stabilisce inoltre uno stretto legame con Emma Corcos, sposa in seconde nozze del celebre ritrattista livornese Vittorio Corcos, “animatrice di un salotto letterario a Firenze e bellissima donna”. A Bologna, poi, si innamorerà di una sua brillante allieva, Giovanna Pia Marcianti, “soprano dilettante e sua vicina di casa in piazza del Risorgimento”. Dalle testimonianze di amici e amiche, amori, allievi e conoscenze emerge il ritratto di un uomo allegro e incline allo scherzo e alla beffa, legato al piacere della convivialità e dell’amicizia, animato da ideali politici, ribellione e passionalità. Insomma, “la sua vita, anche a Castelvecchio, non è quella di un misantropo, ma è ricca di scambi e di incontri”. Da un punto di vista biografico, inoltre, come sottolinea Sensini, una differenza importante fra Pascoli e i poètes maudits consacrati dalla tradizione sta nel fatto che il primo sceglie la dissimulazione, mentre Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e lo stesso Poe scelgono invece l’esibizione e la marginalità sociale. Dopo gli anni giovanili, caratterizzati da un’impronta bohémienne, la vita di Pascoli si fossilizza in una apparente quiete borghese pur covando, in modo silente, una tormentosa, lenta autodistruzione (il poeta non ha infatti mai smesso di abusare di alcool fino alla morte per cirrosi epatica). In modo silente, Pascoli non ha mai cessato la sua “lotta intima, contro i propri demoni, e politico-sociale, contro la violenza del capitalismo in pieno rigoglio, contro la borghesia ipocrita e volgare”.

L’analisi antagonista e ‘rivoluzionaria’ di Francesca Sensini si focalizza successivamente sulla produzione poetica di Pascoli. Secondo la studiosa, non si può ridurre la poesia pascoliana esclusivamente all’idillio delle piccole cose: in questo modo si confonderebbe la categoria estetica del “fanciullino” con il bambino in senso proprio. Il “fanciullino” altro non è che “l’incarnazione della facoltà primitiva di intuire ed esprimere il mondo”(e non si sbaglierebbe a considerare la prosa del Fanciullino come una sorta di ‘versione italiana’ della Lettera del Veggente di Rimbaud). Non si può perciò pensare a un Pascoli in fuga dal presente e dalla realtà per cercare rifugio nel “nido” della famiglia ricomposta: egli, semmai, fugge nella realtà perché “tutta la sua ricerca teorica e tutta la sua pratica poetica sono rivolte al presente e mirano a una sua rifondazione”. Ancora oggi si ricorre alla spiegazione dei testi “psicanalizzando l’autore”, riconducendo gran parte della sua opera a un filone depressivo-funebre. Penso che una interpretazione di questo tipo avrebbe funzionato per i poeti crepuscolari, ma non per Pascoli. La sua poesia, molto più complessa, scoperchia un universo oscuro e misterioso in cui si intensificano le corrispondenze simboliche fra gli elementi naturali e, appunto, immagini e sensazioni che giungono invece da un ‘altrove’ misterioso, da un tormento mai pacificato, come in Baudelaire. Basti pensare alle cavallette che, ne L’assiuolo, componimento della raccolta Myricae, si trasformano in “finissimi sistri d’argento / (tintinni a invisibili porte / che forse non s’aprono più?…)”, in cui vi è un rimando ai misteri di Iside, caratterizzati proprio dall’utilizzo dei sistri, antichi strumenti musicali egiziani. Oppure, si potrebbe pensare alle immagini quasi spettrali, veri e propri fantasmi che compaiono nei versi pascoliani, dalla misteriosa figura che appare ne Il bacio del morto fino alla “tessitrice” nell’eponimo componimento (testo analizzato anche da Francesca Sensini, nel quale è riscontrabile una somiglianza con le atmosfere perturbanti di Poe, autore, tra l’altro, tradotto da Pascoli), rappresentata come un fantasma, “una rediviva che appare solo per il suo amante”, oppure all’“ombra errante” che inquieta i pensieri del poeta in Nella nebbia, nei Primi poemetti. Oppure, ancora, alle immaginifiche visioni di territori fantastici e sconosciuti in Alexandros e in Gog e Magog, nei Poemi conviviali, che possono rimandare alle visioni baudelaireiane di Orienti incantati e visionari o al Rimbaud di Le Bateau Ivre.

Da un punto di vista stilistico, la poesia di Pascoli si nutre di un prolifico squilibrio fra classicismo e anticlassicismo: secondo Sensini, si tratta di una poesia “fortemente anticlassica su classicissime fondamenta, straniante, forse per alcuni anche irritante, il cui significato letterale non soddisfa mai del tutto e sollecita altri piani, additando un percorso più lungo in vista di un piacere intellettuale ed estetico più profondo”. Come ebbe a scrivere Pasolini, inseguendo una suggestione offerta da Gianfranco Contini, Pascoli utilizza un “plurilinguismo” dal quale emerge una vera e propria linea di fuga “dalla lingua maggiore da lui già ridotta a minore, verso il dialetto”. Anche da un punto di vista metrico (lezione, anche questa, recepita da Pasolini che dedicò al poeta di Castelvecchio la sua tesi di laurea), Pascoli ripropone versi e metri classici sui quali opera un continuo scardinamento, una vera e propria opera – si potrebbe dire – di ‘ribellione’ formale.

E anche se in Pascoli manca tutta la dimensione urbana, i suoi splendori e i suoi bassifondi, se mancano riferimenti scoperti al vizio, alla follia, all’orrore e alla crudeltà che costituiscono una vera e propria marca di riconoscimento per i poeti maledetti, tuttavia non possiamo negare la sua vicinanza a questo universo poetico e, soprattutto, a Baudelaire. Grazie al libro di Francesca Sensini, una narrazione dominante e anestetizzante su un autore significativo della letteratura italiana comincia a sfaldarsi, in modo così da permettere il dischiudersi di una nuova prospettiva critica per certi aspetti eccentrica, antagonista e, senza ombra di dubbio, innovativa.

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