arte pubblica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 02 Aug 2025 20:05:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Arte pubblica. Le relazioni oltre le immagini https://www.carmillaonline.com/2022/12/15/arte-pubblica-le-relazioni-oltre-le-immagini/ Thu, 15 Dec 2022 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75158 Gioacchino Toni

Con arte pubblica si è soliti far riferimento a un eterogeneo insieme di forme estetiche e sperimentazioni artistiche che hanno luogo negli spazi pubblici e che, spesso, pur tra diverse contraddizioni, intendono dar voce alla comunità che vive quei luoghi o rivolgersi a essa e a chi attraversa quegli spazi. Di ciò si occupa il volume curato da Cecilia Guida e Roberto Pinto, Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica (postmedia books, 2022) in cui sono raccolti saggi in italiano e inglese di artisti, curatori, sociologi [...]]]>

  • di Gioacchino Toni
  • Con arte pubblica si è soliti far riferimento a un eterogeneo insieme di forme estetiche e sperimentazioni artistiche che hanno luogo negli spazi pubblici e che, spesso, pur tra diverse contraddizioni, intendono dar voce alla comunità che vive quei luoghi o rivolgersi a essa e a chi attraversa quegli spazi. Di ciò si occupa il volume curato da Cecilia Guida e Roberto Pinto, Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica (postmedia books, 2022) in cui sono raccolti saggi in italiano e inglese di artisti, curatori, sociologi e storici dell’arte che riflettono sulle più diverse modalità di intervento negli spazi pubblici oltre che sul significato che i termini “arte” e “spazio pubblico” possono assumere nella contemporaneità, soprattutto se intesi nella loro funzione politica e partecipativa, di creazione di esperienze condivise con le comunità che vivono quegli spazi e con chi, più semplicemente, li attraversa.

    Scrive Cecilia Guida che quando si parla di arte pubblica ci si riferisce «a tutti quegli interventi oggettuali, immateriali e performativi che reimmaginano esteticamente uno spazio pubblico specifico, mettono al centro le comunità che lo abitano e sono in grado di innescare relazioni e connessioni tra istituzioni, sia pubbliche che private, la storia, le memorie e il tessuto sociale del luogo» (p. 19). Tale ambito assume maggior rilievo alla luce del moltiplicarsi delle riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme in uno spazio non confinato esclusivamente all’universo digitale che, complice la recente pandemia, sembrerebbe aver quasi monopolizzato le modalità e l’immaginario di vita comunitaria.

    Nello specifico, il volume, riccamente illustrato, riporta quanto emerso nel corso delle giornate di studio tenutesi tra giugno 2019 e ottobre 2020, nell’ambito del programma pubblico ArtLine, collezione a cielo aperto di interventi artistici permanenti nel parco idi City Life del Comune di Milano, dedicate alle diverse tendenze dell’arte pubblica e alle loro implicazioni sullo spazio sociale contemporaneo1.

    Nell’impossibilità di dar conto della mole di questioni poste dai diversi contributi, in questo scritto ci si limiterà a riportare alcune importanti riflessioni utili a mostrare come le questioni inerenti all’arte pubblica debbano necessariamente coinvolgere le comunità e non possano essere delegate alle istituzioni culturali urbane, ai finanziatori delle opere e nemmeno ai soli artisti che rischiano altrimenti di intervenire, nonostante i migliori propositi, in maniera impositiva su reali abitanti di quei territori. Questo vale tanto per gli artisti manstream chiamati e finanziati dagli amministratori e da privati che scambiano spesso e volentieri la riqualificazione urbana con la gentrificazione dei quartieri popolari, quanto per gli artisti underground che operano a colpi di spray legati magari a scenari alternativi a volte “importati” sui territori senza creare alcun dialogo con i suoi reali abitanti [su Carmilla 1 2 3].

    Antoni Muntadas, a partire da una riflessione sul termine “pubblico”, sul suo significare sia “spazio comune” che “spettatori”, sottolinea come sia importante distinguere tra “Arte nello spazio pubblico” e “Arte Pubblica”. Se nel primo caso si tratta di «opere installate e fruite nello spazio urbano ma [non] necessariamente correlate al contesto», nel secondo caso si tratta di «una condizione nella quale l’artista interviene in un determinato contesto urbano e sociale con un’opera specificatamente progettata per la comunità che la ospita» (p. 138).

    Muntadas, dopo aver evidenziato come sia difficile che l’artista contemporaneo riesca davvero a convivere all’interno di una comunità, prendendo parte alla sua quotidianità coinvolgendola nell’ideazione e realizzazione dell’intervento artistico sul territorio, si sofferma sul rapporto tra “monumento” e “permanenza”. Negli ultimi due secoli, sostiene, vi è stata una certa predisposizione all’edificazione di monumenti celebranti figure illustri o potenti, non a caso solitamente collocati su piedistallo, di tipo permanente. Ed è proprio in quella volontà di permanenza che Muntadas individua una forma di imposizione nei confronti della comunità. «Un committente, che può essere un’istituzione o una corporation, chiama un artista e sostiene i costi di produzione, senza prevedere un confronto con il contesto e la collettività. Il pubblico deve tollerare la presenza dell’opera permanente senza esprimersi» (p. 140).

    Lo spazio pubblico oggi è essenzialmente un “luogo di sorveglianza” (si pensi alla quantità di videocamere presenti) motivata da un’illusione di sicurezza, e già questo non lo rende uno spazio di libertà. Allo stesso tempo lo spazio pubblico contemporaneo è uno “spazio corporativo” che vincola il pubblico agli interessi economici. Chiedendosi come possa operare un artista all’interno di uno spazio di sorveglianza e corporativo, in un contesto sottoposto a un processo di gentrificazione ove il “valore culturale” di un territorio viene strettamente legato al suo “valore economico”, Muntadas risponde proponendo il ricorso ad un Intervento”, cioè alla collocazione nello spazio pubblico di un’opera di interesse artistico e culturale temporanea che resti instalalta per un periodo – breve o lungo che sia – rigorosamente prefissato. Il dialogo tra artista e comunità diviene dunque fondamentale anche nel decidere insieme se prolungare o meno la presenza nel luogo dell’Intervento a fronte dei cambiamenti intervenuti sul territorio o del deterioramento dell’opera stessa.

    Andrea Pinotti avvia invece la sua riflessione a partire dalla serie di attacchi iconoclasti legati al movimento Black Lives Matter che hanno preso di mira statue e monumenti associabili al razzismo, allo schiavismo e al colonialismo e che, fatte salve le motivazioni specifiche caso per caso, si inseriscono all’interno di una lunga tradizione. Pinotti sottolinea un paradosso che, a suo avviso, contraddistingue tali recenti atti distruttivi:

    nel momento in cui si accaniscono nei confronti di un’immagine memoriale, distruggendola, vengono immortalati […] nell’atto di annientarla, salvando per così dire nella rappresentazione della distruzione l’oggetto stesso la cui memoria andava appunto dannata. […] Uccidere un’immagine significa riconoscerla come viva, perché solo ciò che è vivo può venire ucciso. Dovremmo dunque trarre da questa affermazione la reciproca, e cioè sostenere che se uccidere un’immagine significa riconoscerla come vivente, conservarla in esistenza significa riconoscerla come morta? (pp. 323-324).

    A distruggere la carica mnesica del monumento sembra piuttosto provvedere la disattenzione; nel non prestare interesse al monumento non ci si cura nemmeno di ciò che rappresenta.

    Il monumento, qualsiasi esso sia, nato in un contesto specifico, nel suo essere testimonianza innanzitutto di tale contesto, deve per forza di cose essere preservato o può essere lasciato in balia delle mutevoli sorti della storia, dei rivolgimenti politici e sociali, sino ad accettarne la distruttibilità? Da parte sua Pinotti invita a «ripensare a un concetto di monumento che prenda congedo dalla statica rappresentazione di un partito preso ideologico, per aprirsi a quella che con Walter Benjamin potremmo chiamare “immagine dialettica”: un’immagine capace di incorporare dinamicamente istanze differenti persino configgenti, persino contraddittorie» (p. 326). A ciò. Continua Pinotti, possono concorrere le nove tecnologie digitale in Realtà Aumentata.

    Il 18 ottobre 2020 il centro sociale “Cantiere” e il comitato “Abba vive” installano nei Giardini Montanelli senza autorizzazione una statua in ferro realizzata dallo scultore senegalese Mor Talla Seck e dedicata a Thomas Sankara, il carismatico leader rivoluzionario del Burkina Faso assassinato nel 1987. Il monumento viene prontamente rimosso dalla polizia locale il giorno successivo. Reagendo contro la rimozione, il Collettivo del Cantiere ha inaugurato il 24 ottobre “la statua non c ’ è”: “La statua di Sankara è sostituita da un punto di domanda. Il punto di onda è un maker che inquartato con la app Artivive consente di vedere la statua, in attesa che chi la ha sequestrata la restituisca. Ma il punto di domanda rappresenta anche le tante domande scomode che si vogliono rimuovere insieme alla memoria e al presente dell’oppressione coloniale” (p. 327).

    Nelle tecnologie digitali Pinotti vede una possibilità per andare oltre il “contro-monumento” o l’“anti-monumento” consentendo di guardare allo spazio pubblico e ai suoi monumenti per come il potere li propone e, allo stesso tempo, per come li si può vedere altrimenti, senza bisogno di distruggere l’esistente e senza cancellare il dissenso nei confronti di esso. Insomma, nell’arena di conflitti che sono gli spazi urbani, anche i monumenti svolgono la loro parte.


    1. Sono presenti contributi di: Kasper König, Mary Jane Jacob, Irit Rogoff, Charles Esche, James Lingwood, Pascal Gielen, Akiko Miki, Antoni Muntadas, Olu Oguibe, Edi Muka, Anton Vidokle, Jeanne van Heeswijk, Alberto Garutti, Cesare Pietroiusti, Marco Scotini, Luca Vitone, Iolanda Ratti con Liliana Moro e Riccardo Benassi, Iida Shihoko, Diego Sileo, Fiamma Montezemolo, Basak Senova, Anna Detheridge, Leone Contini, Andrea Pinotti, Emanuela De Cecco, Gabi Scardi, Francesca Comisso (a.titolo), Micaela Martegani, Federico Rahola, Katia Anguelova, Orietta Brombin. 

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    Estetiche inquiete. Espressioni urbane sui muri e conflittualità metropolitane https://www.carmillaonline.com/2022/08/02/estetiche-inquiete-espressioni-urbane-sui-muri-e-conflittualita-metropolitane/ Tue, 02 Aug 2022 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72915 di Gioacchino Toni

    Non accontentandosi dei regimi discorsivi egemoni, tendenti a mantenere la rappresentazione della città nel campo delle politiche securitarie e delle strategie di estrazione del valore, il volume di Pierpaolo Ascari, Pietro Rivasi (a cura di), Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art (Mimesis 2022), derivato dal Convegno “L’arte urbana ed i suoi processi culturali in Emilia-Romagna” (Modena, novembre 2020), affronta le espressioni estetiche metropolitane nelle loro molteplici sfaccettature attraverso punti di vista e approcci differenti comprendenti gli studi culturali, la storia dell’arte, l’analisi degli stili, il diritto, la criminologia [...]]]> di Gioacchino Toni

    Non accontentandosi dei regimi discorsivi egemoni, tendenti a mantenere la rappresentazione della città nel campo delle politiche securitarie e delle strategie di estrazione del valore, il volume di Pierpaolo Ascari, Pietro Rivasi (a cura di), Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art (Mimesis 2022), derivato dal Convegno “L’arte urbana ed i suoi processi culturali in Emilia-Romagna” (Modena, novembre 2020), affronta le espressioni estetiche metropolitane nelle loro molteplici sfaccettature attraverso punti di vista e approcci differenti comprendenti gli studi culturali, la storia dell’arte, l’analisi degli stili, il diritto, la criminologia critica, l’antropologia e l’educativa di strada.

    Come hanno avuto modo di evidenziare Alessandro Dal Lago e Serena Giordano (Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino 2016) attraverso un’analisi estetica, sociale e culturale, gli spazi urbani costituiscono un’arena di conflitti. Esaminato tanto le motivazioni che muovono i graffitisti ad intervenire, nell’illegalità, sulle mura delle città, quanto quelle che mobilitano il fronte antigraffiti, i due studiosi hanno evidenziato alcune contraddizioni che attraversano gli opposti schieramenti.

    Suscitando probabilmente qualche malumore negli ambienti creativi underground, Dal Lago e Giordano hanno posto l’accento su come l’ostilità di molti cittadini nei confronti dei graffiti che ricoprono le mura del quartiere in cui vivono derivi anche dal senso di impotenza provato nel subire una modifica estetica del contesto urbano in cui si trovano a vivere senza essere stati minimamente contemplati, come del resto avviene con la comparsa di insegne e cartelloni pubblicitari o, più in generale, come le trasformazioni urbanistiche calate dall’alto [su Carmilla].

    Con riferimento alla scena urbana, di conflittualità si può parlare anche a proposito dei rapporti tra l’universo della street art ed il circuito artistico ufficiale. Nel suo contributo al volume Espressioni Urbane, Pietro Rivasi, ad esempio, soffermandosi sul rapporto tra arte urbana spontanea e istituzioni, nell’auspicare il superamento della logica che vuole i due ambiti per forza di cose conflittuali, ritiene necessario che il sistema dell’arte manistream si interroghi circa l’applicabilità al writing ed alla street art di criteri che si sono sedimentati nel tempo nella storia e nella critica d’arte accademica.

    Nelle gallerie molte mostre che intendono dar conto del variegato universo dei graffiti urbani ricorrono a «lavori che riproducono su tela o su carta soltanto l’estetica di ciò che viene realizzato in strada. In questo modo le opere risultano prive delle qualità legate agli aspetti sito-specifici, performativi e caratterizzanti che entrano in gioco quando le opere vengono realizzate senza autorizzazione nello spazio pubblico» (p. 36). Il writing urbano, sostiene Rivasi, ha peculiarità che lo differenziano da molta pittura tradizionale; non è nell’aspetto tecnico e formale che andrebbero ricercate le sue caratteristiche artistiche e culturali più rilevanti.

    Fabiola Naldi (Tracce di Blu, Postmedia books 2020), riprendendo le riflessioni di Miwon Know (One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press 2002) ha evidenziato come tanto gli studiosi quanto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento, altrimenti ne ricavano una lettura non solo superficiale ma anche “addomesticata” [su Carmilla].

    Allargando il discorso, in un suo scritto Lorenzo Misuraca (Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale” 13 Maggio 2015) invita a prendere atto di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica trasformandosi, in diverse occasioni, da “luogo di critica” a “luogo di ratifica del potere” [su Carmilla]. Sono ormai frequenti i casi in cui le istituzioni ricorrono alle produzioni di street art esistenti, o a quelle da loro commissionate, per riqualificare l’immagine – e spesso solo quella – delle periferie.

    Nel volume Espressioni urbane a soffermarsi su tale questione è in particolare Sarah Gainsforth, studiosa che ha approfondito i processi di gentrificazione urbana ed il ruolo assunto dal turismo nella produzione di località per l’estrazione di valore dalla città-merce (Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, 2019; Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, Eris, 2020) [su Carmilla].

    Nel suo contributo al volume Espressioni urbane, Gainsforth riprende alcuni episodi avvenuti nella città di Roma esemplificativi di come anche il contesto estetico urbano sia un terreno di conflittualità, dunque, a maggior ragione, come all’arte urbana si debba per forza guardare a partire dai suoi aspetti sito-specifici.

    In occasione della visita guidata all’interno del quartiere romano San Lorenzo – “Street Art e Identità” –, organizzata dall’associazione Muri Sicuri nell’ottobre del 2019, che prevedeva una tappa in via dei Volsci per visionare alcuni murales sui palazzi in cui avevano sede strutture della sinistra antagonista romana, i visitatori furono preceduti dalla cancellazione delle opere da parte dei volontari del gruppo Retake nell’ambito dell’iniziativa “Magnifica San Lorenzo” organizzata dal Comune di Roma e finanziata da Unicredit. «La cancellazione dei murales, i cui temi erano politici, è avvenuta senza consultatore il territorio; probabilmente sono stati consultati i proprietari delle case in questi edifici, ma non il quartiere. In questa visione San Lorenzo, e Roma, non sono una comunità, ma un condominio» (p. 54).

    Altro caso riportato dalla studiosa riguarda i murales sulle pareti di edifici bombardati nel corso della seconda guerra mondale all’incrocio di via dei Sabelli, in questo caso commissionati direttamente dal Comune di Roma e finanziati da una società immobiliare. Curiosamente il murale è stato intitolato “Kidz are the future” richiamando in maniera evidente il gruppo di artisti “Kidz” attivi un paio di decenni fa in San Lorenzo autori di un enorme murale rappresentante il quartiere stresso raffigurato nei suoi aspetti diurni e notturni. Il nuovo murale sorge proprio ove aveva campeggiato a lungo la scritta KIDZ sostituendola, nei fatti, con un’opera del tutto estranea al quartiere.

    I due episodi, sottolinea la studiosa, si inseriscono all’interno di un processo di forzata ristrutturazione che sta subendo il quartiere romano di San Lorenzo rendendo evidente «un cortocircuito che negli ultimi anni si è creato sul tema dell’Arte urbana e della Street Art, la confusione e le contraddizioni insite nei concetti con cui ruota oggi il discorso sulla città: decoro e degrado, legalità e illegalità, i temi dell’Arte pubblica e della sua funzione, e quindi il macro-tema della rigenerazione urbana, e in particolare di quella cosiddetta culture-led ovvero di matrice culturale» (p. 58).

    Tali contraddizioni, continua Gainsforth, sono esplose a Roma soprattutto in tre quartieri storicamente popolari – San Lorenzo, Ostiense e Pigneto – in cui si scontrano tentativi di “bonifica urbana” «voluti dai privati e dai nuovi abitanti» e «tentativi delle controculture di riappropriarsi e di definire il valore d’uso degli spazi e della città». Si tratta pertanto di «luoghi di conflitto sull’uso dello spazio. Il decoro, che viene sempre indicato come obiettivo della riqualificazione di città, non è un obiettivo ma uno strumento – di tipo estetico – per definire un uso – più esclusivo – della città a partire dall’estrazione di rendita urbana» (p. 58).

    Si tratta dunque di un uso dell’Arte Urbana, a Roma come altrove, volto a «rendere attrattivi i quartieri da rigenerare in chiave economica, prima che sociali. Il che, semplificando, significa, attrarre utenti e abitanti facoltosi da fuori anziché migliorare le condizioni di chi vi abita» (p. 59).

    Gli interventi estetici soprattutto commissionati, ma a volte anche quelli realizzati spontaneamente, nelle mura dei quartieri, contribuiscono «all’elaborazione di retoriche e narrazioni, alla produzione di contenuti immateriali su cui si costruisce l’immagine della città attrattiva, dinamica, da vendere a turisti, investitori, e nuovi residenti. I quartieri rigenerati sono descritti come “rinati”, “vivaci” e “creativi”» (p. 59).

    Trattandosi di una narrazione che, sottolinea Gainsforth, presuppone uno stato di degrado antecedente la rinascita, occorrerebbe chiedere conto delle responsabilità del degrado di tali quartieri. «Conoscendoli, direi, che in parte è inventato, in parte è dovuto proprio all’impoverimento del tessuto sociale ed economico che la trasformazione porta, alla carenza di servizi, di luoghi di socialità e cultura, di luoghi che non siano di consumo» (p. 59).

    La muralizzazione delle periferie sempre più commissionata e finanziata dal connubio istituzioni-società immobiliari si sta rivelando un buon “cavallo di Troia” per sottrarre i quartieri popolari alle comunità che li hanno a lungo abitati e ciò è stato reso possibile grazie allo sfilacciamento del tessuto sociale che non si è di certo dato motu proprio.

    Insomma, nell’arena di conflitti che sono gli spazi urbani, anche i colori sulle pareti si rivelano armi contese. Non è nelle gallerie d’arte che si combatte questa guerra, è nelle nelle strade, un metro alla volta, mattone dopo mattone.


    Indice dei contributi presenti nel volume Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art: Pierpaolo Ascari, Tensioni a Cyburbia. La città postfordista tra canoni e stili di espressione; Pietro Rivasi, Sul rapporto tra arte urbana spontanea ed istituzioni; Sarah Gainsforth, Addomesticare la città: consumo visuale e produzione di spazio; Tamar Pitch, Sicurezza, decoro e pandemia; Giorgia Silvestri, Lo scandalo dell’adolescenza nella città degli adulti; Francesco Spagna, Ho fatto della mia casa il mondo. Street art, comunicazione, controcultura; Claudio Musso, Rovesciare la prospettiva. Arti visive e cultura visuale nel Writing e nella Street Art; Fabiola Naldi, Per una responsabilità “illegale” dell’artista; Stefano Ascari, Parole, immagini e muri. Il fumetto come scrittura dello spazio urbano; Enrico Bonadio, Profili di diritto d’autore nel graffiti writing; François Chastanet, Sei scritture metropolitane; Luca Borriello, Per fare un Tavolo. Competenze e municipalizzazione della creatività urbana in Italia.


    Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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    Estetiche del potere. Muralizzazione delle periferie e decontestualizzazione dell’arte di strada https://www.carmillaonline.com/2020/12/27/estetiche-del-potere-muralizzazione-delle-periferie-e-decontestualizzazione-dellarte-di-strada/ Sat, 26 Dec 2020 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63934 di Gioacchino Toni

    «Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020.)

    «Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci [...]]]> di Gioacchino Toni

    «Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020.)

    «Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci conquistiamo la denuncia più stravagante e imbecille dell’anno» (Laboratorio Crash, Bologna, marzo 2016).

    «Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in una teca» (Centro sociale XM24, Bologna, luglio 2019)

    Prendendo atto di come le periferie delle città si stiano da qualche riempiendo di murales, Lorenzo Misuraca, in un suo scritto pubblicato su “Il lavoro culturale” nel 20151, si chiede se, al di là degli aspetti positivi, in tale proliferazione non vi sia anche qualcosa di negativo.

    Rispetto ai graffiti comparsi sui muri delle città italiane negli anni Ottanta e Novanta, questa più recente ondata di murales, sostiene Misuraca, non pare rappresentare «l’autoaffermazione estetica» di una specifica «comunità underground». Inoltre, rispetto alle precedenti, le ultime produzioni sembrano incontrare un consenso più diffuso.

    Che siano nati spontaneamente dal basso o commissionati a livello più o meno istituzionale, i murales delle periferie sembrano svolgere una funzione di riqualificazione urbanistica e culturale e, continua l’autore, il loro linguaggio di strada e per la strada rappresenta un ottimo strumento per veicolare la rinascita di aree urbane periferiche e per rafforzare l’auto-percezione positiva che il quartiere ha di sé. Insomma, la «politica di ridisegno delle periferie» attuata dalle istituzioni, che in alcuni casi organizzano persino tour guidati alla scoperta delle “bellezze sui muri” delle periferie, sembra donare ai sui abitanti l’orgoglio di un’unicità positiva.

    A partire da tali premesse, Misuraca si interroga sulle possibili ricadute negative di questa “muralizzazione” delle periferie. Se da un lato il quartiere rischia di scambiare i suoi «bisogni strutturali, come i servizi di prossimità, i trasporti, il decoro urbano, gli spazi culturali e di socializzazione, con la colorazione artistica delle facciate», dall’altro, con il dilagare di tale fenomeno, la street art rischia di giocarsi la sua stessa anima che è quanto la contraddistingue dai manufatti destinati agli ambiti museali e chiusi che nel corso del tempo si sono talmente “addomesticati”, nel loro adeguarsi al gusto medio, da essere divenuti inoffensivi.

    «L’arte di strada nasce per parlare ad altri, ai passanti nelle vie, ai nevrotizzati dai ritmi della città, alle famiglie di migranti. Lo fa stendendosi su un muro e lo fa, quando lo fa bene, creando un cortocircuito disturbante con la cultura dominante, che sia il capitalismo, il consumismo, l’autoritarismo, il fatalismo o il familismo clientelare». Converrà interrogarsi sul fatto che le opere di un artista come Banksy finiscono per piacere anche a quelli a cui non l’artista vorrebbe piacere. Attorno alle sue opere si è infatti creato un cortocircuito perverso per cui alcune delle stesse amministrazioni britanniche che un tempo bollavano tali interventi sui muri come atti vandalici, ora si adoperano per tutelare le sue opere da sconsiderati atti di vandalismo.

    Non è una novità che un fenomeno di strada rischi di essere riassorbito da un sistema che non perde occasione per ricavare profitto anche da chi magari lo contesta e se qualche artista di strada si adegua, qualcun altro decide di resistere alle lusinghe. «Legittima l’aspirazione del muralista di vivere della sua arte», scrive Misuraca, «ma sorprende la scarsa consapevolezza di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica. Da luogo di critica a luogo di ratifica del potere».

    Di tale paradosso sicuramente si è accorto Blu, che non a caso «lavora in sinergia con le vertenze sociali e politiche dei territori in cui opera». A rendere evidente tale consapevolezza è la cancellazione, nel dicembre del 2014, operata dallo stesso artista di suoi lavori nel quartiere berlinese di Kreuzberg. «Il motivo è la gentrificazione, la trasformazione di quel quartiere multietnico e popolare in un luogo radical-chic e a vocazione commerciale, e dunque il decadimento della ragione stessa di quell’opera lì».

    Nel 2016, in occasione della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano”, che espone alcune opere letteralmente staccate dai muri della città, trasformandole così in pezzi da museo, con il pomposo obiettivo di «salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo», l’artista Blu, aiutato dagli occupanti di alcuni centri sociali locali, risponde all’essere finito, suo malgrado, nel cartellone della mostra, cancellando le sue opere dipinte in città2.

    Se da un alto la muralizzazione delle periferie può diventare una sorta di “trompe l’oleil del cambiamento”, ossia «un’occasione importante di ricodificare tramite l’occhio dello straniero la percezione di se stessi, libera o quantomeno non delimitata da stigmi antichi», dall’altro, il crescente protagonismo istituzionale nel commissionare opere di street art può rappresetare «il germe di una politica comunitaria che sempre di più nasconde il segno sotto il tappeto del simbolo».

    Detto che i murales, per quanto affascinanti, non cancellano il disagio sociale e l’isolamento a cui sono condannate le periferie, ciò che colpisce oggi «è invece la velocità con cui queste operazioni culturali vengono pensate, messe in atto, e digerite», scrive Misuraca, tornando sull’argomento sempre su “Il lavoro culturale” in uno scritto del dicembre 20203 che amplia la riflessione a come il capitalismo dei social incida, anestetizzandola, sull’esperienza creativa. Non appena un fatto tocca “corde comuni”, occorre metterlo a profitto istantaneamente, prima che l’interesse collettivo cali.

    L’autodistruzione operata da Blu nei confronti delle sue opere è un atto estetico e politico radicale che ha il merito di riportare al centro della scena una riflessione tanto sulla scena urbana che su quella artistica. Non a Blu direttamente, ma attorno a lui sicuramente, è strutturato il libro di Fabiola Naldi, Tracce di Blu (Postmedia books, 2020) che raccoglie alcuni testi che, scrive l’autrice, «hanno vissuto di un momento empatico molto particolare, e hanno condiviso luoghi e contesti di destinazione speciali per la mia carriera e la mia esperienza personale. Ciascun testo che precede l’estratto ripubblicato agisce come un ipertesto, una sorta di scrittura aumentata di ciò che avevo già fatto al tempo».

    In una scena artistica contraddistinta da una certa refrattarietà all’agire collettivo, in cui molti operano in solitaria senza un preciso codice espressivo, la cancellazione delle opere operata da Blu nel marzo 2016 rappresenta secondo Naldi «l’apice della parte libera e consapevole di un modo preciso di intendere lo spazio urbano. Certamente ci sono ancora autori che proseguono a lavorare in modo risoluto e a volte ancora antagonista, ma la deriva più decorativa, edonistica e restaurativa detiene il primato».

    Riprendendo i ragionamenti di Miwon Know4 a proposito dell’arte pubblica, del site specific e del rapporto tra realizzazione e distruzione, Naldi evidenzia come tanto gli studiosi qaunto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento. Pertanto, «la Street Art può esistere ed essere considerata tale solo se fruita come esperienza fenomenologica conseguente e adiacente allo stesso contesto, fatto per soddisfare il luogo in cui è stato realizzato e privo di valore se spostato, trasferito o modificato». È pertanto inevitabile che l’autore metta in conto, quando non la pianifichi direttamente, la distruzione dell’opera. È nelle regole non scritte della Drawing Art, illegale o meno, il suo essere effimera e instabile.

    Scrive Blu poche ore dopo aver operato la cancellazione delle proprie opere: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà finché i maganti mangeranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Come a dire che non è nel gesto in sé della cancellazione operata dall’artista che deve essere ricercato l’atto violento; questo deve piuttosto essere individuato nella logica di chi ha davvero distrutto la sua opera murale, «strappandola dalla sua unica e possibile collocazione in nome di una logica di preservazione, fondamentale in altri contesti pittorici ma opposto al lavoro di Blu».

    Scrive Naldi che con modalità da attivista politico, «Blu considera buona parte degli interventi che realizza in lotta o in contrapposizione ai vari sistemi locali (diritto alla casa, lotta di autogestione, libero utilizzo delle piattaforme tecnologiche). Solo in quei casi, e solo con l’aiuto di un supporto economico per i materiali pittorici da utilizzare, Blu sceglie di sottoscrivere la battaglia di un singolo gruppo leagato a un singolo territorio, consapevole he la notorietà e il rispetto acquisito nel corso degli anni possano ridisegnare le sorti di una precisa attività anche in nome delle sua presenza. Non si parla mai di riqualificazione urbana, non vi è partecipazione o collaborazione con le istituzioni, ma solo ‘urgenza di “accentuare” una situaizone di emergenza sempre più comune a molte città». Ecco allora che in una data particolare per Bologna, l’anniversario dell’uccisione per mano poliziesca di Francesco Lorusso (11 marzo 1977), con l’aiuto di attivisti dei centri sociali Crash e XM24, Blu decide di ricoprire con il colore grigio le sue opere cittadine.

    Dichiara il Centro sociale XM24 di Bologna sotto sgombero nel luglio 2019: «Non dimentichiamo che giornali e politici che oggi elogiano la tutela della Sovrintendenza sono gli stessi che ogni giorno condannano tag, scritte e disegni sui muri, gli stessi che considerano un priorità la “pulizia” della città e che augurano severe condanne a chi fa i graffiti. Gli stessi che apprezzano la “street art” solo se ci intravedono un potenziale profitto. C’è però una realtà evidente: quei pezzi esistono perchè esiste una comunità che li ha fortemente desiderati, voluti, che ne ha scelto i soggetti, il linguaggio, la forma, il contenuto. In un rapporto di scambio continuo fra artiste e artisti chiamati a dipingere e Xm24, stretti in modo inscindibile. Non si può separare un’opera di arte urbana dalla comunità che abita quella porzione di città su cui essa insiste e per cui esiste, senza snaturarla del tutto, e renderla un tristissimo fantoccio vuoto. […] Non consegneremo al Comune un monumento svuotato dal suo contenuto politico e di lotta. Non ci saranno turisti e passanti che si faranno selfie di fronte al fascio spezzato, ai partigiani dipinti, al ritratto del nostro compagno Francesco Lo Russo, e al cane, al topo e al piccione di Xm24, e un Lepore o chi per lui a raccontare in modo addomesticato la storia dello Spazio Autogestito che oggi vogliono sgomberare. Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in unateca. Non vi farete belli della nostra storia, della nostra passione, del nostro presente. Non vi daremo la possibilità di provarci».

    Un luogo pubblico dovrebbe essere inteso come spazio «condiviso, comune e spesso di passaggio», dunque, a proposito dell’arte pubblica, nelle sue molteplici manifestazioni, occorre secondo Naldi chiedersi cosa sia ora lo spazio pubblico e come si muovano al suo interno coloro che lo abitano. Visto che gli interventi di arte pubblica incidono inevitabilmente sullo spazio e sulla comunità che lo abita, non è che quelle opere vengano realizzate, lette e interpretate come in altri contesti.

    È a partire da tali riflessioni, sulla specificità di tali esperienze, che l’autrice ha strutturato un volume che ruota attorno agli eventi espositivi ai quale ha preso parte Blu. Si tratta di un libro strutturato attorno agli scritti con cui l’autrice hanno accompagnato l’artista per un decennio nelle manifestazioni pubbliche e sulla strada, scritti che ora possono essere riletti a posteriori anche, e soprattutto, alla luce delle auto-cancellazioni operate da Blu, da un gesto capace di rafforzare e significare la sua intera produzione artstica e politica allo stesso tempo.


    1. Lorenzo Misuraca, Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale”, 13 Maggio 2015. 

    2. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico, “Carmilla”, 22 luglio 2016.  

    3. Lorenzo Misuraca, Capitalismo social. Come il capitalismo dei social prosciuga il desiderio e desertifica l’esperienza creativa, “Il lavoro culturale”, 8 Dicembre 2020. 

    4. Miwon Know, One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge, MA, U.S.A 2002. 

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