Arabia Saudita – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Dec 2025 21:00:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 30 – Israele sull’orlo dell’abisso https://www.carmillaonline.com/2025/11/12/il-nuovo-disordine-mondiale-30-israele-sullorlo-dellabisso/ Wed, 12 Nov 2025 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91456 di Sandro Moiso

Ilan Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 287, 18,50 euro

In occasione del trentennale dell’uccisione di Yitzhak Rabin, con decine di migliaia di persone in piazza a Tel Aviv per celebrare l’evento, Isaac Herzog, presidente dello stato di Israele, ha affermato che: «Oggi siamo sull’orlo dell’abisso». Aggiungendo poi ancora: «Lo Stato ebraico e democratico di Israele non è un campo di battaglia, ma una casa, e in casa non si spara, né con le armi, né con le parole, né con le espressioni [...]]]> di Sandro Moiso

Ilan Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 287, 18,50 euro

In occasione del trentennale dell’uccisione di Yitzhak Rabin, con decine di migliaia di persone in piazza a Tel Aviv per celebrare l’evento, Isaac Herzog, presidente dello stato di Israele, ha affermato che: «Oggi siamo sull’orlo dell’abisso». Aggiungendo poi ancora: «Lo Stato ebraico e democratico di Israele non è un campo di battaglia, ma una casa, e in casa non si spara, né con le armi, né con le parole, né con le espressioni o con le allusioni». Affermazione fatta in un contesto in cui Bibi Netanyahu, da sempre indicato come uno degli sponsor dell’odio che portò al più importante omicidio politico della storia dello stato ebraico per mano di un ebreo di origini yemenite, si è tenuto lontano dalle celebrazioni molto probabilmente per timore delle contestazioni nei suoi confronti.

Ma ciò che qui è interessante annotare, più che il ricordo di un uomo che quando era «ministro della Difesa – poi beatificato dall’Occidente in seguito al suo assassinio ad opera di fanatici oggi al governo in Israele – impiegò tutto il peso dell’IDF sui Territori rivelandone pienamente il carattere coloniale e di forza d’occupazione. Già nel 1987 il pugno della repressione – spari sulla folla, rastrellamenti, demolizioni e detenzione di massa – fu spietato, anche a fronte di un sollevamento prevalentemente civile e non armato», come ha giustamente ricordato Giovanni Iozzoli su Carmilla il 4 novembre di quest’anno, è costituito dal fatto che l’”abisso” evocato dall’attuale presidente israeliano è prossimo a quel “precipizio” indicato per il futuro di Israele da un altro ebreo israeliano, Michel Warschawski, fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984:

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza1.

In poche righe Warschawski, in quel testo di vent’anni or sono, anticipava ancor più che i timori espressi da Herzog i temi e le tesi esposte da Ilan Pappé nel suo testo più recente, edito da Fazi, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina.

L’autore è professore di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, e fa parte di quel consesso di storici israeliani (Tom Segev, Shlomo Sand, Norman Finkelstein e, un tempo, Benny Morris) che per anni, spesso a rischio della vita per mano degli estremisti sionisti, hanno messo in discussione una narrazione storiografica tutta intrisa di messianismo e revanscismo basato sulla necessaria riscossione del credito politico e coloniale accumulato attraverso le sofferenze inferte al popolo ebraico dalla Shoa; tutto a danno dei diritti degli arabi palestinesi a vivere sulla propria terra in pace e con gli stessi diritti degli altri cittadini di Israele.

Oltre che del presente testo, Pappé è stato anche autore di più di una dozzina di libri tra cui La pulizia etnica della Palestina (Fazi Editore, 2008), mentre per il medesimo editore ha anche pubblicato Palestina e Israele: che fare?, scritto insieme a Noam Chomsky (2015), La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (2022) e Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (2024). Mentre per Einaudi ha pubblicato Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (2014) e per Temu: Dieci miti su Israele (2022). Cui vanno ancora aggiunti: Ultima fermata Gaza. La guerra senza fine tra Israele e la Palestina, sempre con Noam Chomsky (Ponte alle grazie, 2023); Israele-Palestina. La retorica della coesistenza (Nottetempo, 2011) e Controcorrente. La lotta per la libertà accademica in Israele (Zambon, 2012).

Sempre attento, presente nel dibattito e schierato per tutto quanto riguarda la causa palestinese, Ilan Pappé non ha mai, però, separato le ragioni del popolo palestinese dalla necessità di trovare un punto di incontro con quelle frange, minoritarie ma non del tutto secondarie, del mondo ebraico, fuori e dentro Israele che da sempre o almeno fin dalla fondazione dello Stato hanno contestato l’assurdità del colonialismo sionista e proposto strade diverse per una comune convivenza su quelle stesse terre oggi totalmente rivendicate dal sionismo messianico di Bibi Netanyahu, Itamar Ben-Gvir o Bezalel Smotrich. Comunque senza mai illudersi che questo possa avvenire in mancanza di un cambiamento radicale all’interno della stessa società israeliana.
Da qui l’attenzione per la possibile “fine” di Israele.

Il passo da uno Stato in crisi alla sua fine può essere breve.
[…] Non prendo con leggerezza il processo che potrebbe portare alla fine di uno Stato di cui sono cittadino e in cui vivono milioni di persone. Gli Stati in realtà non finiscono come se niente fosse, e da questo punto di vista parlare di “fine” potrebbe essere esagerato; nella maggior parte dei casi gli Stati cambiano e a volte lo fanno in modo drastico. [Motivo per cui] Quando si auspica la fine dello Stato o se ne teme l’idea, bisognerebbe avere ben presente, alla luce dei precedenti storici, che questi processi sono sempre caratterizzati d auna violenza estrema.
[…] Sebbene io sostenga la visione di un unico Stato democratico per Israele e Palestina, il mio non vuole essere un appello perché si arrivi alla fine di Israele. Da storico, evidenzio che la fine di Israele sembra essere già cominciata. E la morte di uno Stato o il collasso di un’entità geopolitica creano un vuoto.[…] E quanto prima il vuoto sarà riempito, tanto meno violento sarà il processo di disintegrazione2.

L’ottica scelta pertanto è quella di individuare non soltanto le cause, ormai evidenti, del processo di disgregazione dello stato israeliano, ma anche le possibili soluzioni di una crisi quasi secolare che non potrà trovare risposta soltanto nel revanscismo arabo o nella continuazione e riaffermazione dell’espansionismo coloniale sionista. Entrambi forieri soltanto di guerre e sofferenze senza fine. Entrambi tunnel in cui, come per i soldati dell’Idf in quelli di Hamas nel sottosuolo di Gaza, sarebbe meglio non infilarsi.

La fine di Israele di cui parla Pappè nel suo libro è già da tempo stata individuata anche da molti altri osservatori, non obbligatoriamente di parte. Come si afferma ad esempio in un recente editoriale di «Limes»: «Lo Stato ebraico rischia la pelle perché cercando di scongiurare o ritardare la resa dei conti fra le sue fazioni, estesa alle istituzioni civili, militari e di intelligence, si è cacciato in conflitti infinibili mascherati da prologhi alla Vittoria Decisiva»3. Un’affermazione cui, sullo stesso numero della rivista di geopolitica, Giuseppe De Ruvo può aggiungere:

Nonostante Israele stia combattendo una guerra su sette fronti – Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, Qatar, Iran – il più scottante continua ad essere quello domestico. Netanyahu ne è perfettamente consapevole, dunque agisce secondo un principio paradossale: per non perdere la guerra, quella che per gli ebrei realmente conta e che riguarda l’esistenza dello Stato di Israele, è necessario prolungare e allargare ad infinitum il conflitto che dall’ottobre 2023 vede Gerusalemme opporsi a mezzo Medio Oriente. Altro che vittoria definitiva.
[…] Solo Israele può fermare Israele. O completarne l’autodistruzione. A ritenere pericoloso il piano di Netanyahu e dei suoi alleati sono infatti interi pezzi di Stato ebraico, che vanno dalle Forze armate al Mossad. Apparati che ormai esplicitano a mezzo stampa le loro critiche, rifiutandosi di compiere operazioni che ritengono insensate e che sanno contribuire al crollo della credibilità internazionale di Israele. Autentica assicurazione sulla vita di un paese minuscolo, la cui legittimità deriva(va) dall’essere garante della sicurezza degli ebrei. Anche di quelli che non vi risiedono.
Queste tensioni, sempre meno latenti, non sono ancora esplose. L’esercito israeliano, nonostante gli scontri e i cambi al vertice, continua infatti a eseguire gli ordini di Netanyahu. E tuttavia ciò non significa che la situazione sia sotto controllo. Molto peggio. Quello cui stiamo assistendo non è infatti uno strappo dovuto al disaccordo tra Bibi e i suoi generali, ma il risultato del progressivo sfilacciamento dei rapporti di fiducia tra leadership politica, militare e securitaria. Per lo Stato ebraico, il fronte decisivo è dunque quello interno, l’ottavo. attorno al quale si combatte per l’anima e il futuro del paese [mentre] la sfiducia reciproca tra leadership civile e militare non è effetto ma causa della guerra4.

Situazione che in altra parte dell’articolo l’autore non esita a definire come un redde rationem interno o come autentiche prove di “guerra civile”. Una situazione che sottolinea la fragilità della forza e del progetto espansivo sionista, al contrario di ciò che molti analisti dell’antagonismo sociale e palestinese troppo spesso intendono come univoco e vincente. Eliminando dunque dal quadro di riferimento critico tutte le crepe e le enormi contraddizioni che ne minano gli intenti.

Compreso l’ingresso a gamba tesa di Donald Trump e della sua “politica di pace” nella Striscia di Gaza. Che, come si afferma ancora nell’editoriale di «Limes» citato più sopra, fa vincere al presidente americano, a mani basse, il premio per la migliore “fiction geopolitica” volta a redimere il Caos in Cosmo, disordine in ordine, guerra in pace. Piano che, pur essendo definito per la pace eterna e «che scioglie nodi plurimillenari in Medio Oriente a partire dal martirio dei palestinesi della Striscia da volgere in Riviera, non pare avviato a redimere la regione».

Fa bene la rivista a definire “fiction geopolitica” il piano trumpiano (?) per la Striscia poiché da diverso tempo a questa parte tutte le narrazioni che si susseguono, sia attraverso la voce o i messaggi postati da Trump su Truth oppure quelle recitate a soggetto dagli infiniti esperti solipsisti che si accorgono che la Storia volge in altra direzione da quella auspicata soltanto, e forse nemmeno allora, quando vanno a sbatterci contro, magari violentemente, ricordano sempre più quel “romanzo scritto male” di cui parlava Francesco Guccini in una sua canzone5. Oppure, rimanendo nel campo della fiction televisiva, quelle serie senza capo né coda in cui gli autori si ostinano ad andare avanti con stratagemmi sempre più banali e ripetitivi destinati a risvegliare l’attenzione di un pubblico sempre più sfinito e disattento.

Una narrazione che finge potenza e determinazione là dove tutto sembra smentire, a livello di ordine internazionale, quel nuovo ordine mondiale che l’Occidente e gli Stati Uniti si immaginavano di aver instaurato, o poter instaurare, a partire dalla fine dell’URSS e dalla globalizzazione intensiva dei commerci e dei rapporti finanziari su scala planetaria.
Una narrazione ormai fallita e rimasta farlocca proprio a partire dal centro dell’impero. Là dove un biondo (tinto) imperatore finge di poter fare ciò che vuole e rispondere a tutte le difficoltà mentre, di volta in volta, è costretto a smentirsi quasi quotidianamente per non subire del tutto le conseguenze degli eventi che hanno segnato la strada in altre direzioni da quelle previste.

Non cogliere questo elemento di forzatura rappresentativa del potere americano o sionista significherebbe soltanto accettare una narrazione tutta tesa a nascondere le difficoltà militari, economiche politiche, esterne e interne, che ne contraddistinguono ormai l’andatura sbilenca. Un’andatura sbilenca per cui, come era facile prevedere da molto tempo a questa parte, gli Stati Uniti di Trump, ma anche del futuro, non potranno più appoggiarsi soltanto su Israele per difendere i propri interessi mediorientali.

Una zoppia politico-militare che fa sì che i paesi musulmani, e non solo quelli del Golfo, debbano sostenere i bisogni americani sia geo-strategici che economici. I miliardi promessi da Qatar e Arabia Saudita indicano che questi nuovi possibili attori della scena internazionale potrebbero avere un ruolo importante per l’economia americana e non soltanto per i fondi di investimento di Trump e Kushner che già ne hanno incassato una parte. Potrebbero indicare che mentre l’attenzione nei loro confronti può costituire davvero un investimento conveniente, anche in vista di un progressivo disinvestimento cinese nei titoli di stato americani, la spesa militare per l’aiuto ad Israele potrebbe costituire in prospettiva soltanto più una perdita.

Da qui gli accordi di Abramo e il tentativo, già messo in atto durante il primo mandato di Trump, di chetare i rapporti tra tutti paesi dell’area, Iran compreso. Ma tutto ciò ha un costo, che la guerra di Gaza ha messo in rilievo: gli emirati, il Qatar, l’Egitto, la Turchia e la stessa Arabia Saudita, solo per citare alcuni dei possibili “alleati” hanno bisogno di ricevere in cambio qualcosa di consistente. Sia in termini economici che strategici, come guadagno diretto di un contratto che ha anche un suo versante politico, quello di tenere a bada masse popolari, arabe ma non solo, messe in agitazione da ciò che avviene a Gaza. In cui riconoscono il proprio destino e la necessità di giungere un giorno a rovesciare Stati e governi.

Ma lo Stato di Israele non può più, nonostante i suoi bombardamenti, le sue operazioni militari mirate, le sue stragi, costituire il garante dell’ordine sociale locale, anzi rischia di diventare con la sua sconsiderata azione il detonatore di rivolgimenti ben più vasti e incontrollabili. E anche gli Stati Uniti, dopo essersi illusi di rappresentare i garanti dell’ordine capitalistico occidentale, se non mondiale, devono oggi ammettere per bocca dello stesso Trump che «non possono più agire come gendarme internazionale».

Gli imperi declinano, poi crollano. L’impero americano è crollato prima di finir di declinare. Giacché nessun impero esiste per moto proprio ma a due condizioni: se può volerlo e se è riconosciuto tale dagli altri imperi e dalle potenze che contano. Oggi l’egemone che si ostentava globale, garante degli amici e nemesi per i nemici, non si vuole più tale perché stanco di mondo e nostalgico di nazione. Fra la vita e la morte gli americani scelgono l’America. Per conseguenza, né i suoi imbaldanziti avversari né i satelliti in panico abbandonico lo considerano più superiore gestore dell’ordine planetario6.

Fatto rilevabile nella crescente sfiducia che gli alleati arabi del Golfo hanno nei confronti di entrambi, soprattutto dopo l’attacco, fallimentare negli intenti dichiarati, condotto dall’IDF in Qatar. Una sfiducia apertamente manifestata dal principe saudita Mohammad bin Salman che non ha esitato a rivolgersi al Pakistan, altro paese musulmano, per mettersi al riparo di un ombrello nucleare che gli Stati Uniti sembrano non poter più garantire7. E anche se quest’ultimo fatto potrebbe fare parte di una strategia volta ad ottenere di più dal governo americano in occasione del prossimo viaggio del principe saudita a Washington, certamente è uno dei fattori che hanno “costretto” Trump a dichiarare la possibile ripresa dei test nucleari (soprattutto dopo il fallimento dell’azione militare americana nei confronti dei siti nucleari iraniani, confermato anche dalla stessa intelligence statunitense).

Ma tutto ciò non basta ancora: se è vero, infatti, che gli investimenti a Gaza per la ricostruzione rappresentano per le finanze arabe una magnifica occasione di guadagno, è altresì vero che tali investimenti dovranno essere “garantiti”. Senza inoltre contare che gli stessi paesi arabi stanno opponendo forti resistenze a una proposta sostenuta dagli Stati Uniti di ricostruire una ‘nuova’ Gaza esclusivamente nella metà dell’enclave attualmente posta sotto il controllo di Israele, visto che sia Israele che Washington hanno escluso che i fondi possano essere destinati alle aree sotto Hamas.

I sauditi sono abituati a mescolare assieme politica e affari, proprio nello stile preferito dal presidente Usa. Hanno anche un’innata simpatia per quest’ultimo che ha sempre scelto il loro paese per i suoi interventi e le sue prime visite ufficiali. Ma ora il vento è cambiato e la “parentela” Usa-Israele pare a Riad troppo limitante e senza garanzie di successo (o di guadagno). Basta far riferimento all’Ue: quanti milioni ha buttato in Cisgiordana e a Gaza che Israele non si è affrettata a distruggere in tante guerre? L’Israele di Netanyahu e della destra estrema oggi al potere è un paese spaccato, intriso d’odio e diviso al suo interno. E’ anche un paese imprevedibile: troppi luoghi di potere contrapposti e in competizione permanente fra di loro [e] certamente gli americani faranno fatica a spiegare ai sauditi chi comanda davvero a Tel Aviv. La fiducia dei sauditi si è notevolmente ridotta con possibili lunghe e amare ripercussioni8.

Ecco allora che la presenza di un contingente internazionale a Gaza, magari di paesi islamici, più che al disarmo di Hamas sarebbe rivolto, prima di tutto a garantire gli investimenti arabi nella Striscia. Come già ha ben compreso il governo israeliano, tutto rivolto ad evitare una governance mandataria americana nei confronti delle sue azioni e ad impedire la presenza dei militari turchi a Gaza. Considerato che la Turchia, proprio grazie all’azione disgregatrice di Israele, è giunta alle porte dello Stato ebraico attraverso la Siria oggi governata da Mohammed al-Bashir, l’ex-jihadista fortemente sponsorizzato dallo stesso Recep Tayyip Erdoğan, capo dello stato turco e teorico del rilancio degli interessi ottomani in tutta l’area mediorientale.

Una politica che negli ultimi tempi ha fatto sì che la Procura generale di Istanbul abbia emesso 37 mandati di arresto per altrettanti dirigenti politici e militari israeliani con l’accusa, documentata, di genocidio nei confronti della popolazione di Gaza. Tra i trentasette spiccano i nome di Bibi Netanyahu, di Itamar Ben-Gvir, di quello del Capo di stato maggiore Eyal Zamir e del ministro della Difesa Israel Katz. Questa provocazione causerà sicuramente qualche problema per Trump, considerata la sua predilezione per il capo di stato turco. Il quale ha anche ospitato ad Istanbul un vertice dei ministri degli Esteri di dieci paesi musulmani per coordinare la pressione per la forza multinazionale di stabilizzazione per Gaza, con il chiaro intento di mettersi a capo della stessa9.

E’ in mezzo a questo mare tempestoso che si deve muovere Donald Trump che, in un non lontano futuro, potrebbe scegliere di abbandonare oppure di affidarsi decisamente di meno alle scelte di un governo condannato, per non affondare insieme ad esso e mantenere quel minimo di influenza politica nei confronti degli alleati arabi. E se qualcuno, in un tale contesto, volesse ancora fare riferimento esclusivamente alla volontà di potenza sionista o alla determinazione imperialista statunitense per comprendere ciò che avviene sul campo, lo faccia pure, ma sapendo che gli errori, soprattutto di valutazione, prima o poi si pagano sempre.

E’ allora forse utile ricordare un’affermazione di Hannah Arendt, espressa nel 1948, ma ancora valida oggi a giudizio di chi scrive, secondo la quale: «Il modo più realistico per valutare il costo degli avvenimenti […] per i popoli del Vicino Oriente, non è costituito dalla perdita di vite umane, dai danni economici, dalla distruzione provocata dalla guerra o dalle vittorie militari, ma dai mutamenti politici». Quei mutamenti politici, ieri, erano rappresentati, sempre secondo la filosofa ebrea, dalla « creazione di una nuova categoria di persone senzapatria, i profughi arabi», cosa che non faceva altro che confermare l’assunto secondo il quale «gli ebrei miravano semplicemente a cacciare gli arabi dalle loro case».

Oggi, pur rimanendo evidente l’intento colonialista e liquidazionista della destra ebraica, i mutamenti politici si sono fatti più evidenti su scala mondiale, in un contesto in cui, come si è già detto prima lo Stato di Israele, con la sua azione spintasi ben oltre Gaza, sembra aver perso qualsiasi aspetto di legittimità davanti agli occhi della maggioranza della popolazione mondiale. Ben oltre i confini del mondo arabo in cui tale percezione condivisa era principalmente limitata prima del conflitto degli ultimi due anni. Una rimessa in discussione non solo dei principi che ne hanno validato l’esistenza per decenni, ma che costringono anche ad una progressiva, ancor che lenta agli occhi di molti, revisione delle alleanze che ne hanno garantito la sopravvivenza fino ad ora. Ed è a questo punto che occorre ritornare al testo di Pappé, là dove afferma, ad esempio:

Non sorprende che la guerra scoppiata nel 2023 tra Israele e Hamas sia vista da alcuni come preludio dell’Armageddon. Ma è possibile andare oltre la semplice visione apocalittica e presentare invece una valutazione più ottimistica di un potenziale esito di quello che sembra essere una disintegrazione inevitabile, caotica e violenta dello Stato ebraico.
[Infatti] diversi processi che si svolgevano davanti ai miei occhi mi hanno portato a concludere, non come attivista politico o visionario bensì come accademico, che stiamo assistendo alla fine dello Stato di Israele, o se non altro del progetto sionista come lo conosciamo. Benché promossi dalle azioni di gruppi di individui e organizzazioni, oggi questi processi hanno raggiunto una dimensione tale che la loro spinta è inarrestabile e condurrà a un cambiamento sul campo davvero fondamentale, rivoluzionario, in quelli che attualmente sono Israele, la Cisgiordania occupata e la striscia di Gaza distrutta10.

Però, per fare sì che queste affermazioni non rappresentino soltanto delle semplici e utopiche speranze, l’autore si preoccupa di aggiungere subito dopo:

Come molti miei amici palestinesi, anch’io mi riferisco alla fine di Israele come a un processo di decolonizzazione. In qualità di storico so bene dei casi del passato in cui la decolonizzazione è avvenuta attraverso trasformazioni violente e brutali. La storia, la migliore maestra che abbiamo, ci fornisce anche innumerevoli esempi in cui le lotte di per la liberazione e la decolonizzazione sono sfociate nella creazione di nuovi sistemi di ingiustizia, per usare un eufemismo.
Realisticamente, sarebbe ingenuo immaginare la fine del progetto sionista o dello Stato di Israele come una felice e rapida trasformazione da un luogo di occupazione, oppressione e, da ultimo, di genocidio in un paese dove le libertà sono garantite a tutti e dove viene ristabilita la giustizia per chi in passato abbia subito dei torti. Ma è importante aspirare a una transizione […] che vada innanzitutto a beneficio delle vittime dell’oppressione e degli spargimenti di sangue, ma anche di coloro che temono che perdere la propria posizione di privilegio e superiorità li trasformerà in vittime, da agiati oppressori quali sono attualmente..
Per riassumere quanto detto fin qui: il progetto sionista si sta sbriciolando e con esso lo Stato di Israele come uno Stato ebraico. E questa non è una pia illusione né lo scenatio cui si potrebbe arrivare nel peggiore dei casi. E’ qualcosa di inevitabile, non perché io stia adottando una prospettiva determinista sulla storia o perché possieda una sfera di cristallo, ma perché è una situazione già in essere, anche se non se ne parla11.

Spesso anche negli ambienti dell’antagonismo, abituati da decenni di vittimizzazione a non aspirare ad altro che ad una vendetta. Dimenticando che il dio della vendetta è esattamente quello esaltato dalla destra israeliana ed evangelica e che la vendetta non può mai costituire un buon metro di giudizio o di programmazione per il futuro. Una cecità che impedisce di cogliere crepe importanti non soltanto ai vertici dell’intelligence e delle forze di difesa dello Stato di Israele, come la mancata riuscita del bombardamento dei vertici di Hamas a Doha oppure la vicenda dell’avvocato generale militare, Yifat Tomer-Yerushalmi, arrestata per aver diffuso un video che mostra gli abusi dei soldati su un detenuto palestinese e ancora rinchiusa in carcere per aver fatto tale scelta, già mettono in evidenza .

Crepe che si manifestano nel rifiuto dei riservisti di tornare sul fronte di Gaza oppure nelle manifestazioni dei parenti degli ostaggi che, anche se spesso sono state rivolte soltanto alla salvezza dei propri cari oppure alla richiesta di un’azione più energica nei confronti di Hamas, talvolta sono sfociate in dichiarazioni individuali o collettive tese alla ricerca di un nuovo modus vivendi con la popolazione arabo-palestinese12.

Le fondamenta dell’Israele sionista hanno crepe così grosse che nessuna opera di manutenzione potrà ripararle. Non si tratta di stabilire se l’edificio crollerà, ma quando ciò avverà.
[…] Per riassumere, il collasso di Israele non è una posizione politica, qualcosa che si possa ccettare o rifiutare. E’ un processo oggettivo che è già cominciato. La sua probabilità dovrebbe essere discussa come argomento principale nella conversazione a lungo termine sul futuro di Israele e della Palestina, anziché concentrarsi -come facciamo noi- sul futuro dei palestinesi. La sorte dei palestinesi nei prossimi anni è comprensibilmente la nostra più grande preoccupazione, ma nel lungo periodo sarà la sorte degli ebrei nella Palestina storica la questione da risolvere.
Il tentativo secolare dell’Occidente, Regno Unito in testa, di imporre uno Stato ebraico su un paese arabo sembra essere arrivato alla fine. E’ riuscito a creare una società organica di milioni di colonizzatori, molti dei quali ormai di seconda o terza generazione, ma la cui sorte dipende ancora, come quando sono arrivati, dalla capacità di imporre con la forza violenta la loro volontà su milioni di palestinesi indigeni che non hanno mai rinunciato al proprio diritto all’autodeterminazione e alla libertà sulla propria terra natia. L’unica speranza per il futuro degli ebrei sarà data dalla loro disponibilità a vivere da cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata. Sono convinto che molti lo faranno13.

Tutto il testo di Pappé, diviso in tre parti, è teso a individuare le contraddizioni e le formule politiche e sociali che potranno contribuire al raggiungimento di un tale risultato, ben diverso e lontano dalla tanto sbandierata ed inefficace soluzione dei “due popoli due stati”. Formula che conviene tanto ai sionisti quanto ai paesi occidentali e arabi e ai loro governi per mantenere divisi e in stato di inimicizia costante palestinesi ed ebrei.

Anche se, per chi scrive, un percorso di guerra civile sembra delinearsi come un passaggio obbligato all’interno della società israeliana, sarà comunque soltanto cercando un’unità di lotta dal basso tra i due popoli che si potrebbe giungere al superamento dell’oppressione di tutti coloro che vivono in Palestina, al di là delle troppo facili retoriche della lotta di classe e dei suoi miracolosi effetti sulla psiche collettiva oppure, ancor peggio, di quelle vuote, pericolose e razziste della vendetta antisemita.


  1. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 115-124.  

  2. I. Pappé, Prefazione a I. Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 11-13.  

  3. Zero Stati?, editoriale del n°9, 2025 di «Limes» dal titolo Gli Stati di Israele, p. 10.  

  4. G. De Ruvo, L’ottavo fronte di Israele in «Limes» n°9/2025, pp. 41-42.  

  5. F. Guccini, Incontro, nell’album Radici del 1972.  

  6. L. Caracciolo, Il declino dell’impero americano, “la Repubblica”, 8 novembre 2025.  

  7. Si veda: M. Giro, Il tycoon e la variabile saudita. Riad non si fida più degli Usa, «Domani» 4 novembre 2025.  

  8. M. Giro, Riad non si fida più degli Usa, cit.  

  9. F. Magri, Nuovo mandato d’arresto per Netanyahu. La Turchia accusa Israele di genocidio, “La Stampa”, 8 novembre 2025.  

  10. I. Pappé, op. cit., p.14.  

  11. Ibidem, pp. 15-16. 

  12. Si veda su tutto questo: F. Borri, Israele contro Israele, in «Limes» n°9/2025, pp. 97-101.  

  13. Ivi, pp. 16-18.  

]]>
Ancora sulla banalità del male https://www.carmillaonline.com/2020/12/02/ancora-sulla-banalita-del-male/ Wed, 02 Dec 2020 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63698 di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di [...]]]> di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di ripercorrere le tracce di Hannah Arendt nel perseguire, illustrare e portare alla luce quello che l’autrice di origini ebraiche aveva definito, in una delle sue opere più celebri, “la banalità del male”. E Sara ha potuto farlo nei confronti di Daeş e dello Stato Islamico non soltanto grazie alla ricca bibliografia e alla sitografia consultate e citate nell’opera, ma anche, e soprattutto, al rapporto diretto stabilito sul campo, nel corso della primavera e dell’estate 2020, attraverso le sue interviste, tanto con rappresentanti dell’intelligence e combattenti delle forze YPG (Unità di protezione popolare) – YPJ (Unità di difesa delle donne) curde quanto con imam, foreign fighters e donne un tempo, e in alcuni casi ancora attualmente, riconducibili all’ideologia e alle pratiche dell’Isis.

E’ importante poi, dal punto di vista di chi scrive queste brevi note, che a farlo sia stata una donna (in realtà ci sarebbe da dire “ancora una volta una donna”) poiché una parte cospicua del libro è dedicato proprio alle condizioni delle donne dell’Isis, sia che si tratti di volontarie, convertite straniere oppure rapite nel corso delle operazioni di occupazione territoriale. E non sempre questa condizione rinvia ad un modello unico di comportamento, di sottomissione o adattamento alle condizioni imposte dalla pretesa legge islamica imposta dall’organizzazione religiosa, politica e militare riconducibile a Daeş.

L’analisi di Daeş o Isis, qual dir si voglia, richiede però, secondo l’autrice, nuovi schemi interpretativi, capaci di decifrarne la novità e la complessità. Dichiararne la scomparsa, a seguito soltanto della sconfitta militare subita sul campo di battaglia nel 2018, non serve a nulla, anzi rischia di nascondere il fatto concreto della sua riorganizzazione e del suo rafforzamento. Occorre cogliere la sua capacità di penetrazione culturale e ideologica che avviene su più piani e, soprattutto, grazie all’ignoranza dei fattori che lo hanno causato e giustificato agli occhi di tanti diseredati. Nelle metropoli occidentali come nel Medio Oriente e in altre parti del mondo.

L’aspetto religioso, il piano giuridico-politico, la storia e i conflitti interni, le differenze tra le diverse etnie, tribù e minoranze, l’aspetto sociale proprio di questi luoghi e della società tutta (d’altronde 40.000 foreign fighters sono più che sufficienti per dimostrare che si tratta di un fenomeno globale), assieme ai traffici illeciti, alle relazioni con le mafie nostrane e internazionali, intrecciati con le forme di sciovinismo e nazionalismo implementate e alimentate nell’ultimo secolo, sono tutti pezzi di un puzzle e parte integrante di questo grande mosaico. I riferimenti agli intrecci con il regime Baathista di Saddam Hussein, la prigione di Camp Bucca, i collegamenti con i servizi di intelligence di altri paesi sono dati di fatto. Bisogna essere consapevoli, inoltre, che la politica nostrana (dagli armamenti alla politica energetica di idrocarburi, dagli investimenti delle banche italiane alla gestione migratoria, dalla libertà di culto alla costruzione di moschee, e questi sono solo alcuni esempi) ha degli effetti che si riverberano in altri luoghi e su altre popolazioni1.

Perciò, è da queste considerazioni che occorre procedere a ritroso per cogliere tutti gli aspetti di quella che è ancora corretto definire come la banalità del male. Perché Daeş non è un cane nero sbucato dall’Inferno e i suoi militanti ed esponenti e le loro azioni, per quanto efferate, non sono solo il rigurgito di una o più menti malate. Costituiscono invece l’immagine capovolta di una società e di un modo di produzione che della violenza sulle minoranze, i generi, le etnie e i diseredati e della loro completa sopraffazione e sottomissione ha fatto il suo pane quotidiano.

Una modernità che nei peggiori sostenitori di un ritorno a un mitico passato (Erdogan, Turchia e Arabia Saudita) trova i suoi migliori alleati. Ognuno con le sue strategie geo-politiche, economiche e militari. Ognuno coinvolto in una guerra spietata rivolta sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Ognuno attento a costruire o rafforzare un proprio domino o Califfato sulle aree di interesse strategico. Sempre più lontane dai confini nazionali, come succede in Libia, Africa sub-sahariana o alcune aree asiatiche.

Una partita in cui la risorsa energetica simbolo dello sviluppo di marca occidentale, il petrolio, riveste comunque una posizione centrale tra gli interessi che la animano, così come ben dimostrano l’interesse dell’Isis e dei suoi alleati tutt’altro che nascosti e i loro traffici milionari attraverso le frontiere. Ma in cui anche i migranti, più che un pericolo come quello sbandierato dai difensori dei confini occidentali, diventano autentica carne da vendere e macellare, in vista di un maggior profitto, nel mercato mondiale della miseria, dell’emarginazione e dello sfruttamento (sia lavorativo che sessuale o militare).

Ma è proprio questa sua nascita dalla modernità, al di là dello sventolamento utopico di un mitico Califfato ispirato ad un passato sempre travisato, a rendere attualmente l’ideologia dell’Isis e la sua pratica così irriducibili alla mera sconfitta militare.
Nell’Isis e nelle sue pratiche organizzative, nella sua violenza sistematica e nelle sue politiche di dominio si rispecchia la “nostra” società egoista, solitaria, sessista, razzista, classista ed escludente. Il mostro, se così vogliamo chiamarlo anche se con un tal genere di definizione si rischia sempre di cadere nella retorica e nelle semplificazioni, l’abbiamo partorito noi. Certo non, o non soltanto, la millenaria, e troppo spesso travisata, tradizione dell’Islam.

Le complesse burocrazie che governano ogni atto e ogni amministrazione territoriale dello Stato islamico, compreso un complesso sistema di welfare, così ben descritte da Sara Montinaro nella prima parte del suo testo, ricordano le burocrazie complesse non soltanto delle dittature ma anche degli stati sedicenti democratici come quello in cui viviamo. L’uso indiscriminato e abile delle risorse della Rete per arruolare, coinvolgere, convincere i futuri adepti di ogni nazionalità e quello dei social di ogni tipo per permettere loro sia di ritrovarsi in una comunità o umma virtuale che di contattarne le strutture clandestine attraverso Face Book, Instagram, Twitter e, oggi, anche TikTok, non rinvia ad altro che all’uso che oggi viene fatto quotidianamente, e con gli stessi obiettivi formali, non solo dai disseminatori di fake news, ma anche da opinionisti, influencer e capi di Stato.

Sono le abitudini a governare il male, non una forma specifica di devianza culturale e soggettiva. E sono spesso i soggetti deboli a cercare un appagamento nell’esercizio di un potere e di una violenza che per un attimo, forse i famosi quindici minuti di cui parlava Andy Warhol, li rende super-uomini oppure super-donne. Pienamente giustificati e motivati nel loro agire meccanico dal potere della norma abitudinaria. Proprio come sostenne Hannah Arendt a proposito dell’imputato e delle sue azioni scellerate durante il processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 19612.

Se così non fosse, come spiegare la condizione e le convinzioni delle “spose di Daeş” che l’autrice ha potuto indagare da vicino, all’interno dei campi profughi e di detenzione di Al-Hol e Roj. Condizioni che se da un alto vedono lo sfruttamento sessuale delle donne yazide, letteralmente tratte in schiavitù dall’Isis con l’unico fine di trarre vantaggio dalla vendita e dall’uso dei loro corpi, dall’altra vedono la convinta partecipazione al ruolo di spose dei combattenti e madri dei loro figli di migliaia di donne, spesso straniere. Donne che spesso, come i e le kapò di ogni campo di concentramento che si rispetti, diventano le peggiori aguzzine delle loro simili e, talvolta, anche degli uomini rinchiusi insieme a loro.

Al-Hol è un campo profughi che si trova lungo il confine siriano iracheno tra le montagne calde e steppose del deserto; […] Diviso in otto sezioni, al momento ospita circa 69.000 persone: il 65% sono bambini, il 30% donne e il 5% uomini. Delle otto sezioni, tre sono dedicate a famiglie irachene, quattro ospitano famiglie siriane e euna è un mix tra le due nazionalità. Accanto a queste sezioni vi è l’Annex, che ospita le famiglie [dei combattenti dell’Isis] provenienti da tutto il mondo. Al momento della mia visita nell’Annex si potevano contare cinquantaquattro diverse nazionalità provenienti, per la maggior parte da Europa, Africa (paesi maghrebini), India, Turchia e Russia (in particolar modo dal Kazakistan)3.

E’ considerato uno dei luoghi più pericolosi al mondo come spiega una comandante YPJ che ne supervisiona il servizio di sicurezza.

«Dopo la campagna militare avviata dalla Turchia a Serê Kaniyê, la situazione è peggiorata; come se si fossero risvegliati. Gli omicidi avvengono per lo più nella zona irachena, mentre all’interno dell’Annex bruciano le tende di chi pensano voglia collaborare con noi. […] Nella parte irachena è ancora più complicato. Lì ci sono pochi uomini e hanno paura delle donne. Fanno quello ch edicono loro».
All’interno del campo c’è un problema di sicurezza reale. Queste donne non hanno paura di niente e sono in attesa del ritorno del Califfato. Ne sono convinte e te lo dicono senza alcuna remora […] Le donne straniere, in particolare, sono le più pericolose: con un’istruzione superiore, sono consapevoli del proprio status e dei diritti di cui godono: “Sono una rifugiata di guerra come tutte le altre, quindi devo aver accesso ai miei diritti”, mi diceva Abd Almanya, una donna tedesca tedesca che si trova all’interno del campo. I suoi occhi azzurri e la carnagione chiara non lasciavano spazio a fraintendimenti sulla sua nazionalità: “Ho studiato alla Business School in Germania poi sono venuta qui con mio marito. La Germania che dice di esere un paese democratico, che cosa fa? Non voglio rientrare lì, non potrei seguire il mio credo religioso. Ma sono una rifugiata come tutte le altre e rivendico i miei diritti”.
«Loro arrivano da Hajin e da Baghouz,» mi spiega Amina, la comandante, «mentre chi aveva perso fiducia in Daeş aveva iniziato già ad arrendersi dopo la battaglia di Raqqa, queste sono persone che hanno continuato a combattere fino all’ultimo! Queste sono le più pericolose perché ci credono davvero. Si sono riorganizzate all’interno del campo, proprio come se fossero nel Califfato. C’è la hisbah, la loro polizia religiosa […] I bambini a nove anni sanno come costruire un rudimentale esplosivo utilizzando il materiale che c’è nel campo […] Sono disposte a tutto. Adesso le donne, quelle più carismatiche, passano tenda per tenda, fanno lezione di Corano ai bambini e insegnano loro l’ideologia di Daeş.»4

La questione dell’istruzione rivela poi ancora un altro aspetto, non secondario, degli aderenti e dei combattenti dello Stato islamico, poiché un buon numero di questi ha un livello di formazione scolastica superiore o universitario. Alcuni sono ingegneri, altri medici (cosa che ha permesso il funzionamento degli apparati amministrativi del Califfato) e questo deve suggerire la necessità di una battaglia che non può essere condotta soltanto sul piano militare, ma anche culturale.

Nel corso degli ultimi anni i confini della “Fortezza Europa” ci sono stati raccontati come qualcosa da difendere a tutti i costi, ma ciò che la storia ci narra è che i confini sono limiti dei popoli e l’unica cosa da difendere è l’umanità tutta. E non per una semplice questione di solidarietà, ma per un amore comunitario basato sul principio di coesione, dignità e libertà. L’essere umano è l’animale più debole sulla Terra. E’ l’unico animale che, sin dalla sua nascita, ha bisogno della cura di qualcuno per poter sopravvivere […] Questo ci insegna che siamo in grado di sopravvivere solo in una forma di cooperazione e solidarietà reciproca. In un mondo in cui avanza una politica dell’odio e una politica della barbarie, è arrivato il momento di rimettere al centro l’essere umano in quanto tale e costruire relazioni in cui l’amore diventi uno strumento per resistere a chi ci vuole indifferenti, individualisti e soli 5.

Un bel sogno? Un’utopia? Un mondo in cui le donne possano sfuggire alle logiche del patriarcato e fondare un nuovo modo di intendere i rapporti sociali sta forse già nascendo con il confederalismo democratico del Rojava, utopia concreta che potrebbe contribuire alla sconfitta dell’Isis e del mondo che lo ha reso possibile. Esattamente come ci suggerisce l’autrice di questo agile, coinvolgente e ben documentato saggio.


  1. S. Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 155-156  

  2. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli Editore, Milano 2001 (prima edizione italiana 1964)  

  3. S. Montinaro, op. cit. p.121  

  4. ibidem, pp.121-123  

  5. ivi, pp. 157-158  

]]>
La guerra che viene/1: Le porte dell’Inferno si sono dischiuse a Bagdad https://www.carmillaonline.com/2020/01/04/la-guerra-che-viene-1-le-porte-dellinferno-si-sono-dischiuse-a-bagdad/ Sat, 04 Jan 2020 22:52:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57252 di Sandro Moiso

Il brutale omicidio del generale dei corpi speciali iraniani per le operazioni all’estero (Divisione Quds) Qassem Soleimani, avvenuto a Bagdad ad opera di un drone o, forse, di elicotteri americani alzatisi in volo in quei minuti, è già stato paragonato, da un importante membro per l’Iran del think tank International crisis group, Ali Vaez, all’omicidio di Francesco Ferdinando avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914 che, nella sostanza, avrebbe scatenato il primo macello interimperialista .

In effetti la situazione scaturita dall’azione americana può essere ben definita come “momento Francesco [...]]]> di Sandro Moiso

Il brutale omicidio del generale dei corpi speciali iraniani per le operazioni all’estero (Divisione Quds) Qassem Soleimani, avvenuto a Bagdad ad opera di un drone o, forse, di elicotteri americani alzatisi in volo in quei minuti, è già stato paragonato, da un importante membro per l’Iran del think tank International crisis group, Ali Vaez, all’omicidio di Francesco Ferdinando avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914 che, nella sostanza, avrebbe scatenato il primo macello interimperialista .

In effetti la situazione scaturita dall’azione americana può essere ben definita come “momento Francesco Ferdinando” proprio perché sia a livello internazionale che nello specifico dell’area mediorientale i fattori destinati a dar luogo ad un nuovo e devastante conflitto globale sono andati accumulandosi in maniera esponenziale nel corso degli ultimi anni. Tanto che sarebbe qui impossibile elencarli tutti in una rapida sintesi.1

L’azione di stampo terroristico, voluta, a quanto pare, direttamente dal presidente americano e capo delle forze armate statunitensi, si inserisce in un quadro che però è ben distante da quello troppo superficialmente disegnato da coloro che nell’unico deus ex-machina imperialista e americano vedono accumularsi tutta la volontà, le responsabilità e la pianificazione dell’attentato e delle sue conseguenze.

Se la scelta scellerata di Donald Trump si inserisce in un clima da campagna elettorale interno piuttosto movimentato dalla richiesta di impeachment formulata dal Congresso nelle scorse settimane, è altrettanto vero che lo “scandalo” urlato e recitato dai membri del Partito Democratico, Nancy Pelosi in testa, è piuttosto ridicolo considerata l’attitudine guerrafondaia dimostrata dagli ultimi quando erano al governo (stesse modalità di eliminazione fisica dei nemici attraverso l’uso dei corpi speciali, come quella di Osama Bin Laden) o si apprestavano a tornarvi (si pensi al curriculum finanziario-bellicista di Hillary Clinton), anche senza tornare ai tempi di Kennedy della Baia dei Porci o di Johnson col Vietnam. E’ chiaro dunque che il primo scontro interno agli Stati Uniti passa tutto attraverso una propaganda elettorale che rischia di scatenare un’autentica tempesta a livello globale.

Il secondo elemento, tutt’altro che secondario, sul fronte statunitense riguarda sicuramente anche il previsto aumento del costo del petrolio che potrebbe scaturire già dall’attentato e in previsione delle sue conseguenze: il petrolio e il gas americani sono ancora cari, ma gli Stati Uniti da tempo dichiarano di avere raggiunto l’autosufficienza energetica. Tale costo si rifletterebbe pertanto principalmente sui competitors europei, obbligandoli a schierarsi per convenienza economica con i padroni di una fetta importante del cosiddetto oro nero: americani e arabo-sauditi.
Vantaggio economico e geopolitico con cui gli interessi nordamericani possono continuare a premere sulla già moribonda comunità europea.

La sicurezza degli interessi statunitensi passa infatti maggiormente attraverso questo tipo di azione ricattatoria più che attraverso l’azione militare che ne costituisce il corollario. Da sempre.
Anche se poter schierare mezzi e uomini e muovere flotte di mare e aeree con rapidità in ogni parte del mondo dovrebbe e potrebbe costituire ancora un valido strumento di pressione su qualsiasi tipo di avversario. Una propaganda nei fatti dell’American Way of Life che trova nell’omicidio e nel terrorismo scatenato a livello di massa il suo principale strumento di convinzione, ancor più che nella produzione di immaginario hollywoodiano.

Ma, come si diceva all’inizio, l’azione dei droni americani si inserisce in un contesto in cui tale propensione americana all’uso della forza non rappresenta solo la forza della Land of the Free, ma anche tutta la sua debolezza. Debolezza politica innanzitutto, ma anche economica (avendo perso da tempo il primato mondiale a vantaggio della Cina).
Debolezza politica che si è manifestata nel corso degli ultimi anni con i due golpe falliti in Turchia e in Venezuela2 ed economica che si manifesta nella perdita di quote importanti di mercato mondiale e il ricorso a sotterfugi finanziari e speculazioni che al loro esplodere faranno impallidire le crisi del 2008 e del 1929.3 Al di là delle muscolari prove di forza sui dazi (imposti, lo ricordo sempre, a cinesi ed europei). Mentre anche il dollaro sembra perdere sempre più il proprio appeal sui grandi investitori a livello mondiale (qui). Un declino che si manifesta anche nel gran numero di poveri e di homeless presenti negli Stati Uniti e che le promesse elettorali di Trump potranno al massimo portare a morire in guerra invece che di fame ai bordi delle sue strade. Una volta che le truppe arrivate dal cielo e dal mare dovranno posare gli stivali sul suolo nemico.

Declino di cui sembrano voler approfittare da tempo avversari e presunti amici dell’Impero a stelle e strisce, per ricavarsi un nuovo spazio di protagonismo politico, militare ed economico sullo scacchiere internazionale. Guarda caso un buon numero di questi (Israele, Turchia, Arabia Saudita e Iran) si trovano proprio a confliggere nell’area in questione, mentre nella stessa sembra veder risorgere le proprie aspirazioni geopolitiche e diplomatiche la Russia dell’abile e spregiudicatissimo Vladimir Putin.

Ci piaccia o meno, infatti, in quell’area sta avvenendo (come d’altra parte all’altro capo del mondo) una trasformazione epocale, che vede protagonisti paesi che una vulgata ritardataria e superata dalla Storia (anche a sinistra) vuole vedere come arretrati, complementari e completamente sottomessi al giogo occidentale. In realtà sono proprio i conflitti sociali sorti negli ultimi mesi in Libano, Iraq, Iran come in Cile e nel resto del Sud America a comunicarci che l’unione tra le forze proletarie e popolari e le classi al governo si è ormai completamente consumata e che nel pieno dispiegarsi della modernità nazionale il conflitto diventa irrinunciabile. Sia sul piano sociale interno che su quello militare internazionale.

Turchia, Iran e Arabia Saudita (soltanto per citare l’area che qui più ci interessa) sono nazioni che giocano già le loro carte in vista di un ruolo politico ed economico internazionale che non potrà più a lungo essere negato loro, se non dai propri popoli in rivolta.
Non comprendere ad esempio che, sicuramente, l’assalto all’ambasciata statunitense di Bagdad nei giorni scorsi, da parte delle milizie irachene filo-iraniane, ha rappresentato un diversivo ad uso interno per cercare di frenare le proteste, legate spesso proprio alla popolazione sciita, contro la corruzione del governo, il malaffare e la mancanza di lavoro per i giovani, e vedere tutto soltanto in un’ottica vetero anti-imperialista può far sì che si giunga travisare parecchio i fatti. Magari giungendo a tirar fuori il solito complottismo giudaico, ancor prima che sionista.

Certo che l’occasione di un conflitto piacerebbe anche ad Israele e soprattutto al sempre più debole premier Benjamin Netanyahu, proprio per uscire dai guai politici interni che hanno condannato lo Stato sionista a tornare più volte al voto nello stesso anno e ancora per quello a venire, probabilmente senza grandi possibilità di risoluzione della crisi interna. Mentre ogni nuova guerra nell’area può sempre fornire ad Israele la possibilità di allargare i suoi confini, ai danni di Gaza, della Cisgiordania, della Siria e, magari, questa volta anche del Libano; nella speranza di regolare una volta per tutte i conti con la resistenza palestinese e gli hezbollah.

L’Arabia Saudita ha problemi sia interni che finanziari (legati ad una enorme riduzione delle sue riserve petrolifere), nonostante il presunto e strombazzato rinnovamento legato al progetto Vision 2030; internazionali (la guerra prolungata e costosa, ma senza risultati, nello Yemen in cui comunque si sta già scontrando con forze appoggiate dallo stesso Iran), il drammatico affaire Khasshoggi (in cui tutto il mondo ha potuto cogliere lo zampino criminale del principe ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud) e di controllo dei propri impianti petroliferi e delle rotte navali ad essi collegate.4 La guerra potrebbe servire per definire una volta per tutte il primato petrolifero tra gli stati che si affacciano sul Golfo e per il controllo degli stretti e delle vie marittime e degli oleodotti per il trasporto del greggio. Magari incrementando ancora il valore delle azioni della Saudi Aramco, la compagnia petrolifera saudita da poco tempo quotata in borsa (qui).

Anche l’Iran, ormai stella di prima grandezza politica e militare nell’area, ha la necessità di risolvere i problemi legati ai propri equilibri interni: sia sociali che politici di apparato. E’ risaputo che Soleimani poteva essere considerato il braccio destro di Ali Khamenei e come possibile futuro presidente. Ma accanto e intorno al regime si muovono forze più giovani e radicali, legate ai pasdaran e all’industria bellica, che nella scomparsa di Soleimani possono vedere allargarsi il proprio peso politico. Iniziando già da subito a suonare le fanfare delle piogge di razzi e colpi di mortaio sulla Green Zone della capitale irachena e sulla base aerea di Balad.

La Turchia del sultano Erdogan, infine, sarà quella che cercherà di trarre più vantaggio dalla fase attuale: sia nei confronti degli Stati Uniti (chiudendo come sembra abbia già fatto nei giorni scorsi lo spazio aereo intorno alla base aeronautica di Inciclirk, impedendone così l’uso da parte dell’aviazione americana già impegnata a trasferire uomini e mezzi nell’area del possibile conflitto), sia nei confronti dell’Europa minacciando una sua riconquista della Libia con conseguente controllo sia delle aree petrolifere che delle rotte delle migrazioni internazionali. Tornando ad occupare un territorio perso a vantaggio dell’Italia nel 1911, la novella potenza ottomana potrebbe spartire con i russi (che virtualmente appoggiano Haftar) il petrolio e il gas libico e allo stesso diventare la padrona incontrastata delle rotte verso l’Europa, sia balcaniche che mediterranee, dei milioni di migranti che fuggiranno dalla guerra. Oltre a poter fare ciò che vorrà nel Nord della Siria e nel Rojava.

Un mondo nuovo sta venendo alla luce. Un mondo che non per forza deve piacerci o con cui dobbiamo schierarci a favore o contro. Un mondo che comunque cambierà radicalmente gli equilibri (e le analisi) a cui da troppi anni ci siamo assuefatti, dando per scontato ciò che già non lo è più. Un mondo in cui nuove potenze capitalistiche, estrattiviste e finanziarie oltre che militari dovranno per forza competere tra di loro e con i vecchi giocatori alla roulette delle errabonde fortune del capitale e dell’imperialismo, regionale o internazionale che sia, per sopravvivere ed affermarsi come tali.
Les jeux sont faits, rien ne va plus!

E’ proprio tutto ciò, e non solo il fatto che diverse delle nazioni interessate (Arabia Saudita e Iran soprattutto, ma anche per altri versi il Venezuela) detengono alcune delle riserve più grandi di petrolio e gas insieme a USA e Russia oppure che siano divise dal credo religioso (sunniti, sciiti, ebrei), a determinare il reale pericolo di una guerra allargata. Molto di più di quando USA e URSS si spartivano allegramente il pianeta fingendo di fronteggiarsi digrignando i denti ad uso di spettatori distratti oppure imbevuti di ideologie e visioni del mondo oggi morte e sepolte.

I veri esclusi in tale gioco, ridotti al ruolo di testimoni imploranti o, al massimo, di attori di secondo piano o di comparse, sono gli europei. La vecchia Europa, presunta cristiana e democratica, ma intimamente fascista, resta alla finestra. Balbetta oppure spara stronzate come quelle di Salvini a favore di Trump. Ma è sostanzialmente imbelle, divisa al suo interno. Con una politica estera che piuttosto che essere comune vede il trionfo degli interessi nazionali e un gioco al massacro in cui la Francia, pur di veder cancellato il precedente vantaggio delle società petrolifere italiane in Libia preferisce perdere tutto a vantaggio di Haftar, dell’Isis o della Turchia.

L’Italietta dei Mattei, di Luigino e dei Giuseppi si troverà in prima linea senza averlo neanche deciso, mentre già da questi giorni le forze aeree e di terra americane hanno iniziato ad usare in maniera massiccia le basi di Aviano e Vicenza e gli impianti radar e di contollo dei droni distribuiti sul territorio nazionale da Sigonella al nord (qui). Il tutto senza nemmeno una telefonata pro-forma del falco Pompeo al titolare del Ministero degli Esteri italiano. Altro che pericolo per le forze mercenarie italiane dislocate all’estero di cui i media vanno blaterando: lo scoppio di una guerra in Medio Oriente vedrà in futuro in prima linea la popolazione civile italiana, esposta alle ritorsioni di qualsiasi avversario dotato di missili a media e lunga gittata.

L’Europa degli Stati è finita. Una nuova epoca potrebbe ricominciare soltanto dal diffondersi delle lotte sociali e ambientali, dal basso e di classe, mentre le sardine trasformate in struzzi dal precipitare degli eventi continueranno a blaterare, con la testa ben coperta di sabbia, di non violenza e di equiparazione della violenza verbale a quella fisica. Autentici morti in piedi in attesa di una morte reale che arriverà attraverso le porte dell’Inferno che potrebbero spalancarsi a partire da Bagdad.

Ancora una volta la violenza sarà levatrice della Storia: una violenza spietata e distruttiva, rapace e implacabile che solo la rivolta dei popoli e di coloro che si opporranno alla guerra, senza parteggiare per nessuna delle nazioni coinvolte ma in nome di una superiore comunità umana, potrà rovesciare nell’atto di nascita di un’altra nuova e più egualitaria società. Libera dal profitto, dal lavoro coatto e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo su una Natura considerata come separata dalla specie e dai suoi interessi fondamentali.


  1. A questo proposito preferisco rinviare al mio testo La guerra che viene, Mimesis 2019; in particolare alla Prima sezione, Sangue sul Medio Oriente ( e non solo), pp. 41-110  

  2. Per la Turchia si veda il mio https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ contenuto anche in La guerra che viene, op.cit.  

  3. Si veda come esempio recente: https://it.businessinsider.com/il-jaccuse-del-re-dei-giornalisti-finanziari-il-capitalismo-e-nelle-mani-dei-capitalisti-senza-capitale/  

  4. Sono proprio dei giorni scorsi le manovre navali congiunte tra Russia, Cina e Iran, tra l’Ocean Indiano e il Golfo di Oman, denominate Cintura di sicurezza marina.  

]]>
Hadi Danial su Epicrisi, opera del poeta palestinese Ashraf Fayadh https://www.carmillaonline.com/2020/01/04/hadi-danial-su-epicrisi-opera-del-poeta-palestinese-ashraf-fayadh/ Fri, 03 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56871 di Hadi Danial 

[Il 14 dicembre 2019 alle ore 18 si è tenuta alla libreria Griot a Roma la presentazione della traduzione della seconda raccolta di Ashraf Fayadh in italiano, Epicrisi (a cura di Sana Darghmouni). Erano presenti all’incontro la traduttrice Sana Darghmouni (Università di Bologna), il poeta e scrittore marocchino Hassan Najmi, il poeta ed editore siriano Hadi Danial, l’editrice Valeria di Felice (DiFelice Edizioni) con la moderazione del ricercatore e professore Simone Sibilio (università Ca’ Foscari, Venezia). Ashraf Fayadh è un poeta, regista, pittore e curatore di mostre di [...]]]> di Hadi Danial 

[Il 14 dicembre 2019 alle ore 18 si è tenuta alla libreria Griot a Roma la presentazione della traduzione della seconda raccolta di Ashraf Fayadh in italiano, Epicrisi (a cura di Sana Darghmouni). Erano presenti all’incontro la traduttrice Sana Darghmouni (Università di Bologna), il poeta e scrittore marocchino Hassan Najmi, il poeta ed editore siriano Hadi Danial, l’editrice Valeria di Felice (DiFelice Edizioni) con la moderazione del ricercatore e professore Simone Sibilio (università Ca’ Foscari, Venezia). Ashraf Fayadh è un poeta, regista, pittore e curatore di mostre di origine palestinese, nato e cresciuto nel regno Saudita. Ha partecipato alla Biennale di Venezia, rappresentando in tale occasione l’Arabia Saudita e la sua arte. Nell’estate del 2014, Fayadh è stato processato per accuse di apostasia relative alla sua raccolta di poesia “Le istruzioni sono all’interno”, che da allora è stata ritirata dalla circolazione, ma poi pubblicata in Libano nel 2008 dall’editore Dar al-Farabi.

Nel febbraio del 2019 è uscita la seconda raccolta di Ashraf Fayadh pubblicata in lingua originale dalla casa editrice tunisina Diyar. Nel settembre dello stesso anno la raccolta è stata tradotta in italiano da Sana Darghmouni e pubblicata dalla casa editrice Di Felice Edizioni.  Si tratta di 26 poesie scritte dal carcere, dove il poeta sta scontando una pena a 8 anni di reclusione e 800 frustate dopo la sua condanna per apostasia. Il volume tradotto in italiano comprende anche due prefazioni di Paolo Branca e Massimo Campanini. Attraverso questi testi il poeta presenta e descrive una serie di esperienze diverse che si alternano tra di loro all’interno della psiche umana e che toccano le sue sfere più sensibili e sacre, dimostrando una grande capacità espressiva. Il poeta ed editore siriano Hadi Danial ha partecipato all’incontro di Roma con questa relazione, la cui traduzione riportiamo di seguito.]

Hadi Danial – Roma 14/12/19 (trad. a cura di Sana Darghmouni) 

Buonasera! Per iniziare vorrei esprimere la mia profonda gratitudine all’amica, la prof.ssa Sana Darghmouni, perché mi ha permesso di essere su questo palco conoscitivo e militante circondato dalle vostre coscienze vive e dai vostri nobili cuori che battono per il destino di uno degli artisti creativi della bellezza umana la cui sorte da anni è quella di considerare con le ali di un’aquila le sbarre della propria prigionia, osservando con l’orgoglio del disperato come si accumula il silenzio e come esso possa diventare “una brutta abitudine praticata da tutti” di fronte alla sua crudele sofferenza. Un silenzio spietato che assedia il nostro amico comune, Ashraf Fayadh, non solo nel regno delle sabbie e dell’olio delle rocce nere dove è nato e cresciuto.

Questo folle silenzio ha contaminato tutta la nostra regione, soprattutto dopo aver invaso gli ambienti culturali e quelli dei media in cui la notizia della condanna a morte del poeta ha fatto esplodere grida di stupore e perplessità, e non tanto di disapprovazione e rivolta. E le grida che sono state subito spente dai venti del petrodollaro del Golfo che ha trasformato la maggior parte degli intellettuali arabi in tecnici della conoscenza, tranne alcune eccezioni che, purtroppo, non erano destinate a diventare una forza che fa pressione in comparazione con il vivo attivismo con cui persevera la prof.ssa Sana Darghmouni insieme alle sue colleghe e ai suoi colleghi, discendenti di Gramsci, con un entusiasmo che non si spegne. Anche le coscienze di coloro che sono stati scossi dalla notizia della condanna a morte nella nostra zona araba, sono tornate al loro antico letargo dopo aver appreso che la condanna era stata ridotta a otto anni di carcere e 800 frustate.

Tranne Sana e le sue compagne e compagni del popolo italiano amico, come se trascinassero la causa al posto di tutti noi dall’est fino all’ovest dei nostri paesi. E così la libertà di questo poeta rinchiuso ingiustamente è diventata una componente della causa personale di ognuno di loro. E sono stato fortunato quando l’amica Sana mi ha onorato e coinvolto parzialmente in questo grande lavoro nel momento in cui mi ha proposto di pubblicare la nuova raccolta di Ashraf tra le opere della casa editrice che ho fondato di recente a Tunisi. E questa è la seconda ragione della mia gratitudine nei suoi confronti.

Quando ho ricevuto la bozza di Epicrisi e ho cominciato a leggerla, avevo già deciso tra me e me di pubblicarla, spinto dal mio sentimento di solidarietà con un giovane palestinese che paga il prezzo di un’interpretazione ignorante e folle da parte delle istituzioni di una potenza araba, per via di un’espressione scritta dall’innocenza di un giovane poeta. Non avevo letto nulla di lui prima. Ma la lieta sorpresa è che mi sono trovato in presenza di una scrittura poetica che non ha precedenti per la sua capacità di spingere a pensare e immaginare allo stesso tempo. Con un tono tranquillo che strappa il fulmine dai vulcani dormienti nell’inconscio del lettore. Una scrittura libera che umanizza gli elementi essenziali della natura e dei suoi derivati e dialoga con i pianeti dell’universo e le sue galassie in approcci estetici affascinanti.

E da questi voli universali passa con una facilità non forzata ai dettagli quotidiani e intimi che sciolgono e si sciolgono in tenerezza e dolcezza. Queste atmosfere universali si risolvono in metafore dell’immagine e approcci sull’amore, la morte e la noia, la libertà e la patria, “che calza una scarpa della libertà consumata come il resto dei valori umani”[1], oltre che nella compattezza della struttura del testo e nel suo stile facile difficile. Tutto questo fa del testo di Ashraf Fayadh un testo degno di abbandonare la gabbia della lingua araba affinché i suoi uccelli possano posarsi sui rami degli alberi delle lingue del mondo. E qua esprimo la mia gratitudine all’amica Sana per il suo sforzo di far volare gli uccelli della penna di Ashraf nei boschi e nel cielo della lingua italiana.

Dopo la pubblicazione di Epicrisi dalla casa editrice Diyar a Tunisi, la notizia avrebbe dovuto attirare la curiosità delle élite politiche e letterarie, tunisine e arabe, soprattutto perché si tratta di un libro di un palestinese ancora imprigionato in un carcere della famiglia reale saudita. Ma purtroppo la metà delle cinquecento copie che abbiamo stampato sono ancora nei magazzini della casa editrice. La poesia non è più il diwan (“il libro di memorie”) degli arabi e il libro non è più il loro miglior compagno.

In quanto alla Palestina, si è trasformata in uno degli slogan che vomitiamo con la stessa velocità con cui la mastichiamo e inghiottiamo come altri slogan, quali libertà, democrazia e diritti dell’uomo, ma sono tutti usati nelle nostre guerre di parte. E in questo contesto alcuni hanno provato a strumentalizzare la causa di Ashraf Fayadh e sono stato invitato con generosità avvelenata (e non ho accettato gli inviti ovviamente) ad andare a Beirut e ad altre città per partecipare a programmi in alcuni canali come Aljazeera e Turchia Arabia per parlare di Ashraf, del suo libro e della sua causa. Ma non  per premura di questi per la libertà di espressione, quanto per utilizzare la causa di Ashraf nel conflitto di Doha e Ankara contro Riad. La realtà è che le autorità del Qatar avevano condannato a morte un poeta del Qatar e hanno ridotto la pena a 15 anni perché aveva composto una poesia in dialetto in cui elogiava la primavera araba e la sua partenza da Tunisi per cui non possiamo parlare eticamente da un palco del Qatar della causa di Ashraf e delle cause della libertà di espressione in generale. E il paradosso è che l’invito più generoso mi è stato rivolto dal canale americano Alhurra, il canale della potenza più grande, nota per essere la causa essenziale dietro l’impossibilità del popolo di Ashraf Fayadh di ottenere i suoi diritti legittimi nel decidere il suo destino e costituire la sua patria indipendente sul suo suolo nazionale. Allo stesso modo Washington gestisce le guerre usando lo slogan della “esportazione della democrazia” e della “libertà di pensiero e dei diritti dell’uomo” nella nostra regione, ma è la stessa potenza che sostiene il regime saudita nelle cui carceri si trova Ashraf perché è considerato un poeta apostata. E fabbrica il terrorismo religioso espiatorio, installandolo nelle nostre società e nei nostri paesi per poi usarlo come pretesto per interferire nelle nostre questioni interne, sempre con la scusa di combattere il terrorismo. La politica americana non nasconde il fatto che ciò che le interessa nella nostra zona non siano l’uomo o la sua vita sulla Terra, quanto piuttosto ciò che c’è sottoterra come il petrolio, il gas e i metalli. Perciò vuole che la consideriamo come “i gatti randagi”, di cui parla il nostro poeta in Epicrisi, considerano noi. I gatti randagi “ci credono divinità pronte a dispensare loro nutrimento” e Washington vuole che ci rifugiamo in lei per proteggerci dal “male dei gatti selvatici”, che rinnegano la misericordia dell’uomo[2] (e Israele è “troppo elevata” per essere il “gatto regionale selvatico” presso le divinità americane, ma potrebbe esserlo l’Iran ad esempio). Nonostante questo, l’arroganza americana scommette sulla possibilità di impiegare qualunque intellettuale arabo per promuovere il suo discorso deviante che pretende di “tutelare” la libertà di espressione nelle sue zone protette nel Golfo.

Ashraf Fayadh è ora senza inchiostro e senza colori, e noi con tutti i nostri inchiostri, colori e con le nostre gole, siamo incapaci di parlare e descrivere al posto suo, quindi non esiste un’alternativa alla necessità di rompere le sue catene e intensificare i nostri tentativi perseveranti per costringere il suo carceriere ad aprire la sua cella e fargliela lasciare definitivamente.

Infine, mi preme far presente che la questione di Ashraf Fayadh è una questione complessa, è una causa di libertà d’espressione quanto anche una questione di un popolo che soffre sotto il giogo della più lunga ingiustizia mai conosciuta dalla storia dell’umanità contemporanea, causata dalle avidità economiche e politiche del colonialismo occidentale, dal momento in cui ha spostato il progetto sionista dal Sud Africa e dall’America Latina in Palestina. E da allora è come se ogni palestinese nascesse prigioniero o martire nella Palestina occupata o nel mondo, è come se l’umanità dopo tante generazioni non potesse di fronte a ciò che reagire semplicemente con reverenza sottomessa nel tempio dei dolori. Se ci riuniamo oggi e domani per la vittoria del poeta prigioniero e del suo discorso libero, significa che il discorso poetico in Epicrisi è universale e la preoccupazione palestinese in questo discorso ha più di una chiave:

“Noialtri cerchiamo di imitare la terra nella sua capacità di resistenza,

ma alla terra manca un sistema nervoso!”[3]

E anche se il poeta fa parte di una generazione nata fuori dalla Palestina, egli non nasconde la sua brama e la brama del suo popolo per una patria, e invidia persino i batteri perché l’acqua inquinata fa degli intestini fini una patria ideale per loro:

“I batteri sono fortunati

Perché non hanno un vero problema a trovare una patria!”

Questo poeta insegue ancora la luce, perché “il buio fa paura anche se ad esso ci si abitua”.

Perciò non dobbiamo sconfortarci leggendo il suo grido con cui ha concluso Epicrisi:

“Mi rosica dentro la consapevolezza

E uccide ogni mia possibilità di sopravvivenza.

La consapevolezza mi uccide lentamente

Ed è davvero troppo tardi per trovare la cura.”[4]

Questo grido proveniente da una coscienza irrequieta, ci deve spronare di più non solo a lottare per la sua liberazione personale, bensì a liberare questo individuo-simbolo affinché si unisca a noi e ci conduca sulla strada della lotta più lunga verso la liberazione del suo popolo. Se personalmente sono deluso della condizione araba, impegnata nel suo sgretolamento e nelle sue guerre, il calore umano in questa sala avrà un’eco in altri luoghi e, senz’altro, nella lontana e fredda cella del poeta.

 

Proponiamo qui due estratti (cortesia di Di Felice Ed.):

Dentro il cielo

Il profumo della noia riempie la stanza,

il mio cuore, un libro marcio coperto da uno spesso strato di polvere,

il posacenere è troppo familiare

e i pensieri si attaccano alle pareti come mosche stanche.

Un ragno disoccupato si affaccia su alberi assonnati,

alcuni rumori all’esterno

e il freddo padroneggia sulla situazione.

 

Crepe di pelle

Il mio paese è passato di qua

calzando la scarpa della libertà…

poi se n’è andato, lasciando la scarpa alle sue spalle,

correva con un ritmo travagliato … come il ritmo del mio cuore,

il mio cuore che correva verso un’altra direzione … senza una giustificazione convincente.

La scarpa della libertà era consumata, vecchia e finta

come il resto dei valori umani in tutte le loro dimensioni.

Tutto mi ha abbandonato e se n’è andato … inclusa te.

La scarpa è un’invenzione sconcertante

dimostra la nostra ineleggibilità a vivere su questo pianeta,

dimostra la nostra appartenenza ad un altro luogo in cui non abbiamo bisogno di camminare molto,

o che il suo pavimento è arredato con ceramica economica … scivolosa!

Il problema non sta nello scivolare … tanto quanto nell’acqua,

nel calore … nel vetro rotto … nelle spine … nei rami secchi e nelle rocce appuntite.

La scarpa non è una soluzione perfetta

ma in qualche modo adempie allo scopo desiderato

esattamente come la ragione

e come la passione.

La mia passione si è estinta da quando te ne sei andata l’ultima volta,

non posso raggiungerti più

da quando sono stato detenuto in una cassa di cemento sostenuta da barre fredde di metallo

da quando mi hanno dimenticato tutti … a cominciare dalla mia libertà … e a finire dalla mia

scarpa affetta da una crisi di identità.

*traduzione di Sana Darghmouni

 

Link al libro e recensioni:

Feltrinelli on line – link

Ibs Libri – link

Da La macchina sognante-1

La macchina sognante-2

 

[1] Crepe di pelle.

[2] Le macchie difficili.

[3] Alla leggera.

[4] Ictus cerebrale.

]]>
La guerra che viene: in ricordo di Alan D. Altieri https://www.carmillaonline.com/2019/06/13/la-guerra-che-viene-in-ricordo-di-alan-d-altieri/ Wed, 12 Jun 2019 22:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52991 di Sandro Moiso

Due anni or sono, il 16 giugno 2017, Alan D. Altieri lasciava definitivamente la momentanea compagine umana per addentrarsi, probabilmente con un ghigno sul volto, in altre e per noi ancora precluse e sconosciute dimensioni. Sergio Altieri, questo il suo vero nome, laureato in ingegneria meccanica, è stato uno dei più importanti scrittori italiani di genere (action, thriller, science-fiction, poliziesco e altro ancora) degli ultimi quarant’anni e sicuramente uno dei più visionari, forse il più visionario in assoluto. Forse anche per questo collaborò frequentemente a “Carmilla”, dedita all’esplorazione delle varie forme dell’immaginario critico dell’esistente e diretta da [...]]]> di Sandro Moiso

Due anni or sono, il 16 giugno 2017, Alan D. Altieri lasciava definitivamente la momentanea compagine umana per addentrarsi, probabilmente con un ghigno sul volto, in altre e per noi ancora precluse e sconosciute dimensioni.
Sergio Altieri, questo il suo vero nome, laureato in ingegneria meccanica, è stato uno dei più importanti scrittori italiani di genere (action, thriller, science-fiction, poliziesco e altro ancora) degli ultimi quarant’anni e sicuramente uno dei più visionari, forse il più visionario in assoluto. Forse anche per questo collaborò frequentemente a “Carmilla”, dedita all’esplorazione delle varie forme dell’immaginario critico dell’esistente e diretta da un altro grande visionario della letteratura fantastica, al quale fu da sempre legato da una profonda amicizia.

Oltre a ciò Altieri è stato traduttore di opere come il ciclo di romanzi delle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” (Game of Thrones) di George R. Martin, di Raymond Chandler e Dashiell Hammett oltre che di Howard P. Lovecraft e di molti altri autori angloamericani ancora.
Ha lavorato per il cinema, anche per film importanti quali “L’anno del dragone” di Michael Cimino e “Velluto blu” di David Lynch, sia italiano che statunitense e si è cimentato con varie sceneggiature cinematografiche e televisive Oltre che essere stato direttore di svariate collane di letteratura di “genere” da edicola.

Un curriculum non di poco conto per una carriera che poteva già contare sulla pubblicazione di ben 19 romanzi e di cinque o sei antologie di racconti. Trame che si svolgono dal XVII secolo fino ad un prossimo e non meglio definito futuro in cui, comunque, a dominare la scena permangono l’avidità, la violenza, il desiderio di dominio politico, economico e religioso. Avvolte tutte da un clima cupo in cui, spesso, l’eroismo o la volontà, pur ferrea, dei singoli non basta ad evitare catastrofi, massacri e devastazioni paragonabili soltanto a quelle di cui ormai ci giunge l’eco quotidianamente.

Sì, perché il visionarismo catastrofista, la violenza selvaggia ed ineludibile che animano le sue pagine hanno i piedi ben piantati nella realtà che ci circonda e che accompagna da secoli il modo di produzione ancora dominante. L’appropriazione mafiosa, imperiale o privata della ricchezza socialmente prodotta è il motore che anima il dipanarsi delle vicende narrate e la devastazione sociale e morale è sempre seriamente correlata a quella ambientale. Altieri non ha mai avuto dubbi in proposito e proprio per questo i suoi scritti sono animati più dal cinismo che dall’imperturbabile e insopportabile buonismo, egualitarista e fasullo, di matrice cattolica che deturpa ancora gran parte della cultura, della letteratura, dell’immaginario politico contemporaneo.

La laurea in ingegneria meccanica, inoltre, gli ha sempre permesso di muoversi tra scienza, tecnologia e armi, antiche e moderne, con estrema disinvoltura e competenza, contribuendo così a definire uno stile narrativo che non esiterei a definire salgarianesimo tecnologico, in cui le conoscenze tecniche dirette gli hanno sempre permesso di arricchire di dettagli puntigliosi le sua cavalcate da una parte all’altra dello spazio geografico e del tempo storico.

Proprio per tutti questi motivi, forse, a dominare la scena dei suoi romanzi e racconti più significativi è quasi sempre la guerra, sia essa tra stati, imperi o bande criminali interessate al dominio dei traffici illegali di una megalopoli (spesso Los Angeles), di materie prime, del pianeta nel suo insieme o addirittura delle possibili risorse altre presenti nel cosmo. Cambiano le coordinate spazio-temporali, ma non i moventi e, conseguentemente, le azioni e le distruzioni che ne derivano.

Da questo punto di vista la trilogia di Magdeburgo, che descrive con rigore storico e violenza probabilmente mai vista prima in un romanzo storico la guerra dei Trent’anni, può forse rappresentare il punto di arrivo definitivo della sua opera narrativa. La descrizione di quella che fu sicuramente la vera “prima guerra civile europea”, delle sue devastazioni sociali, morali e psicologiche si presta infatti molto bene ad illustrare la poetica del cinismo e, talvolta, del nichilismo dell’autore. Dando vita ad esperienze ed avventure che lasciano davvero il lettore senza fiato.

Ma nonostante ciò, a mio personale avviso, il suo vero capolavoro è da annoverarsi tra le prime prove dell’autore milanese: L’occhio sotterraneo1, romanzo ormai da lungo tempo introvabile e che necessiterebbe di una sua ripubblicazione corredata da un adeguato commento e da una approfondita rilettura critica.

Romanzo della catastrofe assoluta, L’occhio sotterraneo narra di un futuro prossimo (all’epoca si ambientava a ridosso del 2000, ma ben poco è cambiato) in cui tra inarrestabili pestilenze, insormontabili crisi economiche, tempeste magnetiche scatenatesi nello spazio esterno, affermazioni di regimi di estrema destra nel cuore germanico dell’Europa e un devastante conflitto tra Stati Uniti (con i propri alleati arabo-sauditi ed israeliani) e Iran, l’umanità, o ciò che ne resta, si avvia al suo irreparabile tramonto.

Qui di seguito riproponiamo ai lettori le pagine centrali del momento in cui la Repubblica islamica iraniana, con l’uso di aviatori kamikaze (ricordatevi che il libro fu scritto nei primi anni Ottanta), assapora la sua vittoria sulla flotta americana nello stretto di Hormuz. Se ciò vi farà venire in mente qualcosa di attuale non stupitevene: la letteratura d’anticipazione viene così definita proprio per questo motivo.
Anticipa soltanto, non crea nulla o quasi.

Bahramali Atai sorrise mentre l’accelerazione della caduta gli calava un velo rossastro davanti agli occhi. Una voce irriconoscibile disse : “Allah è grande….”
L’aereo di Bahramali Atai cadde insieme al Martello di Allah: la bomba H da venti megaton agganciata ad esso.

Per primo venne il lampo.
Nessun rumore, nessuna vibrazione. Solamente luce. Diecimila volte più accecante della luce del Sole, un milione di volte più accecante della luce di Sigma del Drago.
C’erano molti uomini sulle tolde delle navi da guerra, coloro che al momento dell’esplosione stavano guardando verso il punto del cielo a metà strada tra la portaerei nucleare Harry Truman e la gigantesca petroliera Pacific Stream ebbero le cornee liquefatte e le retine carbonizzate all’interno dei bulbi oculari er il solo effetto della vampata luminosa.
Nessuno di quegli uomini ebbe il tempo di rendersi conto di essere diventato completamente cieco: Nessuno, né loro né gli altri, ebbe il tempo di rendersi conto di niente. Un sole di pura energia si accese. Dilagò in pochi millesimi di secondo, dilatandosi a sfera, un’unica mostruosa sfera di calore a dieci milioni di gradi centigradi di temperatura, una temperatura da nuclei stellari.
Qualsiasi cosa venne a trovarsi all’interno di quella sfera cessò di esistere, letteralmente. Atmosfera, acqua, acciaio, sabbia, roccia, corpi, tutto venne disintegrato in un titanico vulcano di raggi gamma, elettroni, neutroni e protoni che si allontanarono dal punto zero a una velocità prossima a quella della luce.
La Pacific Stream e la Harry Truman svanirono pressoché istantaneamente, le altre navi della squadra vennero cancellate nei trentun centesimi di secondo successivi all’esplosione. La palla di fuoco della bomba termonucleare da venti milioni di tonnellate di tritolo trasportata su Hormuz da Bahramali Atai vaporizzò le acque e inghiottì il sottomarino Sea Serpent. Continuò nella sua corsa, mise a nudo il fondale dello stretto facendolo ribollire in una palude di magma e scavando quello che in seguito sarebbe diventato un cratere subacqueo del diametro di otto chilometri e della profondità di due. La palla di fuoco crebbe e parve inghiottire l’intero universo.

Dopo il lampo toccò all’onda d’urto.
Soffiarono venti di un’intensità che non era mai esistita sulla faccia della terra.
L’onda d’urto cancellò tutte le isole di Hormuz: Qeshm, Larak, Hengan, Shantan; il promontorio di Mussandam. Quando raggiunse la città iraniana di Bandar Abbas, a cinquanta chilometri dal punto zero, la sua velocità si aggirava sui duecentocinquanta chilometri orari, con un carico cineico di dieci tonnellate per metro quadrato e con una temperatura di ottomila gradi. Bandar Abbas venne trasformata in un deserto fiammeggiante in undici secondi. Lo stesso accadde a qualsiasi insediamento nel raggio di centoventi chilometri dal punto zero. Le città degli Emirati Arabi Uniti svanirono una dopo l’altra, come insetti calpestati dai passi di un dinosauro.

I venti dell’onda d’urto arrivarono a Dubai e ad Ash Shariqah un’ora e ventisei minuti dopo l’esplosione. Erano venti deboli, poco più di una brezza. Riuscirono soltanto a sollevare la sabbia e a gettarla sulle migliaia di cadaveri che giacevano dappertutto.
La loro era stata una morte orrida ma per fortuna rapida, molto rapida: non più di cinque sei secondi. Nessuno può restare in vita più di otto secondi se viene sottoposto a un bombardamento di raggi gamma ad alta energia a tredicimila roentgen. Nessuno può restare in vita quando il sistema neurovegetativo viene disintegrato, quando le connessioni cllulari si spezzano, quando la stessa biochimica molecolare del metabolismo viene sbriciolata.
Il punto zero distava duecentocinquanta chilometri da Dubai, la radiazione intensificata diretta successiva alla palla di fuoco dell’esplosione H aveva impiegato appena pochi centesimi di secondo per coprire quella distanza: Se fosse scoppiata altrettanto lontana ma sul deserto, se fossero stati avvertiti in tempo, qualcuno a Dubai ce l’avrebbe fatta, forse. Ma era scoppiata sullo stretto di Hormuz, aveva trascinato nelle sue devastanti reazioni a catena anche tutte le centinaia di quintali di plutonio che formavano i reattori nucleari e le testate delle armi della Harry Truman e del Sea Serpent. Al potere di annientamento della deflagrazione termonucleare si era aggiunto quello di stermino delle emissioni neutroniche: la bomba di Bahramali Atai era diventata anche una superbomba a neutroni. Tutte le forme di vita nel raggio di duecento chilometri dal punto zero erano state distrutte.
Ash Shariqah era un cimitero. I cadaveri giacevano sulla sabbia, sull’asfalto, di traverso sulle tubazioni. Da qualche parte nella raffineria ci fu un’esplosione, le fiamme si levarono crepitando nell’aria satura di radioattività mortale. Il fuoco dilagò, giallo, torrido, ruggente. Inarrestabile.

Il fungo atomico, l’apocalittica costruzione di cenere , detriti e vapore acqueo, si era alzato fino a una quota di quranta chilometri sopra la verticale dello stretto.
Più in basso il fondale oceanico continuava a ribollire.L’esplosione di venti milioni di tonnellate di tritolo aveva provocato una scoss atellurica dell’ottavo grado della scala Richter dei terremoti, L’intero, delicato complesso di tensioni, compressioni e scorrimenti sotterranei tra le grandi zolle tettoniche iraniana e arabica lungo la linea di faglia del Golfo Persico aveva ricevuto un impatto equivalente alla nascita contemporanea di una mezza dozzina di vulcani.
La scossa tellurica attraversò il mantello terrestre, rimbalzò contro la massa ad altissima densità del nucleo e ritornò in superficie. I pennini dei sismografi schizzarono fuori scala in molte parti del mondo: da Ryad, in Arabia saudita a Sofia, in Bulgaria; da Tibilisi a Kandahar, in Afghanistan; fino a Singapore, l’estrema punta della Malacca, seimila chilometri lontana dal punto zero.
I sismografi saltarono, ma ovunque le radio e i satelliti per le comunicazioni tacevano. Nessuno, in futuro, avrebbe mai saputo quante città del Medio Oriente erano state distrutte, oppure quante persone erano morte a causa dei catastrofici terremoti che nei mesi successivi sconvolsero l’intera regione subcontinentale dell’Iran. Terremoti che poi risalirono verso nord e verso est, provocando altre devastazioni nella Russia meridionale, dal Lago d’Aral a al Mar Nero.2

(Un particolare ringraziamento devo qui rivolgere al mio sodale, compagno ed amico fraterno Cesare Aimar, senza il cui prezioso aiuto mi sarebbe stato impossibile rintracciare il testo di Altieri e presentarne qui le pagine appena citate)


  1. A. D. Altieri, L’occhio sotterraneo, prima edizione dall’Oglio, Milano 1983 – seconda edizione TEA 1996  

  2. A.D. Altieri, op. cit., pp. 286-290  

]]>
La guerra che viene https://www.carmillaonline.com/2019/02/21/la-guerra-che-viene/ Wed, 20 Feb 2019 23:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50995 Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, con una Prefazione di Valerio Evangelisti e una Postfazione di Gioacchino Toni, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 246, € 20,00

[Nel corso degli ultimi anni l’informazione mainstream e la narrazione politica istituzionale sembrano aver riscoperto il pericolo di un conflitto allargato su scala planetaria. Frutto di errori, problemi di governance oppure conseguenza della crisi economica e di promesse elettorali che non possono ancora essere mantenute, la spiegazione del conflitto è inscindibile da una struttura socio-economica che ha fatto della concorrenza [...]]]> Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, con una Prefazione di Valerio Evangelisti e una Postfazione di Gioacchino Toni, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 246, € 20,00

[Nel corso degli ultimi anni l’informazione mainstream e la narrazione politica istituzionale sembrano aver riscoperto il pericolo di un conflitto allargato su scala planetaria. Frutto di errori, problemi di governance oppure conseguenza della crisi economica e di promesse elettorali che non possono ancora essere mantenute, la spiegazione del conflitto è inscindibile da una struttura socio-economica che ha fatto della concorrenza più accanita e dello sfruttamento più spietato e virulento delle risorse umane e ambientali le uniche motivazioni reali della propria esistenza. Guerra che, nonostante le continue dichiarazioni di fedeltà ai trattati, non vede ancora delinearsi degli schieramenti precisi e che non vedrà in gioco soltanto blocchi militari e politico-economici facilmente riconoscibili (Russia, Stati Uniti, Cina, Europa), ma che proprio tra le pieghe delle alleanze e le contraddizioni con e tra le nuove potenze emergenti, quali Arabia Saudita, Turchia, Iran e Israele, avrà uno dei suoi principali motori.]

Prefazione di Valerio Evangelisti

Un pensiero limpido, fuori dagli schemi

 In Francia, è chiamata ultragauche una particolare corrente di estrema sinistra che combina bordighismo e situazionismo, con forti innesti di anarchismo. Io non so se il pensiero di Sandro Moiso, al di là del parere soggettivo del medesimo, possa rientrare pienamente in questa definizione, ma in larga misura direi di sì. Anzi, se in Francia la tendenza ha numerosi teorizzatori (per lo più anonimi, o raccolti sotto una sigla misteriosa come Comité invisible), in Italia Moiso è forse l’unico ad avere cercato di darne, in una pluralità di interventi, una formulazione completa e coerente.

Quali i capisaldi della ultragauche italiana, a tratti simili a certi aspetti dell’Autonomia /o post-Autonomia) contemporanea? Un rifiuto radicale dell’istituzionalità in ogni sua forma. Un parallelo rifiuto dello stalinismo, e anche del marxismo-leninismo col trattino (senza per questo respingere Marx o Lenin singolarmente presi). L’esaltazione delle lotte sociali nate dal basso, con radicamento territoriale, tipo la ZAD francese e i movimenti No TAV e No TAP italiani. L’indifferenza per la forma partito. Il sostegno a ogni espressione di autogestione e di autogoverno, soprattutto comunitario. E (ovviamente) l’internazionalismo, l’antirazzismo, l’anticolonialismo, la pulsione verso la costituzione spontanea di contro-società, con regole antitetiche a quelle dominanti.

Ormai da oltre un decennio Sandro Moiso espone su Carmillaonline spezzoni di questa visione. Io, che dirigo la testata, non sono d’accordo che in certa misura e su singoli punti. Ciò malgrado le riconosco una profonda dignità intellettuale, e una coerenza parallela a quella personale di Moiso. Tagliente, nei ragionamenti, come un rasoio, aggressiva, indubitabilmente onesta. Tutto ciò che si richiede a un intellettuale vero.

Moiso lo è, e leggendolo sarà facile persuadersene. Non c’è una sola frase che ne contraddica altre, non c’è un perdersi nei fumi dell’ideologia o della chiacchiera. La sinistra italiana conosce un percorso regressivo: quanto più è allo sbando e minoritaria, tanto più riemergono i fantasmi di un passato non felice. Riecco i trotzkisti, gli stalinisti, i maoisti in ritardo, ogni “ismo” possibile. I partitini che dicono di tendere al comunismo sono quasi più numerosi dei comunisti stessi. In teoria, stando alla conta delle sigle, una maggioranza. In realtà una miseria.

Sandro Moiso è l’antitesi a questa farsa di oltraggioso squallore. Che recensisca, commenti, discuta, critichi, va proponendo la costruzione, estremamente solida, di un movimento che degli “ismi” fa volentieri a meno, come fu nella parte migliore (la seconda) degli anni Settanta. Non c’è suo intervento, recensione, riflessione che non rechi un tassello a un quadro globale coeso; che, sorretto da cultura profonda in ogni campo (si vedano le ricche bibliografie), non serva da filtro interpretativo di un presente che è talora complesso decifrare.

Era dunque opportuno, per non dire necessario, raccogliere alcuni scritti di Moiso in una raccolta che permetta di apprezzare il valore di un pensatore decisamente fuori dagli schemi. Ne risulta la storia di una guerra fatta di molteplici conflitti, ma riconducibile a uno scontro principale, presente già nella Rivoluzione francese: quello tra sfruttati e sfruttatori, quali che siano i panni che rivestono i protagonisti. Ciò che è quasi proibito affermare oggi.

Moiso parla chiaro, e accenna a possibili soluzioni. Mi auguro che questo suo titolo sia solo il primo di una serie. Per provocatorio che sia, un intellettuale del suo livello deve essere conosciuto e studiato. Proprio in quanto provocatorio.

]]>
Una nuova Comune (al centro dell’Inferno che viene) https://www.carmillaonline.com/2017/12/20/nuova-comune-al-centro-dellinferno-viene/ Tue, 19 Dec 2017 23:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42275 di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson), Rojava una democrazia senza stato, Elèuthera 2017, pp. 222, € 16,00

L’interessante e ricco di testimonianze testo di Elèuthera è pubblicato in un frangente molto delicato e drammatico delle vicende del Vicino Oriente. Infatti l’edizione ha preceduto di pochi mesi la dichiarazione di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e le di poco precedenti dichiarazioni tese a costruire una sempre più stretta alleanza con l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo che, nascosta sotto un’operazione mediatica [...]]]> di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson), Rojava una democrazia senza stato, Elèuthera 2017, pp. 222, € 16,00

L’interessante e ricco di testimonianze testo di Elèuthera è pubblicato in un frangente molto delicato e drammatico delle vicende del Vicino Oriente. Infatti l’edizione ha preceduto di pochi mesi la dichiarazione di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e le di poco precedenti dichiarazioni tese a costruire una sempre più stretta alleanza con l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo che, nascosta sotto un’operazione mediatica di maquillage attraverso l’entrata in scena del nuovo erede al trono saudita Mohamed bin Salman, tende alla preparazione di un più vasto conflitto, forse non ancora diretto per gli USA, con l’Iran e gli stati in cui il regime di Teheran rivela un certo peso politico e militare.

Contemporaneamente le dichiarazioni pubbliche del Ministro della Difesa russo sull’addestramento in chiave anti-Assad cui gli americani starebbero sottoponendo i combattenti dell’ISIS e di Al Nusra, fuorusciti da Raqqa poche settimane or sono, hanno ulteriormente contribuito ad aumentare le tensioni in un’area che potrebbe rivelarsi decisiva per lo scoppio definitivo di un terzo conflitto mondiale.

E’ infatti al centro di tale area conflittuale1 che si sta sviluppando l’esperimento di quella che David Graeber, in uno dei due testi che lo vedono coinvolto all’interno del libro, definisce come un’autentica rivoluzione.
Nel Rojava è infatti in corso una trasformazione dei rapporti sociali, economici e tra i sessi destinata sicuramente a lasciare il segno sui movimenti sociali a venire e a ridefinire i compiti di quella che sarà la Rivoluzione del futuro. Esattamente come l’esperienza della Comune di Parigi contribuì a ridefinire, attraverso l’azione dei suoi protagonisti, i compiti del movimento operaio ottocentesco e novecentesco. Così tanto da influenzare e costringere, all’epoca, ad affinare il proprio pensiero i teorici del socialismo rivoluzionario da Marx a Lenin.

Afferma Graeber a proposito del Rojava e della situazione attuale:

Nel corso degli ultimi trenta o quarant’anni, i capitalisti hanno compiuto uno sforzo enorme per diffondere la convinzione che gli attuali assetti economici – non il capitalismo, ma la specifica forma di capitalismo finanziario e semifeudale che conosciamo oggi – costituiscano l’unico sistema economico possibile […] Come risultato, il sistema ci sta crollando addosso proprio nel momento in cui sembra essersi persa la capacità di immaginare qualcosa di diverso.
Ebbene, sono convinto che nel gito di cinquant’anni il capitalismo non esiterà più in nessuna delle forme a noi familiari e, forse, in qualsiasi altra forma conosciuta.Qualcos’altro avrà preso il suo posto […] Per questo ritengo che, in quanto intellettuali, o semplicemente uomini pensanti, sia nostro dovere tentare quanto meno di immaginare quale aspetto potrebbe assumere qualcosa di migliore. E se esiste qualcuno che sta realmente cercando di costruirlo, è nostro dovere fornirgli il nostro aiuto.2

Tutte le testimonianze presenti nel testo di Elèuthera non solo configurano la radicalità dell’esperimento condotto dalle forze curde nei territori del Kurdistan occidentale compresi all’interno dei confini siriani, ma anche il fatto che tale esperimento si basa sulla precisa coscienza che una nuova e differente società egualitaria non possa prendere a modello nessuno dei sistemi organizzativi e produttivi che sono già appartenuti al modo di produzione capitalistico e alla società borghese o che ad essa si sono ispirati.

Da cui derivano non solo la necessità dell’abolizione dello Stato centralizzato e nazionale ma, già nel corso della “rivoluzione” stessa, anche della sua sostituzione con organismi eletti e controllati dal basso a tutti i livelli (giustizia, sicurezza, difesa). Accanto a questa sostituzione federalistica e “comunale” delle strutture statuali deve però essere costruita in corso d’opera una società che non rinvii a “dopo” la questione della parità dei sessi e dell’eguaglianza dei diritti ed economica, ma che già realizzi tali principi nella vita quotidiana e materiale della società in transizione.

I differenti saggi contenuti nel testo curato da Dirik, Levi Strauss, Taussig e Lamborn Wilson toccano tutti i differenti aspetti di questa trasformazione in maniera sintetica, esauriente e convincente, dimostrando appunto che tale esperienza merita una straordinaria attenzione e mobilitazione da parte di tutti coloro che intendono opporsi all’imperialismo e al capitalismo su scala internazionale e a casa propria.

Proprio per questo motivo occorre però porsi alcune altre domande, che stanno alla base di un’altra affermazione contenuta nel discorso dell’antropologo inglese:

Non ho alcuna certezza che questa esperienza non venga schiacciata prima di arrivare a compimento, ma di certo lo sarà se si stabilisce in anticipo che nessuna rivoluzione è possibile, se ci si astiene dal darle un sostegno attivo, se addirittura la si attacca, contribuendo a isolarla ulteriormente, come fanno in molti.3

Occorre cioè non soltanto accettare acriticamente tutte le formulazioni e le scelta fatte sul campo dai combattenti e rappresentanti delle comunità del Rojava, ma anche contribuire a definire aspetti che nel contesto generale potrebbero risultare ambigui o, più semplicemente, contraddittori e confusi a causa della situazione d’urgenza.

Secondo la Encyclopaedia of Islam, il Kurdistan conta 190.000 km² in Turchia, 125.000 km² in Iran, 65.000 km² in Iraq, e 12.000 km² in Siria, per cui l’area totale sarebbe di 392.000 km².
Per il Rojava quindi 12.000 km² con circa 4,6 milioni di abitanti (di cui circa la metà rifugiati) in un Medio Oriente che comprende una superficie di 7 milioni e 300mila km² e circa 402 milioni di abitanti.4

All’interno di tale area il Rojava rischia quindi, a priori, di essere schiacciato non solo dagli interessi dei colossi dell’imperialismo geo-politico (Stati Uniti e Russia), ma anche da quelli dei giganti nazionali e militari rappresentati dai maggiori competitor in loco (Turchia, Israele, Iran e Arabia Saudita, tralasciando per il momento l’Egitto che, con i suoi 90 milioni di abitanti, è il paese più popolato dell’intera area).

Un’area in cui alcune e non secondarie questioni solo apparentemente nazionali (valgano per tutte quelle palestinese e curda in generale) potrebbero trovare nell’esempio kurdo un valido esempio per l’azione e l’organizzazione sociale, con forme di federalismo in grado di metter in relazione e contribuire all’alleanza di settori di popolazione estremamente differenti tra di loro per lingua, etnia, religione e situazione socio-economica.
Un esperimento, quindi, che non può davvero ricevere l’approvazione o la simpatia autentica di alcuni stati (vedi ad esempio Israele) che pur fingono di appoggiare i combattenti curdi o garantire il loro totale appoggio futuro (si pensi alla politica statunitense del divide et impera ). Né tanto meno l’aiuto di quelle forze di stampo sciita, che pur si contrappongono all’Isis e ai giochi saudito-israeliani nell’area, ma in chiave filo-iraniana.

Un errore di fiducia in tal senso potrebbe infatti costare molto caro ai curdi del PKK di Abdullah Öcalan e del Partito democratico del Kurdistano (PYD) e alle sue unità, femminili e maschili, di autodifesa. Un errore che è possibile intravedere in un’intervista, sicuramente interessantissima e chiarissima nei suoi scopi, rilasciata recentemente da Riza Altun (membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) ), in cui l’intervistato si sofferma ripetutamente sul paragonare l’alleanza tattica attuale con gli Stati Uniti con quella stabilita durante il secondo conflitto mondiale tra l’Unione Sovietica di Stalin e le potenze occidentali.5

In tal modo si rischia infatti non soltanto di far rientrare dalla finestra l’esperienza stalinista appena cacciata dalla porta con le scelte coraggiose operate dal PKK e dal suo leader, ma anche di paragonare l’attuale guerra di liberazione rivoluzionaria del Rojava alla condotta, sostanzialmente ispirata dalle logiche nazionaliste ed imperialiste, dell’URSS stalinizzata nel corso del secondo conflitto mondiale. Sopravvalutando allo stesso tempo la potenza militare delle forze curde, assolutamente inferiori per armamenti, numero di combattenti e potenziale produttivo alla macchina bellica messa in atto in Russia tra il 1942 e il 1945.

Oltretutto in un contesto in cui l’aiuto americano alle forze curde potrebbe trasformarsi rapidamente nel suo contrario qualora i giochi diplomatici internazionali richiedessero agli Usa di tornare sui propri passi, nel tentativo di recuperare l’appoggio dell’attuale Saladino islamico Erdogan. L’equilibrio attuale che vede infatti la Turchia pericolosamente schierata “a fianco” della Russia di Putin e contro Gerusalemme capitale dello Stato israeliano potrebbe infatti essere rimesso in discussione da una significativa offerta di espansione territoriale illimitata in Siria e a spese dell’indipendenza del Rojava.

L’esperienza, per quanto sconfitta dolorosamente, della Comune di Parigi del 1870/71 sembra quindi più appropriato dal punto di vista storico e più interessante come paradigma politico.
Dal punto di vista storico perché l’esperienza della Comune si sviluppò in un contesto molto simile: all’interno di una nazione militarmente sconfitta da un avversario più forte, la Prussia bismarckiana, una frazione significativa della sua popolazione, gli abitanti della capitale francese, insorse per determinare la propria indipendenza e il proprio futura. Ridisegnando le condizioni del conflitto di classe a venire, in cui le forze socialiste e proletarie, a differenza del 1848, non avrebbero mai più dovuto affiancare in Europa le aspirazioni borghesi.

Dal punto di vista politico perché il modello Rojava potrebbe essere fonte di ispirazione non solo per le altre esperienze in cui si confondono la lotta in difesa del territorio e dell’ambiente e lotta di classe, dalla Val di Susa all’esperienza francese della ZAD o al Chiapas, ma anche per tutte le questioni politico-territoriali ancora irrisolte in Medio Oriente, dalla Palestina al Libano e allo stesso Kurdistan extra-siriaco.6 Facilitando l’estendersi di una maggiore solidarietà internazionalista “dal basso” più che le sempre incerte ed oscure, nelle loro finalità ultime, alleanze “dall’alto”.

Naturalmente questi rapidi appunti non intendono assolutamente avere la pretesa di opporsi alla politica portata avanti dal PYD e dalle sue forze di autodifesa, né tanto meno criticare l’aiuto e il sacrificio con cui molti rivoluzionari provenienti dal resto del mondo stanno contribuendo alla causa del Rojava. Anzi, al contrario di ciò che schematici e settari rappresentanti delle vecchie ideologie politiche novecentesche continuano a fare criticando e insultando di fatto la lotta e le scelte del PKK e del PYD, intende piuttosto essere un contributo, anche se limitato, ad una causa che oggi come poche altre può indicare davvero una nuova via per la rivoluzione sociale.7

In tal senso i quattordici capitoli di questo prezioso e sintetico libretto, ognuno dedicato ad uno degli aspetti della rivoluzione in Rojava, possono così rivelarsi illuminanti, stimolando i lettori verso quel coraggio di immaginare che Dilar Dirik invoca nell’ultimo. Last but not least il titolo che rinvia al problema centrale di quanto detto fino ad ora: l’impossibilità di realizzare una vera democrazia all’interno dello Stato così come è venuto a formarsi all’interno delle necessità storiche, economiche e nazionali definite dallo sviluppo del capitalismo stesso.
Infatti un’autentica democrazia dal basso impone di spezzare la macchina statale non al termine del percorso rivoluzionario, ma mentre è ancora in corso d’opera. Così come realizzò, anche se per un tempo brevissimo, la Comune di Parigi fornendo, come si è già ricordato, un fondamentale insegnamento per le pagina più ispirate di Marx8 e Lenin9 sull’argomento.


  1. Si confrontino, solo per citare alcuni precedenti interventi sul tema: https://www.carmillaonline.com/2017/04/07/yankee-doodle-goes-to-war/ ; https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ ; https://www.carmillaonline.com/2014/08/22/world-war-zombie/ ; https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ ;
    https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ ; https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/  

  2. David Graeber intervistato da Pinar Ögünç, No, questa è un’autentica rivoluzione, in Rojava una democrazia senza stato, pag. 95  

  3. Graeber, op.cit. pag. 94  

  4. Dati del 2014, mentre erano erano 240 nel 1990  

  5. http://www.uikionlus.com/altun-per-la-prima-volta-abbiamo-creato-zone-di-liberta-in-medio-oriente/ e http://www.uikionlus.com/altun-il-socialismo-non-puo-essere-costruito-con-gli-strumenti-del-capitalismo/  

  6. Si confronti: http://www.uikionlus.com/meglio-di-una-soluzione-con-uno-o-due-stati-sarebbe-una-soluzione-senza-stato/  

  7. Si confronti: http://www.uikionlus.com/il-partito-della-terzarivoluzione-del-kurdistan/  

  8. Karl Marx, La guerra civile in Francia  

  9. Lenin, Stato e rivoluzione  

]]>
Yankee Doodle Goes to War https://www.carmillaonline.com/2017/04/07/yankee-doodle-goes-to-war/ Fri, 07 Apr 2017 15:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37474 di Sandro Moiso

yankee 2 Mentre Half-Nano, il ministro degli esteri dell’eterna Terra di Mezzo, ancora ieri era impegnato nel gioco delle poltrone e nei valzer delle leggi elettorali, il pragmatismo di uno dei suoi “più sicuri” alleati preparava il conto alla rovescia finale per l’ormai prossima deflagrazione bellica su scala planetaria. Infatti alle 2:30 (ora italiana) di oggi 7 aprile, da due portaerei americane al largo del Mediterraneo, sono stati lanciati 59 missili Tomahawk (quelli che abbiamo iniziato a conoscere fin dalle guerre del Golfo) sulla base aerea siriana di Al Shayrat da cui, secondo le prime informazioni, sarebbero partiti, [...]]]> di Sandro Moiso

yankee 2 Mentre Half-Nano, il ministro degli esteri dell’eterna Terra di Mezzo, ancora ieri era impegnato nel gioco delle poltrone e nei valzer delle leggi elettorali, il pragmatismo di uno dei suoi “più sicuri” alleati preparava il conto alla rovescia finale per l’ormai prossima deflagrazione bellica su scala planetaria. Infatti alle 2:30 (ora italiana) di oggi 7 aprile, da due portaerei americane al largo del Mediterraneo, sono stati lanciati 59 missili Tomahawk (quelli che abbiamo iniziato a conoscere fin dalle guerre del Golfo) sulla base aerea siriana di Al Shayrat da cui, secondo le prime informazioni, sarebbero partiti, nei giorni scorsi, gli aerei con le armi chimiche destinate a colpire la città di Khan Sheikhoun.

Questa la narrazione ufficiale. Narrazione preparata e pianificata fin dai giorni scorsi dal bombardamento mediatico che ha accompagnato la notizia secondo la quale nella città siriana più di ottanta persone, tra le quali 28 bambini, sarebbero rimaste uccise dalle armi chimiche usate dall’aviazione di Assad.

Ora, tralasciando i dubbi manifestati non soltanto dalla Russia di Putin sull’effettivo svolgimento degli eventi dei giorni scorsi e sui reali motivi del can can mediatico che ne è seguito,1 quello che occorre qui immediatamente sottolineare è il fatto che la lancetta del barometro politico e militare internazionale si è ormai decisamente stabilizzata sulla guerra. Con buona pace anche di coloro che nella vittoria di Donald Trump e nel riavvicinamento tra USA e Russia avevano visto un fattore determinante di cambiamento di orientamento della politica estera americana.

Che, invece, non è cambiata affatto dal punto di vista programmatico. Ciò che è cambiato, come ho già detto in altra sede, è piuttosto il fatto che gli Stati Uniti non hanno più né tempo né voglia di mascherarsi dietro ad ambigue ed altalenanti operazioni di “polizia internazionale” o “missioni di pace”. Trump è il presidente della guerra americana, anche se la farà seguendo le impronte dei suoi predecessori.

Facciamo un passo indietro di pochi giorni. Torniamo alla fine di marzo, quando Trump ha annunciato di voler applicare dazi del 100% su almeno 90 prodotti provenienti dall’Unione Europea, parlando apertamente di guerra commerciale dovuta agli ostacoli frapposti dalla stessa UE all’importazione di carni americane. Tutti i media hanno colto in quell’affermazione un’iniziativa tipicamente trumpiana per far vedere i muscoli e accontentare l’elettorato del Midwest e della Rust Belt che aveva contribuito ad eleggerlo.

Peccato, però, che tale provvedimento non costituisse altro che l’applicazione dell’ultimo decreto firmato dal Presidente uscente, Barack Obama il 26 dicembre 2016. 2 Questo semplice fatto rivela come la narrazione fatta dell’amicizia tra la passata amministrazione statunitense e l’Unione Europea fosse tutt’altro che veritiera3 e come la conflittualità “ideologica” sui muri sollevati contro i migranti (in Europa e in America) non facesse altro che nascondere le ragioni reali del conflitto a venire,4 ovvero la guerra commerciale, ultimo passo prima della guerra guerreggiata.

Naturalmente tra guerra commerciale minacciata e missili lanciati corre ancora una certa differenza. Ma solo apparentemente, poiché i missili di oggi, indipendentemente dal fatto che ad essi segua o meno un’ulteriore escalation militare, anticipano soltanto quelli che domani, e in quantità ben maggiore, potranno essere lanciati sui competitor, imperialisti o meno, che non volessero adeguarsi alla weltanschauung americana che vede ormai svilupparsi nel mondo intero il suo spazio vitale.

Un lebensraum planetario in cui poco importa quali siano gli alleati tradizionali o fedeli, ma dove conta la fedeltà e l’ubbidienza al “capo”. Un autentico fuhrerprinzip che già il vice di Trump, Mike Pence, aveva ricordato agli alleati, parlando alla Conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco di Baviera il 18 febbraio di quest’anno, affermando che l’impegno “incrollabile” degli Usa nell’Alleanza atlantica dipende pur sempre dall’attesa enunciata da Trump di un maggior impegno finanziario dei partner. Asserzione avvalorata dallo stesso Trump che durante e subito dopo il colloquio diretto con la cancelliera Angela Merkel aveva affermato che “la Germania è in debito con gli Stati Uniti per l’impegno che gli americani forniscono in termini di difesa e sicurezza nell’ambito dell’Alleanza Atlantica. Un dato di fatto suffragato da numeri e bilanci, come quello pubblicato lunedì dalla Nato e che dimostra come la Germania sia ben lungi dalla soglia obiettivo del 2% del bilancio destinato alle spese militari chiesto da Washington. Sebbene uno sforzo maggiore potrebbe permetterselo visto che dell’Europa è la regina con un surplus commerciale da capogiro.5

Insomma il capo decide e gli altri devono adattarsi, pena l’esclusione (e le inevitabili conseguenze economiche e militari). Anche se, per una volta, è evidente la debolezza intrinseca dell’azione americana. Non soltanto per la posizione traballante di Trump alla Casa Bianca che deve dimostrare, in questa occasione, una sorta di presa di distanza dall’”amico” Putin, ma anche perché gli Stati Uniti si trovano costretti ad accelerare i tempi del conflitto prima che altri schieramenti vadano formandosi tra i suoi stessi alleati o ex-alleati.

Come è successo disastrosamente questa estate, col fallito colpo di stato in Turchia che ha contribuito a riavvicinare Erdogan alla Russia.6 Si tratta, è vero, di un panorama di alleanze incerto, in cui i voltafaccia possono essere ancora numerosi e repentini, ma che spinge comunque quella che i media si ostinano a definire ancora come la prima potenza mondiale ad imprimere svolte drastiche, continue e pericolose ad una politica estera che sembra poter maneggiare soltanto più il big stick, il grande bastone, minacciato dal presidente Teddy Roosvelt fin dalla guerra ispano-americana del 1898. Senz’altro in cambio, viste le difficoltà in cui versa la sua economia. Un’economia che al termine del secondo conflitto mondiale rappresentava il 50% dell’economia-mondo mentre ora ne controlla il 16% e le proiezioni la vedono ridursi ancora al 12% entro il 2025. Mentre, solo per fare un esempio, la Cina, dal 1945 ad oggi, è passata dal 2% al 18%.

Così, paradossalmente, molti altri, inclusi russi, cinesi ed arabi, potrebbero ancora aspettare prima di rivelare le proprie carte, ma la diplomazia americana non è mai stata molto abile nel gioco del poker internazionale, se non giocando con il morto ovvero con qualcuno già predestinato ad essere sconfitto. Ruolo a cui sembra essere oggi destinato Assad con il suo regime che, però, a differenza di Saddam custodisce sul suo territorio alcune delle basi militari (aeree e navali) più importanti per la Russia, essendo dislocate sul Mar Mediterraneo.

Potrà trattare Trump una caduta di Assad senza toccare le basi russe e i “diritti acquisiti” da Putin sulle stesse? Potrà Putin accettare un’ingerenza americana tale da sminuire il suo ruolo, recentemente acquistato, nel Vicino Oriente? Iran e hezbollah libanesi potranno lasciar cadere tranquillamente Assad aprendo la strada alla Grande Israele sognata dai sionisti? E la Grande Israele fino a quando potrà andare d’accordo con il modesto, ma attivo, imperialismo arabo e non solo saudita?7

Qui, nell’eterna Terra di Mezzo, dove pur risiedono le basi Nato di riferimento per le portaerei già impegnate, per i media asserviti e benpensanti, insieme a presidenti del consiglio e ministri di facciata, la narrazione può continuare a escludere dal discorso pubblico la guerra commerciale e/o guerreggiata, in nome della qualità (“che non ha frontiere” secondo Paolo Gentiloni) e del negoziato (“tra tutte le parti in causa” sempre secondo lo stesso), ma Sauron si è risvegliato dal suo sonno caotico e sta già marciando con i suoi eserciti di troll e di morti presenti, passati e futuri.

yankee 1 Mentre gli imperialismi e i nazionalismi di ogni angolo d’Europa e del mondo sono già pronti a servirlo. Gli anti-americani filo-russi sono pronti a servirlo. I sionisti, anche quelli travestiti da progressisti, sono pronti a servirlo. Gli europeisti in preda al panico per la possibile perdita di centralità politica ed economica sono pronti a seguirlo. I razzisti e i fanatici religiosi sono pronti a seguirlo. I moralisti, i benpensanti, i pacifisti e i populisti sono pronti a seguirlo. I lavoratori immiseriti e ridotti a puro capitale variabile, in attesa di un rilancio produttivo che li reintegri al loro posto e in cambio di qualche perduto privilegio, sono pronti a seguirlo. In nome, comunque, sempre e soltanto della permanenza dell’attuale modo di produzione. Così lo yankee bonaccione della tradizione popolare americana è andato in guerra e l’oscurità ha iniziato ad avvolgere il mondo.

Chi potrà, dunque, distruggere definitivamente il suo malefico anello del potere, lanciandolo all’interno della voragine del Monte Fato e del fuoco della lotta di classe? Soltanto chi agirà in nome della comunità umana a venire, ammesso che sappia resistergli.


  1. Si vedano ad esempio: http://www.huffingtonpost.it/2017/04/06/tutto-quello-che-non-torna-sulluso-del-gas-da-parte-di-assad_a_22028433/ e le recenti osservazioni fatte da Fulvio Grimaldi sul fatto che: “Il riassetto generale del Medioriente-mondo arabo risale almeno al 1982, 35 anni fa, quando il consigliere del governo israeliano, Oded Yinon, formulò il famoso piano per la politica estera di Israele nei successivi vent’anni, che prevedeva la frantumazione degli stati-nazione arabi lungo linee etniche e confessionali. Piano diventato linea politica ufficiale del governo. Piano, però, che riassume la strategia imperialista israelo-anglosassone contro la Siria già elaborata alla fine degli anni ‘50.” (Comitato NoNato)  

  2. http://www.ilfoglio.it/list/2017/03/31/news/dazi-trump-obama-128047/  

  3. Come già si era potuto sottolineare a proposito dell’affaire dei dati ambientali truccati delle auto tedesche prodotte da Volkswagen: https://www.carmillaonline.com/2015/09/29/vae-victis-germania-2-car-wars/  

  4. https://www.carmillaonline.com/2015/09/16/vae-victis-germania-1-sulla-loro-pelle/  

  5. http://www.lastampa.it/2017/03/19/esteri/trump-la-germania-deve-molti-soldi-alla-nato-A7vqv0uKCCczHQazU79y8K/pagina.html  

  6. In proposito si veda il mio https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/  

  7. Come recita il titolo della rivista Limes disponibile in libreria ed edicola proprio in questi giorni: Arabia (non solo) saudita, Limes n° 2 / 2017, Lorenzo Declich, Un imperialismo minore: la paradossale parabola dell’Arabia Saudita, pp. 9 – 17  

]]>
Üçüncü Dünya Savaşı https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ Mon, 25 Jul 2016 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32171 di Sandro Moiso

ucuncu 4Terza guerra mondiale”, questa è la traduzione del titolo di un best-seller di fantapolitica uscito poco più di dieci anni fa in Turchia. Recep Tayyip Erdoğan, dopo essere stato escluso per anni dalla vita politica (poiché era stato giudicato colpevole di incitamento all’odio religioso e incarcerato nel 1998 per aver declamato pubblicamente, come sindaco di Istanbul, i versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…“), era stato eletto Primo Ministro del 59° governo turco il 4 marzo [...]]]> di Sandro Moiso

ucuncu 4Terza guerra mondiale”, questa è la traduzione del titolo di un best-seller di fantapolitica uscito poco più di dieci anni fa in Turchia. Recep Tayyip Erdoğan, dopo essere stato escluso per anni dalla vita politica (poiché era stato giudicato colpevole di incitamento all’odio religioso e incarcerato nel 1998 per aver declamato pubblicamente, come sindaco di Istanbul, i versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…“), era stato eletto Primo Ministro del 59° governo turco il 4 marzo 2003, dopo la vittoria del suo partito (AKP, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) nelle elezioni legislative del 2002, e uno giornalista-scrittore trentenne, Burak Turna, raggiungeva, nel 2005, il suo secondo successo editoriale anticipando la storia di una guerra in cui la Turchia si contrappone, dopo anni di acrimoniose trattative, ad una Unione Europea dominata da governi fascisti e xenofobi che respinge definitivamente la domanda del governo di Ankara di diventarne membro. Mentre in Germania, Francia e Austria si scatena una specie di caccia al musulmano, la Turchia si allea con la Russia e, con l’appoggio esterno anche della Cina, invade l’Europa e la riduce in ginocchio, con tanto di commandos turchi che si impadroniscono di Berlino.

Gli Stati Uniti stanno a guardare e sulle rovine della vecchia Ue, che voleva restare un «club cristiano», se ne affaccia una nuova, spostata a Est, e basata sulla riconciliazione tra l’Islam e il mondo ortodosso. In due mesi il libro vendeva in Turchia 130.000 copie, in un paese dove una tiratura di 3 mila copie è già un successo, e si avvicinava ai vertici delle classifiche dei libri più venduti. Tra i quali, va qui subito detto, si trovava proprio il precedente libro scritto dallo stesso autore in collaborazione con Orkun Ucar.

Questo altro testo, anch’esso riconducibile alla fantapolitica, si intitolava “Metal Firtina”, traducibile con Tempesta di metallo (in inglese, appunto Metal Storm) e aveva raggiunto, e forse superato, in pochi mesi le 500.000 copie.
Narra, guardo caso, di un’altra guerra “mondiale” in cui, gli Stati Uniti aggrediscono militarmente la Turchia, dichiarata “Stato canaglia”, per potersi impossessare delle ricchezze minerarie e petrolifere dell’Irak del Nord a discapito degli interessi turchi. Per ottenere ciò, oltre al bombardamento a tappeto di Ankara, Istanbul e Smirne, gli americani promuovono e appoggiano diversi movimenti separatisti destinati ad indebolire e a frantumare lo stato turco.

Metal-storm Ma l’attesa rivolta separatista non si produce, e la guerra si prolunga. I bombardamenti Usa sono spietati e decimano la popolazione, ma risparmiano le centrali elettriche e le stazioni tv, in modo che i turchi continuino a guardare la tv e così ad esporsi alle “armi di illusione di massa”.
Sarà un agente dei servizi segreti turchi ad immolarsi riuscendo a far esplodere, come un kamikaze, due bombe atomiche a Washington.

A quel punto, Putin ammassa truppe russe ai confini della Turchia invasa, pronto a scatenare l’intervento; Francia, Germania, Russia e Cina convocano d’urgenza il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’America è bollata come stato canaglia e riceve un ultimatum: o si ritira senza condizioni dallla Turchia, o sarà distrutta dalla coalizione mondiale che s’è formata.1

Fin qui le narrazioni di un autore decisamente nazionalista e con un largo seguito in Turchia. Poiché, però, vado da tempo sostenendo che il politico è soltanto uno dei territori dell’immaginario, vale forse la pena di cogliere i parallelismi e le possibili anticipazioni tra quelle trame e i fatti a cui stiamo assistendo, soprattutto nella Turchia del golpe e dopo golpe. Anche perché, all’epoca della sua uscita e del suo successo, il libro fu letto col massimo interesse negli ambienti militari, di sicurezza e della potente polizia turca e l’ambasciata Usa ne fu molto allarmata, visto che i sondaggi dell’epoca rivelavano che, dopo l’attacco all’Irak, i sentimenti anti-americani in Turchia erano condivisi dall’87% della popolazione.

Così è giunto il momento di riassumere, anche qui brevemente, la trama dei fatti. Quelli reali.
Il 15 luglio scorso si profila, per qualche ora, l’eventualità che il leader islamico e nazionalista Tayyip Erdoğan2 possa essere dimesso dal suo ruolo di governo e di “alleato”.
Le prime reazioni ufficiali di USA ed Europa al golpe si sono avute all’alba, 5 ore dopo l’inizio degli scontri. Dopo che, a detta dei media, le richieste provenienti dall’aereo di Erdogan per un eventuale accoglienza erano state respinte da diversi “alleati” europei.

Prima che questo avvenisse va rilevato un certo imbarazzo occidentale nei confronti non solo di un dittatore abbastanza spudorato nella sua conduzione della “moderna democrazia” turca, ma anche abbastanza avventuriero dal giocare col piede in più scarpe: l’appoggio, più volte provato, dato all’ISIS; l’altalenante posizione nei confronti di Siria, Iran e Russia; il rigurgito di nazionalismo ottomano e contrario ad ogni discorso riguardante i diritti degli Armeni e dei Curdi (questi ultimi autentici miliziani combattenti della causa anti-ISIS in Siria e nel Nord dell’Irak); il ricatto costante, con cui ha taglieggiato l’Europa e la Germania negli ultimi mesi, sulla questione dei profughi dal Vicino Oriente e centro-asiatici e, infine, lo smaccato rifiuto di rispettare qualsiasi forma di diritto umano, alla faccia delle richieste delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea (“We’ll go our way, you go yours”).

Non solo. Un leader che a maggio, in occasione del Congresso straordinario del suo partito (AKP), ha di fatto costretto il primo ministro Ahmet Davutoglu, troppo vicino agli alleati occidentali e da questi ultimi molto stimato, a dimettersi per sostituirlo con Binali Yildirim, curdo e fedelissimo del Presidente.3 Una situazione quanto meno delicata in cui il colpo di Stato, più che preparato dallo stesso Erdogan, come i sostenitori del complottismo ad oltranza sembrano voler riproporre come un vecchio film già visto più volte dall’11 settembre 2001 in poi, sembrava essere una possibile soluzione del problema. Tanto per dimostrare ancora una volta che il super-imperialismo che tutto controlla e determina non è altro che una bufala creata da coloro che rimuovono i rapporti di forza reali e le contraddizioni economico-sociali e geopolitiche che li determinano.

D’altra parte, checché se ne voglia pensare, il golpe non è stato solo e sempre uno strumento di cui gli americani si sono serviti per eliminare governi “avversi”, ma spesso anche un mezzo per rimuovere “alleati” divenuti scomodi. Basti pensare alle rimozioni violente di governi nel Pakistan della fine del secolo scorso.4 Mentre occorre sottolineare come la rapidità decisionale con cui Erdogan ha agito, dal punto di vista repressivo nei giorni seguenti, ancora una volta sbandierato come prova della premeditazione dello stesso, è riconducibile sostanzialmente a due fattori: dimostrare in casa e all’estero la propria forza e sicurezza e al fatto che qualsiasi Stato, compresa sicuramente l’Italia, ha già pronte da sempre le liste dei possibili nemici da rinchiudere o eliminare in caso di precipitare della o di una crisi politica, sociale o militare.5

D’altronde, sarebbe impensabile immaginare che un colpo di Stato militare, indipendentemente dalla presenza o meno di Fethullah Gülen nelle file del complotto, possa essersi sviluppato all’interno degli ambienti militari della NATO, soprattutto quelli dell’aeronautica militare, senza che l’intelligence statunitense non ne avesse alcun sentore .

Anche al di là delle accuse mosse da Erdogan agli Stati Uniti per aver rifornito i caccia golpisti con aerei cisterna decollati proprio dalla base di Incirlik. La stessa da cui decollano gli aerei americani che vanno a bombardare le posizioni dell’Isis, lasciata senza energia elettrica per alcune ore dopo il golpe sventato, e di cui è stato arrestato il generale turco che la comandava come uno degli artefici del golpe.6 Accuse rafforzate proprio oggi da quelle ulteriori alla CIA.7

Quindi nulla di nuovo sotto il sole…tranne che questa volta l’azione di forza è andata a gambe all’aria.8 E qui, infatti, si giunge alla parte più interessante della questione.
Il golpe non ha funzionato perché ha dovuto essere anticipato ovvero scattare prima che tutte le operazioni che dovevano essere portate a termine per farlo trionfare si realizzassero. Invece che alle tre del mattino, come alcune fonti sostengono, ha dovuto essere anticipato di diverse ore.

Secondo un’informazione diffusa dai media la sera del 20 luglio, i servizi segreti russi avrebbero avvertito il Presidente della Turchia del golpe militare che stava maturando, cosa che gli avrebbe consentito di salvarsi e di conservare il potere. Tuttavia, è difficile stabilire quanto le notizie sul presunto aiuto fornito dalla Russia a Erdogan possano essere attendibili. […]Secondo la versione diffusa dai media, il servizio di intelligence militare russo in Siria nella base di Hmeimym sarebbe riuscito a intercettare e a decodificare i radiocomunicati militari. Gli autori del complotto avevano progettato di inviare degli elicotteri all’hotel in cui alloggiava Erdogan a Marmaris per catturare e uccidere il Presidente. Il Ministero della Difesa russo avrebbe trasmesso questa informativa sui loro piani al Mit, l’intelligence nazionale turca, consentendo a Erdogan di fuggire in tempo e di intervenire.9

Non solo. Secondo altre fonti, in base a ricostruzioni provenienti da ambienti vicini al Svr, i servizi di intelligence russi per l’estero: “ci sarebbe stato un intervento degli Specnaz, le forze speciali russe che avrebbero scortato e difeso il presidente Erdogan dal golpe militare, accompagnandolo dal luogo in cui era fallito l’attentato, che doveva eliminarlo, all’aereo che lo ha riportato ad Ankara.10

Anche se lo stesso Presidente turco, in un’intervista rilasciata all’emittente televisiva del Qatar Al Jazeera, ha fornito una versione diversa, attribuendo il merito dell’anticipazione del golpe al M.I.T.l’Organizzazione di Intelligence nazionale Turca, “i media hanno diffuso la versione della corresponsabilità della Russia nella vittoria di Erdogan sulla base di notizie diramate da Fars, la principale agenzia d’informazione iraniana, a loro volta provenienti da fonti arabe (in particolare, dall’agenzia sudanese Al Sudan Al Youm). Come fonte i media arabi hanno citato dei diplomatici turchi che hanno preferito rimanere anonimi.11

Qualche lettore a questo punto si chiederà: “Ma Russia e Turchia, soprattutto dopo l’abbattimento dell’aereo russo sui cieli della Siria, non erano ai ferri corti?
Certo, almeno nelle apparenze, ma un accordo diplomatico e politico è sempre possibile e, in questo caso, conviene ad entrambi nell’attuale caos geo-politico che si va delineando in cui, come è stato scritto appena quattro giorni prima del fallito colpo di Stato, “appare evidente come Erdogan si sia ritrovato schiacciato dall’isolamento diplomatico internazionale, e abbia dovuto in qualche modo mettere da parte la retorica e fare un bagno di realismo: troppe le minacce che stavano accerchiando la Turchia, che pur avendo potenti alleati, benché sempre più riluttanti, ha l’imperativa necessità di non fomentare vecchie inimicizie.12

Infatti Erdogan nei giorni precedenti non solo aveva ripreso i rapporti con la Russia (non dimentichiamo che egli si incontrerà con Putin entro le prime due settimane di agosto), ma anche raggiunto un accordo con uno degli altri protagonisti dei giochi mediorientali: Israele.
Tale accordo, annunciato da Benjamin Netanyahu, Primo ministro israeliano, e Binali Yildrim, Primo ministro turco, è frutto di diversi compromessi, come è del resto il destino di ogni accordo diplomatico che voglia essere credibile e duraturo. Entrambi gli attori sono riusciti ad ottenere l’accettazione di alcune delle proprie richieste più pressanti e a non fare concessioni sulle questioni più delicate.13 E probabilmente per ora tanto basta.

E anche se per ora nessuno ne parla, non è escluso che anche il Mossad abbia voluto fare un regalo e allo stesso tempo lanciare un avvertimento alla Volpe degli stretti. Da un lato indicargli il pericolo da cui mettersi in salvo14 e dall’altro segnalargli come, nell’attuale situazione di possibile isolamento, la sua sopravvivenza e successo siano indubbiamente legati alla costruzione di una rete mediorientale (di cui un altro attore è rappresentato senza ombra di dubbio dall’Arabia Saudita e dagli Emirati del Golfo) che, se da un lato mira a scalzare progressivamente l’importanza degli USA e delle nazioni europee nell’area, dall’altra dovrà funzionare in chiave anti-iraniana, per ridimensionare le pretese dell’unica nazione che fino ad ora ha potuto positivamente intascare un grande rientro sulla scena diplomatica, economica e militare internazionale proprio in seguito agli errori commessi dal Dipartimento di Stato americano in Irak.

ucuncu 5 D’altra parte anche la collaborazione tra Russia e Iran in Siria è sempre più messa alla prova dalle autonome iniziative che la Russia sta prendendo sul fronte militare sia nei confronti di una rinnovata collaborazione con Israele. Dopo lo scontro a Khan Tuman,15 infatti, molti strateghi del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) “hanno cominciato a esprimere dubbi sugli obiettivi di Mosca nella lotta al fianco delle forze iraniane, libanesi e siriane. Questi strateghi, e altri funzionari che in Iran si oppongono alla presenza militare della Russia in Siria, mettono in guardia circa le divergenze di interessi tra Russia e Iran che nel lungo termine potrebbero portare a conseguenze impreviste.16

Tutto questo però è reso possibile da ciò che ho già segnalato in altri articoli proprio su Carmilla, ovvero dal progressivo indebolimento politico di quello che è ancora necessario definire “imperialismo occidentale”, ovvero USA e nazioni dell’UE. Se da un lato la crisi economica ha favorito la concentrazione del comando finanziario sulle economie, soprattutto, sulla forza lavoro di quelle nazioni che ci ostiniamo a definire “a capitalismo avanzato”, dall’altro la stessa ha rivelato le profonde crepe che dividono quegli stessi attori sul piano dell’azione diplomatica e militare edelle strategie economiche di fondo.

La recente uscita di Donald Trump, per esempio, su una possibile perdita di importanza della NATO per gli interessi americani rimarca, indirettamente, due cose.17 La prima riguarda il fatto che gli USA hanno due fronti mondiali a cui prestare attenzione: uno orientale sul Pacifico e il Mar della Cina, dove la concorrenza economica e finanziaria sembra volgere sempre più anche ad una concorrenza di carattere militare, e uno occidentale che sembra correre ormai dal Baltico all’Africa del Nord, in funzione anti-russa e di controllo delle maggiori aree petrolifere del globo.

E’ chiaro che un tale dispiegamento di forze ha dei costi non risibili per la declinante economia americana e senza uno sforzo economico da parte dei partner europei gli USA non potranno sostenere a lungo un tale impegno. D’altra parte gli alleati europei sono terrorizzati da un disimpegno americano che metterebbe in evidenza la debolezza “militare” dell’Unione che è, sì, monetaria, ma poco politica e militare.

La stessa Alta Rappresentante per le politiche europee, Federica Mogherini, nella sua problematica insignificanza,18 rappresenta simbolicamente una moneta priva di una efficace forza di difesa/offesa. Un po’ come immaginarsi il dollaro, padrone del ventesimo secolo, senza portaerei.
Debolezza dovuta soprattutto ai contrastanti interessi diplomatici ed economici tra le principali nazioni del continente (Gran Bretagna, Germania, Francia ed Italia). Come d’altra parte dimostra bene l’incidente occorso nei giorni scorsi in Libia: in cui tre membri delle Forze Speciali francesi sono rimasti uccisi nell’abbattimento di un elicottero, da parte dei miliziani filo-Isis, mentre combattevano a fianco del generale Khalif Haftar, l’uomo forte di Tobruk, invece che di quello del “legittimo” governo libico cui i militari europei già stanziati in Libia dovrebbero ufficialmente fare riferimento.19

E’ chiaro che un tale disordine finisce col favorire alleanze locali, e magari momentanee, proprio perché in un’era di decadenza del potere occidentale (e di declino del petrolio) gli ex-alleati locali potrebbero ritenere più utile coordinarsi tra di loro autonomamente sia per salvaguardare la propria sicurezza che per gestire in proprio ciò che rimane delle scorte dell’oro nero. Problemi cui la Russia, nel suo ruolo ritrovato di Grande Potenza, non può rimanere insensibile. Avendo per ora come obiettivi locali quelli di salvaguardare le proprie basi in Siria, ampliare il proprio ruolo sul mercato della produzione e delle transazioni legate al petrolio e al gas e, naturalmente, allontanare la minaccia jihadista sia dalla Cecenia che dalle aree confinanti. Senza rinunciare a rendere allo storico avversario statunitense pan per focaccia per quanto è avvenuto e sta avvenendo in Ucraina e nei paesi dell’ex-blocco sovietico.

Il percorso fin qui tracciato non è certo né lineare né definitivo, anche perché l’Occidente, pur manifestando qualche critica nei confronti della repressione di Erdogan nei confronti dei suoi avversari, veri o presunti tali, dovrà fare buon viso a cattivo gioco per un periodo, a questo punto, ancora piuttosto lungo.20 USA ed Europa non possono permettersi di perdere Ankara che, occorre qui sottolinearlo con forza, rappresenta il secondo contingente militare della NATO, dopo quello statunitense, sia per importanza che dal punto di vista numerico.21 E qualsiasi siano stati i motivi e gli attori ultimi del tentativo di colpo di Stato del 15 luglio, fino a quando Erdogan non potrà essere sostituito con un personaggio “più affidabile”, questa è ancora la cosa che conta di più. Cercando di evitare nel prossimo futuro coinvolgimenti imbarazzanti e fallimentari nei confronti di operazioni destinate poi ad essere abbandonate a se stesse come quella di cui stiamo stati testimoni.

Con buona pace, comunque, di tutti quei “democratici” che strillano e si stracciano strumentalmente le vesti per una repressione che, pur essendo diventata più violenta e pericolosa, è presente e attiva in Turchia, soprattutto nel Kurdistan e nei confronti del PKK, da anni. E con buona pace ancora di coloro che vedono in Putin un agente dell’anti-imperialismo oppure di coloro che ancora non vedono la differenza tra i Kurdi del Rojava e della Turchia e di quelli del Nord Irak che fin dalla Guerra del Golfo agiscono col beneplacito americano e a fianco degli interessi statunitensi nella speranza di spartirsi, tra i clan Barzani e Talabani, un possibile feudo ricco di petrolio e, forse, di altri minerali preziosi. Area in cui gli Stati Uniti, dopo che le forze irakene hanno strappato all’ ISIS “il controllo della della base militare di Qayara, avamposto strategicamente ben posizionato per sferrare attacchi a Mosul, “capitale” irakena del Daesh, stanno valutando la possibilità di trasformare questa base in un avamposto permanente da cui far partire le missioni anti-ISIS, anche quelle che fino ad oggi partivano dalla base NATO di Incirlik, in Turchia, e dalle altre basi USA nell’area.22

erdogan Certo è che questa situazione generale vede un ritorno trionfante del nazionalismo. Occorre qui affermarlo senza timore: non solo dall’alto ma anche dal basso, poiché in una situazione di malessere generale e di progressivo peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, in America come in Medio Oriente e ancora qui in Europa, e in assenza di una qualsiasi altra seria proposta di opposizione anti-imperialista e di riorganizzazione socio-economica e territoriale che neghi l’attuale modo di produzione capitalistico, larghi settori di quella che è ancora definibile come “classe degli oppressi” si rifugeranno sempre più nell’esaltazione delle proprie radici e nel fasullo conforto di una peregrina identità nazionale e/o religiosa. Ulteriore fattore e motore delle guerre a venire. Come il nazionalismo turco di Piazza Taksim, sostituendo le precedenti proteste anti-Erdogan, già ci ricorda in maniera abbastanza eloquente.


  1. https://forum.termometropolitico.it/339961-anche-la-turchia-sogna-guerra-agli-usa.html  

  2. Dopo la sua elezione a Primo Ministro nel 2003, il leader turco ha mantenuto tale incarico fino al 2014 quando è stato eletto Presidente con le prime elezioni presidenziali dirette della storia del paese  

  3. Eliza Ungaro, Perché Erdogan ha “licenziato” Davutoglu, spiegato, 20/05/2016 http://www.thezeppelin.org/erdogan-davutoglu/  

  4. Solo a titolo di esempio: http://www.repubblica.it/online/fatti/paki/paki/paki.html  

  5. Su questo si confronti: https://www.carmillaonline.com/2016/07/21/istanbul-torino-la-parola-dordine-sola-repressione/  

  6. http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/19/news/il_retroscena_una_cisterna_americana_ha_rifornito_gli_f-16_e_ora_erdogan_va_in_pressing_sull_alleato-144402675/?ref=HREC1-1  

  7. http://www.huffingtonpost.it/2016/07/25/turchia-arresta-giornalisti_n_11175734.html?1469435801&utm_hp_ref=italy  

  8. Non posso fare a meno di tracciare, in tal senso un parallelo con la fallita invasione della Baia dei Porci. Avvenuta a Cuba nell’aprile 1961. Un fallimento totale che , di fatto, inaugurava il mandato di John Fitzgerald Kennedy e smontava fin dall’inizio le sue promesse. Così come il mancato golpe turco chiude il secondo mandato di Barak Obama, dimostrando tutta la debolezza della sua azione politica di “rinnovamento” ( cfr. https://www.carmillaonline.com/2016/07/24/sono-fotogenico/). In entrambi i casi gli Stati Uniti hanno puntato su oppositori espatriati: gli esuli anti-castristi a Miami per il primo e Fethullah Gulen, probabilmente, per il secondo. cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Invasione_della_baia_dei_Porci e per una emozionante descrizione letteraria James Ellroy, American Tabloid, Mondadori 1995, pp.434-470  

  9. https://it.rbth.com/mondo/2016/07/21/e-stata-la-russia-a-salvare-erdogan_613821  

  10. http://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/11931054/becchi-golpe-turchia-ruolo-putin-salvataggio-erdogan-.html  

  11. ancora https://it.rbth.com/mondo/2016/07/21/e-stata-la-russia-a-salvare-erdogan_613821  

  12. Marta Furlan e Lorenzo Carota, Turchia, Israele e Russia: il ritorno della diplomazia, 11/07/2016 http://www.thezeppelin.org/la-turchia-la-normalizzazione-diplomatica-israele-russia/  

  13. come da nota precedente  

  14. Poiché è difficile che un golpe organizzato all’interno degli apparati Nato e dell’esercito turco sfugga all’occhio vigile di Israele  

  15. Il riferimento è all’attacco di maggio effettuato dalla coalizione ribelle Jaish al-Fatah nel villaggio di Khan Tuman (sud di Aleppo), che ha ucciso decine di combattenti iraniani del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), della brigata afghana Fatemiyoun (mercenari che combattono per l’Iran) e delle milizie sciite di Hezbollah. Secondo alcune fonti le vittime sarebbero un’ottantina, tra cui due generali di spicco; si è trattato della più grave perdita per le forze iraniane dall’inizio del conflitto” Samantha Falciatori, L’iranizzazione della Siria e l’intervento russo, 08/12/2015 http://www.thezeppelin.org/iran-russia-siria/  

  16. idem  

  17. Anche la più recente dichiarazione di Trump su una possibile uscita degli USA dal WTO (http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/07/24/news/trump_controlli_piu_severi_su_chi_arriva_dalla_francia-144740332/?ref=HREC1-8 ) sembra rientrare nella tradizione isolazionista e protezionista del Partito repubblicano. Tradizione interrotta sostanzialmente dai Bush, padre e figlio, che guarda caso non si sono presentati alla Convention repubblicana, avendo già dichiarato il proprio favore per l’interventismo della Clinton. Rappresentante perfetta, come ho già detto altrove, degli interessi petroliferi, finanziari e del complesso militare-industriale statunitense  

  18. Che sembra pareggiata soltanto dalla progressiva perdita di credibilità di Barak Obama. Figura destinata sicuramente ad entrare nella leggenda mediatica essendo stato “il primo presidente afro-americano” degli Stati Uniti, ma i cui insuccessi e promesse mancate si sono accumulati implacabilmente nel corso dei suoi otto anni di mandato. Rendendolo molto simile, in questo senso, a John Fitzgerald Kennedy, di cui si è già parlato in una nota precedente  

  19. http://www.analisidifesa.it/2016/07/libia-abbattuto-elicottero-di-haftar-morti-due-incursori-francesi/  

  20. Ingoiando la rimozione di alcuni ambasciatori ritenuti coinvolti nel complotto e la difesa della pena di morte da parte del Ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu: “L’Unione europea non ha il diritto di dare alla Turchia un ultimatum su questo tema, l’Europa non è la proprietaria della Turchia e non accetterà di essere guardata dall’alto al basso.” http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/25/news/turchia_arrestati_42_giornalisti_accusati_di_sostenere_gulen-144768272/?ref=HREC1-4  

  21. cfr. Francesco Valacchi, Turchia, le forze armate oggi, 5 dicembre 2013 http://www.ilcaffegeopolitico.org/13589/turchia-le-forze-armate-di-ankara-oggi  

  22. Zeppelin Newsletter, International Weekly Brief 18 – 24 luglio 2016  

]]>
Ora che la guerra sta accadendo https://www.carmillaonline.com/2015/11/24/paradossi-di-una-guerra/ Tue, 24 Nov 2015 17:00:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26796 di Sandro Moiso

Made_in_France_posterParigi – Londra, patto di guerra. Così titolava in prima pagina il “Corriere della sera” ieri mattina. Poi, nella stessa giornata, un caccia russo Sukhoi 24 è stato abbattuto nei cieli turco-siriani su ordine del premier Ahmet Davutoglu e la Russia ha schierato le proprie navi davanti alla costa turca. L’esplodere dei grandi conflitti è sempre stato preceduto dal manifestarsi di una grande “voglia di guerra”. Voglia che si manifesta nelle dichiarazioni pubbliche e nei discorsi privati, nei quotidiani e, oggi, nei media di ogni genere. Nelle scelte della politica e dell’economia. Nella preparazione delle azioni militari e [...]]]> di Sandro Moiso

Made_in_France_posterParigi – Londra, patto di guerra. Così titolava in prima pagina il “Corriere della sera” ieri mattina. Poi, nella stessa giornata, un caccia russo Sukhoi 24 è stato abbattuto nei cieli turco-siriani su ordine del premier Ahmet Davutoglu e la Russia ha schierato le proprie navi davanti alla costa turca. L’esplodere dei grandi conflitti è sempre stato preceduto dal manifestarsi di una grande “voglia di guerra”. Voglia che si manifesta nelle dichiarazioni pubbliche e nei discorsi privati, nei quotidiani e, oggi, nei media di ogni genere. Nelle scelte della politica e dell’economia. Nella preparazione delle azioni militari e in quelle repressive. Nella designazione di un nemico disumano, meritevole di ogni violenza e di ogni atto di vendetta.

Voglia di armi
“Energia e difesa trainano le borse”. Non erano ancora passati cinque giorni dai fatti di Parigi che, mercoledì 18 novembre, “il Sole 24 Ore” poteva trionfalmente dichiarare in prima pagina la felicità degli investitori per la situazione venutasi a creare per le conseguenze poltico-militari degli attentati messi in atto dai militanti dell’Isis . Come se ciò non bastasse sulla colonna di sinistra un altro articolo dichiarava, quasi spudoratamente: “Europa e conti. Più che la stabilità poté la sicurezza”.

L’appello di lunedì 16 novembre del Presidente della Repubblica francese alla clausola dell’articolo 42, punto 7, del Trattato di Lisbona, riferito al mutuo soccorso europeo, ha aperto di fatto la porta alla possibilità di uscire dai vincoli dei trattati europei, riguardanti la spesa degli stati, per tutto ciò che riguarda la sicurezza ovvero uomini, armi e tecnologie securitarie. Il taglio della spesa pubblica, tanto richiamato da tutti i partiti di governo e di opposizione, in un solo colpo può quindi essere aggirato, grazie sostanzialmente all’appello di François Hollande, a favore delle imprese fornitici di armamenti per gli eserciti e servizi all’intelligence.

Da qui la gioia delle Borse, per le quali, evidentemente, i morti, parigini o siriani che siano, della guerra in atto non sono altro che una forma di interesse da pagare per il buon funzionamento e la ripresa dei mercati. Una specie di keynesismo del sangue che andrebbe di diritto inserito tra i crimini dei potenti e dell’economia di recente analizzati da Vincenzo Ruggiero in alcuni suoi testi.1

Sabato 21 novembre “Repubblica.it” titolava “L’affare della guerra all’Is: boom di Borsa e vendita di armi, l’Italia c’è”, affermando chiaramente che “Domandare, offrire; vendere, comprare. Le regole del mercato sono poche e semplici. E la guerra aperta dalla Francia e dalla Russia dopo gli attentati terroristici ad opera dell’IS non fa eccezione. Per chi domanda sicurezza, c’è chi offre strumenti di difesa; per chi vende armi, c’è chi le compera. Gli stanziamenti degli Stati per armarsi contro la minaccia terroristica cresceranno, questa è una delle poche certezze di questi giorni: Francois Hollande ha già ottenuto da Bruxelles di fare più deficit del previsto e anche la Stabilità italiana si prepara a trovare 120 milioni di nuove risorse.2

Per poi proseguire “Con i lampeggianti delle sirene parigine ancora accese, già si sapeva che gli Usa avevano venduto migliaia di bombe intelligenti all’Arabia Saudita, per 1,29 miliardi di dollari di valore. Per chi avesse dubbi, basta guardare all’andamento di Borsa, dove fiutare l’affare è la regola: aziende come la leader delle armi Lockheed Martin, ma anche altri colossi come Bae System, la Airbus e la Boeing (che non producono solo aerei passeggeri) e la nostra Finmeccanica hanno registrato un balzo in avanti sui mercati. L’indice Bloomberg del settore aero-spaziale e della difesa, dagli attentati di Parigi ha guadagnato il 4,5%, Finmeccanica più dell’8%”.

Per essere bipartisan occorre poi ricordare che Carlo Pelanda, su “Libero” di domenica 22 novembre, non dimenticando che “La grande depressione americana degli anni ’30 finì per la svolta espansiva e mobilitante data dall’entrata in guerra nel 1941”, ha sottolineato come non si veda “una mobilitazione pacifista contro i bombardamenti, manco tanto selettivi, di Raqqa o una condanna morale di Hollande perché, oltre alla parola «guerra», ha anche aggiunto «vendetta». Pare che la percezione sia quella di una Pearl Harbour europea caricata di una forte caratterizzazione del nemico come indegno e non meritevole di pietà”.3 Sintetizzando: il clima favorevole alla guerra c’è, vediamo solo di sfruttarlo al meglio.

Il paradosso sta nei fatti: finita quella che si potrebbe definire come la terza guerra mondiale, con cui sostanzialmente, tra il 1991 e, indicativamente, l’eliminazione di Osama Bin Laden, gli Stati Uniti hanno cercato di ridisegnare a proprio vantaggio il panorama geo-politico venutosi a creare nel quarantennio di divisione condominiale del mondo con l’URSS dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha avuto inizio, proprio dall’imbarbarimento di consuetudini e stati seguito alla (fallimentare) balcanizzazione dell’Europa Orientale e del Vicino Oriente voluta e perseguita dai vertici politico-militari ed economici statunitensi, la quarta.

Mentre la terza, però, aveva visto ancora una parte consistente del mondo, sviluppato e non, adattarsi al comando americano sperando di trarre vantaggio sia dal rafforzamento imperialista statunitense che dall’indebolimento e dalla scomparsa dell’imperialismo sovietico in nome di un Nuovo Ordine Mondiale, oggi a seguito della crisi economica, dello sviluppo e della affermazione di varie potenze regionali e mondiali, della debolezza della strategia americana e delle sue possibili prospettive, si ha uno scontro di tutti contro tutti. In cui tutti gli attori sono contemporaneamente possibili alleati e possibili nemici. Dal punto di vista capitalistico, mercantile e finanziario è una situazione magnifica: tutti possono vendere armi a tutti in attesa che i fronti si definiscano meglio e le popolazioni, soprattutto in Occidente, si abituino all’idea dell’inevitabilità dei sacrifici determinati dal clima bellico e della giustezza delle ragioni della propria “patria” o del proprio schieramento di riferimento.

Così la Francia può ballare tra Stati uniti e Russia e l’Italia vendere armi agli Emirati del Golfo e alla Turchia (solo per citare due esempi) continuando a gridare, sempre più forte “Al lupo! Al lupo!” per il nemico alle porte. Quando il vero nemico, il più importante, è costituito proprio da quei governi che ci stanno portando al macello. Così mentre gli Stati Uniti, nel corso della terza, avevano pensato di preparare una situazione utile sia a contenere gli alleati/concorrenti occidentali, sia a circondare strategicamente il colosso cinese, ora si trovano impantanati in una situazione in cui ad ogni falso movimento rischiano di calpestare pericolosamente i piedi di possibili alleati e possibili avversari (ancora una volta i balletti di Kerry e Obama tra Iran, Israele, Turchia, Russia ed Arabia Saudita possono servire da esempio).

Ballando sull’orlo del baratro qualcuno inizierà a scivolare, trascinando con sè tutti gli altri. In Turchia, in Siria, sulle coste del Mediterraneo: dove sarà, sarà. Il luogo non sarà così importante alla fine.4 Per questo ho detto e ripeto ancora che il 13 novembre non corrisponde all’11 settembre 2001 (tutto americano), ma al 28 giugno 1914.

L’italietta, intanto, corre gioiosa incontro al proprio destino: soddisfatta degli investimenti arabi sul territorio nazionale e nella sua linea aerea di bandiera, spera di continuare a vendere armi a tutti, facendo girare a mille gli stabilimenti di Finmeccanica e della Beretta e facendo finta che il decreto legge che proroga la partecipazione militare italiana a missioni internazionali approvato alla Camera, con la norma che consentirà agli “007” di avvalersi dei corpi speciali per le operazioni all’estero, non costituisca ancora un atto di guerra.5

In che modo la lotta al terrorismo sia un affare interessante per le aziende del comparto è scritto anche nella relazione al bilancio 2014 di Finmeccanica, portabandiera italiana della Difesa. Già in chiusura dello scorso esercizio, ad assalto a Charlie Hebdo concluso, si registrava che «la spesa per nuovi investimenti tenderà nei prossimi anni a crescere con un ritmo intorno al 2% annuo, grazie al lancio di programmi per lo sviluppo di nuovi sistemi di armamento e allo stanziamento di fondi per operazioni contro il terrorismo organizzato internazionale (circa 40 miliardi di euro tra il 2015 e il 2017)» […]L’azienda della Difesa è presente con dodici siti tra Arabia, Emirati arabi uniti e aree circostanti. Con gli Eau, in particolare, nel bilancio di sostenibilità Finmeccanica ricorda che c’è un interesse «testimoniato dalla più che quarantennale presenza sul territorio degli Eau, con i quali sono stati avviati importanti programmi di sviluppo che hanno condotto alla creazione di una sede ad Abu Dhabi, con funzione di coordinamento di tutte le attività nell’area. Finmeccanica intende rafforzare la partnership con gli Emirati Arabi Uniti mediante la definizione di ulteriori alleanze con il settore pubblico e privato e con importanti enti di ricerca governativi, ampliando la rete di collaborazione con i player di settore locali». A scanso di equivoci, proprio in questi giorni l’ad Mauro Moretti è tornato a chiarire che l’interesse è rivolto in tutte le direzioni: «Fornire armamenti a paesi come Arabia Saudita e Qatar che sono considerati controversi? Sono paesi che sono legittimati dagli Usa ed entrano a far parte del fronte Occidentale in questa vicenda»“.6 Continuando a far finta che un comune fronte Occidentale ancora esista.

… e di petrolio
L’euforia borsistica, come si diceva all’inizio, si è estesa anche all’altro grande protagonista dei drammi mediorientali presenti e passati: il petrolio.
Protagonista indiscusso dello scontro sia mondiale che locale tra potenze imperiali, ma anche tra potenze regionali con aspirazioni globali come ben dimostra il coinvolgimento nel dramma siriano di Arabia Saudita, Stati del Golfo e Turchia, più o meno, dallo stesso lato e Iran dall’altro.7 Petrolio che costituisce anche una delle fonti dirette di finanziamento dello stesso Stato islamico e uno, se non l’unico, dei principali motivi della sua azione nel Vicino Oriente e in Africa.

I proventi vengono per il 27 per cento dalla vendita di petrolio” sostiene in un articolo, sull’Espresso on line del 20 novembre, Gianluca Di Feo a proposito delle finanze dell’Is.8 Mentre Maurizio Ricci, in una più dettagliata analisi, sostiene che, pur essendo limitate le capacità estrattive dei miliziani, lo Stato islamico ha potuto contare sull’estrazione di 50.000 barili giornalieri nei territori occupati in Siria. nella zona orientale di Deir al-Zour, e altri 30.000 nella regione di Mosul.

Una parte di questo petrolio è avviato attraverso mezzi di fortuna, asini compresi, verso la Turchia dove, nel terminale petrolifero di Ceyhan può essere mescolato con il greggio ”proveniente da fonti legittime”. “Di fatto, l’Is può vendere il suo greggio, in condizioni di monopolio, nella regione che controlla, […]Gli esperti calcolano che questo flusso porti oggi l’equivalente di un milione, un milione e mezzo di dollari al giorno nelle casse del Califfato. In prospettiva, un tesoro di 4-500 milioni di dollari l’anno […]L’Is gestisce, però, solo in parte il traffico. I jihadisti hanno il controllo diretto dei giacimenti e quello, diretto o indiretto, di alcune delle maggiori raffinerie.
Ma il trasporto del greggio verso queste raffinerie e le molte piccole e piccolissime, quasi casalinghe, è assicurato da centinaia di operatori indipendenti. Chi ha potuto girare nelle aree controllate dall’Is dice che, fuori dai giacimenti, ci sono code fino a 6 chilometri di camion che aspettano di poter riempire le loro cisterne
”. 9

Solo recentemente, però, l’aviazione americana, forse seguendo l’esempio di quella russa, ha iniziato a bombardare tali raffinerie, spesso mobili, dislocate principalmente lungo il corso dell’Eufrate. Una delle fonti di finaziamento è stata dunque per lungo tempo operativa e, nonostante tutto, continua ad esserlo tutt’ora. Così come il Qatar, che è tra i maggiori indiziati per il sostegno allo Stato islamico (presente probabilmente nella lista dei quaranta paesi finaziatori dell’Isis cui ha recentemente accennato Putin), continua a godere di una fitta rete di relazioni in Europa e in Italia grazie a investimenti milionari nei settori chiave: dalla moda al turismo fino all’alimentare.

Pur essendo noto che la sua ostilità nei confronti del regime di Assad, secondo una ricostruzione del giornale britannico The Guardian, , è dovuta al fatto che nel 2009 “il presidente siriano Assad rifiutò la proposta dell’emirato di costruire un gasdotto che si sarebbe collegato all’Europa in concorrenza con il gasdotto della Russia di Vladimir Putin, alleato dei siriani.
Non solo: l’anno successivo Damasco strinse un accordo per un’altro gasdotto con l’Iran, sciita, che avrebbe permesso a quest’ultimo di rifornire l’Europa attraversando Siria e Iraq. […] Il Qatar possiede un terzo delle riserve mondiali di gas, ma ha un bisogno disperato di un mercato come l’Europa per venderle. E la Siria avrebbe ostacolato un possibile sbocco
”.10

Anche in questo caso, non vi è dubbio, tutti vendono a tutti e tutti sono disponibili a comperare. L’unico problema, a Est come a Ovest oppure per gli stati del Middle East, è costituito dal determinare, manu militari, chi gestirà e dove passerà il fiume di petrolio e quello di dollari che porta con sé.

Ora che la guerra sta accadendo ancora tarda a formarsi una coscienza anti-militarista. Per ora ancora niente “guerra alla guerra!“, mentre soltanto qualche debole proposizione di principio sembra costituire la risposta antagonista (?) alla carneficina che si avvicina. Basterà a dar vita ad un movimento unitario o sarà sopraffatta anch’essa dallo sciame sismico della paura e del perbenismo nazionalista ed identitario prodotto e alimentato dall’imperialismo?

N.B.
L’immagine scelta per accompagnare l’articolo costituiva il manifesto pubblicitario di un film francese sul terrorismo islamico nelle banlieu, la cui uscita nelle sale cinematografiche era stata programmata per il 18 novembre. A seguito dei fatti di Parigi l’uscita del film è stata rinviata a data da definire così come anche il poster sarà sostituito da altra immagine (anch’essa ancora da definire)


  1. Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli 2013 e Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli 2015 (Quest’ultimo recensito su Carmillaonline il 28 ottobre 2015 https://www.carmillaonline.com/2015/10/28/lessenza-criminale-del-potere-v-ruggiero-perche-i-potenti-delinquono-recensione-ed-intervista-allautore/)  

  2. http://www.repubblica.it/economia/2015/11/21/news/armi_isis_guerra_borsa_emirati_arabi-127849393/?ref=HREC1-8  

  3. Carlo Pelanda, La guerra all’Isis può farci guadagnare, Libero, 22/11/2015, pag. 9  

  4. Si veda anche: https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/  

  5. Il decreto prevede quasi 59 milioni di euro fino al 31 dicembre prossimo per la missione in Afghanistan, 42.820.407 euro per la partecipazione ad Unifil in Libano e 64.987.552 euro per attività della coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica dell’Isis. Per quanto riguarda le missioni in Europa, il provvedimento destina, tra l’altro, 4.213.777 euro per la proroga della di Active Endeavour; 33.486.740 euro per la proroga di EUNAVFOR MED, 25.602.210 euro per le missioni nei Balcani, e quasi 70mila euro per la partecipazione di personale militare alla missione dell’Unione europea in Bosnia-Erzegovina, denominata EUFOR ALTHEA“ https://www.lastampa.it/2015/11/19/italia/politica/alla-camera-via-libera-per-la-proroga-delle-missioni-allestero-corpi-speciali-a-supporto-degli-qWwuz8EYSTXIIgVGurvb8I/pagina.html  

  6. Si veda ancora http://www.repubblica.it/economia/2015/11/21/news/armi_isis_guerra_borsa_emirati_arabi-127849393/?ref=HREC1-8  

  7. Si veda in proposito https://www.carmillaonline.com/?s=la+bomba+iraniana  

  8. http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/11/20/news/terrorismo-da-dove-vengono-i-soldi-del-califfo-1.240236?ref=HRBZ-1  

  9. http://www.repubblica.it/esteri/2015/11/19/news/bombe_sul_petrolio_dello_stato_islamico_la_guerra_di_usa_e_russia_al_tesoro_di_al_baghdadi-127679597/  

  10. http://www.repubblica.it/economia/2015/11/20/news/qatar_isis_italia-127717794/  

]]>