Antonio Merola – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 20:00:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Coordinate per un esordio poetico. Su “Allora ho acceso la luce” di Antonio Merola https://www.carmillaonline.com/2023/04/04/coordinate-per-un-esordio-poetico-su-allora-ho-acceso-la-luce-di-antonio-merola/ Tue, 04 Apr 2023 20:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76758 di Iuri Lombardi

Come si riconosce un poeta? Ho scoperto Antonio Merola durante un reading: aveva sì e no vent’anni. Per la prima volta, mi sono imbattuto in un ragazzo che diffondeva e sosteneva la necessità della letteratura come vita. E questa evangelizzazione gliela si leggeva negli occhi, nella postura, nella voce. Si era formato sull’America, sul mito dei beat, i poeti apparentemente sconclusionati della vita e che giravano per i viali all’ombra di intere fungaie di grattacieli. Anche se lui si aggirava per Roma e i suoi punti antropici erano capitolini, la [...]]]> di Iuri Lombardi

Come si riconosce un poeta? Ho scoperto Antonio Merola durante un reading: aveva sì e no vent’anni. Per la prima volta, mi sono imbattuto in un ragazzo che diffondeva e sosteneva la necessità della letteratura come vita. E questa evangelizzazione gliela si leggeva negli occhi, nella postura, nella voce. Si era formato sull’America, sul mito dei beat, i poeti apparentemente sconclusionati della vita e che giravano per i viali all’ombra di intere fungaie di grattacieli. Anche se lui si aggirava per Roma e i suoi punti antropici erano capitolini, la sua bussola indicava l’ovest. Una questione che mi colpì subito fu l’importanza che dava al tempo. Un tempo che, per ragioni biografiche, sosteneva gli fosse stato sottratto. Portato via. Il suo tempo era infatti un tempo di vita, uno spazio fisico dove potesse essere, oltre che scrivere, poesia: dove poesia e vita combaciassero.

Sono passati quasi dieci anni da quando mi fece leggere le prime bozze di questo lavoro, che abbiamo avuto modo di discutere assieme. È da pochi, riuscire ad aspettare… con queste premesse. Riuscire ad aspettare il momento giusto, l’editore giusto; altro tempo sottratto, si potrebbe pensare. Ma Merola ha sempre sentito una particolare responsabilità verso queste poesie, perché non riguardano solo la sua storia, come capirà chi nei prossimi mesi leggerà la raccolta: abbiamo a che fare con una voce che si presta a prestarsi e che scrive nella lingua dell’empatia. Allora ho acceso la luce ha seguito la stesura lunghissima di un esordio mutaforma, che ha accompagnato l’autore negli anni della maturazione e che è giocoforza cambiato con lui, senza però che autore e testo si tradissero mai a vicenda. E la raccolta ha trovato infine un proprio indirizzo di residenza poetica: il progetto Taut Editori a cura di Alberto Pellegatta, dopo una prima proposta nell’antologia Planetaria – 27 poeti del mondo nati dopo il 1985 (2020).

Il modo di fare poesia di Merola è assai particolare, a cominciare dal suo modus operandi che, come continuava a ripetermi mentre negli anni la raccolta prendeva consistenza, parte da una speciale intuizione di Allen Ginsberg: non capire che cosa si scriva, magari capirlo poi. Questo è stato forse il motivo per cui la gestazione di Allora ho acceso la luce è durata i suoi interi vent’anni: Merola cercava di capire che cosa avesse scritto. Sapeva che cosa aveva chiesto alla poesia, ma come leggerne le risposte? Abbiamo cercato di decifrarlo assieme, a volte. Quanto finora, non significa che a livello della costruzione metrica Merola segua a menadito la lezione dei beat. Si tratta piuttosto di una serie di esperienze biografiche così ingombranti, che quella tra la sensibilità di Merola e la scrittura poetica è stata una chiamata reciproca. Una vocazione senza deterrenti. Si tratta di un modo di fare poesia come fosse un oblio costante: fuoriesce nell’attimo in cui si presenta. Per cui nella poetica di Merola la vita raccontata – che è, sul piano ontologico, una sequenza di presenti incompresi – diventa magia, mettendo in moto una dinamica riscontrabile in pochissimi poeti. Nei suoi versi possiamo riscontrare una forma di imagismo letterario. Si tratta di una sensibilità che gli permette di leggere la realtà attraverso una lente magica, da bambino, e in cui diventare il prestigiatore di parole e di ambientazioni trasognate, l’artefice di incantesimi. Ora è chiaro che tutto questo, a partire cioè dalla questione dell’imagismo, porta Merola ad affacciarsi nel panorama letterario italiano come caso particolare, fuori dai soliti clichè di maniera. Nel suo mondo, per restare in Italia, non ci sono altri casi: la sua poetica resta il solo caso.  Di seguito, cercherò di fornire alcune coordinate per guardare alla costellazione di queste poesie.

Con la prima sezione, Merola ci lascia entrare in quella che una volta è stata per lui La vecchia casa. Tra queste mura vive ancora uno degli spettri, se non il principale, della sua poesia: cioè una ferita autobiografica che cerca di attuare «il ripudio di una biografia». La sezione che per ragioni ontiche chiamo primo tempo infatti si aggira per la memoria del poeta bambino nella Roma di Prati, tra i viali alberati dei platani, in un quartiere che oggi è parte del centro alto-borghese della città e che messo su riga è il cuore della geografia interiore dell’opera. Prati diventa il palcoscenico drammatico di una povertà ossimorica, perché vissuta come povero tra i ricchi, della sopravvivenza quotidiana, della scelta tra pagare una bolletta della luce oppure quella del gas, di come mettere insieme il pranzo con la cena: «avevamo così poca fame/ che cercavamo da mangiare nella spazzatura».  E se la povertà è la protagonista della prima sezione del libro, il dramma sarà incantato con la magia.

Con Allora ho acceso la luce, il secondo tempo che dà il titolo alla raccolta, Merola gioca con il miraggio di illuminare la casa biografica riuscendo magari a pagare la bolletta arretrata, la lucina che di notte protegge i bambini dai mostri e infine, direi soprattutto, l’amore dell’altro – un altro però ferito dalla malattia. Quale? Di che tipo? Così la sezione, assieme alla successiva La ricerca di una cura, è una cronaca empatica che abbraccia senza pregiudizio alcuno coloro che, se non ci fosse stato Basaglia in questo paese, sarebbero ancora definiti come malati di mente e che, in parte, sembra seguire le orme di quel rapporto unico tra lo scrittore americano F. Scott Fitzgerald e Zelda Sayre, di cui Merola si era già occupato in un precedente saggio, proponendo una «critica empatica» (F. Scott Fitzgerald e l’Italia, 2018). Quella dell’empatia è la parola chiave per comprendere tutta la poetica di Merola, perché è lo sguardo con cui legge il mondo:  «ma ho paura… ho paura della vita che non scrivo». E la vita che non si riesce a scrivere è la vita che non abbiamo mai cercato di comprendere. È un amore, quello tra il poeta e il tu di queste sezioni, che come arma di difesa dal mostro che abita la mente, del tarlo, ha solo una lucina da cortesia, abbastanza per aspettare l’alba, troppo poco per uscire fuori da sotto il letto: «Ho provato a portarti lontano,/ ma il mostro ci ha seguito ovunque».

«Conoscevo un uomo che collezionava gabbie/per sostenere la volontà degli uomini di non sapere/ volare» inizia così la terza parte, il terzo tempo con Il compagno di una generazione. La cronaca si allarga, si dilata attorno a un nuovo compagno di viaggio ferito, a chiunque abbia delle cicatrici nella mente; a chiunque sia costretto a vivere in un labirinto cieco, in preda alle proprie ossessioni parlanti. È sotteso che Merola racconti qualcosa che abbia visto, ma che insieme protegge nell’anonimato del canto: del poeta biografico, se si esclude la prima sezione, rimangono in tutta la raccolta solo gli occhi. Una vita di specchi e di echi, di riverberi di se stessi «eppure io/ sono uguale a te ma sono/ Antonio. Anche questa poesia si farà/ chiamare Antonio: Antonio: Antonio…». Il poeta si chiama, si interroga, cerca qualcosa ma ritrova se stesso in quanto davanti allo specchio generazionale. Ma assieme, come se si trattasse di un unico grande brano, continua anche in questa sezione la ricerca di una cura possibile, una cura che possa curare tutti: c’è un bisogno assoluto di empatia in eccesso. E la soluzione sembra essere la poesia stessa, interrogata sia come una «merce replicabile», cioè come medium per dare al poeta un senso professionale al proprio essere nel mondo, sia ancora una volta attraverso l’equazione letteratura come vita, perché è questa una poesia di ascolto, che si presta a fare cantare gli altri, di fatto coautori di questo lavoro. È l’esigenza di andare oltre l’aspetto biografico e questo oltre, questo calarsi nei panni di un Ulisse di città, fa che la poesia sia replicabile. A differenza degli assolutismi poetici che la tradizione (purtroppo) ci ha abituati ad assorbirci, che da sempre ci ha propinato, Merola nel suo vortice di incantesimi ci suggerisce che la poesia magica se avvenuta una volta può accadere ancora, a patto però di non comprenderne le formule. Anche il poeta, come il lettore, deve stregarsi. Dunque, da questo insieme nasce il senso della replica poetica, della poesia come merce: protagonista di mercato. Se fino ad oggi ci avevano insegnato che la poesia non è spendibile, è elitaria, poco versatile, il poeta smentisce proponendoci una scrittura che con empatia inglobi letteralmente gli altri nel suo canto, per riscattarli dall’incomprensione.

Così Merola non solo trasmuta il senso del viaggio con la poesia (finalmente tutta da scrivere), ma attraverso il movimento, verso le terre del nord, a bussola impazzita, approda alla favola, all’idillio, se pur anche in questo caso con dolore. C’era una volta la città delle stelle è una sezione fuori dal tempo: una fiaba in versi e assai determinante per lasciarsi incantare dalla magia della raccolta. In un gioco in cui luci e ombre si perseguono, il poeta mette in scena l’incantesimo: la storia di una stella e un uomo che rinascono sulla Terra condividendo un solo corpo, per cercare di depistare un mostro capace di mettere sotto assedio tanto il regno della fantasia, quanto il piano della realtà, «hai chiesto: rinasciamo insieme. Non sapevi che cosa significasse/ tornare indietro, ricominciare daccapo». Merola porta a compimento una catabasi, dal mondo delle stelle alla fondazione di una città formata dalle stelle, capace di illuminare una autobiografia rifiutata, inventata, diversa proprio perché letta mediante la lente del sortilegio, lasciandoci in balia di un mare infinito, di un oceano di emozioni, come suggerisce il verso: «ma non è facile fidarsi al buio».

 

 

Anteprima a cura di Iuri Lombardi

 

 

Da Allora ho acceso la luce (Taut Editori, 2023)

 

Che cosa faremo quando finiranno i soldi

se da qualche parte ci aspetta un ponte

o forse una madre a indovinare la forza

per cercare ancora una parte nel branco: ma fare la spesa

ogni giorno era la prima soluzione contro l’assurdo

come accettare di avere scoperto il mostro

sotto il letto a sorridere nero come una parte della famiglia.

Ci eravamo lasciati alle spalle una mancanza

tra le stanze vuote: ricordo ancora la povertà della casa

quando non avevamo ancora la corrente, ogni bolletta

costava una madre o una schiena e minorava l’esistenza

come matricolare la vita giorno per giorno

o subire la tragica necessità del cibo:

avevamo così poca fame

che cercavamo da mangiare nella spazzatura.

 

*

 

C’era ancora la paura del ritorno:

chiedevamo l’unicità a qualcosa che non poteva ripetersi

una volta sola come tremare gli agguati degli uomini,

piangere l’inverno. Ci avrebbero di nuovo tagliato

la corrente, ci avrebbero di nuovo portato via

la mobilia della casa, finché non saremo piegati alle cose

gettate: allora facevamo la doccia fredda
fino a tracimare il gelo. Non ho mai saputo

meglio la fine: vorrei pagare il mese con le parole,

mangiare la carta – invece ho una fame vera

di trascrivere l’arcobaleno in bianco e nero,

alterare il diluvio: voglio alberare il cielo di caducifoglie.

 

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NextNature. Siamo incapsulati dentro una tecnosfera? https://www.carmillaonline.com/2022/10/03/nextnature-siamo-incapsulati-dentro-una-tecnosfera/ Mon, 03 Oct 2022 20:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74097 di Antonio Merola

In Moonfall (2022) il regista Roland Emmerich mette in scena una Terra minacciata dalla collisione con il proprio satellite: la Luna sarebbe in realtà una megastruttura spedita nel cosmo da una civiltà umana pluriplanetaria, ma scomparsa a causa di una guerra con una intelligenza artificiale emancipata e diventata ostile, per dare una nuova possibilità alla specie umana popolando il sistema solare. A scontrarsi sono quindi due intelligenze non umane: da una parte una AI che vuole prosperare per conto suo e che vede una minaccia nell’umanità, dall’altra una struttura artificiale [...]]]> di Antonio Merola

In Moonfall (2022) il regista Roland Emmerich mette in scena una Terra minacciata dalla collisione con il proprio satellite: la Luna sarebbe in realtà una megastruttura spedita nel cosmo da una civiltà umana pluriplanetaria, ma scomparsa a causa di una guerra con una intelligenza artificiale emancipata e diventata ostile, per dare una nuova possibilità alla specie umana popolando il sistema solare. A scontrarsi sono quindi due intelligenze non umane: da una parte una AI che vuole prosperare per conto suo e che vede una minaccia nell’umanità, dall’altra una struttura artificiale integrata con la specie umana in un rapporto simbiotico e coevolutivo. Una battaglia continua proprio all’interno della Luna, mentre la prima AI cerca di spingere il satellite a scontrarsi con il pianeta e l’altra di mantenerne l’orbita stabile, necessaria alla vita biologica. Sembra di sentire parlare Koert van Mensvoort quando sostiene a proposito delle creature memetiche: «Le nuove specie, basate sullo scambio di informazioni, non ci rimpiazzeranno o subentreranno al nostro posto più di quanto gli alveari abbiano rimpiazzato le singole api. Formeranno invece una superstruttura in cui verremo incapsulati».

Con NextNature. Perchè la tecnologia è la nostra natura del futuro, pubblicato in Italia da D Editore in collaborazione con Future Fiction (2022), Koert van Mensvoort presenta una teoria interessante, che potremmo riassumere in questo modo: così come la biosfera si è sviluppata sulla precedente geosfera, le creazioni tecnologiche degli esseri umani hanno formato una tecnosfera, che cresce e interagisce con la biosfera, e che ha finito per modificare il mondo in cui viviamo al punto da instaurare quella che Mensvoort definisce una natura prossima. Il fatto che le attività umane abbiano alterato gli ecosistemi come nessuna altra specie, fino a causare il surriscaldamento globale e ad avviare una sesta estinzione di massa, portarono il Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen a coniare il termine Antropocene. C’è ancora un dibattito aperto nella comunità scientifica su quando datare la nuova era geologica, che si sostituirebbe all’Olocene, se alla comparsa dell’Homo Sapiens, considerando di fatto la nostra come una specie manipolatrice per natura, oppure in tempi più recenti a partire dalle rivoluzioni industriali, o ancora più vicino fissando il chiodo d’oro allo scoppio della bomba atomica. Certo è che, a prescindere da quando sarà stabilita la nascita dell’Antropocene, il tempo per rimediare alle conseguenze delle nostre attività prima di arrivare a un punto di non ritorno è ormai molto poco, questione di qualche anno. In questo quadro, si collocano gli aspetti più problematici della teoria di Mensvoort, che invece considera obsoleto il modello dell’Antropocene e di cui cercheremo di illustrare le connessioni principali.

«Guardatevi attorno nella stanza in cui siete e trovate la cosa più naturale. Cercate con cura. Siete voi». Questo è il punto di partenza della teoria di Mensvoort: fin dalla sua comparsa, Homo Sapiens ha manipolato la natura a proprio vantaggio grazie agli usi della tecnologia, fino alla comparsa della tecnosfera. Ciò che preme per prima cosa a Mensvoort è dimostrare come sia sbagliato giudicare una simile manipolazione innaturale. C’è alla base una idea mutuata dall’antropologia che considera quello umano come un «essere carente»: mentre ciascun animale pare essere attrezzato per un ambiente specifico, noi sembriamo non essere adatti a nessun ambiente in particolare. Ecco allora che a colmare il vuoto interviene la cultura: siamo da sempre esseri culturali per natura. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale nascono assieme e interagiscono tra di loro. Ne consegue, che a essere naturale è allora anche la nostra attività plasmatrice: «Siamo artificiali per natura […] gli esseri umani sono impegnati in un rapporto evolutivo simbiotico con la tecnologia». Grazie alle nostre tecnologie siamo riusciti a diffonderci nella maggioranza del pianeta, rendendo abitabile anche ciò che per noi non lo era, a discapito di altre specie. La cultura è la nostra attrezzatura. Il problema per cui la tecnologia ci sembra innaturale secondo Mensvoort è che continuiamo a «pensare alla natura come a ciò che è rimasto inviolato dalla mano umana». Paradossalmente, il mercato contribuisce ad alimentare questa idea. «La natura è un ottimo prodotto, forse quello di maggior successo del nostro tempo»: se ci pensiamo bene, ci vengono venduti solo gli aspetti della natura in armonia con le nostre vite e mai quelli tragici. Ma anche i gruppi ambientalisti mantengono una idea di natura «conservatrice», riassumibile nello slogan dagli echi trumpiani: «Rendiamo di nuovo grande la natura». Qui Mensvoort è impietoso, ma è chiaro come voglia calcare la mano per arrivare al nodo cruciale: la natura come l’abbiamo sempre immaginata è in realtà un prodotto culturale, tanto quanto la tecnologia ha carattere naturale.

Che cosa significa che «la biologia sta diventando tecnologia e la tecnologia sta diventando biologia»? Dobbiamo cogliere alcuni passaggi importanti. Esiste una natura autonoma dal nostro controllo, come i vulcani o il sole, ed esistono tecnologie create e controllate dall’essere umano, come i telefoni o le auto. La differenza tra i due poli non riguarderebbe solo ciò che è creato da noi e ciò che è naturale, ma anche ciò che è vivo da ciò che non lo è. Si tratterebbe però di una polarizzazione sbagliata, per Mensvoort. «Tradizionalmente, vediamo la natura come tutto ciò che nasce (le piante, gli animali, il clima, l’universo) e la cultura come le cose costruite dall’essere umano. Con la convergenza tra nato e costruito, questo confine è sempre più labile». Ormai manipoliamo a tal punto le cose nate che «la natura diventa cultura»: pensiamo alle nostre coltivazioni, in cui abbiamo agito sulla natura per adattarla alle nostre esigenze. Allo stesso modo, alcune tecnologie che abbiamo creato sono sfuggite al nostro controllo, diventando autonome: «la cultura diventa natura». L’esempio più estremo di Mensvoort sono le corporation, che considera come creature vive. Nessuno infatti potrebbe davvero sostenere di riuscire a controllarne il comportamento.

Per spiegare che cosa intenda, Mensvoort riprende una teoria chiamata dell’operatore: «Jagers op Akkerhuius afferma che l’evoluzione sia progredita dalle particelle più elementari verso strutture di complessità sempre maggiore. Ogni livello prevede un cosiddetto operatore (qualsiasi cosa sia, da un quark a un animale) che possiede una chiara interfaccia in cui sia incluso il livello precedente. Sebbene il cambiamento avvenga anche all’interno dei livelli, questi atti di inclusione sono i gradini evolutivi più importanti. Ciascun gradino permette, a sua volta, l’evoluzione dello stadio successivo». Ci sono sette livelli di complessità naturali, in cui quello successivo ingloba il precedente, per esempio pensiamo alla cellula formata dalle molecole, oppure agli organismi pluricellulari formati dalle cellule. Ogni livello quindi ha in sé più forme di vita, tale per cui la somma delle parti non coincide mai con il suo insieme: noi non siamo la somma delle nostre cellule, ma siamo anche le nostre cellule. All’ottavo livello si collocano invece delle nuove specie che Mensvoort definisce creature memetiche, perché non si basano sui geni, ma sui memi, teorizzati da Richard Dawkins come «unità di trasmissione culturale». Questa tecnologia globale starebbe inglobando così i livelli precedenti, diventato però qualcosa di metamorfico: una tecnologia viva.

Ecco qui dove si piazza il focus più problematico della teoria sulla natura prossima. Torniamo sull’esempio delle corporazioni: sono formate da esseri umani, ma agiscono per proprio conto. Si riproducono, creando nuove corporazioni, o muoiono andando in bancarotta. Hanno un proprio metabolismo. Il loro scopo è sopravvivere, anche se questo potrebbe danneggiare i suoi stessi creatori: «Una volta superato lo sciovinismo al carbonio del genere umano e aperta la mente all’idea che le aziende siano un nuovo tipo di organismo sulla Terra, il motivo per cui sembriamo non riuscire a risolvere problemi ambientali come la deforestazione e il cambiamento climatico diventa chiaro. Le compagnie non respirano aria pura. Le emissioni delle fabbriche ne aumentano, in realtà, il fatturato e ne rafforzano il metabolismo». È vero che l’insieme non coincide con la somma delle parti, ma qui Mensvoort sembra proporci una forzatura retorica. Leggiamo un passaggio da Howl di Allen Ginsberg: «Moloch whose mind is pure machinery! Moloch whose blood is running money! Moloch whose fingers are ten armies! Moloch whose breast is a cannibal dynamo! Moloch whose ear is a smoking tomb! / Moloch whose eyes are a thousand blind windows! Moloch whose skyscrapers stand in the long streets like endless Jehovahs! Moloch whose factories dream and croak in the fog! Moloch whose smokestacks and antennae crown the cities!» Moloch vive, si nutre, respira. Noi siamo dentro Moloch, incapsulati in Moloch. E soprattutto, Moloch è sfuggita al nostro controllo. È una personificazione efficace, in poesia. Ma Moloch, come tecnologia senziente, esiste davvero? La stessa costruzione discorsiva potrebbe valere per le galassie: collidono, si mangiano a vicenda o si espandono. Una galassia non è l’insieme delle sue parti e potrebbe essere l’ottavo livello di complessità evolutiva più di una corporazione o una rete bancaria. Mensvoort opera una traslazione di caratteristiche biologiche su delle creazioni non biologiche, cercando di giustificare il gioco linguistico attraverso la sostituzione dei geni con i memi. Manca però, in NextNature, uno sprofondo accurato proprio nella teoria dei memi. Sono gettati là, come quelli di internet.

Uno studioso a cui Mensvoort deve molto, ma che non viene mai citato, è probabilmente James Lovelock con la sua teoria di Gaia, da cui le logiche della tecnosfera non sembrano essere differenti: l’idea cioè che il pianeta Terra sia un gigante vivo, che inglobi in sé altri livelli di complessità evolutiva che collaborano con la parte inorganica al mantenimento delle condizioni necessarie alla vita biologica. Leggiamo le parole di Lovelock: «La parola Gaia mi serve a indicare la mia ipotesi che la biosfera sia un’entità autoregolata, che stabilisca le condizioni materiali necessarie per la propria sopravvivenza […] e che risulta perciò distinta dalla pura somma delle parti che la compongono» (da Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, 2021). Per quanto affascinante possa sembrare, la teoria di Lovelock non è stata accolta dalla maggioranza della comunità scientifica, anche se è sopravvissuta nell’immaginario per la forza poetica con cui riesce a farci sentire più vicini al nostro pianeta. La problematicità di una simile traslazione è quella di attribuire una coscienza a delle logiche reticolari, come osserva Telmo Pievani nell’introduzione alla nuova edizione: «Su questo versante Lovelock cammina però su un crinale potenzialmente scivoloso […] Leggiamo per esempio che questa entità globale avrebbe facoltà e poteri superiori di molto a quelli dei suoi singoli costituenti, che Gaia cerca e costruisce un ambiente fisico e chimico ottimale per la vita come sua finalità intrinseca, e così via, il che chiaramente è diverso dal dire che si è instaurata una regolazione biologica attiva che mantiene condizioni geofisiche relativamente costanti». Che si possa parlare di un debito di Mensvoort verso le teorie di Lovelock, sembra confermato anche dalla lettura di Novacene. L’età dell’iperintelligenza (Bollati Boringhieri, 2019): qui lo scienziato a cento anni torna sull’ipotesi Gaia, immaginando un passo successivo. L’Antropocene sarebbe un modello di lettura del mondo già obsoleto, perché molto presto sarà sostituito da una nuova era: quella del Novacene, in cui homo sapiens e macchine super-intelligenti collaboreranno tra di loro in un rapporto co-evolutivo ed entrambi avranno interesse a mantenere su Gaia le condizioni necessarie alla vita organica. In poche parole, una tecnosfera; con la differenza, che per Lovelock avvierebbe con noi una collaborazione interessata.

La teoria della natura prossima ha senza dubbio degli aspetti interessanti, su cui vale la pena di interrogarci e che sono stati illustrati fino a qui. Se da una parte è illuminante il discorso attorno alla produzione culturale della natura, dall’altra quando Mensvoort scrive che «Con “cultura” indichiamo tutto ciò che viene creato dal genere umano» sembra essere più vicino a una definizione tyleriana di cultura, immaginata come un «insieme complesso» che include le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume eccetera eccetera, rispetto a quella «ragnatela di significati» di cui ha scritto Clifford Geertz nella sua Interpretazione di culture (1973) e che ha rivoluzionato gli studi antropologici, immaginando invece «la cultura come un testo» che l’antropologo deve interpretare. Forse sarebbe meglio indagare la tecnosfera attraverso la teoria delle reti, a partire dal lavoro dello scienziato Albert-László Barabási in Link. La nuova scienza delle reti (Einaudi, 2004). È proprio il paradigma della teoria delle reti, che ha trovato negli ultimi anni un felice campo di attuazione nell’informatica, nell’economia, nell’ecologia (pensiamo solo ai lavori di Stefano Mancuso sull’intelligenza delle piante), nella sociologia, nell’antropologia e nelle neuroscienze, a rappresentare uno dei paradigmi contemporanei su cui fare maggiore affidamento. Anche le teorie di Barabási partono dall’assunto che un insieme non sia la somma delle sue parti. Per formare una rete, c’è bisogno di un numero di nodi che siano in connessione tra di loro. Barabási però presta una particolare attenzione a un tipo specifico di rete, quella «a invarianza di scala»: la differenza è che nelle reti casuali ogni nodo ha la stessa possibilità di avere dei link rispetto agli altri, mentre la rete a invarianza di scala è regolata da una legge di potenza che presenta degli «hub», cioè dei connettori con un numero maggiore di link rispetto agli altri nodi e che con il tempo sono destinati ad averne sempre di più, secondo la formula per cui «i ricchi diventano sempre più ricchi». Gli altri nodi sono destinati invece ad averne sempre di meno. Una rete a invarianza di scala è caratterizzata quindi dalla presenza di un «collegamento preferenziale» formato da tutti i suoi hub e dal fatto che possa crescere. Sebbene si evolvano però le reti sono immaginate come modelli di «una tela senza il ragno». Sarebbe bello guardare all’Antropocene come a un’era da lasciarsi dietro. Siamo però intrappolati nella ragnatela del cambiamento climatico. E il ragno, in questo caso, esiste: il ragno siamo noi.

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Amare negli occhi https://www.carmillaonline.com/2018/10/09/amare-negli-occhi/ Mon, 08 Oct 2018 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49078 di Antonio Merola

Giacevo lì da quando ero nato, solo. Le pareti erano di un rosso carnario, macabro; la luce penetrava appena, un bagliore tetro la cui oscurità si faceva tanto più fitta, quanto più ci si allontanava dall’oblò. L’oblò, l’oblò… una sostanza melmosa al tatto, unica fonte di chiaroveggenza: se la si toccava, le mani diventavano appiccicaticce, tuttavia, se ci si guardava attraverso, si poteva scrutare l’esterno e, più in là, da qualche parte, l’esistenza in moto. La maggior parte delle mie giornate le passavo in quel modo: scrutando. Ma ciò che [...]]]> di Antonio Merola

Giacevo lì da quando ero nato, solo.
Le pareti erano di un rosso carnario, macabro; la luce penetrava appena, un bagliore tetro la cui oscurità si faceva tanto più fitta, quanto più ci si allontanava dall’oblò.
L’oblò, l’oblò… una sostanza melmosa al tatto, unica fonte di chiaroveggenza: se la si toccava, le mani diventavano appiccicaticce, tuttavia, se ci si guardava attraverso, si poteva scrutare l’esterno e, più in là, da qualche parte, l’esistenza in moto.
La maggior parte delle mie giornate le passavo in quel modo: scrutando. Ma ciò che vi potevo osservare non erano nient’altro che essenze inconsistenti, ombre forse, prive di fisionomia. Questo perché, benché trasparente, la consistenza melmosa dell’oblò impediva alla nitidezza delle immagini di giungere alla mia vista; a vedere era in realtà la mia immaginazione e ogni forma, nella sua totalità, era per me irraggiungibile.
Inoltre, quelle figure non mi si presentavano solo attenuate, ma anche deturpate. Al centro esatto dell’oblò stava un altro oblò più piccolo, compatto e nero, da cui ogni immagine, ogni sfumatura, ogni raggio di luce mi erano negati in maniera assoluta. L’esterno sembrava prostrarsi davanti a quel piccolo muro, cedere di fronte a una compattezza impenetrabile, al tempo stesso assassina e benefattrice della mia capacità visionaria.
Il sonno mi veniva concesso secondo ritmi irregolari; o meglio, ero io a concedermi al sonno. Non avevo su di esso nessun potere. Di colpo infatti, qualcosa oscurava gli oblò e la mia stanza sprofondava in un buio cieco, angoscioso. Quelli erano i momenti casuali che l’esterno mi concedeva per riposare e ai quali avevo adattato la mia giornata.
Sul fondo della stanza giaceva una fessura cespugliosa da cui un’aria densa e calda entrava e usciva continuamente, seguendo intervalli costanti, come costanti erano i momenti della mia vita.
Poi in un giorno qualsiasi, quei rumori. Sembravano esserci più ombre del solito là fuori, l’intero cerchio pareva popolato da creature oscure che la mia mente cercava di definire.
Si muovevano, lente, quasi appesantite, e io dietro, nel tentativo di seguirne gli spostamenti. D’improvviso sparivano e ne comparivano delle nuove – una percezione d’alternanza, che avevo acquisito con il tempo, una capacità di distinzione in funzione di un mero svago; benché il loro corpo non mi si mostrasse per intero, riuscivo a distinguere l’arrivo di una nuova ombra e la sua successiva scomparsa, l’alternanza delle sfumature, l’alternanza delle luci.
Ero completamente assorto da quella visione popolosa che sapeva di astrattezza, nella mia condizione di recluso una fonte di novità non marginale.
Cosa succedeva lì fuori? Chi erano quegli esseri?
Erano come me?
Domande che si perdevano nella eco della mia solitudine, di un me che si trovava con la faccia stampata contro l’oblò, il corpo schiacciato contro l’oblò più piccolo, nell’intento di scrutare con maggiore attenzione: non volevo perdermi neanche un dettaglio di quella meraviglia.
Mentre seguivo con gli occhi quel brulichio di nuances, ecco che qualcosa rumoreggiò da un punto disperso. Era un suono leggero, candido, sfuggevole; da sempre abituato al silenzio, l’avvertii subito, l’udito si fece teso, spiegato.
Con la stessa velocità con la quale si era manifestato, scomparve, facendomi sprofondare di nuovo nel mio isolamento, abbandonandomi a uno stato di curiosità negata.
La speranza dell’ignoto, in tutta la sua maestosità e in tutto il suo fascino, quel giorno si appropriò della sezione della mia mente che era destinata a codificare l’esterno; per farla breve, intuii d’esistere come altro.

***

[…] Trascorsero numerosi momenti di luce e di buio e l’incanto, che quell’evento aveva generato in me, si trasformò ben presto in turbamento. Per un attimo, una frazione di tempo tuttavia significativa, quel qualcosa aveva dileguato la mia solitudine; anche se poi mi era ripiombata addosso con una forza maggiore, stordendomi. Istanti e altri istanti portarono infine alla catatonia della speranza, tornarono le consuete abitudini: l’oblò, l’esterno. Dimenticai l’accaduto, una possibilità di realtà inconcepibile; per autodifesa, trascurai il dubbio.

***

Quel giorno, l’esterno sembrava disabitato: non un’ombra che si spingesse per le vie d’aria. Sconsolato e annoiato, continuavo a guardare attraverso l’oblò più grande, nell’attesa che qualcosa accadesse, quando, d’un tratto, sentii di nuovo dei rumori, quei rumori.
Questa volta però, i suoni si fecero continui, cadenzati, vicini; volevo, dovevo definirne la provenienza. Sapendo con certezza che non potevano giungere da fuori, tesi l’udito verso le tre pareti che formavano il resto della stanza. Alle mie spalle non avvertii nulla. Mi spostai così verso la parete centrale, di fronte agli oblò… ancora nulla. Quando mi avvicinai all’ultimo tramezzo, ecco che percepii quei suoni in modo più nitido.
Cominciai a gridare, giubilante; subito però, l’oblò si oscurò e insieme alla sorgente luminosa, scomparvero anche quei rumori – di nuovo.
Passai la notte insonne, frenetico e in attesa, immobile, disteso contro la parete sanguigna, fiducioso che questa volta, non appena l’oscurità sarebbe svanita, loro sarebbero tornati.
Del tempo, poi l’oblò si spalancò nuovamente seguito una luce grigia che inondò la stanza, facendosi un tutt’uno con i miei sensi in ascolto; io ero la luce, di là il buio.
Tornarono.
Subito, cominciai a urlare con tutta la potenza che avevo, ma i miei sforzi sembravano vani: i rumori, che in alcuni momenti sembravano più vicini e in altri più lontani, non davano alcun segno di risposta.
D’improvviso però, divenne per me indubitabile che quel qualcosa doveva essere qualcuno, una creatura, un essere senziente, e che quel qualcuno si trovava proprio al di là della membrana. Il problema si presentò subito, immediato: come potevo raggiungerlo? Abbatterla era impossibile: ci avevo già provato quando il desiderio di fuggire si era fatto pressante, ma era stato inutile. Nonostante fosse malleabile, era estremamente resistente.
Tutto il resto della giornata la trascorsi disteso a terra, in compagnia di quella melodia, impossibilitato a comunicare, finché non calò nuovamente il sipario e lui sparì ancora una volta.
Ravvolto nel silenzio e nell’oscurità, pensavo al modo di raggiungere l’altra estremità della membrana: avevo il bisogno assoluto di dimostrare a quel qualcuno che anche io esistevo e che le nostre esistenze, seppur parallele, seguivano un destino comune; che non doveva sentirsi unico perché, ad appena qualche centimetro da lui, un altro essere viveva, e gemeva, e scrutava l’esterno dall’oblò, proprio alla sua stessa maniera – e in quel momento, mi balenò in testa un’idea…
L’oblò fu riaperto e, nonostante mi fossi assopito, l’arrivo della luce mi fece subito riprendere conoscenza.
Mi alzai di scatto e mi avvicinai alla fessura dalla quale usciva l’aria calda poi, nel momento in cui questa inondò la camera, urlai, ma non ci fu alcuna risposta.
Decisi così di riprovare, questa volta però nel momento in cui l’aria mancava dalla fessura:
«C’è nessuno?» gridai con quanto fiato avevo in corpo.
Niente.
Stavo per rassegnarmi, quando, nel momento in cui l’aria tornò nuovamente nella stanza, giunse una voce:
«Chi c’è di là?»
Era una voce molto diversa dalla mia: meno rude… di una delicatezza sconcertante.
Attesi di nuovo che l’aria morisse, poi parlai:
«Lo sapevo! Lo sapevo! C’è qualcuno dall’altra parte!»

L’aria tornò:
«Chi sei? Sei tu che fai questi
strani rumori, non è vero?»

Continuammo a parlare seguendo gli intervalli dell’aria:

«Come, anche tu… i miei rumori?»

«Sì… confesso che in un primo momento
quei suoni mi avessero terrorizzata! Ma…»
«Ma tutto questo ti sembra impossibile?»

«Sì! Sai, ho vissuto sola per tutto questo tempo…
(intervallo d’aria)
e non ero abituata alla voce di un altro essere come me…
(intervallo d’aria)
anzi, a dire la verità, non ho mai sentito altra voce
al di fuori della tua, in questo momento.»

Si chiamava Annette e da quel giorno divenimmo inseparabili.
Parlavamo di continuo, di ogni cosa; in particolare, ci piaceva confrontare le nostre percezioni sull’esterno. Così ci lanciavamo contro impressioni come queste:

«Quelle ombre… ogni volta che le guardo,
vengo presa da una strana sensazione.
Credo sia terribile anzi: una terribile sensazione.
Me la sento addosso sempre… su tutto il corpo».

«Per tanto tempo non ho fatto altro che vivere di queste ombre,
ma adesso… adesso ci sei qui tu con me».

Ogni volta che le parlavo, ecco che la mia voce assumeva un tono morbido, soffice come una tenue carezza fonica.
Ricordo che una volta Annette proruppe con una domanda:

«Pensi mai che lì fuori ci possa essere qualcuno come noi?»

Eravamo uguali: avevamo passato intere giornate a descriverci i nostri rispettivi corpi, ed eccetto che per qualche leggera variazione, eravamo certi di appartenere alla stessa specie.
Ben presto, le insegnai a distinguere le venute delle ombre, le oscillazioni della luce e tutto quello che avevo imparato e decifrato riguardo all’esterno; lei, di contro, riempì quegli esseri di nuovi contorni, affascinanti e misteriosi.

«Non pensi che anche quelle ombre
possano essere sole, proprio come noi due?»
«No, non lo penso».

Ero seccato da quel discorso: che non le bastasse la mia presenza?

«Come fai a esserne così sicuro?»
«Vedi Annette, quelle ombre sono numerose,
quelle ombre non si limitano a guardare le sfumature degli altri:
quelle ombre hanno la possibilità di scrutarsi,
faccia a faccia, e se lo desiderano…» feci una lunga pausa: «…di toccarsi».

Molte volte continuavamo a parlare anche quando l’oblò si chiudeva. In quei momenti, nonostante fossimo avvolti nel buio più totale, le nostre voci erano per l’altro come una lanterna nella notte o un braciere nella neve.

«Sai, potrebbero sentirsi sole comunque»
continuò, in un’altra occasione.

«Che intendi?»

«Se tu guardassi più attentamente,
vedresti che quelle ombre sembrano
in perpetuo movimento…
nessuna di loro si ferma mai davanti a un loro simile,
non sembrano scambiarsi alcuna parola l’una con l’altra,
sembrano sole, proprio come noi…»
poi, dopo una pausa, aggiunse:
«Proprio come noi, tanto tempo fa».

A dire il vero, non me ne ero mai accorto. Corsi all’oblò e cominciai a studiare i movimenti di ognuno di quegli esseri: Annette aveva ragione, nessuno di loro sembrava rivolgere la parola a un altro. Allora un profondissimo odio si impossessò di me: come facevano a non accorgersi della loro fortuna?

***

Annette divenne ben presto la compagna perfetta in quel tugurio. Non avevamo molto da dirci riguardo alle nostre esperienze – di esperienze, non ne avevamo; eravamo entrambi nati in quel posto, non ne eravamo usciti. I nostri discorsi erano semplicemente un quadro di percezioni continue, che si mescolavano l’un l’altra, finché, ben presto, la sua sensibilità si impossessò della mia visione analitica dell’esterno.
Una notte, non riuscendo a prendere sonno, la chiamai, ma non arrivò alcuna risposta.
Chiamai ancora, mentre l’ansia cominciava a divorarmi, ma invano.
Il condotto dell’aria sembrava avere un problema. Si era fermato e… non era mai successo prima.
Cominciai a imprecare, ma per qualche motivo Annette non riusciva a sentirmi.
Mi buttai a terra e rimasi così, immobile, per molto tempo. Era ciò che di più caro possedessi, lo capii in quel momento, come capii anche che i nostri corpi non avevano mai avuto la possibilità di sfiorarsi.
Fui preso dall’ira: mi alzai, mi avvicinai all’oblò e imprecai ancora, preso da una furia ancora più immonda.
«Mi sentite maledette ombre? Voi siete cieche, ecco cosa siete!»
Ma, in quel momento, sentii provenire dall’altro lato della parete dei colpi che pian piano diventavano sempre più forti: era Annette. Corsi contro la membrana e cominciai a batterla anche io con i pugni, e a ogni mio colpo, rispondeva un colpo dall’altro lato.
Un furore estremo, un tremolio concitato, accompagnato da una gioia bruciante: ecco cosa mi succedeva da quando avevo Annette nella mia vita.
Passammo un tempo interminabile a quel modo, giorni forse, comunicando attraverso quei tonfi sul muro, finché la fessura improvvisamente non si riaprì e potemmo tornare a godere l’un l’altra delle nostre voci.
«Non voglio che accada mai di nuovo, Annette!»
Quell’avvenimento unì le nostre vite ancor più di quanto non le avesse unite la solitudine. Da quel momento, le nostre conversazioni diventarono più assidue e le tonalità, con le quali modellavamo le nostre voci, avevano la stessa consistenza di una carezza.

«Le nostre anime sono destinate alla tristezza».

«Non dire queste sciocchezze!
Ognuno di noi può contare sulla presenza dell’altro, lo sai bene».

«Sulla voce dell’altro, vorrai dire…»

Quella frase mise in tumulto il mio animo: avevamo pensato la stessa cosa.
Mi avvicinai alla fessura d’aria e provai quello che prima di allora non avevo mai tentato, maledicendo la mia stupidità: allungai la mano in quel buco, tentando con tutta la mia forza di resistere alla pressione dell’aria che tentava invece di uscirne.
«Eccomi Annette, sono qui!» le dissi: «Allunga la mano anche tu!»
Fu in quel preciso istante che, per la prima volta nella mia vita, ebbi la possibilità di toccare qualcuno.

«È così, così…»

«È la cosa più bella che mi sia capitata nella vita, Annette».

Per due giorni e per due notti le nostre mani fecero l’amore. La nostra complicità aumentò, così come il desiderio che avevamo l’uno dell’altra: volevamo esplorarci, volevamo toccarci. Sentivamo il bisogno di possedere il corpo dell’altro, di congiungerli in un’unica e stretta morsa, dalla quale non ci saremmo più disciolti.
I momenti intanto passavano, ma grazie ad Annette avevano assunto dei nuovi colori: la vita si affacciava davanti a me in tutto il suo splendore, stupendamente bella.
Quelle ombre divennero ben presto solo un ricordo lontano e quelle pareti rosse sempre più strette.
«Dobbiamo andarcene da qui, Annette!»
Era notte, le tenevo stretta la mano.

«Non c’è alcun modo di fuggire, lo sai bene».

Aveva ragione, ancora una volta.
Le nostre anime erano davvero destinate alla tristezza: mai avremmo potuto congiungerci, mai avremmo potuto esplorare l’esterno, l’uno al fianco dell’altra…

***

«Annette, stai tranquilla!»

«Ho paura! Cos’è questo rumore?»

Annette era terrorizzata, lo ero anch’io, ma cercavo di non farglielo capire.
Improvvisamente, il pavimento si era messo a tremare: prima le scosse furono leggere, poi sempre più consistenti.
Stringevo la sua mano, eravamo come incollati, quando d’un tratto la sentii tremare.

«Guarda! L’oblò si è appannato, non si vede più niente!»
urlò Annette, unendo ancor più la presa.

Era vero: le ombre erano scomparse e anche ogni altro contorno del mondo esterno.
Cercai di farmi coraggio: dovevo riuscire a calmarla Annette, il suo terrore mi stava uccidendo.
«Stai tranquilla, Annette! Passerà molto presto, ne sono certo. Tutto quello che devi fare è non lasciare la mia…» ma in quel momento la luce, da fioca che era, divenne splendente, inondando la totalità della stanza e strozzandomi ogni altra parola:

«Hai paura?» mi chiese, allora.

Notai che aveva smesso di tremare: forse, quella luce l’aveva distratta.
Stavo per risponderle quando uno scossone, più violento degli altri, trascinò via Annette, che lasciò le mie mani.
Fui preso dal panico: la sentivo allontanarsi e non potevo fare niente per aiutarla. Non riuscivo a scostarmi dalla fessura d’aria e, sebbene cosciente che lei, dall’altro lato, non si trovasse più in quel punto, continuavo a gridarle di stare tranquilla.
D’un tratto però, lo scossone mi fece capitombolare in terra. Intontito, mi rialzai e provai, con passi incerti, a riavvicinarmi alla fessura, ma ogni volta che muovevo un passo, il tremolio del terreno mi faceva ricadere in terra e mi sentivo sempre più risucchiato in direzione dell’oblò.
In quel momento, sentii un colpo alla parete: era Annette.
Aspettai invano un altro colpo, ma non venne.
Quello era un addio.
Ogni tentativo di combattere le scosse era inutile e così mi abbandonai, disteso, a quella forza sconosciuta.
Stavo per schiantarmi contro il piccolo oblò e d’istinto mi coprii il volto con le braccia, precludendomi la vista di quell’orribile spettacolo. Ma prima di sprofondare nel buio, notai che una piccola fessura si era aperta nel lato basso del grande oblò e andava via via ingrandendosi: la luce divenne un bagliore totale e non vidi più nulla. In una frazione impercettibile, il mio corpo fu trascinato fuori da quell’anfratto e io, per non precipitare, rimasi penzoloni a quella fessura. Sentii gridare e mi girai di scatto: vidi Annette nelle mie stesse condizioni, appesa anche lei alla fessura che si era aperta nel suo oblò.
Ci guardammo l’un l’altro per la prima volta.
«Sei bellissima!» le urlai.
Annette mi sorrise e insieme mollammo la presa, precipitando definitivamente all’esterno.

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Antonio Merola incontra Fitzgerald in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/07/08/46358/ Sat, 07 Jul 2018 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46358 di Iuri Lombardi

Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l’Italia, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2018, € 10,00

Interessante e molto approfondito è il saggio di Antonio Merola su Fitzgerald in Italia e i rapporti che lo scrittore statunitense ebbe con il bel paese. Non è un caso che un letterato italiano, della capitale, parli e si metta a studiare e ad approfondire l’opera di colui che fu, a suo tempo, definito “poeta in prosa” se questo, colui che scrive il saggio, è uno scrittore anche lui e quindi non un saggista.

Prima di [...]]]> di Iuri Lombardi

Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l’Italia, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2018, € 10,00

Interessante e molto approfondito è il saggio di Antonio Merola su Fitzgerald in Italia e i rapporti che lo scrittore statunitense ebbe con il bel paese. Non è un caso che un letterato italiano, della capitale, parli e si metta a studiare e ad approfondire l’opera di colui che fu, a suo tempo, definito “poeta in prosa” se questo, colui che scrive il saggio, è uno scrittore anche lui e quindi non un saggista.

Prima di parlare del saggio e sviscerare le peculiarità che presenta è d’uopo, secondo il mio parere, sottolineare l’aspetto tecnico ossia di lavoro di uno scrittore e non di uno studioso quando si approccia ad un saggio. Occorre, quindi, fare una premessa propedeutica al concetto di “igiene letterario” e distinguere, non certo a cuor leggero, la saggistica di uno studioso e quella di un narratore.

C’è differenza?

A parere mio sì e non poca. Come nel caso di Antonio Merola uno scrittore si avvicina al saggio per una questione esistenziale ma non spicciola, direi quasi per sospensione ontologica al da farsi suo quotidiano. Il ruolo di uno scrittore non è quello di fare saggi o scrivere biografie o studiare il percorso di un classico e metterlo nero su bianco. Il ruolo di uno scrittore è di fare letteratura e quindi di scrivere racconti, stendere romanzi; si tratta di agire come modus operandi sul piano della fiction e non su quello documentaristico; sarebbe a dire come se un regista narrativo si mettesse a dirigere un documentario. A volte questo avviene e succede nel caso che lo scrittore trovi una via di fuga verso il reale, quando esso di discosta dalla fantasia e con un intento democratico si approccia, quasi a voler ricomporre un puzzle, alla saggistica. Ma la saggistica di uno scrittore è arte e non è un prodotto per accademie o un pamplhet buttato giù per una conferenza o un seminario. In poche parole il saggio di un letterato – in senso di scrittore- nasce come un tentativo demistificatorio nei confronti del proprio vissuto ma tale intenzione si spegne al suo albeggiare e l’opera scritta è un saggio di fatto ma anche un’opera d’arte: una prosa che presagisce qualcos’altro.

Questo è avvenuto anche nel caso di Antonio Merola, giovane scrittore romano, autore di racconti, di poesie, operatore culturale ma direi protagonista della vita culturale giovanile della città eterna, e il mistero, l’enigma di sorta, presto è squarciato: Antonio pare identificarsi così bene in Fitzgerald che diventa quasi, indossandone i panni, forse inconsciamente, il romanziere scoperto da Pavese e dalla Pivano.

Nel saggio in cui analizza tutto il percorso dell’autore statunitense, scovando sin dalle viscere gli aspetti più minuti, contestualizzando la figura del grande Scott nell’America del proibizionismo, in quell’epoca che Fitzgerald amò definire dell’età del jazz, il giovane scrittore romano avanza delle ipotesi, ri-legge a suo modo lo Scott conosciuto da tutti e in particolare la sua opera in merito al rapporto con l’amata Zelda e poi il demone dell’alcolismo e in fine, ma non per importanza, il rapporto tormentato con l’Italia e l’amicizia inconsapevole degli italiani nei confronti di Scott. Di una amicizia nata per caso durante la stagione bellica quando Fernanda Pivano e Cesare Pavese decidono di tradurre le opere di questo americano sconosciuto e, come lo definisce in genere Merola, “romantico” in quanto lontano, se pur apparentemente, da ogni corrente letteraria del suo tempo. Si tratta di una scoperta coraggiosa visto i tempi, siamo in pieno fascismo e anche per l’editoria vige la ferrea legge autarchica e male erano visti gli autori esteri; per non dire che fosse per loro precluso ogni valico di accesso. Scott per via di Cesare e Nanda entra, clandestino tra di noi, varca le Alpi, oltrepassa l’oceano e giunge con le prime storie dell’America dei benestanti, dei festini hollywoodiani, del mondo fatto di abiti da sera e cene di gala. Già cosa strana per un autore d’oltreoceano cui era solito parlare di vagabondaggi ai margini delle strade o metropolitani e di sobborghi e malavita. La prosa di Scott pare sorprendere, sembra che lo scrittore camuffi la sua vocazione di poeta e la poesia trapela in quelle pagine quanto intenso fu l’amore per Zelda e il delirio che accompagnò i due, causa della malattia psichiatrica di lei, per l’intera vita.

Ma mi sembra marginale parlare di Fitzgerald e per ovvie ragioni.

In primo luogo perché è bene che uno ne approfondisca la conoscenza leggendone il saggio e in secondo luogo perché ritengo che un saggio non sia recensibile. Mentre è oggetto di recensione, ma direi di analisi, il rapporto tra l’autore dell’opera saggistica, se questi è appunto uno scrittore, e la figura analizzata. E questo caso, come suggerivo poco sopra, la figura di Merola si sovrappone a quella di Scott diventandone, all’unisono, una sola persona. Ma da cosa nasce questa identificazione?

Le ragioni possono essere molteplici a cominciare dalla sfera privata dell’autore che, per ovvie motivazioni, non sarà oggetto del mio intervento. La seconda e più probabile ipotesi è appena stata detta: Merola è uno scrittore che cerca di trovare una messa tra parentesi, cerca di evadere dal suo operato e si mette all’opera, si cala nei panni dello studioso. In altre parole, senza nutrire o avanzare pretese da accademico (il ruolo di uno scrittore è dieci volte più importante di quello di un semplice studioso), intavola una sorta di eterotopia come direbbe Foucault, nella quale si avvia la dinamica della identificazione. Si tratta quindi di un processo fisiologico per uno scrittore riconoscersi in un altro, classico o moderno, amico o collega che sia, contemporaneo o moderno.

Un processo identificativo che fa del saggio edito da Giuliano Ladolfi Editore un libro unico nel panorama monografico e di documenti del nostro tempo. Ogni riga del saggio, ogni passo è il testamento di due vite che paiono intrecciarsi, vivere assieme un’eterna primavera, o forse un autunno primordiale. Antonio calandosi nei panni di Scott vede gli stessi colori, le medesime miserie e vittorie; l’arena della vita incendiarsi nel pomeriggio di un giorno x sotto il cielo dell’Italia e prima ancora di Roma. La Roma stessa di Merola può essere la metropoli americana, un labirinto di passioni e drammi, di messe tra parentesi per l’appunto, di digressioni anche piacevoli: la giovinezza, la sapienza, il cuore ma soprattutto la statura umana ed artistica che fa di Antonio un grande scrittore protetto, forse chissà da dove, dal grande Scott Fitzgerald.

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La bomba sarebbe esplosa all’alba https://www.carmillaonline.com/2017/12/30/la-bomba-sarebbe-esplosa-allalba/ Fri, 29 Dec 2017 23:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42306 di Antonio Merola

«Non possiamo permetterci una riproduzione: è stato deciso così dai bambini che vennero prima di voi e che come voi oggi hanno mantenuto la propria promessa. Rimanere bambini per sempre significa sapere quando bisogna morire. Ogni adulto potrebbe diventare pirata: se conosceste davvero il mondo degli adulti come lo conosco io, sapreste anche che diventare pirati sembra per una minoranza di loro la soluzione migliore. Ecco perché voi siete qui: avete scelto di volare via dalla terra degli adulti. Tutti i bambini che abitano quest’isola rappresentano una minoranza di quella minoranza possibile. E nessuno di coloro che hanno [...]]]> di Antonio Merola

«Non possiamo permetterci una riproduzione: è stato deciso così dai bambini che vennero prima di voi e che come voi oggi hanno mantenuto la propria promessa. Rimanere bambini per sempre significa sapere quando bisogna morire. Ogni adulto potrebbe diventare pirata: se conosceste davvero il mondo degli adulti come lo conosco io, sapreste anche che diventare pirati sembra per una minoranza di loro la soluzione migliore. Ecco perché voi siete qui: avete scelto di volare via dalla terra degli adulti. Tutti i bambini che abitano quest’isola rappresentano una minoranza di quella minoranza possibile. E nessuno di coloro che hanno rifiutato liberamente la violenza del pirata deve avere paura adesso: il vostro sacrificio è diverso. Immaginate che cosa accadrebbe se ora che state crescendo seguiste all’improvviso questo originario impulso: vi trovereste nella brutta condizione di combattere con i vostri vecchi amici, le fatine, la tribù indiana. Voi non sapete che cosa significa essere come Uncino. Ciò che facciamo oggi e che continueremo a fare domani è per tutti i bambini che sceglieranno di venire qui come avete fatto voi tanto tempo fa: addio», (da un discorso di Re Peter ai condannati a morte sotto il Grande Albero).

Maledetto istinto sessuale, pensò Pierrot mentre accendeva la montagna di carta, tabacco e marijuana perso in una fissità vermiglia.
Una ragazza mulatta, riccia, dai capelli nerissimi, gli ballava davanti, coccolando il suo palo da esibizione.
Certo avrei preferito una bionda, magari Lilith.
I muscoli del sedere formavano una leggera curva concava, tanto quella carne era soda e tanto la ragazza sapeva come muoverla.
Bisogna che mi accontenti, anche se sarà l’ultima volta.
Pierrot aspirò quel fumo leggero, i polmoni s’empirono come mongolfiere.
D’altronde ho deciso, non mi importa più. Ora si tratta soltanto di attendere.
La bomba che Pierrot aveva piazzato sarebbe esplosa all’alba.
Tutta la marijuana che possedeva era ora tra le sue mani, racchiusa in quello spinello.
Mise l’ultima banconota rimasta nelle mutandine della tersicorea.
Lei gli sorrise e Pierrot, nell’inserire quella carta da venti tra la stoffa e la carne, scorse una leggera peluria.
Era stato condannato a morte a causa di alcune manifestazioni improvvise di desiderio sessuale esplose presto rispetto agli altri. Tutti i bambini che arrivavano al quattordicesimo anno di età venivano condannati a morte. Spesso però, i sintomi dell’età adulta si rivelavano molto prima: Pierrot, per esempio, era stato condannato a tredici anni per istigazione alla sessualità nei confronti di Jane, una fanciulla innocente le cui curve, tuttavia, avevano svegliato per la prima volta la libido del giovane.
«Ti godi la notte, eh Pierrot?» Joachim, un pellerossa di ventun anni, si sedette nel divanetto accanto all’amico.
«Per quello che riesco.»
«Danne un po’ anche a me, la tensione mi fotte il cervello!»
Joachim tolse lo spinello dalle mani di Pierrot e tirò forte.
«Lo sai muovere quel sederino, eh?» disse sculacciando la ragazza che ballava davanti a loro.
Ciak.
Arcipelago del Teschio, così veniva chiamato quel luogo.
In realtà, più che un arcipelago, era un modesto insieme di piccoli atolli di roccia, dove tutti i condannati a morte trovavano rifugio.
Ci si viveva male, il cibo era scarso e bisognava guadagnarselo.
«Dici che l’artiglieria basterà?» spirò Joachim.
Pierrot si guadagnava da vivere nel Magazzino. Avevano assemblato, con il tempo, una grande quantità di armi umane, leggere e pesanti. Tutto era stato preparato in ogni minimo dettaglio e quella notte gli uomini, che il giorno dopo avrebbero partecipato alla battaglia, cercavano di godersi le ultime stelle.
Il bordello di Merluz era il luogo di svago preferito di Pierrot e di tanti altri ragazzi, quando scendeva la sera.
«Re Peter dovrà prostrarsi in ginocchio se vuole salvarsi il culo» una risata mefistofelica accompagnò la nuvoletta di fumo Joachim. I suoi denti erano bianco-latte.
«E dovrà anche pregare forte che non lo sgozzi io stesso con le mie mani!»
Peter era il re dell’Isola. Era amato e rispettato dai suoi sudditi e si vociferava che fosse immortale. Spaventato dalla vecchiaia, decretava la morte per chiunque, donne e uomini, avesse superato la soglia dei quattordici anni.
Tuttavia, non essendoci un controllo ferrato, poiché sull’Isola ogni tipo di lavoro era stato vietato, molti tra i prigionieri riuscivano a fuggire e a raggiungere l’Arcipelago.
Re Peter aveva emanato un editto che obbligava tutti i bambini a giocare per otto ore al giorno. Il tempo rimasto, veniva speso a turno lavorando i campi. Una fatica necessaria, come diceva Re Peter, affinché tutti avessero da mangiare. Diceva anche che quella era l’unica fatica richiesta al suo popolo.
Pierrot fissò Joachim, assente. Suppose che quella nuvoletta parlante fosse una ciarlatana.
Ciarlatana, pensò.
La bomba che Pierrot aveva piazzato sarebbe esplosa all’alba.
Ci aveva lavorato per tre settimane, rubando il materiale necessario dal Magazzino, ma era stato l’aspetto psicologico della vicenda a dilaniarlo di più: ci aveva riflettuto per tre mesi, finché non era arrivato a prendere la decisione finale.
«Sei spaventato dalla battaglia?»
«Per nulla amico», Pierrot cominciava a essere seccato.
«Sta tranquillo, all’alba gli pioveremo addosso come uno stormo di fatine!» continuò Joachim:
«Comunque, io me la sto facendo addosso. Scende giù come diarrea, bello. Watan, Pierrot! Quelli hanno la magia!»
La ragazza, schiena al palo, scivolò leggermente sul metallo e una volta toccato il suolo, aprì le gambe.
«Quanto?» le chiese Joachim. Quella si slacciò il reggiseno, mostrando dei seni morbidi coronati da due capezzoli turgidissimi.
«Al diavolo, potrebbe essere la mia ultima notte!» disse, ripensandoci.
Lei sorrise, e Pierrot notò che il sorriso che aveva fatto a Joachim era identico a quello che aveva mostrato poco prima a lui, quando l’ultima banconota da venti era finita nelle sue mutandine. I denti erano come catramosi e grigi.
Joachim la prese per il fianco, poi la sua mano scese a stringerle una natica.
«Beh, ci si vede domani, bello!» riso annebbiato, sguardo duro.
«Forse.»
«Sicuro!»
La nuvola di fumo si allontanò con la ragazza mulatta in una stanza coperta da un drappo rosso.
«Ehi, piccola, non avere paura. Il tuo Joachim è qui, adesso. Quei mocciosi la pagheranno, stanne certa. Auuuuuugh!»

***

L’attacco sarebbe cominciato alle sei in punto, erano le quattro, c’era ancora tempo per ripensarci. Il piano era stato sviluppato dal Gran Consiglio del Teschio: coperti dalle poche tenebre rimaste, e con il vantaggio della sorpresa, sarebbero saliti su delle piccole imbarcazioni a remi a gruppi di cinque. Lentamente, armati fino ai denti, avrebbero risalito il fiume abbandonato, sul cui fondo si diceva riposasse l’anima di Uncino.
Pierrot non aveva mai creduto alla storia di Uncino il Leggendario, il primo pirata che aveva osato sfidare Re Peter.
Sarebbero tuttavia risaliti per quelle acque silenziose, dove nessuno osava avvicinarsi. Alcuni avevano giurato di aver sentito la voce di Uncino gridare nella notte e questo bastava ad allontanare da lì tutti i bambini dell’Isola. Quanto agli abitanti dell’Arcipelago, il fiume serviva come santuario di culto, ma erano in pochi a recarsi davvero lì: il luogo era spettrale, il sole continuamente nascosto dalle nuvole, perfino i pesci evitavano di nuotare in quelle acque. Di conseguenza, le poche sentinelle dell’Isola che osavano avvicinarsi per controllare la situazione, avevano ormai fatto l’abitudine a vedere su quel fiume pochi abitanti dell’Arcipelago, ragion per cui nessuno si sarebbe mai aspettato un attacco da quel lato. Le sentinelle erano tre, si nascondevano tra gli scogli, e mentre i ribelli avrebbero risalito le acque, chi tra di loro sapeva nuotare, sarebbe sceso nel fiume e le avrebbe eliminate, colpendole alle spalle. Una volta aperto il passaggio, sarebbe cominciata la battaglia vera e propria e si prevedeva che Re Peter sarebbe caduto entro mezzogiorno.
Gli occhi di Pierrot erano ora del colore del sangue.
Finalmente stordito. Questo è il mio triste addio, pensò.
Non rimaneva che aspettare qualche ora e poi l’alba, la battaglia.
Il bordello di Merluz era ormai quasi deserto.
Un solo uomo al bancone, il barista che con un panno cachi aveva già cominciato a ripulire i grandi bicchieri di vetro, due ballerine, una ballava, l’altra girava per i tavoli tra le risa di qualche cliente sbronzo.
Si alzò una leggera musica, il volume non era alto, ma Pierrot vi si immerse completamente.
Pensò a quando, grosso modo a nove anni, la sera sull’Isola tutti i bambini si riunivano per la cena, con Re Peter che sedeva a capo tavola. Le fatine volavano veloci in cielo, illuminandolo di mille colori, confondendosi con le stelle cadenti. Non c’erano luci elettriche, solo grandi torce e il fuoco, dove i bambini gettavano i loro bastoni quando erano stufi di giocare al duello.
A turno, alcuni suonavano i flauti e tutti gli altri ballavano, giocavano, sudavano. C’era frenesia nell’aria, poi Re Peter cominciava a raccontare di quando, in un tempo lontano, aveva combattuto contro dei pirati, capitanati da Uncino il Leggendario, la cui anima riposava sul fondo del fiume.
Tutti i bambini urlavano terrorizzati. Anche Pierrot strillava, aveva paura.
Re Peter li rincuorava subito, non sopportava le lacrime. Una volta, aveva carezzato Pierrot e gli aveva giurato che di adulti non ce n’era più traccia da decadi, che poteva stare tranquillo, che quella di Uncino il Leggendario era solo una leggenda e che sull’Isola esistevano solo bambini.
E ora Pierrot si trovava circondato da adulti, sull’Arcipelago del Teschio.
Bugiardo, pensò.
Le cinque: mancava solo un’altra ora. La bomba sarebbe esplosa all’alba.
Pierrot viveva ormai tra quelle rocce da tre anni. Non riusciva a capire perché il Re temesse tanto la vecchiaia. Eppure, lui aveva superato la soglia dei quattordici anni e non se ne era neanche reso conto.
Cominciò a odiare Re Peter: come poteva un Re, così amato dal suo popolo, non farsi nessuno scrupolo nel sacrificarli, uno a uno, quando arrivavano alla soglia dell’età proibita? Come poteva far sparire, di punto in bianco, dalle vite di poveri bambini, i loro amici, i loro fratelli, le loro sorelle? Perché nessuno aveva reagito prima?
Re Peter era un re crudele.
Per questo era stata organizzata quella battaglia, per punire la crudeltà, per vendetta, per riabbracciare gli amici rimasti sull’Isola. Per menzogna: la vecchiaia non faceva paura, Pierrot lo sapeva bene. Per frustrazione, per la mancanza di cibo tra quelle rocce.
Aveva piazzato quella bomba per vendicarsi della morte. La dama scheletrica aveva operato sotto i suoi occhi e Pierrot non glielo poteva perdonare. Dopo circa due anni che Pierrot si trovava sull’Arcipelago, Ghildar, l’uomo più anziano di quell’abitacolo ispido, era trapassato. Pierrot, quando lo aveva visto per la prima volta, ne rimase terrorizzato: quel vecchio aveva la pelle cadente, i denti sporchi – non erano neanche tutti –, le rughe come scolpite nella faccia di marmo, gli occhi non brillavano, i capelli erano pochi e sparsi, sul cranio era comparsa una steppa desolata di nei. Passandogli vicino, quell’uomo gli aveva sorriso, salutandolo con un gesto. La mano era la cosa che a Pierrot disgustava maggiormente: le vene, interamente visibili, sembravano fiumi in piena. Ma quando il vecchio Ghildar era morto, Pierrot ne fu ancora più inorridito. Il vecchio era ora immobile, inerte, il petto non ondeggiava più seguendo il ritmo candido del respiro. Gli occhi rigirati e bianchi, le labbra asciutte.
Le cinque e mezza.
Pierrot si alzò, voleva fingere almeno di prepararsi, voleva sentirsi per l’ultima volta parte di quei ragazzi che, con il cielo ancora nero, assopiti, si preparavano ora a un tramestio di budella e piccoli crani, impugnando i fucili.
Si guardò intorno: solo il barista e una prostituta seduta a un tavolo che contava dei soldi.
Uscì, la porta saloon oscillò leggermente, la brezza del mattino gli picchiò contro il volto.
Di là, sulla riva melmosa del fiume, alcuni uomini spingevano nell’acqua le barche, i primi combattenti erano arrivati e si raggruppavano pian piano, una folla intorno, accalcata.
La marea sembrava opporre una leggera resistenza, i più nerboruti si portarono avanti.
Tutti avevano rinunciato al sonno, ogni arcipelaghiano teschiato era lì, Pierrot ne era certo e gli occhi di ognuno parevano cerchiati, come ammobiliati d’insonnia.
Guardò oltre la montagna carnaria dalla quale scendeva il fiume, imbroccò il fucile, lassù in alto una luce rosa avanzava nel cielo, divorando il buio: era l’alba. Si avvicinò al proprio gruppo di cinque, dimenticandosi in breve d’esistere.
«In nome di Uncino il Leggendario!» urlò il Capitano.

***

I tre bambini che quella notte si trovavano di sentinella al confine tra l’Isola e l’Arcipelago sostengono di aver sentito un grande boato, subito dopo le prime luci del mattino.
Incuriositi, raccontano di essersi avvicinati cautamente a quelle rocce.
Decisi a risalire il fiume a nuoto, si immersero appena sotto la superficie dell’acqua, respirando attraverso piccole canne di bambù.
Raccontano che verso la metà del tragitto, l’acqua cominciò a riempirsi di grandi pezzi di legno, frammenti che sembravano i resti di una qualche imbarcazione a remi.
Fengolor, una delle tre sentinelle, non abituato a eccessivi sforzi fisici – era un bambino grassottello – decise di appoggiarsi a ciò che, da immerso, con la vista appannata, gli sembrava un grosso pezzo di legno nero.
Riemergendo, il bambino emanò un urlo agghiacciante: il corpo di un algerino, con la faccia ricoperta di sangue rappreso e priva di un occhio, galleggiava solitario sul pelo dell’acqua – Joachim riposava tra i caduti di Uncino.
I tre bambini si fecero tuttavia coraggio e continuarono.
Più avanzavano, più i resti di piccole imbarcazioni aumentavano: remi, corde, armi che non avevano mai visto prima, scarpe, panche e pezzi di legno indefiniti. L’acqua appariva densa e sporca.
Quando il sole fu completamente in cielo, i tre bambini erano ormai giunti nei pressi dell’Arcipelago.
Un raggio illuminò la distesa liquida e i bambini, osservando nitidamente per la prima volta l’acqua del fiume in quella lunga notte, fuggirono spaventati sulla riva: le tre sentinelle stavano nuotando in un mare di sangue; ma ancora più immenso fu il loro stupore nel trovare ammassati, sulla riva del fiume, una distesa di cadaveri.
Raccontano tutti e tre che, disgustati da quell’amalgama di resti umani, tra le carcasse, avevano notato che una parte della riva sembrava ricoperta da una strana fuliggine nera. Pensando che andasse ricercata lì la causa del boato, si chinarono a esaminare il terreno.
Scostarono disgustati alcuni corpi.
Re Peter decise di bandire, da allora, l’accesso al fiume e fece costruire un immenso muro divisorio, quando le tre sentinelle si recarono da lui piangendo, sostenendo di aver visto, tra i brandelli di carne, la testa mozzata di quello che, un tempo, era stato il loro amico Pierrot, con un sorriso stampato in faccia.


[Antonio Merola, classe 1994, è laureato in Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sulla recezione della critica italiana rispetto all’opera di F. Scott Fitzgerald. Sue poesie inedite sono apparse su Atelier online, Poetarum Silva, PageArte, Euterpe e nel Poetico Diario (LietoColle, 2017). Collabora o ha collaborato con con Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì, Lavoro Culturale, Carmilla e Culturificio. È cofondatore di YAWP: giornale di letterature e filosofie, per il quale ha curato inoltre la raccolta poetica L’urlo barbarico (A. V., Le Mezzelane, 2017) –  recensione su Carmilla. Si occupa dei Quaderni Barbarici su Patria Letteratura. Suoi racconti inediti sono apparsi su Cultora e Reader For Blind. Ha pubblicato sotto pseudonimo assieme a Iuri Lombardi la raccolta di racconti Il Vice Presidente venne dopo sette secondi, (2016) – ght]

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L’essenza dell’uomo: dietro l’ipotesi Sapir-Whorf https://www.carmillaonline.com/2017/12/09/41961/ Fri, 08 Dec 2017 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41961 di Antonio Merola

Era il 1957: Miti d’oggi di Roland Barthes infligge alla cultura Occidentale una ferita al costato. Il cervello di Einstein, un incontro di pugilato, la nuova Citroën; e poi ancora, l’astrologia, lo strip-tease, il Tour de France: l’alto e il basso, il sublime e il massificante, in breve ogni elemento di ciò che viene definito Cultura viene a mancare della propria essenza: il significato. L’occhio di Barhes caratterizza invece l’operare umano, nel suo insieme, come un operare espressivo, dove per espressività si intende l’essere, per ogni elemento culturale, significante di un significato più ampio: la struttura di base. [...]]]> di Antonio Merola

Era il 1957: Miti d’oggi di Roland Barthes infligge alla cultura Occidentale una ferita al costato.
Il cervello di Einstein, un incontro di pugilato, la nuova Citroën; e poi ancora, l’astrologia, lo strip-tease, il Tour de France: l’alto e il basso, il sublime e il massificante, in breve ogni elemento di ciò che viene definito Cultura viene a mancare della propria essenza: il significato.
L’occhio di Barhes caratterizza invece l’operare umano, nel suo insieme, come un operare espressivo, dove per espressività si intende l’essere, per ogni elemento culturale, significante di un significato più ampio: la struttura di base. L’autonomia essenziale, in poche parole, va a farsi fottere, danneggiando drasticamente, se si vuole allargare il campo d’indagine dall’opera all’operatore, l’io, o l’idea di uomo. L’essere umano, quindi.

Oggi, sappiamo che il Cogito ergo sum non basta più. Il pensiero umano è, in ogni sua forma, pensiero strutturato. Saussure ci ha insegnato che il linguaggio è arbitrario e ci hanno insegnato poi, a partire dagli studenti che per primi registrarono e trascrissero la Voce del Maestro, che una tale affermazione è verificata e verificabile in ogni suo aspetto cognitivo. Saussure non era un tipo da corbellerie, insomma. E le conseguenze di un tale pensiero ci portano subito alla scuola strutturalista e quindi, a Roland Barthes, o meglio, anche a Roland Barthes. Perché tutto ciò che viene dopo Saussure, in ambito critico, si basa proprio su un tale assioma: non è sulla scoperta della struttura, o di una struttura, ma sulla qualità della struttura, su cui si focalizza realmente l’attenzione; ovvero, in una critica negativa alla struttura, come nel femminismo, negli studi Queer, nel marxismo, o in una positiva, come nell’egemonia culturale capitalista. Non dovrebbe meravigliare, infatti, che alla base del pensiero umano vi sia una struttura, una qualsiasi struttura, che è presente anche nelle azioni più banali, nella quotidianità tutta, anche nel modo in cui un soggetto si appresta all’uso del bidet.

Ma, nel mare della consequenzialità, gli effetti non si manifestano sempre in maniera esplicita, come ci piacerebbe credere.

Torniamo per un attimo a quanto detto sopra: il pensiero umano è, in ogni sua forma, pensiero strutturato. Lo è, in quanto espressione del linguaggio, che a sua volta viene visto da Saussure come arbitrario. Bene; riassumendo, quindi, il linguaggio dell’animale umano è struttura arbitraria. Ma, quando parliamo di linguaggio, parliamo di lingue. E nel mondo, ad oggi, ne esistono più di seimila.
Eppure, benché l’ipotesi, anzi, l’affermazione, perché verificata e verificabile, di Saussure, l’affermazione di base quindi, è accettata e condivisa dai più, un’altra affermazione, questa sì ancora allo stato di ipotesi, ovvero quella della relatività linguistica di Sapir-Whorf, secondo cui il pensiero umano, e il modo in cui esso si esprime, è determinato, e non mediato, dalla lingua che il pensante si trova per nascita, o per apprendimento secondario, a parlare, trova difficoltà a essere dimostrata.

Banalizzando, potremmo dire che se il parlante A è inglese, il parlante A penserà in inglese, come un inglese, e così via per ciascuna delle seimila lingue del mondo.

La differenza tra Saussure e Sapir-Whorf non sta nel concetto di arbitrarietà: per il primo il linguaggio, per i secondi le lingue, sono entrambi un qualcosa di arbitrario; la differenza è invece nell’ipotesi che il pensiero sia, per i secondi, o non sia, almeno in modo diretto, per il primo, espressione del linguaggio. Soltanto se si prende l’affermazione di Sapir-Whorf come tale, e non come una mera ipotesi, si può arrivare logicamente ad affermare che il pensiero umano è strutturato. Questo perché verrebbe dimostrata la subordinazione tra pensiero e linguaggio, il nodo inestricabile. Ma finché ciò non viene dimostrato, noi avremo da un lato il pensiero, dall’altro il linguaggio, che è sì arbitrario, ma solo uno degli strumenti con cui l’uomo è in grado di esprimere se stesso. E, stiamo attenti, con linguaggio non si intende qui solo il linguaggio parlato; perché, a ben pensare, ognuno di noi, nel dialogo intimo con se stesso, parla in modo silenzioso, pensa costruendo linguisticamente il proprio pensare. In sostanza, non è con i grugniti che noi pensiamo, ma con parole ben precise, anche se non pronunciate. E già questo, sembrerebbe una constatazione a favore dell’ipotesi Sapir-Whorf.

Ma, poniamo per assurdo, anzi, realmente, visto che si tratta di un’ipotesi, che i nostri Sapir-Whorf non avessero ragione. Capovolgiamo il nostro enunciato: non più il pensiero come espressione del linguaggio, ma il linguaggio come espressione del pensiero. Siamo davanti a un dato di fatto, dove vedremmo annuire sicuro anche il docente Saussure. Ma siamo davanti, anche, a un uso del linguaggio come strumento, medium del pensiero. Peraltro, difettoso per il suo stesso fatto di essere arbitrario. Ovvero, anche se accettassimo l’affermazione capovolta di cui sopra, il linguaggio come espressione del pensiero, e non viceversa, ci troveremmo di fronte comunque a un’espressività mediata da uno strumento arbitrario per sua natura, e quindi a un’espressività fallace. Non è quindi il linguaggio che può esprimere l’umano nella sua essenza, la purezza del pensiero non mediato.

Eppure, non confermando l’ipotesi Sapir-Whorf, il pensiero resta comunque dato come altro, situato in un altrove da ricercare. Un’essenza, quella umana, che trascende il linguaggio, che si pone quindi prima del linguaggio e che non ne ha, necessariamente, bisogno. Verrebbe da pensare che anche questa volta i greci avessero ragione; verrebbe da pensare a Platone, dove l’altrove si conforma nell’Iperuranio, nel mondo delle Idee preesistenti…

Oppure, messo il pensiero in una condizione di impeachment, si potrebbe spostare l’attenzione nel sentire, il sentire come espressione dell’umano nella sua purezza, senza mezzi termini, senza mediazioni. Certamente, così era per l’uomo primitivo – dove, con primitivo non si intende necessariamente inferiore a livello cognitivo, quanto, semplicemente, l’uomo delle origini. Ma oggi, è davvero così che stanno le cose? Prendiamo per esempio il sentimento dell’ira, nella sua massima espressione, l’ira funesta e furibonda. Il sentire si manifesta prima ancora del linguaggio: un uomo delle origini sente, dentro di sé, un sentimento di furia. Lo stesso uomo delle origini non è ancora in grado di parlare. Sente quindi l’ira, ma non la definisce come tale. L’uomo del nuovo millennio, invece, vede il proprio sentire continuamente violentato dal linguaggio. Anche l’uomo del nuovo millennio, come il primo, sente la collera; ma egli sa, a differenza del primo, e grazie al primo, che quel sentimento di collera che lo brucia altro non è che il sentimento dell’ira; allo stesso modo, egli riconosce le altre emozioni, le sente e le definisce nello stesso momento, ne prende coscienza attraverso il linguaggio.

Inoltre, l’uomo del nuovo millennio transita anche per un individualismo mancato. Intendo dire che l’uomo primitivo non era a conoscenza della definizione di ira, ma sentiva l’ira, e che, tuttavia, è proprio l’uomo primitivo ad aver definito il sentimento dell’ira, perché, seguendo il principio di uguaglianza, più uomini avevano riconosciuto che un determinato sentire, che si ripeteva più volte nella propria vita, si ripeteva più volte anche nella vita dell’altro; un sentire comune, quindi, che lo ha portato a denominare un’emozione comune. L’uomo del nuovo millennio, invece, ha già di per se stesso un’intera gamma di emozioni definite, sa che X corrisponde all’ira tanto quanto Y corrisponde alla gioia, ma sa anche, anzi ritiene, che il proprio X o la propria Y, benché ira e gioia, si manifestino in lui, nel suo io intendo, diversamente dall’altro; che X e Y abbiano, in definitiva, una sfaccettatura personale che si distacchi dal principio di uguaglianza, ma che, tuttavia, e per questo lo chiamo individualismo mancato, non si ricrea, ovvero non si riconosce in una nuova definizione, non si ri-definisce, non si ri-nomina, se non, in rari casi, attraverso l’espressione artistica, a sua volta espressione, in casi ancora più rari dei primi, di ciò che fa l’uomo, l’uomo.


[Antonio Merola, classe 1994, è laureato in Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Sue poesie inedite sono apparse su Atelier, Poetarum Silva, PageArte, Euterpe e nel Poetico Diario (LietoColle, 2017). Collabora o ha collaborato con con Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì, Lavoro Culturale e Culturificio. È cofondatore di YAWP: giornale di letterature e filosofie, per il quale ha curato inoltre la raccolta poetica L’urlo barbarico (A. V., Le Mezzelane, 2017) – recensione su Carmilla. Ha pubblicato sotto pseudonimo assieme a Iuri Lombardi la raccolta di racconti Il Vice Presidente venne dopo sette secondi, (2016) – ght]

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