Arditi del Popolo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 20 Aug 2025 18:30:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il feticcio del Fronte Unico, la concretezza della Rivoluzione (e della controrivoluzione) https://www.carmillaonline.com/2024/01/03/il-feticcio-del-fronte-unico-la-concretezza-della-rivoluzione/ Wed, 03 Jan 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80441 di Sandro Moiso

Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro

Come si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – ed anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente [...]]]> di Sandro Moiso

Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro

Come si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – ed anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente al contrattacco».

Pertanto il Fronte Unico di cui si parla, come è possibile espungere dalle date, è quello intorno a cui si svolse un acceso e combattuto dibattito, sia a livello internazionale che nazionale, negli anni immediatamente successivi a due degli avvenimenti fondativi per le strategie politiche del XX secolo: la prima carneficina mondiale e la rivoluzione russa.

Dibattito aperto dalla convinzione, diffusa nella Terza Internazionale appena fondata, che tale strategia fosse la migliore o la più adatta per togliere dall’impasse l’iniziativa dei partiti comunisti appena formati o in via di formazione. Una tattica che, senza dichiararlo apertamente, andava nella direzione di accelerare la Rivoluzione in Occidente. Sia per liberare dalla schiavitù capitalistica milioni di proletari e lavoratori, che per superare l’isolamento in cui la neonata Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche era venuta a trovarsi durante la Guerra civile, inizialmente foraggiata dalle potenze occidentali tra il 1918 e il 1919.

A questo andava ad aggiungersi la controffensiva della parte avversa che, soprattutto in Italia e in Germania, iniziava ad affidare le sue sorti alle milizie del Fascismo italiano e dei Freikorps tedeschi, in cui avrebbero poi affondato le loro radici le formazioni paramilitari naziste.

Purtroppo, però, l’iniziativa “rivoluzionaria” aveva raggiunto il suo apice proprio durante gli ultimi anni della guerra mondiale, manifestandosi sia con la Rivoluzione russa che con gli ammutinamenti di soldati1 e, talvolta, degli operai e dei contadini, tra il 1917 e il 1919. Anno in cui le armate bianche persero l’appoggio delle armi occidentali su tutti i fronti interni alla Russia, dal Baltico alla Siberia, proprio per lo spirito di rivolta che percorreva ormai le fila dei quindici eserciti occidentali impegnati nella guerra civile russa2.

Tali discussioni e battaglie intorno al Fronte Unico hanno attraversato quella generazione di rivoluzionari, ma costituiscono ancora utile materiale di approfondimento e di riflessione per i militanti di oggi. La tattica all’epoca proposta si proponeva, infatti, di raccogliere le forze, di strappare ai rinunciatari partiti socialisti ed ai sindacati da essi diretti la maggioranza del proletariato in vista di un rilancio dell’”offensiva di classe”.

Dibattito che fu particolarmente vivace in Italia, dove il Biennio rosso aveva riacceso la speranza di ripresa delle lotte, dopo un 1917 che aveva visto il rifiuto dei soldati di continuare a combattere nei giorni di Caporetto3 e l’insurrezione operaia di Torino qualche mese prima. Esperienze tradite entrambe da un Partito socialista che mai immaginò, nemmeno lontanamente, di porsi alla testa o alla direzione di un’insurrezione e, tanto meno, di una rivoluzione.

Motivo per cui i giovani socialisti dissidenti erano giunti alla conclusione, alimentata anche dalle richieste di Lenin e dell’Internazionale Comunista, di dover dar vita al Partito comunista d’Italia a partire da una scissione nel Partito socialista, poi realizzatasi a Livorno nel 19214. Scissione avvenuta comunque in ritardo rispetto ai sommovimenti di classe che, ancora nel 1919, avevano scosso la stabilità sociale e politica del paese, senza giungere però ad un ribaltamento dei rapporti di forza, anche grazie all’incapacità di quegli stessi giovani socialisti di andare oltre un operaismo un po’ troppo rigidamente inteso5.

Il testo di Graziano Giusti si divide in due parti ben distinte, anche se coese nel contenuto: la prima dedicata agli anni del primo dopoguerra (1918-1920) e, sostanzialmente, agli avvenimenti e ai dibattiti intorno al Biennio Rosso e una seconda rivolta agli anni in cui il tema del Fronte Unico esplose nel dibattito (1920-1924). In entrambi i casi, però, rimangono “centrali” le opinioni espresse già allora da Amadeo Bordiga e le critiche all’operato dello stesso, soprattutto alla sua ferma opposizione al coinvolgimento dei gruppi “sportivi” del PCd’I con il movimento degli Arditi del popolo e le loro azioni militari rivolte contro le squadracce fasciste. Opposizione derivante, secondo l’autore, anche da una sottovalutazione dello stesso Bordiga del ruolo e dell’autonomia del Fascismo mussoliniano rispetto sia alla repressione di classe che nei confronti dello Stato borghese e liberale dell’epoca.

Ma, tralasciando il gran numero di argomenti e dibattiti riportati dall’autore all’interno di una ricerca molto ampia e approfondita, ciò che conta sottolineare, almeno per l’estensore di questa recensione, è che ciò che ancora si rischia di non cogliere oggi, ma che forse colse Bordiga all’epoca, è che la fase involutiva del movimento rivoluzionario era iniziata proprio col fallimento delle iniziative autonome di classe sia nell’esercito che nelle fabbriche e nelle campagne di quegli anni e che il dibattito sul Fronte Unico giunse in ritardo rispetto alla reale esplosione rivoluzionaria avvenuta in Europa tra il 1917 e il 1919.

Se, infatti, le condizioni materiali e politiche per una rivoluzione possono covare sotto le ceneri e svilupparsi nel corso di anni, se non di decenni, il momento in cui queste possono effettivamente concretizzarsi è estremamente breve. Proprio nell’aver compreso ciò sta il genio politico e militare di Lenin nel 1917, che pur dovette già muoversi in ritardo a causa dei ritardi e delle incomprensioni del suo stesso partito prima del suo arrivo alla stazione di Finlandia.

Come ha affermato, in anni più recenti, un teorico distante dalle posizioni dell’ortodossia comunista, ma attento lettore di Lenin: «Basta aver vissuto una fase rivoluzionaria, una sola, per capire la complessità degli elementi che entrano in gioco: ma non la complessità fatta per confondere, quella di cui parlano i postmoderni, ma quella invece degli elementi che convergono, che si attraversano e che certe volte bisogna recidere, dove la dose di caso e la dose di volontà restano sempre»6.

La tattica del Fronte Unico, che in seguito si sarebbe trasformata, sotto l’influenza dell’Internazionale stalinizzata, in quella ben più perniciosa dei Fronti popolari, cercava dunque di porre tardivamente rimedio a ciò che non era stato fatto, o si era stati impossibilitati a promuovere, non solo per inadeguatezza politica, negli anni precedenti.

Quello che giustamente sottolinea Giusti, fin dalle prime pagine, è come tutto il “comunismo rivoluzionario” dell’epoca fosse comunque affetto da una ferrea fiducia nel fatto che “la crisi del capitalismo fosse irreversibile” e che “la rivoluzione fosse alle porte”, nonostante si parlasse anche di “fase di ritirata del movimento operaio”. Forzature e giravolte analitiche che finivano col fossilizzare l’azione politica o, perlomeno, con l’indirizzarla su strade difficilmente percorribili.

Anche i dati che il testo riporta a proposito degli scioperi di quel periodo non confortano l’idea della possibilità, all’epoca, di un effettivo rivolgimento sociale, visto che in una parte significativa del mondo occidentale, soprattutto in due paesi usciti comunque vincitori dalla guerra (Gran Bretagna e Stati Uniti), non si elevavano al di là di richieste di miglioramenti salariali e lavorativi che rimanevano pienamente nella tradizione tradunionista senza mai spiccare il volo verso richieste più politiche e radicali.

D’altra parte, anche consultando altri testi più ricchi di dati sul movimento degli scioperi nel corso del XX secolo7, si può cogliere come, quasi sempre, il movimento rivendicativo organizzato più forte nel seno delle fabbriche e della classe operaia sia sgorgato. in maniera impetuosa, più in fasi di crescita economica che non di debolezza o riflusso dell’economia capitalistica.

In tale situazione, infatti, sia la socialdemocrazia che i sindacati ufficiali non potevano ottenere molto e si sono trovati davanti ad una risposta dell’imprenditoria che, seppur diversamente articolata, ha quasi sempre teso a mostrare il suo volto più aspro e deciso nel tentativo di salvaguardare i propri profitti e interessi di classe. Come si può cogliere ancora oggi nelle strategie liberiste e repressive messe in atto dal capitale occidentale, ma non solo.

Strategie che non possono far altro che preludere a nuove guerre piuttosto che a un’intensa ripresa della lotta di classe in chiave rivoluzionaria. Questa, infatti, se verrà in Occidente, esattamente come nel biennio compreso tra il 1917 e il 1919, sarà sulla base di devastanti contraccolpi sociali, economici e militari che metteranno in pericolo la stessa sopravvivenza delle classi subalterne e medie impoverite.

Proprio per questo, ieri come oggi, il tentativo di costruire “fronti” tra forze politiche diverse per indirizzo, tattica e strategia e sindacati egualmente diversi tra di loro, a causa del loro posizionamento “politico”, può risultare un escamotage inutile e, soprattutto, dannoso, indirizzando il movimento di classe verso tattiche e strategie subalterne alle logiche di compromesso che, da sempre, hanno limitato e limitano nei fatti tutti i tentativi di dare vita a quegli stessi fronti.

Lasciando ai lettori la scoperta del ricco dibattito dell’epoca raccolto e, talvolta, riassunto nelle quasi seicento pagine del libro, val ancora la pena di sottolineare come, in fin dei conti, anche l’azione degli Arditi del popolo non potesse consistere in altro che in una difesa di diritti e condizioni di vita e lavoro, acquisite precedentemente, dall’assalto militare, politico ed economico fascista. Mentre, proprio per questo, non avrebbe mai potuto costituire, nemmeno in nuce, il possibile prologo alla formazione di un’armata rivoluzionaria impegnata ad aggredire l’esistente, più che a difenderlo.

Quindi, anche se è giusto cogliere, come fa l’autore della ricerca, le contraddizioni e i limiti teorici e politici di chi all’epoca lottò contro una teorizzazione tattica di cui denunciava i limiti e i compromessi, è anche vero che ciò che circondava davvero quelle scelte e quell’azione politica, talvolta avventate e per altre troppo limitate, era il fatto che la controrivoluzione, in tutte le sue forme, aveva già vinto, essendo venuta meno l’iniziativa di classe dal basso, e che, con l’affermazione di Stalin ai vertici del partito sovietico, avrebbe vinto definitivamente anche nel cuore degli organismi politici che avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia della rivoluzione mondiale.


  1. Sugli ammutinamenti e le diserzioni nelle armate zariste nell’inverno tra il 1916 e il 1917, rimane insuperato: China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti, Roma 2017. Mentre sugli ammutinamenti in Francia si può consultare P. Caporilli, Francia – Anno 1917. Gli ammutinamenti nelle trincee, I Dioscuri, Genova 1989.  

  2. Si veda in proposito, e solo per la parte del fronte Nord, Liudmila G. Novikova, La “controrivoluzione” in provincia. Movimento bianco e Guerra civile nella Russia del nord, 1917-1920, Viella libreria editrice, Roma 2015, in particolare alle pp. 326-331: La campagna militare dell’estate 1919 e la fine dell’intervento alleato.  

  3. Sul clima nell’esercito italiano, prima e dopo Caporetto si vedano: M. Isnenghi, I vinti di Caporetto, Marsilio Editori, Vicenza 1967; E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, Casa editrice Gius. Laterza & Figli, Bari 1968; Q. Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte, Donzelli editore, Roma 2014 e C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti (prima edizione 1921), Vallecchi Editore, Firenze 1995.  

  4. Sullo scontro tra i giovani militanti socialisti e la dirigenza del PSI dell’epoca si vedano: M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine Marxiste, Milano 2022 e L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019.  

  5. In proposito si veda: R. Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek Edizioni, Roma 2006.  

  6. Toni Negri in un’ intervista rilasciata il 13 luglio 2000.  

  7. Si veda, ad esempio, G. P. Cella, Il movimento degli scioperi nel XX secolo, casa editrice Il Mulino, Bologna 1979.  

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Costruttori di civiltà https://www.carmillaonline.com/2022/10/13/costruttori-di-civilta/ Thu, 13 Oct 2022 21:55:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74385 di Valerio Evangelisti

[Pubblichiamo uno scritto di Valerio che ha fatto da prefazione al libro Nel vento, come zingari felici, dialoghi tra Luciano Vasapollo e Lorenzo Giustolisi, ed. Efesto, 2021. In particolare si tratta della sbobinatura di un intervento fatto alla Sapienza di Roma, il 21 novembre dello scorso anno.  L’argomento rivela tutto lo studio e il lavoro che ritroviamo nella trilogia de Il Sol dell’Avvenire: un’analisi acuta dei movimenti e della lotta di classe in Emilia Romagna, un omaggio a questa terra che ha dato la nascita alle più diverse esperienze di sovversivismo politico [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Pubblichiamo uno scritto di Valerio che ha fatto da prefazione al libro Nel vento, come zingari felici, dialoghi tra Luciano Vasapollo e Lorenzo Giustolisi, ed. Efesto, 2021. In particolare si tratta della sbobinatura di un intervento fatto alla Sapienza di Roma, il 21 novembre dello scorso anno.  L’argomento rivela tutto lo studio e il lavoro che ritroviamo nella trilogia de Il Sol dell’Avvenire: un’analisi acuta dei movimenti e della lotta di classe in Emilia Romagna, un omaggio a questa terra che ha dato la nascita alle più diverse esperienze di sovversivismo politico e sociale. Nella parte finale, troviamo anche un dialogo tra Evangelisti e Vasapollo. Buona lettura.]

Il tema che vorrei trattare è il cambiamento radicale che episodi di conflittualità hanno portato all’interno di una regione specifica, l’Emilia Romagna. Bisogna pensare alla Romagna di fine Ottocento come a una regione completamente diversa da quel che ci appare oggi, fatta di cespugli, intrichi di boschi, caratterizzata da una forte umidità che permetteva il mantenimento di larghe risaie. La popolazione, anch’essa selvaggia come la natura circostante, partoriva anche briganti, di una tipologia particolare. infatti, poco assomigliavano all’immagine del brigante meridionale: il più crudele e il più feroce in assoluto si chiamava il Passatore, soprannominato poi Cortese a seguito di una nota poesia, ma cortese non lo era affatto. Tuttora possiamo trovarlo sulle etichette dei vini, quali il Sangiovese, rappresentato con un improbabile cappello di taglio calabrese, con folta barba; immagine che si discosta totalmente dalla realtà. 

Il Passatore visse a metà dell’Ottocento, portava un cappellino, aveva la barba molto corta che faceva crescere per nascondere le numerose ustioni che portava in viso. Definito crudele perché, oltre ai furti e al largo ricorso alla tortura per indurre a confessare il nascondiglio del patrimonio della malcapitata famiglia di turno, riuscì a conquistare il famoso teatro di Forlimpopoli. Una vicenda presentata come un episodio particolarmente brillante della sua carriera. In realtà la sorella del celebre gastronomo Pellegrino Artusi impazzì, perché fu violentata dai briganti del Passatore che tanto buono non era, patriota men che mai. In Emilia Romagna c’erano quindi i briganti, che provenivano dalla miseria più cruda. Si pensi che nel 1880, in occasione di un allagamento, c’erano braccianti – chiamiamoli così per il momento – che rifiutavano di essere salvati, perché preferivano annegare piuttosto che continuare a condurre la vita precedente. La povertà dilagava: fenomeni come le ripetute guerre e la miseria strutturale avevano ammassato nella regione una quantità di gente, dal lavoro impreciso. Proprio per questo avevo posto precedentemente riserve sul termine braccianti, perché lo erano occasionalmente. Si trattava di persone che in realtà erano disposte a fare un qualsiasi lavoro. L’agricoltura assorbiva gran parte di questa manodopera, ma il fatto è che i lavori agricoli non durano più di cinque o sei mesi, per cui costoro rimanevano disoccupati per buona parte dell’anno. In quei periodi si riducevano a far di tutto pur di poter mangiare: dagli spazzacamini a incaricati dello sgombro delle strade dalla neve durante l’inverno, lavoro prezioso che fornivano le municipalità. Gente, pertanto, che aveva ben poche prospettive di sviluppo davanti. Si trattava, più che di braccianti, di precari o di operai che lavoravano in un contesto agricolo, ed erano completamente diversi da altre figure tipiche delle campagne come i mezzadri, o boari come venivano chiamati in provincia di Ferrara. Costoro erano personaggi effettivamente legati alla terra, vivevano sparsi, per lo più isolati gli uni dagli altri e facevano il loro lavoro con una notevole disciplina, anche perché la piccola quota che riuscivano ad accumulare durante l’anno la usavano con inevitabile parsimonia. La contessa Pasolini di Ravenna, che ha lasciato note molto importanti sulla vita nelle campagne, in special modo nella sua tenuta, elogia al massimo i mezzadri come esempio di famiglia modello, mentre tratta i braccianti come poco di buono. Questo comporta una serie di trasformazioni sul piano sociale. 

La figura tipica dell’operaio agricolo, del bracciante, si discosta dalle altre figure soprattutto per ciò che riguarda le donne. Lo stato di miseria conduce queste popolazioni, molto numerose nel Ravennate e meno nel Forlivese, a comportamenti per qualche verso scandalosi. Vedono la terra come mezzo di guadagno, ma non è sicuramente la loro maggiore aspirazione. Hanno anche costumi inaccettabili da parte del padronato o persino dai mezzadri: le donne, per l’appunto, molto spesso non portano il velo in testa, in un’epoca in cui coprivano i capelli non solo entrando in chiesa, ma anche durante il giorno. I braccianti, inoltre, erano forti bevitori, nei limiti in cui potevano permetterselo, e ciò agevolerà l’azione di chi li vorrà organizzare. Avendo scarso senso religioso, i braccianti bestemmiavano, non frequentavano la chiesa, si esprimevano in maniera brutale ed erano facili alla collera e alla rivendicazione di qualcosa. Ogni anno, infatti, arrivato l’inverno si radunavano in enormi folle davanti al municipio della loro città a chiedere di poter spalare la neve, e spesso questo tipo di rivendicazioni degenerava in piccoli scontri. All’origine erano, dunque, un fattore di turbamento. 

Nella mia tesi di laurea, ripubblicata poco tempo fa, ho ricostruito la storia del primo partito socialista in Italia. Tutti credono che il Partito Socialista italiano sia nato nel 1892, ma 11 anni prima ne era nato un altro con il nome di Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna fino al 1886, e successivamente denominato Partito Socialista Rivoluzionario Italiano, e durò anche successivamente la nascita del partito socialista italiano che conosciamo e che oggi pare essersi quasi estinto. Era una corrente totalmente diversa, che derivava dalla Prima internazionale delle sezioni emiliano-romagnole, di impostazione anarchica, rifacendosi a Bakunin piuttosto che a Marx, che a stento si sapeva chi fosse. Anarchici sostanzialmente, dunque, una parte dei quali, guidati dal loro leader maggiore Andrea Costa, portava avanti la tesi secondo cui l’astensione totale da qualsiasi forma di resistenza politica non permetteva una crescita reale ed era priva di risultati. Già nel 1879. in una lettera intitolata Agli amici di Romagna, Andrea Costa invitava a radunarsi con una formazione differente e a partecipare, non alle elezioni politiche generali ma a quelle amministrative; dopodiché Andrea Costa diverrà il primo deputato socialista italiano. La proposta di carattere prettamente politico non mancava di risvolto sociale, Costa indicava chiaramente chi andava conquistato, non come, riuscendo a coinvolgere la classe lavoratrice, tra cui la maggior parte dei braccianti finora menzionati. 

Un partito organizzato ma non in maniera ferrea, bensì sfilacciato pur conservando una propria identità, prendendo parte a determinate lotte che solo dopo un momento ben preciso assunsero un proprio carattere definito. Questi lavoratori furono conquistati non solo tramite la forma partito e i relativi circoli che caratterizzavano la vita politica organizzata, ma anche attraverso un altro sistema di reclutamento. Le “cameracce”, un’invenzione dei repubblicani, dove si beveva, si giocava a carte e dove si svolgeva una parte del lavoro di reclutamento dei socialisti e rivoluzionari. 

Bisogna però capire chi fossero nel concreto questi socialisti rivoluzionari: moltissimi erano ex garibaldini, Andrea Costa stesso aveva combattuto nelle ultime battaglie di Garibaldi, alcuni erano andati in Francia partecipando alla Comune di Parigi, quasi per caso, ma rimasero conquistati da questo episodio tragico della storia francese. Erano artigiani, fabbri, falegnami, sellai, uno di questi socialisti rivoluzionari era il padre di Mussolini, Alessandro, anch’egli un fabbro. Uscivano dal ceto medio-basso e riuscirono, vista la loro estrazione dal popolo, ad avere un rapporto tra loro ma anche ad avviare dei progetti: venne l’idea di raccogliere la manodopera senza lavoro in una cooperativa, là dove il lavoro era solitamente appaltato: un sistema selvaggio. La chiamata al lavoro era singolare. Bisogna considerare che i ceti bracciantili non vivevano nei campi, non avevano case nei luoghi di lavoro. L’appaltatore, arrivata la mezzanotte, suonava una tromba possibile lavoro pubblico; i braccianti correvano con le loro carriole artigianali, verso il luogo di lavoro, solo i primi venivano assunti poiché corrispondevano ai più forti e rimanevano esclusi quelli più malconci, che non potevano correre chilometri spingendo una carriola. I socialisti credono che questo sistema vada superato attraverso la costituzione di società cooperative, totalmente differenti da quelle odierne, tra le altre l’Associazione generale Operai e braccianti del comune di Ravenna, guidate dal socialista rivoluzionario Nullo Baldini. 

Questa associazione, dopo non pochi contrasti, riesce a farsi affidare dai comuni occupazioni che gestisce in una maniera totalmente diversa rispetto agli appaltatori: si lavora a turno – non c’è più bisogno di correre con le carriole-, i compiti vengono ripartiti e questo sistema riuscì a sfamare, non dico tutti, ma sicuramente molti. Il passo successivo che compie questa associazione è finalizzato a dar da mangiare a quanti sono rimasti digiuni, ossia farsi affidare un lavoro di portata notevole che garantisca un reddito per un tempo abbastanza lungo. 

Questo lavoro viene trovato non solo in ambito comunale, ma lo si riceve in appalto dalla municipalità romana: Roma era circondata da paludi, dilagava la malaria, c’erano torbe di insetti più numerosi degli abitanti stessi, una situazione apparentemente irrimediabile. Più volte il Vaticano si era mosso per cercare di correggere questa situazione, ma il lavoro fatto era senz’altro insufficiente. Venne organizzata una spedizione di lavoratori ravennati, che partirono in treno muniti di paletto (era una specie di vanga che veniva usata nelle bonifiche delle paludi, tecnica largamente conosciuta in Romagna) e fazzoletto rosso al collo. Si dirigono verso le paludi dell’Agro Romano, trovando una situazione indescrivibile, che fa quasi desistere la maggioranza. Armando Armuzzi, Il vice di Baldini, riesce comunque a convincere i braccianti a rimanere. Vengono ospitati in dei casermoni e lì nasce qualcosa di nuovo: diventano falansterio, una specie di piccola società socialista. Sono divisi in squadre, ricevono un compenso non in moneta corrente ma in una moneta stampata dalla stessa Associazione Generale Operai Braccianti, che serve per comprare gli alimenti o servirsi dei ristorantini all’interno dello stesso casermone; tutto viene diviso equamente e si  comincia questo lavoro disumano. Devono portare via l’acqua dalle paludi con il paletto, molti muoiono di malaria. Non venivano neppure sepolti. poiché gli abitanti del posto credevano che il cadavere, una volta seppellito, potesse generare altre malattie. Un sacrificio umano enorme, che durò fino ai primi del Novecento e oltre. Le paludi dell’Agro romano sparirono del tutto e costoro si integrarono nella società locale. 

Durante la presentazione di un libro che trattava questo argomento, fui interpellato da un giovane dall’accento fortemente laziale/romano e si scopre essere un discendente dei lavoratori ravennati e la stessa bisnonna era stata citata nel mio libro, fatto che aveva molto emozionato il ragazzo, la bisnonna faceva parte della categoria di eroine -f orse il termine risulta anche inadeguato considerando il loro valore – che nel corso della vita riuscirono a modificare la sofferenza di chiunque abitasse l’Agro, come del resto coloro rimasti in Romagna stavano facendo. Azioni che vennero largamente contrastate dagli agrari locali e invece molto appoggiata dalla parte più erudita della classe dominante; una minima parte, ma che riusciva a comprendere ciò che i braccianti stavano facendo.

Nei primi del ‘900 vengono organizzate altre spedizioni come quelle che avevano trasformato l’Agro romano, alcune verso la Sardegna, altre verso l’estero come in Grecia, un primo movimento, dunque, di trasformazione del territorio. Ai tempi di Andrea Costa, costoro non erano riformisti, si chiavano rivoluzionari perché sostenevano che non si potesse uscire dal capitalismo senza una rivoluzione. In realtà facevano poco da questo punto di vista, a parte qualche scontro. Diventano totalmente riformisti quando si impongono Turati e il suo gruppo milanese di operai, piuttosto che contadini o braccianti. Lì nasce il vero riformismo, che non va confuso con moderatismo – poiché non lo erano affatto, visti episodi come i frequenti scontri contro i crumiri. 

Il loro modo di fare era finalizzato a costruire un contropotere. I socialisti del primo ‘900, volevano costruire una società all’interno di un’altra società, come a Molinella: spacci a prezzi contenuti senza profitti reali, c’erano scuole, infatti, l’istruzione aveva un peso preponderante all’interno della cultura socialista dell’epoca – orologi come quelli Roskoff riportavano scritte come “otto ore per lavorare, otto ore per instruirsi e otto ore per riposare”. Poi c’erano gli organismi di lotta, chiamati leghe di resistenza (o di miglioramento, leggermente differenti, però, nelle funzioni). In questo caso si trattava di veri e propri organi sindacali con alla testa il Capo lega e i suoi braccianti (o mezzadri) socialisti. In altri paesi le lotte per o su la terra nascono quasi apolitiche, come il laburismo inglese che nasce addirittura nelle chiese protestanti; l’Italia è l’unico paese dove si verifica questo fenomeno di lotta politicizzata. 

I primi del ‘900 son pieni di correnti, non c’è un socialismo unico: c’è il gruppo di Turati, sempre più forte in parlamento, si hanno poi altre correnti che si fanno guerra fra loro e la punta estrema è caratterizzata dai massimalisti, coloro che erano indifferenti alle finalità dei minimalisti, ovvero quelle di cambiamenti concreti all’interno della vita quotidiana, e si caratterizzavano per appoggiare la lotta finale e la presa del potere. Altra corrente diversa che tralascio ne dettagli, poiché non più esistente, è quella dei sindacalisti rivoluzionari: nel film Novecento, girato nei dintorni di Parma, il contesto era dominato non dai socialisti riformisti, né dai sindacalisti, bensì dai sindacalisti rivoluzionari che volevano un futuro organizzato come un organo sindacale, dove le strutture avrebbero rappresentato i nuovi organi di governo. Queste correnti si fanno guerra reciproca, ma nessuno alla base è pacifista: vengono organizzate forme di lotta completamente radicali: una di queste è il boicottaggio, che prevedeva che nessun boicottato avesse dei rapporti sociali, nessuno poteva esser servito nei negozi, parlare a chicchessia. Una specie di “embargo” sociale che determinava un isolamento totale dalla vita della società. 

Una volta resa fertile l’Emilia Romagna, arricchita, i braccianti riescono ad acquisire posizioni sempre più forti- A un certo punto appare una parola d’ordine, “l’imponibile di manodopera”, ossia tutto fa a capo non più a colui che a mezzanotte suonava la tromba, bensì agli uffici di collocamento dei sindacati. Quest’ultimi potevano valutare quanti braccianti dovevano essere usati in certe tenute e fornivano essi stessi la manodopera: una rivoluzione per quelle regioni. Nasce quasi una guerra aperta, nascono correnti più violente come i giovani socialisti (il segretario era Amadeo Bordiga). 

Con la Prima guerra mondiale le cose cambiano ulteriormente, il ruolo delle donne è sempre più di protagonista, non si parla più di veli, le donne prendono in mano le loro sorti: i mariti sono in guerra e loro devono portare avanti l’agricoltura, per cui si occupano dei lavori che tradizionalmente erano maschili. Questo cambia molte, forse troppe cose dal punto di vista del padronato, che porta al noto fenomeno dopo la guerra dei fascisti. Sono circa 200 gli omicidi attribuiti ai fascisti negli anni ’20-’21. dopo che l’occupazione delle fabbriche e i vari esperimenti nelle campagne, nei due anni precedenti, avevano rafforzato le posizioni dei socialisti e dei lavoratori.

Ciò avvenne, ma non senza reazioni: nella Prima Guerra Mondiale, aveva lottato un corpo speciale, chiamato de “gli arditi“, di impronta non proto-fascista, come è stato scritto: erano una cosa assai più complessa. I primi Arditi erano presi dalle carceri  erano perseguitati politici, spesso socialisti o anarchici e venivano spediti in prima linea (sovente alla morte) con un trattamento completamente diverso rispetto a quello riservato agli altri soldati, nel senso che costoro vestivano in maniera diversa, venivano alimentati meglio, non venivano mandati in trincea ma stavano alla base delle montagne che ospitavano le trincee e avevano una serie di favori finalizzati a nascondere il fatto che erano stati “condannati a morte” con quella spedizione. 

Curioso il contrasto tra arditi e carabinieri, quest’ultimi si trovavano anch’essi alla base della montagna per contrastare qualsiasi tipo di disobbedienza dei soldati semplici, 10’000 soldati furono, infatti, fucilati da parte dei carabinieri. Gli arditi, per dimostrazione della loro diversa natura, di notte andavano a bastonare i carabinieri e qualche volte li uccidevano. Una parte di questi arditi formarono poi un gruppo armato chiamato gli arditi del popolo, di orientamento socialista, che combattevano i fascisti con armi da fuoco. Costoro furono per un po’ di tempo l’avanguardia della lotta antifascista, anche se oramai era troppo tardi. Qualsiasi reato, anche minimo, di un antifascista veniva represso con grande violenza, mentre qualsiasi reato non fascista veniva totalmente trascurato dalla polizia: possedere dunque un coltellino poteva comportare la galera per un numero imprecisato di anni per un antifascista, mentre possedere un fucile non comportava nulla per il fascista.

Gli arditi del popolo sembravano essere la creatura adatta per la nuova forza dei Giovani socialisti, che erano poi diventati comunisti. Nel 1921 si verificò una scissione drammatica del movimento operaio, in cui i socialisti si divisero dai comunisti, che formano un loro partito molto più agguerrito. I comunisti non ne vogliano che sapere degli arditi del popolo, poiché non erano comunisti: tra le fila troviamo socialisti, cattolici, anarchici etc. Vengono, quindi, creati degli organismi esclusivamente comunisti – come gli arditi comunisti- e l’unico esercito popolare che ci fosse stato fino quel momento e che potesse occasionalmente contrastare i fascisti, gli arditi del popolo, viene lasciato a se stesso. L’istituzione e la nascita del Partito Comunista implicò una posizione settaria, ma possedeva delle virtù, a parte quella di avere tra i capi personaggi come Antonio Gramsci, che tra l’altro prese le difese degli arditi del popolo e che contrastò la separazione tra comunisti e arditi.

Negli anni del fascismo l’unico partito di sinistra che in qualche modo si muoveva in Italia, era per l’appunto il Partito Comunista. I socialisti si dissolsero, in gran parte andarono all’estero, sempre mantenendo la separazione tra riformisti e massimalisti, mentre i comunisti svolgevano un’attività capillare distribuendo una stampa per quelle condizioni copiosa, pubblicavano giornali clandestini per gli operai, per le donne, per i bambini addirittura. Rimasero quindi sul terreno della lotta e come soggetti di contropotere; gli errori che aveva compiuto il loro partito furono pian piano riparati. Ma il soggetto trasformatore nelle campagne, ossia i lavoratori della terra, in questo contesto in parte si rassegnarono; Nullo Baldini, pur di mantenere in piedi le cooperative ,si compromise in maniera molto grave con i fascisti una volta che questi divennero regime. Nelle campagne rimase però il dissenso e anche embrioni di lotta clandestina. Il proletariato trasformatore, privato da qualsiasi potere di trasformazione, ridotto in condizioni pessime, con salari minimi, tuttavia, cercava di mantenere le antiche strutture, seppure la gran parte fossero state prese dai fascisti e governate in maniera fittizia. 

Qualcosa però continuava a vivere, e lo si vide quando iniziò la guerra civile, ossia la lotta partigiana che cominciò anche prima della caduta vera e propria del fascismo. Le regioni in cui queste classi sociali erano presenti e avevano avviato grandi processi di trasformazione furono quelle in cui la resistenza era composta da veri e propri eserciti: per esempio la provincia di Ravenna. Aveva ormai cambiato aspetto, non vi erano più boschi, cespugli o briganti, era divenuta un terreno piatto eppure, in questo piattume, prolifera un vero e proprio esercito fatto in maggioranza di braccianti e altre categorie contadine. Riuscirono a sopravvivere e ingannare i tedeschi sottraendosi alle loro ricerche, muovendosi con un’abilità estrema in questi terreni spogli grazie all’ aiuto degli abitanti. C’erano ovviamente i romagnoli che detestavano i partigiani poiché li accusavano di attirare le rappresaglie tedesche, ma c’erano anche coloro che aiutavano senza essere neppure militanti: le donne, ad esempio, per comunicare l’arrivo dei tedeschi o dei fascisti mettevano un certo tipo di biancheria alla finestra, cosicché i partigiani capivano che dovevano andarsene. Furono tantissimi gli episodi di questo genere e solo ora si riscopre il ruolo delle donne all’interno della resistenza, parte di un complesso enorme: addirittura sebbene fossero quasi tutti comunisti, i partigiani ravennati furono inglobati nell’esercito inglese, con la divisa dell’esercito britannico e il fazzoletto rosso, così numerosi da costituire un reggimento. 

Finita la guerra, questi braccianti non rimasero alla coltivazione della terra, ma divennero operai o anche operai specializzati nelle stesse campagne. Da qui è l’inizio di una storia del tutto diversa, la storia degli operai urbani con la loro connessa complicata vicenda spesso dalle tinte molto tristi. Intanto le campagne erano in via di industrializzazione e, seppur presentassero una prosperità maggiore rispetto agli anni antecedenti la riforma agraria, i braccianti preferirono lasciare i campi piuttosto che trovarsi in una condizione mezzadrile, o quasi. I braccianti li troviamo dunque alla testa e mescolati alla classe operaia, una componente che lascia ancora un’eredità che prima o poi qualcuno possa raccogliere, ispirandosi a questi esempi, come tanti altri, in cui la civiltà è stata costruita attraverso la lotta di classe, con vicende alterne tra sconfitte vittorie. Se termina la lotta di classe anche lo sviluppo economico ne risentirebbe, poiché senza opposizione non c’è né democrazia né progresso.

Dialogo con Luciano Vasapollo

L.V. Caro Valerio è un po’ la fine del tuo intervento, io cerco di dare un’interpretazione degli anni ’70 che ci hanno visti un po’ “testimoni del tempo”, io non mi sento testimone del tempo come non lo sei neanche tu, noi siamo attori del nostro tempo, non bisogna mai mitizzare nulla. La storia si fa, si costruisce e quindi anche quello che avviene negli anni ’70 e anche l’involuzione successiva, deriva tutto dal Dopoguerra ma io direi, deriva da ciò che tu ci hai descritto con il tuo intervento, cioè che tipo di unità di Italia si è fatta, che tipo di costruzione di uno Stato plurinazionale si è fatto. Valerio se vuoi dire qualcosa su questi dieci minuti di intervista e poi andiamo avanti. Mi interessa far capire ai ragazzi che anche quando sentono anni ’70-’80, la storia non va mai letta come momenti, è una lumaca che fa la sua strada, è un divenire e quindi probabilmente anche gli anni ’70 si interpretano non solo come tali, ma facendo riferimento anche al dopoguerra.

V.E. Io dopo aver visto il documentario, non è che abbia molto da aggiungere, hai detto tutto, mi ha anche commosso questa tua storia, che poi rivendica tante altre storie, io venivo da una condizione meno disagiata, i miei erano maestri elementari, io ero nato in una casa in cui la stufa era una specie di grosso barattolo dove avevano tagliato una sorta di sportellino per accenderla. Cosa mi spinse a un certo punto a ribellarmi a tutto questo? Intanto l’Italia di allora era qualcosa di terribilmente arretrato, basti pensare che fino gli anni ’60 se un uomo uccideva la moglie per gelosia, veniva assolto; era assolutamente previsto il delitto d’onore dal Codice Penale e questo lo si vedeva in tutti i minimi dettagli, lo si vedeva anche nell’educazione che ricevevamo, mi ricordo tantissimi aspetti come il fortissimo sessismo, che seppur erano state introdotte le scuole miste da qualche anno, uomo e donna erano considerati due specie assolutamente differenti, mi ricordo ingiustizie spacciate per legge naturale. Ad un certo punto -c’era anche un bisogno che non va taciuto, nel mio caso avevo bisogno di gente che avesse la mia stessa, o perlomeno simile, visione filosofica del mondo. Arrivarono prima i maoisti, “servire il popolo”, due giorni dopo ero anche io di fronte la scuola con un fazzoletto che raffigurava Mao, la bandiera rossa ma non funzionavano molto bene. Andai ad una manifestazione era il 1969, ero lì con questi maoisti, c’erano dei giapponesi turisti che ci fotografavano, e tutti a dire “i cinesi, i cinesi, ci sono i cinesi” e tutti a salutarli con il pugno chiuso, mentre alla fine erano giapponesi. Ero lì che perdevo tempo in questa maniera, eravamo vicino piazza maggiore al centro di Bologna, quando sento un grido possente “Lotta continua! Potere Operaio!”, proveniente da un altro corteo che neppure ci considera, ovviamente. Erano dei giovani che più che camminare, correvano. Io e un compagno di scuola, consegnai il fazzoletto con Mao e la bandiera, e andai dietro al loro corteo. Lì trovai un altro mondo di valori che scoprì coincidere con il mio, quindi dalle esperienze personali e sociali, tutto spingeva in qualche modo verso una rivolta generalizzata. Non mi sono mai pentito poiché non ne vedo il motivo, non solo fu un periodo ed una lotta utile per la stessa società italiana, ma fu qualcosa di un’importanza sconfinata dal punto di vista esistenziale, qualcosa di bellissimo. Io ho dispiacere per coloro che non ha vissuto quegli anni e che senza la testimonianza della vita dell’epoca non potrà forse capirli. Era una cosa bella, manifestavamo odio ma era in realtà un atto d’amore. 

Una piccola curiosità, nel filmino di Novecento, ad un certo punto si vedono alla stazione dei bambini con delle bandiere rosse, era uno sciopero contadino di sindacalisti e rivoluzionari a Parma del 1909, dato che non lavoravano e neppure mangiavano, decisero di mandare i bambini presso famiglie operaie di altre città, partirono con questi treni e trovarono ad attenderli folle gigantesche. Massimo Gorki era spettatore di uno di questi fatti, vide arrivare il treno con i bambini che gridavano “viva il socialismo!”. La folla alla stazione stava invece in silenzio e i bambini si misero paura. Un bambino ebbe il coraggio di mettere piede sulla banchina e un gigantesco portuale gli corse addosso, il piccolo fece per ripararsi, il portuale lo prese e lo sollevò in aria e tutti cominciarono a gridare “viva il socialismo! viva il socialismo!”. Aldilà del socialismo reale, questo era lo spirito socialista vero, quello è il destino che nell’ipotesi migliore potrebbe avere la società.

L.V. Grazie Valerio in effetti, anche il titolo che mi hai suggerito di dare a questo ciclo seminariale, Costruttori di civiltà, vale la pena sottolineare che la civiltà vera è quella che crea, e non che distrugge, umanità. Noi pensiamo di essere nel nostro piccolo Valerio di essere costruttori di civiltà perché con un atto d’amore come lo chiamava Gramsci ma anche gente come Che Guevara, Martí, Bolivar: diamo noi stessi per costruire progetti e processi di civiltà, per mettere in atto umanità che cammina.

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La gamification antagonista del Csm di Parma https://www.carmillaonline.com/2021/09/21/la-gamification-antagonista-del-csm-di-parma/ Mon, 20 Sep 2021 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68236 di Luca Cangianti

Al principio erano gli scatoloni. Dentro ci sono stipati i documenti storici necessari per la stesura di un libro sul Sessantotto parmense: Parma dentro la rivolta (Punto Rosso, 2000). Sulla base di questo primo nucleo archivistico, un gruppo di storici e attivisti fonda nel 2000 il Centro studi movimenti di Parma. Il taxi lascia le vie rinascimentali del centro e si spinge verso una periferia ordinata. Scendo di fronte a tre casette circondate da un prato: una azzurra, una gialla e una rossa. Appartengono alla Fondazione Matteo Bagnaresi, [...]]]> di Luca Cangianti

Al principio erano gli scatoloni. Dentro ci sono stipati i documenti storici necessari per la stesura di un libro sul Sessantotto parmense: Parma dentro la rivolta (Punto Rosso, 2000). Sulla base di questo primo nucleo archivistico, un gruppo di storici e attivisti fonda nel 2000 il Centro studi movimenti di Parma.
Il taxi lascia le vie rinascimentali del centro e si spinge verso una periferia ordinata. Scendo di fronte a tre casette circondate da un prato: una azzurra, una gialla e una rossa. Appartengono alla Fondazione Matteo Bagnaresi, la prima ospita il Csmp. Sorrido delle mie aspettative conformiste: ma dove sta scritto che un archivio sui movimenti antisistemici debba stare per forza in una fabbrica abbandonata, in un forte militare diroccato o in un ex ospedale psichiatrico?

“Il Centro si considera parte integrante dei movimenti sociali” mi spiega William Gambetta. “A questi cerchiamo di contribuire con la riflessione critica, lo studio storico e la conservazione della memoria.” Al Csmp venti ricercatori e ricercatrici si occupano di ordinare i centoquattordici fondi provenienti da attivisti e attiviste della sinistra storica e rivoluzionaria, del dissenso cattolico, dell’antipsichiatria e del movimento femminista. Inoltre i visitatori – studenti medi e universitari, dottorandi, docenti delle scuole secondarie, ricercatori italiani ed esteri – hanno a disposizione una biblioteca di diciottomila volumi, un archivio di manifesti politici e di dischi con canzoni lotta.

Manifestazione studentesca, Roma, 1984

Quanto a me, attirato da tanta ricchezza archivistica, sono venuto fin qui per mettere il naso tra i volantini che circolavano a Roma nei primi anni Ottanta, specialmente in ambito studentesco. Tra i fondi che si dimostrano più generosi ai miei fini c’è quello di Marco Melotti, militante di mille battaglie rivoluzionarie, compagno del quale, a tredici anni dalla sua scomparsa, conservo ancora nelle orecchie la calda risata esplosiva. In poche ore, sotto gli occhi mi passano centinaia di ciclostilati scritti fitti fitti, fronte e retro. Spesso iniziano con un semplice “Compagni, studenti!” e si chiudono con una falce e martello disegnata a mano e la mitica dizione “Ciclinprop.” Nel testo ricorrono riferimenti edenici alle lotte degli anni settanta, passate eppur evocate sempre come prossime a tornare. Si stigmatizzano la passività politica, il plagio televisivo, la robotizzazione dell’umano, l’“efficientismo”, la repressione e la legislazione speciale. I riferimenti a George Orwell si sprecano. La critica rabbiosa dei “decreti delegati” (i parlamentini scolastici con i quali si cercava d’istituzionalizzare la soggettività studentesca) e della Riforma della scuola mi appaiono un mantra maniacale. Vedendo tuttavia cosa è diventata oggi l’istruzione, devo ammettere che quei profeti ignorati e derisi, che la mattina si sgolavano sotto i licei e gli istituti, avevano visto lontano.

“Diamo molta importanza alla fisicità, all’esperienza fatta dal vivo, agli spazi e agli oggetti” continua William. “Se la memoria rimane fredda sui libri o nelle conferenze, non genera empatia, immaginario, partecipazione. Il tipo di ricerca storica che vogliamo suscitare è diversa: un conto è sapere che milioni di persone sono morte durante un evento lontano e drammatico come la Seconda guerra mondiale; un altro è recarsi, dopo alcuni incontri preparatori, nei campi di concentramento ad Auschwitz, a Mauthausen oppure a Dachau, vedere con i propri occhi, toccare con le proprie mani.”

William Gambetta, ricercatore del Csmp

Questa stessa impostazione è alla base delle visite guidate a Parma in cui i ricercatori mostrano una città parallela e invisibile, difficile da trovare nelle guide turistiche in commercio: quella degli Arditi del popolo e della Resistenza. Lo scorso 11 settembre, ad esempio, si è tenuta un’iniziativa che potrebbe esser definita di gamification antagonista. Si tratta di “Barrichiamoci”, una caccia al tesoro per adulti e famiglie dedicata alle eroiche gesta dell’agosto 1922. In quei giorni il popolo parmense in armi respinse la spedizione punitiva fascista contro lo “sciopero legalitario” proclamato dai sindacati di sinistra coalizzati nell’Alleanza del lavoro. Infine è attiva presso il Csmp la Libera università del sapere critico con i suoi corsi multidisciplinari di critica politico-cuturale nei confronti dei rapporti di potere esistenti, mentre la maggior parte delle scuole della città ha stipulato convenzioni con il Centro per realizzare dei laboratori didattici di storia.

Devo riprendere il treno delle 14.54. Sul mio cloud ho caricato un prezioso bottino di scansioni: volantini, giornaletti improvvisati e perfino alcune mozioni votate dall’assemblea del mio liceo romano. William si offre di accompagnarmi alla stazione e mi allunga un casco. Mi ritrovo sul sellino posteriore a sfrecciare su un vespone anni ottanta: a ogni curva e cambio marcia mi sembra di esser tornato ai tempi della scuola, quando nella tolfa portavo una risma di ciclostilati in carta grezza. Chissà, mi dico, William avrà voluto assicurarsi che le mie ricerche non siano puramente nozionistiche e prive di partecipazione emotiva.

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Caporetto tra rimozione, falsificazione storiografica e rivoluzione. https://www.carmillaonline.com/2017/11/29/caporetto-rimozione-falsificazione-storiografica-rivoluzione/ Wed, 29 Nov 2017 22:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41766 di Sandro Moiso

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, che si è celebrato nei giorni scorsi, è coinciso qui in Italia con l’anniversario di un altro avvenimento alla prima strettamente collegato, anche se a prima vista indirettamente. E in tal senso sembrano infatti essere indirizzate tutte le ricostruzioni storiche, celebrate sui giornali, sui media e nell’editoria di ogni tendenza, dell’ammutinamento e diserzione di massa dei soldati italiani avvenuta sul fronte di Caporetto il 24 ottobre 1917.

A un secolo di distanza sono risultate abbondanti le ricostruzioni militari e apparentemente oggettive della vicenda, riducendola [...]]]> di Sandro Moiso

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, che si è celebrato nei giorni scorsi, è coinciso qui in Italia con l’anniversario di un altro avvenimento alla prima strettamente collegato, anche se a prima vista indirettamente. E in tal senso sembrano infatti essere indirizzate tutte le ricostruzioni storiche, celebrate sui giornali, sui media e nell’editoria di ogni tendenza, dell’ammutinamento e diserzione di massa dei soldati italiani avvenuta sul fronte di Caporetto il 24 ottobre 1917.

A un secolo di distanza sono risultate abbondanti le ricostruzioni militari e apparentemente oggettive della vicenda, riducendola quasi sempre ad una mera disfatta militare. Operando una scelta uguale e specularmente rovesciata rispetto a quella fatta per ricordare gli eventi russi dello stesso anno.
Nel caso della Rivoluzione tutti i commentatori hanno ormai data per scontata la tragedia pagata dal popolo russo a causa dell’azione bolscevica, mentre per Caporetto si è fatto finta di ristabilire democraticamente una verità rimossa, quella delle colpe delle gerarchie e delle insufficienti contromisure prese da queste nei confronti della controffensiva austriaca di quei giorni.Talvolta ricollegandola, nella peggior tradizione delle narrazioni tossiche, ad un armistizio di Brest Litovsk non ancora avvenuto all’epoca.

In entrambe, però, la vera menzogna è stata quella di rimuovere coscientemente l‘azione delle masse diseredate dalla scena della Storia. Soprattutto quando questa azione indica un colossale rifiuto delle condizioni stabilite dalle classi dominanti e dalle loro, apparentemente, immutabili leggi e regole di comportamento. E sostituendo, sul piano della ricerca e della ricostruzione, l’attenzione per il clima sociale e politico che si respira, spesso a livello sovranazionale, in un dato momento storico con ricerche specialistiche che, riducendo il campo di indagine, permettono agli storici, apparentemente così seri ed oggettivi, di selezionare le informazioni, i documenti e le testimonianze utilizzate al fine di falsificare completamente gli avvenimenti e le loro spiegazioni. Alla faccia della sempre presunta e mai raggiunta obiettività.

Affermando, come si è fatto in alcuni testi, che non si svolse alcuno sciopero dei soldati nei giorni di Caporetto si finge di ribaltare il discorso principalmente portato avanti da Cadorna, comandante delle forze armate italiane fino a quella data, e dal suo Stato Maggiore ristabilendo la verità storica e riscattare la memoria dei soldati caduti eroicamente per difendere la patria.

Ora, pur tralasciando il fatto che già all’epoca tale ribaltamento delle giustificazioni cadorniane servì per sostituire il passato comando con quello di un nuovo macellaio, Armando Diaz (il cui nome metaforicamente adornava la scuola di Genova che nel 2001 fu testimone di un altro macello operato dalle forze del disordine), che poco si distinse dal precedente in termini di umanità e di abilità tattica e che, anzi, si distinse per la mancata promessa fatta ai soldati contadini di ripagare la loro fedeltà alla Patria con la ridistribuzione delle terre demaniali ed ex-irredente, occorre considerare che nel corso del primo macello imperialista pochissimi furono i generali di qualsiasi schieramento a tenere in considerazione parametri tattici e strategici che non fossero quelli del massimo volume di fuoco ottenibile dal proprio retroterra economico e industriale e l’utilizzo delle fanterie e, in genere di tutte le truppe impegnate al fronte, come autentica carne da cannone. In una guerra imperialista che risolse il problema della disoccupazione maschile più che con l’aumento della produzione, che ricadde in gran parte sulle spalle di coloro che già erano impegnati nelle officine e a cui si affiancarono in maniera significativa le donne, ancor più con la macellazione diretta nelle trincee e nelle terre di nessuno di milioni di giovani impegnati nel conflitto.

Quel primo e immondo conflitto imperialista causò sui vari fronti tra i dieci e i quindici milioni di morti e dispersi e rispedì verso casa almeno venti milioni di feriti e mutilati.
Basterebbero questi semplici e drammatici numeri a far comprendere che non era forse necessario alcuno sciopero organizzato dei soldati a far sì che le truppe fossero stanche di combattere e che a casa le famiglie dei soldati non volessero altro che la fine della guerra e il loro ritorno a casa. Famiglie proletarie e ancor più spesso contadine che con i giovani figli e mariti avevano spesso perso non solo degli affetti, ma anche un contributo importante all’interno dell’economia, spesso di sopravvivenza, famigliare.

Donne e famiglie che già agli albori del conflitto si erano impegnate nella lotta contro la mobilitazione generale e la guerra e classi sociali che, soprattutto in Italia, avevano seguito una via ben diversa, e maggioritaria, rispetto a quella intrapresa dai nazionalisti e dagli interventisti di ogni colore.1 Una mobilitazione così vasta che aveva costretto il Partito Socialista Italiano, unico tra quelli aderenti alla Seconda Internazionale e grazie anche alle ambiguità e contraddizioni delle classi dirigenti italiane indecise tra Triplice Intesa e Triplice Alleanza di cui pure l’Italia faceva parte, ad accontentarsi di una parola d’ordine apparentemente poco militarista, ma sicuramente rappresentativa dei timori socialisti, come Né aderire, né sabotare. Parola d’ordine che sarà duramente pagata dai proletari, dai contadini e dalle donne italiane proprio quando, come a Caporetto, raggiungeranno il culmine della disperazione e dell’odio per le classi dirigenti.

Se è vero che nel solo 1916 più di un milione e mezzo di soldati russi avevano abbandonato le trincee occidentali e l’esercito zarista, iniziando quella rivoluzione fatta con i piedi ovvero con l’allontanamento dai luoghi degli scontri per fare ritorno a casa, è anche vero che proprio in quell’anno, sul fronte italiano e a poco più di due anni dall’inizio dell’intervento a fianco dell’Intesa, il testo di una canzone come Gorizia tu sei maledetta,2 poi ripresa anche in tedesco e in slavo, segnalava dal basso una stanchezza e una voglia di rivincita inedita nei confronti delle classi dominanti e dei vertici dell’esercito. Nel giro di pochi giorni, per la conquista della città, nel mese di agosto 1916 erano caduti almeno 21.000 soldati italiani e almeno 10.000 austriaci.

La canzone era figlia di quei giorni, prodotta dal momento come lo è tutta la musica autenticamente popolare o folk. Ma come tale non sembra ancora accettata come documento dell’immaginario collettivo prodotto dal basso. Tanto è vero che costituì a lungo motivo di scandalo e non solo negli anni più vicini al conflitto mondiale, ma anche più tardi come quando fu eseguita nel 1964 dal Nuovo Canzoniere Italiano in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto all’interno dello spettacolo “Bella ciao”:

suscitando l’ira dei benpensanti. Quando Michele L. Straniero e Fausto Amodei iniziarono a cantare “Gorizia” avvennero incidenti in sala; la destra cercò di impedire le rappresentazioni; Straniero, Leydi, Crivelli e Bosio furono denunciati per vilipendio delle forze armate.3

I versi della canzone sembrerebbero in sé già piuttosto espliciti:

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana,
schernitori di noi carne umana,
questa guerra ci insegna a punir.
Voi chiamate il campo d’onore
questa terra di là dei confini;
qui si muore gridando: assassini!
Maledetti sarete un dì.

Ma basterebbe dare un’occhiata più attenta a un altro tipo di documenti, le lettere inviate dai soldati a casa e censurate dagli organismi militari preposti, per comprendere ancora di più lo stato d’animo che serpeggiva nelle trincee dal 1916.
Ne propongo qui di seguito alcune scelte a caso tra le tante.

Porco Dio, fanno bene a dare il pane ammuffito così finirà presto la guerra! Ed io ho piacere, popolo cornuto e bastonato, vuoi continuare a fare la guerra? Ma ribellatevi, uccidete tutti gli ufficiali e che sia finita!

Oppure:

Io sono un ufficiale per forza, e non ho voluto la guerra e ho quasi fatto a cazzotti prima della guerra con gli studenti che facevano le manifestazioni interventiste. La guerra è stata voluta da due o tre gruppi di mascalzoni.4

Due tra le tante si diceva. Ma se ancora non bastassero le lettere proviamo a rivolgerci ad altre fonti, anche di testimoni non di parte come soldati o anarchici e socialisti contrari alla guerra.

Il fenomeno di Caporetto è un fenomeno schiettamente sociale.
E’ una rivoluzione.
E’ la rivolta di una classe, di una mentalità, di uno stato d’animo, contro un’altra classe. Un’altra meentalità, un altro stato d’animo.
E’ una forma di lotta di classe. I sintomi che l’hanno preceduto e accompagnato sono quelli di un perturbamento sociale: sono gli stessi che hanno preceduto e accompagnato tutti i perturbamenti sociali.

La fanteria, nell’annata 1917, era grandemente «demoralizzata». Non credeva più a nulla, non aveva più fiducia in nessuno. Voleva la pace, a qualunque costo.
Le Brigate che si rifiutavano di combattere, i soldati che prolungavano, motu proprio, le licenze, gli ufficiali che si lagnavano pubblicamente, tutto ciò era monito e minaccia. […]
L’offensiva di Maggio aveva fiaccato la resistenza dei fanti, quella di Agosto. Condotta brutalmente e a forza dai carabinieri, aveva messo a nudo le piaghe di cui soffriva il popolo delle trincee.
Gli atti di insubordinazione divenivano ogni giorno più gravi. La caccia ai carabinieri diventava sempre più feroce. L’odio dei soldati si manifestava in atti di natura prettamente sociale. […]
I casi di rivolta contro gli ufficiali erano rarissimi: i fanti apprezzavano e rispettavano i superiori diretti, quelli che dividevano con loro la paglia, il pane e la buca merdosa. E’ vero che, talvolta, li uccidevano a fucilate nella schiena: ma non per malvagità o per spirito d delinquenza. Per vendetta. La vendetta presuppone un torto. In ogni ufficiale ucciso dai propri soldati vi era un colpevole. […] Il fante non uccideva i carabinieri, non sparava contro le automobili dei generali, contro le colonne di camions, contro le baracche dei campi di aviazione, contro le finestre illuminate degli Alti Comandi, il fante non commetteva questi atti di indisciplina per «insofferenza della disciplina», o per istinti criminali, bensì per ragioni profondamente umane e sociali. […] In tutti coloro che soffiavano sul fuoco, predicavano la necessità del sacrificio, declamavano concioni patriottiche, sventolavano bandiere nelle comode vie delle comodissime città dell’interno, in tutti coloro che spingevano alla guerra senza farla e senza capirla, il fante vedeva un nemico.5

Un altro testimone di Caporetto fu l’americano Ernest Hemingway che proprio nel suo romanzo Addio alle armi, pubblicato nel1929, parzialmente basato su esperienze personali dello scrittore che negli ultimi mesi della grande guerra aveva prestato servizio come conducente di ambulanza, racconta una storia che si svolge in Italia prima, durante e dopo la battaglia di Caporetto.
Nel narrare le vicende l’autore ricorderà gli ufficiali fucilati dai soldati mentre cercavano di fermare la loro ritirata dal fronte e giungerà alla conclusione che i disertori non sono altro che soldati che hanno avuto il coraggio di firmare una pace separata con il nemico.

Poiché il clima sociale e politico non si era creato soltanto nelle trincee e soltanto in Italia occorre ricordare ancora alcuni altri fatti.
Nella primavera del 1917, tra aprile e giugno, migliaia di soldati francesi avevano abbandonato le trincee. La parola d’ordine era Facciamo come in Russia!, ma nessun partito la raccolse e la fece propria e così anche l’ammutinamento francese finì con fucilazioni esemplari e condanne dei militari ribelli.6

A Torino, nell’agosto dello stesso anno gli operai e le operaie dello stesso anno erano scesi in sciopero e avevano preso le armi, occupato i quartieri proletari e le fabbriche, costruito barricate e coinvolto e disarmato alcuni reparti inviati per sconfigger e la rivolta. Mentre gli anarchici si diedero da fare per organizzare le sparse, e alla fine sconfitte forze proletarie, i pochi militanti del Partito Socialista presenti in città (una trentina), dopo aver invitato le maestranze a tornare al lavoro, decisero di appoggiare la protesta ma senza dare, se non generiche, indicazioni politiche.7 Non fecero miglior figura i futuri fondatori del PCd’I, nemmeno i più intransigenti tra di loro, che nello stesso periodo non pubblicarono un rigo sull’argomento Torino o Caporetto.8

La rivoluzione però sembrava bussare alle porte e non solo in Russia dove il 7 novembre si sarebbe risolta con l’avvio del governo dei Soviet che avrebbero sostituito il governo provvisorio in carica ormai dai primi di marzo quando, grazie soprattutto all’Ordine numero 1 dettato direttamente dai rappresentanti dei soldati al Soviet di Pietrogrado, il vecchio regime zarista si era ritrovato con un esercito su cui non poteva più fare affidamento come in passato e lo zar Nicola aveva abdicato a favore del fratello che a sua volta non accettò l’incarico di reggere un paese in rivolta. Lo strumento classico della controrivoluzione nazionale e internazionale si era infatti trasformato nello strumento della rivoluzione.

Così, nonostante l’insipienza delle forze politiche italiane, soprattutto di quelle socialiste nelle loro diverse declinazioni, ma grazie alle ripetute iniziative dal basso, nelle trincee, nelle città e nelle campagne, il Governo decise di affidare al Direttore generale di pubblica sicurezza il compito di riferire con relazioni periodiche riassuntive le Condizioni dello spirito pubblico nel Regno.
La prima fu redatta in data in data 8 febbraio 1918 e portava come titolo il seguente: MOVIMENTO SOVVERSIVO ED ANTIBELLICO NEL REGNO DURANTE I MESI DI DICEMBRE 1917 E GENNAIO 1918.
Alla prima seguirono altre venti, attente relazioni, l’ultima in data 19 novembre 1918 a guerra sostanzialmente finita.9

L’iniziativa si deve collocare all’interno di quella ripresa di efficienza del potere centrale nel periodo successivo a Caporetto, che ebbe il suo fulcro nella riorganizzazione del ministero degli Interni e dei suoi organi periferici, e nel più stretto controllo del centro sulla periferia; ma essa riflette anche l’accresciuta preoccupazione delle sfere politiche nei confronti dei pericoli di moti insurrezionali, che dopo Caporetto si temeva potessero coinvolgere il paese.10

Il timore era forte e perfettamente giustificato, poiché la guerra imperialista aveva suscitato un’ira implacabile nei confronti delle classi dirigenti, dei governi, delle monarchie, della borghesia e del capitalismo tout court. Non solo il dopoguerra europeo, soprattutto nei paesi “sconfitti” sarebbe stato segnato dall’azione armata di operai e soldati che erano sopravvissuti alle trincee e che intendevano far pagare ai veri responsabili le proprie inumane sofferenze,11 la follia che ne era derivata per un numero di combattenti che non sarebbero mai più tornati alla normalità,12 e le leggi draconiane applicate per la diserzione e l’autolesionismo tra i soldati che avevano cercato di sfuggire all’infernale tritacarne del conflitto o che anche soltanto avevano criticato la guerra o gli alti comandi.13

Su quest’ultimo punto basti citare un singolo episodio. Durante una cena tra quattro giovani aspiranti ufficiali degli alpini, subito dopo Caporetto, uno dei quattro forse più loquace o più spregiudicato, afferma che la guerra è ingiusta, aggiungendo:

«Ho piacere che abbiano sfondato le linee (gli austriaci – NdR). Magari arrivassero a Milano, così sarebbe finita per tutti». I colleghi ammutoliscono. Si alzano e appena fuori vanno a denunciare il collega ai carabinieri. Cinque giorni dopo il Tribunale militare di guerra del XX corpo d’armata condanna per tradimento l’aspirante ufficiale alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena. La sentenza viene eseguita nella stessa giornata.14

L’Italia avrà il triste primato delle condanne a morte comminate dai tribunali militari in tempo di guerra:

Nel corso della Grande Guerra, davanti ai tribunali militari comparvero 323.527 imputati di cui 262.481 in divisa, 61.927 civili e 1.119 prigionieri di guerra. Le condanne interessarono il 60 per cento dei processi. 4.028 dibattimenti si conclusero con la pena capitale (2.967 con gli imputati contumaci). Le sentenze di morte eseguite furono 750.15

Cui forse dovrebbero essere aggiunti tutti quei soldati che furono abbattuti sul posto dagli ufficiali o dai carabinieri per impedirne l’ammutinamento o anche soltanto la fuga dalla trincea.

Soltanto tra il 1917 e il 1920 furono più di venti i rivolgimenti armati o i rovesciamenti violenti del potere costituito nell’area dell’Europa orientale e della Mitteleuropa,16 ma ciò che occorre qui sottolineare è che il grande macello ebbe fine proprio grazie alle rivolte dei soldati, dei marinai e degli operai delle industrie belliche tedesche che con la loro mobilitazione nel novembre del 1918 costrinsero il Kaiser ad abdicare, imposero la fine della guerra e la nascita della Repubblica.

Sarebbe qui troppo lungo narrare la storia di quei giorni, le contraddizioni, lo scontro tra Socialdemocrazia tedesca e forze rivoluzionarie, ma certo è che l’esempio russo di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile e rivoluzionaria aveva dato i suoi frutti in gran parte del continente coinvolto nella guerra.

Non solo. Anche la guerra civile russa, animata dalle potenze imperialiste contro la novella repubblica dei soviet e a fianco dei generali “bianchi”, fu in gran parte debellata grazie proprio all’ammutinamento delle truppe straniere inviate sul territorio sovietico per sconfiggere la rivoluzione. I soldati inglesi e di altre nazionalità si ammutinarono a Murmansk e ad Arkhangelsk, mentre i marinai francesi inviati con la flotta nel Mar Nero si ammutinarono ad Odessa. Così, mentre i venti di rivolta spiravano anche tra le truppe americane dislocate nell’oriente siberiano, alla fine del 1919 tutte le truppe straniere dislocate sul suolo sovietico erano state ritirate dal fronte, condannando di fatto alla definitiva disfatta le raffazzonate armate bianche, in cui la diserzione già dilagava, di Kolchak, Denikin e Wrangel.

Ancora una volta per una sintetica ricostruzione dello sciopero, indetto a partire dall’autunno del ’19, dai portuali americani di Seattle per impedire l’invio di armi al fronte controrivoluzionario e del vero e proprio rifiuto dei soldati di continuare a combattere per la causa dei Bianchi, ci assiste un romanzo, scritto non a caso negli anni dell’intervento americano in Vietnam.

Gli scaricatori di Seattle ficcarono le mani nelle tasche dei loro giacconi bagnati e abbandonarono il lavoro. I marinai francesi di Odessa, atterriti dalla loro stessa audacia, si ammutinarono piuttosto che continuare a combattere i Rossi. Le forze inglesi e gli americani che prestavano sotto gli ufficiali britannici a Arcangelo e Murmansk, avevano già avuto la prova delle renitenza dei soldati quando avevano ricevuto l’ordine di avanzare contro le forze dell’Armata Rossa.
Nell’aria c’era un terribile senso di resistenza.
I consulenti in materia di investimenti rabbrividirono e cominciarono a consigliare ai propri clienti di scaricare o vendere subito certe azioni che neanche tre mesi prima erano in rialzo […] Generali e statisti erano allibiti, perché il loro vocabolario tradizionale, i loro appelli al patriottismo, agli ideali, all’abnegazione e alla gloria si dimostravano inefficaci contro l’infezione della renitenza. Le truppe fresche che giungevano in linea erano non meno riluttanti di quelle che al fronte c’erano da mesi. Anzi lo erano di più.[…] Indifferenza, inerzia e riluttanza piovevano su tutti i fronti. Gli eserciti si muovevano qua e là con passo pesante e affaticato aspettando il caos che li liberasse.17

Molti di quei soldati, giovani, arrabbiati, delusi e disoccupati al loro ritorno in patria, furono anche quelli che diedero vita alle prime formazioni armate di autodifesa e offensiva proletaria. Come accadde in Italia dove furono proprio le formazioni volontarie di ex-combattenti, quelle che poi diventarono gli Arditi del popolo, a fronteggiare più volte vittoriosamente i fascisti.18 Con buona pace di chi, soprattutto nel PCd’I, metteva avanti l’idea di mantenere una netta separazione tra le squadre armate del Partito e, ancora una volta, le iniziative dal basso.

La guerra imperialista trasformata in guerra civile rivoluzionaria, questo è ciò che separò allora e separerà ancora e sempre l’antimilitarismo anti-imperialista dal pacifismo generico, sempre pronto ad ammettere la necessità di una guerra nazionale difensiva. Il rovesciamento dell’esercito da strumento di repressione ad arma della Rivoluzione, è ciò che caratterizzerà sempre l’antimilitarismo rivoluzionario da quello falsamente pacifista e democratico. La ricerca della verità nei fatti e nelle testimonianze dei ceti meno abbienti e nelle loro espressioni culturali e politiche, nell’immaginario che le ha accompagnate o che ne è conseguito è ciò che differenzia una storiografia realmente antagonista da quella perbenista e giustificazionista degli studiosi che, anche indirettamente, difendono l’attuale ordine di cose presente attraverso l’obiettività, sempre presunta e mai raggiunta, dell’utilizzo delle fonti ufficiali e delle testimonianze raccolta dalle commissioni di inchiesta governative. Dando così vita ad una ricostruzione dei fatti volta soltanto a giustificare l’ingiustificabile: la guerra imperialista, i partiti borghesi ed opportunisti, gli interessi economici e “nazionali”, la vigliaccheria dei rivoluzionari da operetta.

Dove, infine, tale scelta dei soldati e dei giovani richiamati diventò importante anche senza giungere ad una vera e propria rivoluzione, come nei casi degli Stati Uniti impegnati in Vietnam e del Portogallo degli anni settanta, la scelta di disertare, ammutinarsi o uccidere i propri ufficiali sul campo si dimostrò essere sempre, oltre che inevitabile, quella migliore per il destino e la coscienza della comunità umana nel suo complesso.
Così, anche là dove l’iniziativa resta individuale o casualmente collettiva come nel caso della diserzione, occorre aver ben chiaro che di fronte all’inciviltà dei macelli imperialisti la fuga, il rifiuto di combattere e la spontanea ritirata, come avvenne a Caporetto, rappresentano ancora una scelta migliore e più civile della cieca obbedienza agli ordini superiori.


  1. Si confronti : https://www.carmillaonline.com/2014/11/20/guerra-guerra/  

  2. cfr. https://www.carmillaonline.com/2016/08/06/gorizia-lattuale/  

  3. Cfr: https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=47&lang=it  

  4. Tratte da Quinto Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Donzelli 2014, pag.251  

  5. Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Vallecchi 1995 (secondo il testo della prima edizione 1921), pp.119-121  

  6. Pietro Caporilli, Francia 1917. Gli ammutinamenti nelle trincee, Genova 1989 (prima edizione italiana 1934)  

  7. cfr. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi 1958, pp.416-430  

  8. cfr: Amadeo Bordiga, Scritti 191-1926. La guerra, la rivoluzione russa e la nuova Internazionale 1914-1918, Graphos 1998  

  9. Giovanni Procacci, “Condizioni dello spirito pubblico nel Regno”: i rapporti del Direttore generale di Pubblica sicurezza nel 1918, in Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, DI FRONTE ALLA GRANDE GUERRA. Militari e civili tra coercizione e rivolta, il lavoro editoriale, Ancona 1997, pp.177-247  

  10. Procacci, op.cit. pag.177  

  11. Si consulti per il livello di sofferenza raggiunto nelle trincee europee del conflitto 1914-18: John Keegan, Il volto della battaglia, Mondadori 1978.  

  12. cfr: Antonio Gibelli, L’OFFICINA DELLA GUERRA. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringieri 1991 e, ancora, Antonio Gibelli, La guerra laboratorio: eserciti e igiene sociale verso la guerra totale in LA GUERRA VISSUTA. Fronte, fronte interno e società, MOVIMENTO OPERAIO E SOCIALISTA (nuova serie), anno 3 n° 5, 1982, pp.335-349  

  13. Cfr: Enzo Forcella e Alberto Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza 1968  

  14. Forcella – Monticone, op.cit. pag. VII  

  15. Dino Martirano, L’onore (perduto ma restituito) dei soldati italiani fucilati nella Grande Guerra, Corriere della sera, 21 maggio 2015  

  16. Cfr: Robert Gerwarth, La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923, Laterza 2017  

  17. Ric Hardman, Fifteen Flags, 1968 – traduzione italiana Quindici bandiere, Arnoldo Mondadori 1971, pp.456-458  

  18. Cfr: Valerio Gentili, Roma combattente. Dal Biennio Rosso agli arditi del popolo, la storia mai raccontata degli uomini e delle organizzazioni che inventarono la lotta armata in Italia, Castelvecchi 2010  

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“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi”. Gli Arditi del popolo: dalle trincee della Grande Guerra all’antifascismo armato https://www.carmillaonline.com/2016/06/28/armateci-pure-uomini-sanguinari-lora-della-riscossa-suonata-anche-gli-arditi-del-popolo-dalle-trincee-della-grande-guerra-allantifascismo-armato/ Tue, 28 Jun 2016 21:30:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31439 di Armando Lancellotti

gli-arditi-del-popolo-milieuAndrea Staid, Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata al fascismo 1921-22, Milieu edizioni, Milano, 2015, 128 pagine, € 11.90

L’editore Milieu nel 2015 ha ripubblicato un libro di Andrea Staid – uscito per la prima volta nel 2007 – che considera una pagina breve, ma non per questo secondaria, della storia italiana del primo Novecento: una pagina di opposizione armata a quello squadrismo fascista che, come un’onda in piena, a partire dall’autunno del 1920, investì prima le campagne padane e travolse poi l’intero paese, contribuendo in modo decisivo [...]]]> di Armando Lancellotti

gli-arditi-del-popolo-milieuAndrea Staid, Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata al fascismo 1921-22, Milieu edizioni, Milano, 2015, 128 pagine, € 11.90

L’editore Milieu nel 2015 ha ripubblicato un libro di Andrea Staid – uscito per la prima volta nel 2007 – che considera una pagina breve, ma non per questo secondaria, della storia italiana del primo Novecento: una pagina di opposizione armata a quello squadrismo fascista che, come un’onda in piena, a partire dall’autunno del 1920, investì prima le campagne padane e travolse poi l’intero paese, contribuendo in modo decisivo a portare Mussolini alla guida del governo. Gli “autori” di questa pagina furono coloro che per primi – sostiene Staid – compresero «il male del fascismo, ovvero gli Arditi del popolo, gli anarchici, i socialisti e comunisti. A onor del vero solo la base di questi movimenti e non i vertici capirono quello che stava succedendo (area libertaria a parte). I leader di questi movimenti proletari non compresero nel 1921 l’importanza di resistere al neonato movimento fascista, non avevano capito l’importanza di costituire (per usare le parole di Errico Malatesta) un fronte unico proletario e antifascista». (p. 6)

E quello delle responsabilità dei partiti socialista e comunista, che anziché sposare l’iniziativa degli Arditi del popolo la abbandonarono a se stessa, è argomento centrale del saggio di Staid, il quale ritiene che «i partiti della sinistra ufficiale infatti non hanno voluto sostenere in nessun modo questo movimento, prendendo le distanze, in ogni occasione, da tutto ciò che rappresentava l’operato degli Arditi antifascisti. Lo stesso partito comunista, per bocca di Terracini, denuncerà gli Arditi del popolo senza mezzi termini di essere una manovra della borghesia». (p. 21)

Le ragioni dell’ostracismo socialista e comunista nei confronti degli Arditi del popolo sono da ricercare, scrive Staid, tanto nella strategia politica dei due principali partiti della sinistra italiana – uno, il PSI, propenso alla firma del “patto di pacificazione” proposto dal governo Bonomi e in generale ad una politica riformistica, l’altro, il PCI, mosso da una volontà di egemonia politica e partitica sul proletariato italiano – quanto nelle incomprensioni o incompatibilità ideologiche, in buona parte dovute – ci sembra – alla genesi e alla natura eccentriche degli stessi Arditi del popolo.

Questi ultimi infatti nascono nell’estate del 1921, per iniziativa dell’anarchico Argo Secondari, interventista e volontario nelle file degli Arditi, da una «scissione della sezione romana dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (l’associazione che organizzava gli ex combattenti dei gruppi speciali d’assalto della Prima guerra mondiale) con l’intento di difendere le masse lavoratrici dalle azioni squadristiche dei fascisti». (p.12) Nelle settimane e nei mesi successivi «gli Arditi del popolo si diffondono rapidamente su quasi tutto il territorio nazionale. Vi aderiscono migliaia di giovani e di lavoratori di varia tendenza politica, che vedono nel movimento un efficace strumento di opposizione alla violenza delle camicie nere». Secondo la ricostruzione dell’autore, nel momento di massima diffusione e fortuna «l’organizzazione antifascista risultava strutturata, nell’estate del 1921, in almeno 144 sezioni che raggruppavano quasi 20 mila aderenti». (p.29) Ma alla fine dell’anno la situazione è già radicalmente cambiata: «Dall’ottobre-novembre del 1921, fino alla marcia su Roma, infatti l’associazione antifascista sopravvive precariamente e in semi-clandestinità, senza raggiungere l’ampiezza di consensi che l’aveva caratterizzata all’atto della sua nascita» (p. 12) e conservando una significativa consistenza solo in alcune città, come Parma, Ancona, Bari, Civitavecchia e Livorno, dove riuscì, «con risultati differenti, a opporsi all’offensiva finale fascista nei giorni dello sciopero generale “legalitario” dell’agosto 1922». (p.30)

Insomma, se gli Arditi del popolo sono consustanziali al più generale “arditismo” e al combattentismo italiani (e questa è la linea interpretativa scelta dallo stesso Staid, il quale non condivide la lettura di Giorgio Rochat, che invece tende ad allentare il legame tra l’arditismo antifascista e il sovversivismo degli ex combattenti, poi prevalentemente confluiti nelle file del fascismo stesso, e che ritiene che le origini degli Arditi del popolo siano da trovare nella storia e nelle tradizioni del movimento operaio); se sono un prodotto delle trincee della Grande Guerra e di fatto anche di quell’interventismo e di quel militarismo che si riflettono poi nell’organizzazione e nella disciplina prettamente militari degli Arditi antifascisti; allora si nutrono di un humus psicologico, culturale e politico che non era stato – prima e durante la guerra – quello dei socialisti neutralisti, né – successivamente – lo sarebbe stato dei comunisti italiani. Questo, da un lato, può aiutare parzialmente a capire, anche se non a giustificare, l’ostruzionismo socialista e comunista nei confronti dell’arditismo popolare e dall’altro – ed è forse l’aspetto più interessante delle vicende studiate da Staid – ci deve portare a riconsiderare con estrema attenzione storico-politica quella materia psicologica, sociale e politica, indeterminata e magmatica, che si forma nelle trincee, sotto il fuoco di bombe e granate, per fusione e liquefazione di una intera generazione di italiani e che si risolidifica in forme diverse, spesso divergenti ed anche antitetiche, come nel caso dell’arditismo popolare ed antifascista da un lato e, dall’altro, del più frequente arditismo combattentistico, evolutosi poi in fiumanesimo dannunziano, sansepolcrismo e squadrismo.

Se in generale la Grande Guerra è stata per milioni di popolani, operai e soprattutto contadini italiani una prima esperienza, anche politica, di massa, a maggior ragione questo vale per quelli, come coloro che poi sarebbero stati gli Arditi del popolo, che in trincea si costruiscono, o consolidano, una coscienza politica di classe, o almeno divengono consapevoli di quali siano i veri nemici contro cui combattere: lo Stato ed il potere borghesi; ovvero, ancor più semplicemente, per coloro che coltivano un rancore crescente contro i padroni che li hanno mandati a combattere e a morire.

E proprio negli anni del centenario della prima guerra mondiale e delle celebrazioni ufficiali retorico-nazionalistiche è ancor più importante – secondo l’autore del saggio – non dimenticare «gli ammutinati delle trincee della Grande Guerra che si ribellarono al fronte, disertando, sparando agli ufficiali, disobbedendo agli ordini dati dai loro carnefici. Sono storie di rifiuto individuale e collettivo, un’insubordinazione, una non-collaborazione contro l’esercito, dettata dall’orrore di una guerra-fabbrica di morte». (p. 8) [si veda a tal proposito il caso dell’ammutinamento della Brigata Catanzaro su Carmilla]
E come è necessario fare riemergere, dal generale e profondo oblio in cui sono stati relegati, gli ammutinati delle trincee, così occorre riconoscere l’importanza che meritano agli Arditi del popolo e alla loro opposizione armata allo squadrismo fascista, che non va confusa – sostiene Staid, sulla scorta delle argomentazioni di Eros Francescangeli – con l’antifascismo delle Brigate internazionali in Spagna o con quello della lotta partigiana, in quanto a «differenza della lotta di liberazione dal nazifascismo, l’opposizione allo squadrismo intentata dagli arditi del popolo venti anni prima non è iscrivibile nel contesto della contrapposizione tra democrazia e totalitarismo, ma si colloca interamente nello scontro sociale, prima che politico fra partiti, leghe, associazioni del movimento operaio da una parte e classe dominante dall’altra». (p. 24)

legaproletaria3_Tornando alla questione dei rapporti difficili tra i gruppi dirigenti dei più importanti partiti politici proletari dell’Italia degli anni Venti e gli Arditi del popolo, nonostante questi ultimi si sviluppino in stretta relazione con la Lega proletaria. Mutilati, Invalidi, Reduci, Genitori e Vedove dei Caduti in Guerra – cioè l’associazione dei reduci proletaria e socialista, trait d’union «tra fabbrica e trincea, tra combattentismo e movimento operaio» (p. 18) e che sorge in aperta polemica con l’Associazione Nazionale Combattenti, accusata di essere un’organizzazione borghese – Staid spiega come innanzi tutto il PSI boicotti gli Arditi popolari perché intenzionato a tentare la via politica del “patto di pacificazione” e della mediazione col nemico fascista, mentre il PCI definisca una posizione di chiusura verso gli Arditi del popolo «poiché, a detta del Comitato esecutivo, costituitisi su un obiettivo parziale e per giunta arretrato (la difesa proletaria), dunque, insufficientemente rivoluzionario. La difesa proletaria doveva realizzarsi esclusivamente all’interno di strutture controllate direttamente dal partito, e gli Arditi del popolo – definiti infondatamente “avventurieri“ e “nittiani“ – dovevano considerarsi alla stregua di potenziali avversari». (p. 32)

Sul piano teorico-programmatico, quindi, la principale critica comunista riguarda una presunta “immaturità” politica di un movimento nato come reazione difensiva all’attacco sferrato dalle squadre fasciste e che non colloca esplicitamente la propria azione in una prospettiva rivoluzionaria finalizzata alla dittatura del proletariato. Sul piano pratico-organizzativo, un comunicato dell’Esecutivo, pubblicato su Il Comunista il 14 luglio 1921, spiega che «L’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici di partito; e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito». (p. 33)

La linea della dirigenza comunista – espressa chiaramente da Ruggero Grieco, che vede negli Arditi del popolo uno strumento della borghesia e in particolare delle manovre antigiolittiane di Nitti – non cambia nonostante al suo interno si delineino posizioni diverse, come quella dell’Ordine nuovo di Antonio Gramsci, che continua a dare voce ai comunicati di Secondari e a diffondere notizie sugli Arditi del popolo e nonostante le parole di apprezzamento per il movimento di Argo Secondari espresse da Lenin sulla Pravda del 10 luglio 1921 o le critiche di settarismo rivolte ai compagni italiani da Bucharin, secondo il quale il PCI avrebbe dovuto entrare nel movimento degli Arditi del popolo, per imprimere in seguito ad esso una forma più marcatamente classista.

Se alle preclusioni socialiste e comuniste si aggiungono le iniziative prefettizie volute dal governo Bonomi e la politica “dei due pesi e delle due misure” di una Magistratura accondiscendente nei confronti di squadristi e ras e severa verso gli Arditi del popolo o altre organizzazioni di difesa proletaria, diviene semplice comprendere perché l’antifascismo armato del biennio 1921-’22 non abbia potuto incidere più di tanto, se non in alcune situazioni particolari.

Solo gli anarchici – afferma Staid – hanno sostenuto pienamente l’arditismo popolare, «sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana furono, per tutto il biennio 1921-‘22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. […] Il contributo libertario alla lotta armata antifascista incontrò però ostacoli a causa della frammentarietà, della modesta consistenza numerica e della non omogeneità del movimento anarchico e anarcosindacalista». (p. 41)
Anche in questo caso però non mancano completamente perplessità o cautele, dovute innanzi tutto «alla diffidenza propria degli anarchici verso organizzazioni di stampo militare» (p. 41) e in secondo luogo all’assenza di un preciso progetto rivoluzionario libertario all’interno degli Arditi del popolo. Nonostante questo però l’Unione anarchica italiana, riunitasi nell’agosto del ’21 a Roma, decide di appoggiare gli Arditi, mantenendo la propria specificità politica e rispettando quella degli Arditi stessi ed esprimendo – come recita la dichiarazione del 14-15 agosto 1921 – «simpatia e riconoscenza per l’opera di difesa da essi compiuta a vantaggio delle libertà proletarie e popolari». (p. 42)

Il tal modo – secondo Staid – gli anarchici danno concreta esecuzione alla teoria del “fronte unico” antifascista, espressione con cui «intendevano un legame prettamente rivoluzionario, che sarebbe dovuto partire dal basso, a livello locale, fra individui anche appartenenti a partiti politici diversi, ma con un obiettivo minimo comune» (p. 43): vincere le resistenze dello Stato e organizzare la vita e la società su nuove basi.

Occorre ricordare però che se le dirigenze di PSI e PCI negano il loro aiuto agli Arditi del popolo, altrettanto non fanno tanti militanti socialisti e comunisti, che invece aderiscono al movimento e per esempio combattono e con successo sulle barricate di Parma, a cui il libro di Staid dedica il terzo capito e come dimostrano anche le testimonianze dirette dei protagonisti delle giornate dell’agosto 1922 a Parma, di cui l’autore riporta qualche stralcio nel capitolo quarto, raccolte nel 1982 dall’Istituto storico della Resistenza di Parma e dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e confluite nel documentario Le barricate di Parma, di Anna Paola Olivetti e Paola Zanetti (1983). Segue infine una sezione fotografica che dà un volto agli Arditi del popolo e una forma alle barricate di Parma e che arricchisce questo breve, ma interessante libro di Andrea Staid.

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Sta attraversando l’Italia il reading musicato “Arditi del popolo. Le voci dalle barricate” di Andrea Staid. Musiche di Jacopo Tarantino al clarinetto e Jacopo Raimondi al sound design

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Giandante X https://www.carmillaonline.com/2015/12/10/giandante-x/ Thu, 10 Dec 2015 21:30:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27229 di Rinaldo Capra

giandante 1Roberto Farina, 
Giandante X, Milieu Edizioni 2015, pp.272,
 € 14,90 Alessandro Capozza (a cura di), Giandante X artista della libertà, edito da AICVAS 2015, pp.141, € 14,00 Roberto Farina (a cura di), Giandante X l’eterno viandante, edito da Associazione Memoria Storica Giovanni Pesce 2013, pp. 79, € 22,00

Giandante X (1899-1984): prima di trovarmi tra le mani i volumi di Roberto Farina e di Alessandro Capozza, non lo avevo mai sentito nominare, non lo conoscevo. Mai visto un’opera, mai sentita una storia o incocciato in qualcuno che lo citasse o lo avesse conosciuto. Pittore, scultore, architetto, poeta, [...]]]> di Rinaldo Capra

giandante 1Roberto Farina, 
Giandante X, Milieu Edizioni 2015, pp.272,
 € 14,90
Alessandro Capozza (a cura di), Giandante X artista della libertà, edito da AICVAS 2015, pp.141, € 14,00
Roberto Farina (a cura di), Giandante X l’eterno viandante, edito da Associazione Memoria Storica Giovanni Pesce 2013, pp. 79, € 22,00

Giandante X (1899-1984): prima di trovarmi tra le mani i volumi di Roberto Farina e di Alessandro Capozza, non lo avevo mai sentito nominare, non lo conoscevo. Mai visto un’opera, mai sentita una storia o incocciato in qualcuno che lo citasse o lo avesse conosciuto. Pittore, scultore, architetto, poeta, ma soprattutto militante ostinato, deciso e solitario, che ha messo al centro della sua ricerca artistica l’impegno politico senza riserva alcuna. I soggetti del suo lavoro sono archetipi epici legati alla sua visione mitologica delle grandi questioni del ‘900. I titoli sono inequivocabili ed esemplari: “Eroe”, “Verso la città futura”, “Combattente”, “Il grido del ribelle”, ecc.

Ha incarnato, di volta in volta, tutte le pulsioni di cambiamento del suo tempo, misurandosi con il rischio di cadere nella retorica, che inevitabilmente i movimenti proponevano, e nelle strumentalizzazioni politiche. Ha usato gli stilemi del Decò, del Futurismo, dell’Espressionismo tedesco, del Razionalismo italiano, ma senza mai deviare dalla sua concezione di arte militante. Anarchico per alcuni, comunista per altri, certamente è stato Ardito del Popolo, miliziano delle Brigate internazionali in Spagna e partigiano in Italia. Sempre con tutti, dove serviva, ma sempre da solo.

giandante 3Eppure quest’uomo è sconosciuto ai più. Pur citato e ammirato da Sironi, Sassu, Lajolo, de Grada, Giolli, Carrà, Formaggio, Treccani, è rimasto nell’ombra.
Si è autoescluso dal mercato regalando quadri o vendendoli sottocosto quando le quotazioni aumentavano.
Unica biografia pubblicata fu “Giandante artista poeta combattente” di Silvio Biscàro (1963) e solo ora, dopo più di cinquant’anni, ecco due pubblicazioni uscite in contemporanea, che si aggiungono a “Giandante X l’eterno viandante”, ancora a cura di Roberto Farina, del 2013.

Giandante , nato Dante Pescò, è figlio dell’agiata borghesia milanese; cresce tra
l’anaffettività della madre e la severità del padre, che non vuole artisti in famiglia. Nel 1916 fugge di casa e rompe ogni relazione con la famiglia, studia architettura e filosofia e come scrive lui stesso: si butta sulla terribile strada fatta di fame, miseria e fango alla ricerca del Mito artistico. Nel 1919 si diploma Architetto Professore e assume il nome di Giandante X.
Giandante non è un refuso di viandante, come alcuni sostengono, ma Già-Andante, già in cammino nella vita di tutti, come un mistico che percorre la terra per costruire la sua piramide di coscienza, che in un suo scritto definisce costruita su “un’enorme zatterone di dolore”. Un cammino, per capire e lottare, fatto di semplici e umanissime cose. La X è l’incognita dell’eterno divenire, la croce della passione ideale e della compassione per gli oppressi, che non hanno cognome che li qualifichi e che in quella X sono tutti rappresentati. L’impressione è di trovarmi di fronte a un uomo con una biografia esemplare, una vita molto più rappresentativa della sua produzione artistica.

giandanteXOra Giandante mi guarda dalla bella foto di copertina del libro di Farina ed io guardo lui: è un ritratto, un bel ritratto. Ha in sé tutti i crismi del ritratto ufficiale, apologetico. La luce disegna il volto da sinistra verso destra, ne mette in risalto la tridimensionalità, la forza del naso e le mascelle serrate. L’espressione è molto intensa, ieratica, come quella che hanno i grandi mistici nell’iconografia classica. L’occhio sinistro è in penombra e il destro, appena più illuminato, non guardano nel centro ottico dell’immagine, ma poco più in alto, come per scrutare orizzonti lontani, ben oltre il fotografo che lo ritrae. Ignora la fotocamera, è totalmente assorto nei suoi pensieri e nelle sue visioni.

C’è in Giandante l’assoluta consapevolezza del proprio essere e dell’immagine che ne vuole dare. Quando si fa un ritratto fotografico, s‘instaura una relazione tra il soggetto, il fotografo e lo strumento di ripresa. Si ricerca una complicità tra l’immagine di sé che vuole dare il soggetto e quella che vuole ottenere il fotografo. L’obiettivo della fotocamera diventa l’ideale punto d’incontro e mediazione delle due esigenze: da questo nasce il ritratto. Invece Giandante guarda oltre, è già in viaggio, si percepisce la tensione ideale e l’assoluta certezza della propria identità. Il fotografo e la fotocamera è come non ci fossero, e lui non sta mettendo in scena la rappresentazione di se stesso, lui è se stesso.

Questa foto però non è un ritratto, ma una foto segnaletica del 1942, scattata in occasione della consegna degli internati dei campi di concentramento in Francia alle autorità italiane.
Ecco ancora più forte la certezza che Giandante aveva l’assoluta consapevolezza del proprio essere, al punto da dare nobiltà estetica allo scatto di un secondino. Riesce in un’opera mirabile: rende ritratto orgoglioso e deciso la foto segnaletica che è di sua natura umiliante e violenta e viene imposta sempre come atto di sopraffazione psichica. Per un attimo il secondino è un autore.

giandanteoscuroUn’altra foto mi ha colpito. Giandante è sfuocato, la grana molto pronunciata e la luce ancor più tenebrosa e drammatica. Le mascelle serrate, le protuberanze sulla fronte, il naso deciso. Gli occhi sono completamente in ombra e solo vagamente si intuisce la pupilla destra, ma una cosa è certa, anche nell’indeterminatezza delle forme, lo sguardo comunica esattamente la stessa determinazione della foto segnaletica. Nulla è cambiato tra le due foto, il carattere monolitico e irriducibile è uguale, la spinta emotiva grande. Farina la associa a una bella poesia:
Desertica
Sull’arcuata sforme faccia
baracollava l’ombra grigia e lunare dell’errante
sue svuotate pupille viaggiavano oltremare…
…nel suo tascapane teneva chiuso il suo gran cuore
.

Aderisce agli Arditi del Popolo, fonda la setta delle Cappe Nere e alla morte del padre rifiuta l’eredità e si libera dei soldi ricevuti dandone parte a Leonida Repaci per la pubblicazione del romanzo L’ultimo Cireneo e comprando libri e armi.
Di scottante attualità il romanzo di Repaci, infatti Giandante vi compare come alter ego del protagonista Nullo Viandante, un pittore che si fa saltare in aria ad una festa danzante dell’alta società milanese. Evidente il riferimento dell’attentato del teatro Diana. Nel romanzo c’è un dialogo tra il pittore e l’amico scrittore poco prima dell’esplosione che racconta bene il pensiero di Giandante e dice: “La mia arte è una fontana senz’acqua… quando il mondo è fango, …è menzogna anch’essa”.

Nel 1923 viene arrestato e rasenta la follia per le torture subite, tuttavia Wildt lo invita alla prima Biennale di Monza, dove presenta un lavoro di 25.000 disegni. Collabora con l’Unità, ha un aspro contraddittorio con Marinetti e nel 1933 lascia clandestinamente l’Italia per la Francia. Come da suo stile, allo scoppio della guerra di Spagna, carica tutte le sue opere su un carretto, le getta nella Senna e parte per la Spagna. Colonna Rosselli, poi 134° Brigata mista, su incarico di Longo diviene responsabile della propaganda delle Brigate internazionali e illustra manifesti e volantini.

giandante 4Preziosa e ampia la ricerca iconografica dell’attività di illustratore in Spagna nel volume di Capozza, che mostra la grande mole di lavoro fatto e in cui lo slogan più usato da Giandante è: Unità. Alla fine della guerra è tra gli ultimi a lasciare la Spagna, ripara in Francia, dove è successivamente consegnato agli italiani che lo mandano al confino. Dopo l’armistizio torna a Milano come ufficiale di collegamento nella formazione Matteotti 33 Fogagnolo vicina agli anarchici. Alla fine della guerra riprende a dipingere, stavolta con tratti meno ideologici, con più colori e coltiva una stretta amicizia con lo stalinista Pesce, quello che aveva difeso Vidali, e sua moglie Onorina, che acquistano molti suoi dipinti e si prendono cura di lui.

Chi è Giandante? Un mistico del comunismo che ha voluto esserci sempre, senza sottilizzare troppo. L’importante era l’azione, l’esempio per far fronte a un nemico comune. Ha gestito gli aspetti contradditori delle sue scelte, non aderendo integralmente al Partito Comunista, ma sempre in bilico per sfruttare tutte le possibilità d’intervento che si presentavano, privilegiando scelta delle persone prima che le posizioni ideologiche. Fedele a se stesso, solo e schivo, fuori dal mercato, nel 1984 ha un attacco di peritonite e muore in ospedale.

Farina mi ha raccontato che la storia della sua morte nel libro è fantasiosa, romanzata, ma ha avuto in seguito l’occasione di conoscere una persona che ha vissuto l’evento. Giandante è rimasto esamine sul selciato del giardino del palazzo dove abitava ed è stato soccorso solo dopo parecchie ore. Pare che all’ospedale , mentre lo stavano portando in sala operatoria, abbia esortato il chirurgo a “fare un bel lavoro”, come del resto lui aveva sempre cercato di fare proprio con la sua vita oltre che con le sue opere.

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