antongiulio penequo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Dec 2025 21:04:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La guerra e il lato oscuro dell’Occidente/2: il nemico interno https://www.carmillaonline.com/2022/06/16/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-2-il-nemico-interno/ Wed, 15 Jun 2022 22:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72300 di Fabio Ciabatti

Ogni guerra si combatte anche sul fronte interno. Occorre mettere a tacere il nemico che può indebolire la compattezza delle nostre fila. In effetti anche la Russia di Putin aveva le sue “quinte colonne” in Occidente, l’arcipelago di formazioni reazionarie sovraniste. Un universo che potremmo utilmente definire post-fascista (includendo anche formazioni come la Lega che storicamente non provengono dal mondo fascista). Il presidente russo aveva creduto di poter utilizzare queste formazioni per indebolire e disarticolare il fronte opposto, pensando che si trattasse di possibili nemici interni dell’occidente liberale e democratico. [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ogni guerra si combatte anche sul fronte interno. Occorre mettere a tacere il nemico che può indebolire la compattezza delle nostre fila. In effetti anche la Russia di Putin aveva le sue “quinte colonne” in Occidente, l’arcipelago di formazioni reazionarie sovraniste. Un universo che potremmo utilmente definire post-fascista (includendo anche formazioni come la Lega che storicamente non provengono dal mondo fascista). Il presidente russo aveva creduto di poter utilizzare queste formazioni per indebolire e disarticolare il fronte opposto, pensando che si trattasse di possibili nemici interni dell’occidente liberale e democratico. Molti estimatori occidentali di Putin, però, nel momento dello scontro militare si sono affrettati a prendere le distanze dal loro vecchio idolo o hanno mantenuto un profilo basso, tale da non disturbare troppo le manovre belliche dei loro rispettivi Paesi, anche se, aggravandosi le conseguenze socioeconomiche della guerra, le voci critiche nei confronti dell’atlantismo prenderanno fiato, comprese quelle filoputiniane. Voltafaccia e opportunismi non devono sorprendere perché i presunti nemici interni dell’Occidente, che si rispecchiavano nella cosiddetta democratura putiniana, hanno in realtà un legame profondo anche se occulto con il mondo liberale e democratico. Per capire questo punto facciamo un rapido riferimento alla guerra fredda.

Dopo la Seconda guerra mondiale, la minaccia rappresentata dall’alterità esterna, l’Unione Sovietica, convergeva oggettivamente con quella proveniente dall’interno, la classe operaia, anche se soggettivamente i loro obiettivi potevano essere ben differenti. Almeno a livello dell’immaginario, il comunismo rappresentava effettivamente, come si direbbe oggi, un altro mondo possibile, a dispetto della natura autoritaria del socialismo reale. Nemico esterno e nemico interno costituivano un pericolo reale per l’Occidente capitalistico che non poteva combattere sul fronte esterno senza proporre una tregua su quello interno (e viceversa). Una tregua, non una pace, che comportava la possibilità di significative concessioni, compatibili con l’ordine capitalistico, tali da raffreddare lo scontro di classe. Non sempre il gioco è riuscito. Il conflitto sul fronte interno si è talvolta spinto oltre i confini ritenuti compatibili con il sistema capitalistico e anche al di là dei limiti posti dall’ordine di Yalta e dai suoi custodi: l’insorgenza operaia degli anni ’60 e ’70 in Italia, per esempio, si scontrò non solo contro la feroce repressione statale e “parastatale”, ma anche con il Partito Comunista Italiano.
Sta di fatto che la pressione proveniente dal nemico interno e da quello esterno ha costretto il mondo occidentale ad una parziale ridefinizione. Sul piano politico, il pensiero liberal-democratico nasce dal confronto/scontro con il comunismo. Liberalismo e democrazia nascono esplicitamente come due termini oppositivi, diventano un connubio inscindibile durante la guerra fredda, tornano implicitamente a separarsi durante l’epoca neoliberale. Sul piano economico, il pensiero liberale nasce all’insegna del laissez faire demonizzando l’intervento statale, ma finisce per accettarlo come strumento subordinato all’accumulazione capitalistica perché considerato capace di salvare il mercato stesso dai suoi fallimenti e dai suoi eccessi.  Dopo il crollo del muro di Berlino l’ideologia neoliberale pretende nuovamente di sciogliere le “magnifiche sorti e progressive” del libero mercato dai “lacci e lacciuoli” dell’intervento statale. In altri termini il confronto con l’Unione Sovietica, in un contesto di accumulazione capitalistica sostenuta, ha portato dei benefici alle classi popolari dei paesi capitalisticamente più sviluppati che, attraverso un aspro conflitto, sono riuscite ad ampliare i diritti democratici e sociali. Per civettare con un linguaggio dialettico, la presenza di un’antitesi reale richiedeva la parziale assimilazione delle sue istanze nella riproposizione modificata della tesi. Scomparsa l’antitesi, con la dissoluzione dell’URSS e l’indebolimento della classe operaia, abbiamo assistito alla pretesa fine della storia. Non c’era più necessità di cambiamento qualitativo. Si poteva dare un solo tipo di movimento: la riproduzione allargata del medesimo. O almeno così ce l’hanno raccontata.

Oggi la minaccia esterna, la Russia, non solo appare più debole rispetto a quella rappresentata dallo stato sovietico, ma rimanda anche a un nemico interno fantoccio, quel populismo nel cui versante di destra, come si diceva, si trovavano i principali estimatori di Putin. Autoritarismo, gerarchia, ordine, xenofobia, identitarismo, nazionalismo, sessismo, plebiscitarismo, tradizionalismo di stampo religioso, potere carismatico sono senz’altro elementi che il postfascismo populista eredita dai suoi progenitori novecenteschi e condivide con il revanchismo russo. Da un punto di vista politico, però, il postfascismo non contesta la democrazia parlamentare, anche perché, nella sua forma tendenzialmente dominante, la post-democrazia, assume tratti sempre più autoritari, tali da non essere troppo sgraditi neanche all’amico russo. Anche il modello antropologico neoliberale, quello che mette il libero individuo al centro soltanto per imporgli di organizzare la vita come un’attività imprenditoriale, non è messo seriamente in discussione. Difficilmente il postfascismo, al pari del putinismo, può proporre una critica frontale all’ideologia del mercato di stampo neoliberista, anche se si oppone alla globalizzazione, alle politiche neoliberiste dell’Unione Europea, all’euro. Ciò, infatti, non avviene in nome di una richiesta di maggior intervento pubblico nell’economia, ma al massimo di un ritorno ai mercati e alle monete nazionali, confidando nel fatto che questo ritorno, insieme al blocco dei flussi migratori, consenta una maggiore protezione sociale e una maggiore distribuzione della ricchezza a favore degli autoctoni.1

Tutto ciò non presagisce alcun ritorno di forme comunitarie, per quanto reazionarie. A ben vedere quando si parla di cultura autoctona messa in pericolo dall’invasione degli immigrati quello che si ha in mente sono modelli di consumo, al massimo rituali di consumo, cioè riti collettivi contraddistinti da una “relazione senza desiderio” tra i suoi partecipanti perché il desiderio è rivolto completamente verso lo sfavillante mondo delle merci. Anche quando si evocano le radici cristiane, il primo rituale collettivo che viene in mente è probabilmente lo shopping natalizio, non la messa di mezzanotte. Più Babbo Natale che Gesù bambino, insomma. La “fantasia di separazione” nei confronti dell’alterità rappresentata dagli immigrati è l’altra faccia dall’isolamento già esistente nei confronti di coloro che sono percepiti come i propri simili, i propri connazionali.2
Ciò non toglie che proprio la mancanza di un senso comune d’identità, di un sentimento condiviso di appartenenza possa rappresentare il brodo di cultura per l’emersione di pulsioni compensatorie di stampo autoritario e xenofobo.
Si tratta però, di attitudine sostanzialmente reattiva, non diversamente da quella che ha ispirato il conservatorismo russo dell’epoca putiniana, priva di quell’impeto modernista e a suo modo utopico proprio dei fascismi storici.  Il “pessimismo nostalgico” ha sostituito quel misto di slancio vitalistico e pulsioni di morte che implicava anche il sacrificio estremo dell’individuo nel nome della patria perché l’unica libertà concepibile era la libertà dello stato e dell’individuo nello stato. Oggi è la libertà di consumo ad essere riconosciuta l’unica cosa seria, imprescindibile, anche dai nostalgici dei bei tempi andati. Oggi al massimo possiamo fare il tifo, a distanza, per gli ucraini che si sacrificano per la loro indipendenza. Abbiamo esternalizzato anche “la bella morte”.

Insomma, i movimenti populisti e postfascisti contemporanei non costituiscono una reale minaccia per il mondo occidentale, almeno non nel senso che ne mettano a rischio i fondamenti ultimi. Essi rappresentano piuttosto l’altra faccia di questo mondo. Sono quelli che dicono e fanno ciò che l’élite liberale non può esprimere esplicitamente, almeno al momento. Salvo poi recuperare in modo politically correct le stesse oscure pulsioni: non siamo razzisti ma … non possiamo accoglierli tutti e perciò, nostro malgrado, adottiamo politiche razziste con un tocco di umanitarismo. Aiutiamoli a casa loro con un po’ di cooperazione internazionale non governativa, ma intanto blocchiamoli alle frontiere.
Con il suo solito gusto per il colpo ad effetto, Zizek in uno scritto di qualche anno fa paragonava l’atteggiamento dei nostri governanti di fronte alla “minaccia immigrazione” all’“antisemitismo ragionevole” che Robert Brasillachs nel 1935 riteneva necessario per arginare le azioni sempre imprevedibili dell’antisemitismo istintivo.

Dopo aver virtuosamente respinto il razzismo populista come “irragionevole” e inaccettabile, considerati i nostri standard democratici, essi assumono delle misure protettive razziste “ragionevolmente … Come dei Brasillachs di nostri giorni alcuni di loro, persino i socialdemocratici, ci dicono “… Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per impedire le azioni sempre imprevedibili di violente proteste contro gli immigrati è organizzare una protezione contro gli immigrati”.3

Con la guerra in Ucraina abbiamo aggiunto una nuova figura alla galleria della barbarie dal volto umano, quella del nazismo ragionevole. Il nazismo che dobbiamo aiutare in Ucraina per proteggerci dal nazismo folle e imprevedibile di Putin. Sia ben chiaro, la denazificazione dell’Ucraina come obiettivo proclamato dal presidente russo assomiglia ad una battuta di pessimo gusto, considerati il suo profilo ideologico e i suoi legami con la peggiore feccia di estrema destra in giro per il mondo. Ciò detto, la questione dei nazisti dell’Ucraina va presa seriamente. Tra le varie baggianate della propaganda di guerra occidentale c’è la barzelletta che la Russia non poteva tollerare l’esempio di un paese democratico che si stava sviluppando ai suoi confini.
In realtà la differenza tra il capitalismo oligarchico-burocratico russo e quello ucraino prima della seconda Maidan consisteva solo nel fatto che nel primo c’era un maggior grado di centralizzazione economico e politica mentre nel secondo c’era un vero e proprio campo di battaglia tra gruppi di oligarchi che si battevano per il potere. Dopo il 2014, in Ucraina ha preso definitivamente il sopravvento la cordata filoccidentale. Ciò, però, non ha significato l’approfondimento di una reale dinamica democratica, ma il venir meno di un confine politico e ideologico istituzionalizzato tra l’ala liberale della società civile e l’estrema destra, come ha sostenuto il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko. La piattaforma politica delle formazioni di ispirazione nazista è stata integrata nel programma di governo. Rivendicazioni che prima di Maidan erano considerate estremamente radicali sono entrate nel dibattito pubblico come perfettamente accettabili, a dispetto dei risultati elettorali risibili delle formazioni di estrema destra. Allo stesso tempo un’ampia gamma di posizioni politiche sostenute da molti ucraini,  etichettate come “narrazioni filo-russe”, è stata sottratta la possibilità di essere pubblicamente rappresentata attraverso aggressive campagne di opinione, violenze vere e proprie, messa fuori legge di partiti e media di opposizione.4 Quella che in Occidente è una segreta convergenza tra estrema destra e liberali, in Ucraina è diventata manifesta solidarietà, con tanto di benedizione da parte delle democrazie atlantiste.

In conclusione, di questa seconda parte, torniamo in Italia per notare che oggi assistiamo a una divaricazione, mai stata così forte, tra sistema politico mediatico, completamente schierato su posizioni filo-atlantiste e belliciste, e opinione pubblica orientata largamente su posizioni quantomeno scettiche riguardo al nostro coinvolgimento nella guerra. L’assenza di un’alterità reale, esterna e interna, che poteva apparire una situazione ideale per la nostra classe dominante, ha in realtà portato alla sclerotizzazione di un sistema che ha prodotto una situazione davvero paradossale. Oggi, infatti, abbiamo un sistema che esercita un’egemonia pervasiva sull’immaginario collettivo ma al tempo stesso risulta incapace di metterla a profitto per creare un consenso diffuso in un tornante storico decisivo. Il paradosso si potrebbe spiegare con il carattere essenzialmente negativo di questa egemonia. “There is no alternative” è la sua cifra dominante. Non ci sono possibilità diverse da un mondo in cui la società cessa di essere qualcosa di reale perché esistono sono gli individui (e le loro famiglie) in competizione fra di loro. Ci dovremmo dunque sorprendere se, quando si presenta la necessità, si fa sempre più fatica a orientare questi stessi individui verso un progetto collettivo, fosse anche quello di affrontare un presunto nemico?
Per molto tempo l’Occidente si è illuso che non sarebbe più esistito un nemico alla sua altezza. Il terrorismo internazionale è apparso come un fantasma evocato a bella posta che andava soltanto esorcizzato. Per affrontare un nemico che rappresenta una minaccia reale, invece, bisogna per prima cosa capirlo e questo significa distruggere i cliché che lo riguardano senza cancellarne l’alterità. Un sistema che è in grado di fare ciò ha al suo interno risorse materiali e ideali che gli consentono di modificarsi e di evolversi nel corso del conflitto. Nulla di tutto questo sembra prospettarsi all’orizzonte. Se l’opposizione che oggi si manifesta solo nei sondaggi di opinione divenisse movimento reale potrebbero venire alla luce i demoni più oscuri di un sistema. In questo caso è così peregrino ipotizzare che la nostra classe dominante finirebbe per prendere sempre di più a modello la tanto esecrata Russia di Putin?

(2 – continua – la precedente puntata qui)

 


  1. Su questi temi cfr. Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017, pp. 141, € 13,00 e la nostra recensione qui

  2. Per i concetti di relazione senza desiderio e fantasia di separazione cfr. Achille Mbembe, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Laterza, Bari 2019. 

  3. Slavoj Zizek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Ponte alle Grazie, Milano 2010, p. 65. 

  4. Volodymyr Ishchenko, “Towards the abyss”, in New Left Review, n. 133/134, January/April 2022. 

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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente /1: il nemico esterno https://www.carmillaonline.com/2022/06/12/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-1-il-nemico-esterno/ Sat, 11 Jun 2022 22:10:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72287 di Fabio Ciabatti

E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere [...]]]> di Fabio Ciabatti

E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere considerata come il lato oscuro della postdemocrazia occidentale (quest’ultima intesa, sulla scia di Colin Crouch,1 come un sistema che è svuotato progressivamente da ogni reale possibilità di partecipazione collettiva alle decisioni politiche, lasciando in vita le sole procedure formali della democrazia). Per questo il rapporto con il nemico oggi dà luogo ad una dinamica differente per quanto riguarda la costituzione della soggettività occidentale. Se in passato il confronto con nemico venuto dall’Est aveva avuto degli esiti per certi versi positivi nei paesi a capitalismo avanzato, oggi assistiamo ad una dinamica sostanzialmente regressiva. Partendo da questo punto di vista, la riflessione che segue non ha come obiettivo quello di stabilire chi ha torto e chi ha ragione nell’attuale guerra o come andrà a finire il conflitto. Vuole essere soprattutto un ragionamento sugli effetti della guerra sull’immaginario occidentale.

Ciò nonostante, dovendo parlare del rapporto con il nemico bisognerà per prima cosa fare alcune considerazioni sulla sua natura che, senza pretesa di esaustività, saranno utili per approfondire successivamente il filo principale del nostro ragionamento e che, al tempo stesso, serviranno a sgomberare il campo da alcuni dei più diffusi luoghi comuni della propaganda bellicista dell’Occidente. Il primo pregiudizio implicito nella narrazione occidentale è che la Russia post-sovietica si era incamminata verso l’economia di mercato e la democrazia durante gli anni di Yeltsin, ma che questo processo è stato invertito a causa di Putin. Insomma, l’unico russo buono è un russo ubriaco! In realtà gli anni di Yeltsin furono un disastro completo: tra il 1991 e il 1995 il PIL crollò di poco più di un terzo, mentre tra il 1991 e il 1994 l’aspettativa di vita tra gli uomini precipitò di 5 anni, solo per citare alcuni dati clamorosi. Per quanto riguarda la democrazia basterà ricordare il bombardamento del parlamento russo che si opponeva ai voleri di Yeltsin nel 1993.
Considerando questi antefatti, Tony Woods nel suo testo Russia Without Putin, da cui prenderemo molti spunti nelle righe che seguono, sostiene che “L’autoritarismo per il quale Putin è ampiamente criticato non è il prodotto di una sinistra preferenza personale, ma piuttosto una caratteristica integrante del sistema che ha ereditato e ha continuato”.2 Gli anni Novanta e gli anni Duemila devono dunque essere visti come due fasi nell’evoluzione dello stesso sistema: nel prima turbolento periodo si assiste alla distruzione del sistema sovietico e all’installazione di un nuovo ordine capitalistico, nel secondo si verifica processo di stabilizzazione e consolidamento in cui il nuovo modello si radica in profondità nel tessuto socioeconomico del Paese. La priorità, però, è sempre rimasta la difesa del capitalismo, come dimostra il fatto che Putin, nel corso dei suoi mandati, ha introdotto molti provvedimenti di stampo neoliberale: flat tax sul reddito al 13%, tagli di tasse per il capitale privato, codice del lavoro con il ridimensionamento dei diritti dei salariati, accrescimento del ruolo dei privati nell’educazione, nella sanità e nel settore immobiliare, trasformazione di servizi sociali in pagamenti in denaro.
In altri termini il sistema politico russo si è sviluppato dalla contraddizione tra i suoi dichiarati obiettivi democratici e la mancanza di un supporto popolare per il suo programma di trasformazione verso il libero mercato. Anche Putin non ha mai negato il principio democratico in sé, ma ha sostenuto che va declinato sulla base della specificità russa. Di fatto, la sovranità popolare è stata sacrificata ogni volta che è entrata in contraddizione con le necessità della transizione capitalistica. Se tra democrazia e capitalismo si sviluppa un rapporto contraddittorio non altrettanto si può dire a proposito della relazione tra i principi dell’economia neoliberale e la logica statalista. In questo caso si può parlare di due impulsi paralleli che ispirano la gestione putiniana del potere. È fuori di dubbio che lo stato sotto Putin abbia riguadagnato il controllo sulle leve fondamentali dell’economia nazionale, a cominciare dal controllo sulle risorse naturali, in particolare petrolio e gas. Ma questo significa che abbiamo assistito ad un ribaltamento della dinamica che vedeva il capitale privato utilizzare lo stato per il suo profitto a favore di un processo in cui lo stato si serve del capitale privato per perseguire le sue politiche di potenza? Probabilmente le cose sono un po’ più complesse. Il rapporto tra potere e ricchezza nella Russia post-sovietica è stato sempre molto stretto, quantomeno perché il capitalismo è iniziato con la vendita a prezzi di saldo da parte dello stato di pezzi dell’economia pianificata. Se all’inizio i principali beneficiari sono stati i cosiddetti outsider (persone prive di significativi rapporti con l’élite economico-politica sovietica) che hanno prosperato principalmente nei settori della finanza, dei media e dell’industria leggera, con l’inizio del nuovo millennio, complici la crisi finanziaria del 1998, la crescita dei prezzi delle commodities e il consolidamento dello stato, a emergere come vincitori sono stati gli insider che controllavano l’industria delle materie prime.
Insomma, ciò che è cambiato con Putin sono state le fonti della ricchezza, l’identità dei suoi possessori individuali e i metodi per mantenerla e estenderla. “Dopo il 2000, i termini del rapporto tra stato e ricchezza privata hanno cominciato a cambiare, ma l’impegno dello stato nei confronti del principio del guadagno privato – e delle enormi disuguaglianze che ha generato – no”.3 C’è stata una sempre maggiore convergenza nelle logiche e nelle pratiche dello stato e del settore privato dell’economia. Molte persone provenienti dal settore del business entravano nella sfera del governo mentre il settore privato reclutava i suoi dirigenti tra le fila dei funzionari governativi. È dunque emersa una élite ibrida capace di attraversare facilmente due domini formalmente separati, quello della politica e quello dell’economia privata. La promiscuità tra un capitale privato sempre più centralizzato e un potere statale che ha ristabilito la “verticale del potere” ha dato luogo a un sistema fortemente oligarchico in cui la democrazia diventa una forma sempre più svuotata di contenuto: democrazia gestita, democrazia sovrana, democrazia per imitazione, democratura sono le varie definizioni che se ne sono date (le prime due dagli stessi ideologi del Cremlino).

Sottolineare i momenti di continuità tra gli anni Novanta e i Duemila non significa però ignorare che la Russia di Putin sia stata protagonista di un progressivo slittamento ideologico che ha incentrato la sua rinnovata identità nazionale su alcuni princìpi di stampo conservatore, se non propriamente reazionari: Stato, sovranità, autocrazia, ortodossia, patriottismo, militarismo, famiglia tradizionale e status di grande potenza.  In particolare, la difesa dei valori cristiani e tradizionali, è nato in opposizione a quello che viene considerato il declino morale dell’Occidente e al relativismo culturale dell’Europa. Per certi versi il nemico non è tanto l’Occidente in quanto tale ma la sua degenerazione postmoderna, come testimonia la crociata anti LGBT.
Questa dinamica non è una novità nella storia russa, sostiene Luca Gori nel suo saggio La Russia eterna,4 perché il conservatorismo ha sempre accompagnato il percorso di sviluppo della Russia, offrendole un “rifugio” ogni qual volta si è sentita minacciata dall’esterno o messa sotto pressione da spinte riformiste interne di segno “eccessivamente” liberale. La “svolta conservatrice” della Russia andrebbe dunque letta come un riflesso ricorrente e difensivo, come la ricerca di una risposta tranquillizzante alla sensazione di una minaccia esistenziale o al rischio di un cambiamento troppo radicale.
Questa natura difensiva della identità ideologica della nuova Russia è confermata dal rapporto particolare che la lega al suo nemico. La ricerca post-sovietica di una nuova identità nazionale, nota Gori, ha individuato negli Stati Uniti l’”altro” dalla Russia: gli USA, più che l’Europa, sono stati il termine di paragone per valutare la bontà del proprio percorso e l’interlocutore privilegiato per vedersi riconosciuto lo status di grande potenza. Per molto tempo l’élite post-sovietica, Putin compreso, ha aspirato ad un’alleanza o anche a un’integrazione con l’Occidente. Il confronto, però, è diventato scontro perché le reciproche aspettative si sono dimostrate irrealistiche.

Da un lato, quella russa di vedersi riconosciuta – in cambio dell’adesione alle regole del gioco occidentale – una “partnership egualitaria” con Washington e una sorta di “sfera di influenza” nello spazio ex sovietico. Dall’altro, quella di Stati Uniti ed Europa per cui la Russia, sconfitta dalla Storia, fosse ormai pronta a svestire gli abiti imperiali per diventare un Paese “normale”, una democrazia liberale secondo i canoni del paradigma impostosi nel post Guerra fredda.5

Il risultato è stata l’impossibilità di conciliare due forme diverse di “eccezionalismo”: da una parte, l’aspirazione universalistica americana a sostegno della diffusione universale di libertà e democrazia e, dall’altra, l’ispirazione conservatrice a difesa di ordine, stabilità, equilibrio multipolare e di una missione speciale della Russia ortodossa.
Da un punto di vista ideologico, il richiamo all’ortodossia può però costituire una debolezza perché condanna la Russia a oscillare tra “particolarismo” e “universalismo”, tra il riconoscimento del diritto di ciascun popolo alla propria specificità in un mondo multipolare e l’attribuzione a Mosca di una missione unica, rivolta a tutti i Paesi. Una seconda possibile mancanza è costituita dal fatto che Mosca si è proposta come una potenza a difesa dello status quo che enfatizza i principi di sovranità e di non ingerenza negli affari interni in opposizione alla freedom agenda statunitense.
Queste debolezze, insieme ad una sproporzione di mezzi materiali rispetto ai suoi competitor, hanno determinato il fatto che la Russia post-sovietica difficilmente sia riuscita a presentarsi come una potenza in grado di esercitare un ruolo egemonico. Putin non è in grado di offrire un progetto di sviluppo attrattivo per le classi e le nazioni subalterne. Priva di soft power ha deciso alla fine di fare ricorso all’hard power della sua potenza militare. I successi degli anni passati della politica internazionale di Mosca sono non a caso il frutto di una maggiore prontezza e spregiudicatezza che la forte concentrazione del potere politico consente, anche in campo militare, alla Russia. Ma si può sostenere che questi successi, più che essere frutto di una strategia compiuta, siano dovuti a reazioni estemporanee a situazioni critiche che, in ultima istanza, hanno creato effetti opposti a quelli desiderati. Di qui la spericolata fuga in avanti rappresentata dall’invasione dell’Ucraina che si sta trasformando in una guerra di lunga durata rischiosissima per le sorti della Russia.

In estrema sintesi, “il capitale e lo stato della Federazione Russa sono predatori (come tutti i capitali e tutti gli stati capitalistici), ma predatori di ‘secondo rango’” perché sono incapaci, a differenza degli Stati Uniti, di manipolare gli altri attori del processo economico e politico mondiale imponendo le proprie “regole del gioco” a livello globale.6
Da un punto di vista strutturale, seguendo gli autori appena citati, si può definire la Russia un capitalismo semi-periferico nato da un’incompleta trasformazione dell’economia pianificata sovietica che ha dato luogo a un sistema di transizione estremamente contraddittorio, non organico, ma al tempo stesso relativamente stabile. Un sistema caratterizzato dal dualismo tra una sfera integrata nel sistema capitalistico mondiale e una contraddistinta da un’ampia gamma di forme pre-borghesi o da rimanenze di ordinamenti sovietici. Nonostante il consolidamento dei rapporti di produzione capitalistici, l’economia russa è ancora  deindustrializzata rispetto all’epoca sovietica e per questo  fortemente dipendente dall’esportazione di materie prime ed energetiche, ha istituzioni finanziarie sottodimensionate rispetto ai competitor internazionali, non esporta capitali in misura significativa se non nella forma di ricchezze private alla ricerca di paradisi fiscali, è piagato da una corruzione e una burocratizzazione endemiche.

In conclusione, la Russia non può essere considerata una potenza imperialistica, almeno non nel significato che a questo termine viene attribuito da una classica analisi marxiana. Ciò, come risulta ovvio dall’invasione dell’Ucraina, non esclude che possa perseguire progetti di restaurazione della sua passata grandezza imperiale e praticare politiche di aggressione nei confronti di stati e capitali più deboli. Ma, aggiungiamo, proprio per il suo carattere di predatore di secondo rango, sembra davvero eccessivo considerare la Russia “la minaccia più diretta all’ordine mondiale con la guerra barbara contro l’Ucraina”, come ha sostenuto Ursula von der Leyen. Ingigantire il pericolo rappresentato dal nemico può essere una mera mossa propagandistica, ma può anche essere una spia di debolezza. E se l’“aggressione barbara” più che una minaccia all’“ordine internazionale” fosse un sintomo della sua crisi già in atto?

(1 – continua)


  1. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2005. 

  2. Tony Wood. Russia Without Putin: Money, Power and the Myths of the New Cold War, Verso Books, London 2020, edizione Kindle, p. 5 (traduzione nostra). Dello stesso autore si veda anche Matrix of war, in New Left Review, n. 133/134, January/April 2022. 

  3. Ivi. p. 5. 

  4. Luca Gori, la Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica, Luiss University Press, Roma 2021. 

  5. vi, p. 52-53, edizione Kindle. 

  6. Aleksandr Buzgalin, Andrey Kolganov, Olga Barashkova, “Russia: A New Imperialist Power?” in Boris Kagarlitsky, Radhika Desai, Alan Freeman (a cura di), Russia, Ukraine and Contemporary Imperialism, Routldge, London-New York. p. 169, edizione Kindle. 

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La pandemia dilaga, l’eroe s’incammina https://www.carmillaonline.com/2020/11/11/la-pandemia-dilaga-leroe-sincammina/ Tue, 10 Nov 2020 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63337 di Antongiulio Penequo

[Pubblichiamo in anteprima l’introduzione del libro Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi (Mimesis, 2020, pp. 200, € 18,00), curato da Antongiulio Penequo con saggi di Luca Cangianti, Fabio Ciabatti, Gabriele Guerra, Maurizio Marrone, Mazzino Montinari e postfazione di Gioacchino Toni. La pubblicazione sarà in libreria domani. “Con questo libro la narratologia esce dall’accademia e aspira a cambiare il mondo, mentre il Signore degli Anelli, It e Joker prendono posto accanto al Capitale, alle Tesi sul concetto di storia e al Principio speranza.” (Bandella di copertina)]

La [...]]]> di Antongiulio Penequo

[Pubblichiamo in anteprima l’introduzione del libro Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi (Mimesis, 2020, pp. 200, € 18,00), curato da Antongiulio Penequo con saggi di Luca Cangianti, Fabio Ciabatti, Gabriele Guerra, Maurizio Marrone, Mazzino Montinari e postfazione di Gioacchino Toni. La pubblicazione sarà in libreria domani. “Con questo libro la narratologia esce dall’accademia e aspira a cambiare il mondo, mentre il Signore degli Anelli, It e Joker prendono posto accanto al Capitale, alle Tesi sul concetto di storia e al Principio speranza.” (Bandella di copertina)]

La scrittura di questo volume è iniziata quando le mascherine indossate dai giovani in molti paesi del mondo simbolizzavano l’emergere di una nuova soggettività politica, di una rinnovata aspirazione a una vita migliore. Dietro quei dispositivi di protezione dai gas lacrimogeni, lanciati dai corpi militari preposti al mantenimento dello status quo, immaginavamo il caldo sorriso di una comunità umana pronta a impossessarsi del proprio destino, a congedarsi dalla miseria e dall’oppressione di un sistema entropico, incapace di impiegare le proprie immense capacità produttive se non per distruggere la vita e l’ambiente. Quando il libro è stato completato, tuttavia, la mascherina non era più il segno distintivo di una minoranza desiderante all’attacco, ma di una maggioranza aggredita da un nuovo pericoloso virus, confinata nel privato, ridotta a mera somma di monadi terrorizzate e disciplinate.

Le riflessioni del presente lavoro si collocano all’interno di questo spazio simbolico oppositivo, tra soggettività ed eterodirezione, e analizzano le forme che presiedono allo sviluppo della coscienza e dell’azione, o alla loro inibizione. Gli autori si chiedono come sia possibile rendersi conto che nella nostra esistenza contemporanea ci sia qualcosa di profondamente sbagliato; come sia possibile superare l’apatia generata dalla frammentazione dell’Io postmoderno e riconoscere una comunità di simili con i quali progettare mondi nuovi, all’altezza delle nostre capacità, dei nostri bisogni e delle nostre aspirazioni.
Interrogarsi sui meccanismi che generano l’azione umana cosciente nell’attuale situazione di crisi sociale ed economica è di per sé imprescindibile, ma questo tema, nelle pagine che seguono, è affrontato da un’angolazione insolita, prendendo spunto da una strumentazione divenuta nota in narratologia con il nome di “viaggio dell’eroe”, grazie al lavoro di Christopher Vogler. Questo sceneggiatore statunitense ha ripreso gli studi dello storico delle religioni Joseph Campbell condensandoli in un manuale di successo a uso dell’industria cinematografica hollywoodiana1. Secondo Vogler, in tutte le narrazioni è visibile una struttura che pur nelle sue molteplici forme mantiene un carattere invariante: il protagonista, l’eroe per l’appunto, è spinto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo in un “mondo straordinario” nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico e riportare a casa un dono capace di restaurare l’ordine violato, causa del suo stesso viaggio. Il progetto di questo libro è dunque, da un lato, il tentativo di mettere alla prova questo pattern per analizzare i dilemmi della presa di coscienza negli ambiti apparentemente lontani della narrativa, della politica e della conoscenza scientifica; dall’altro, una critica di questa stessa struttura, mediante l’analisi di una serie di esempi devianti in cui l’eroe non torna a casa, ma rimane a combattere nel mondo straordinario, oppure torna a casa, ma riparte per nuovi viaggi (come l’Ulisse dantesco, Frodo e il Che), o ancora allunga indefinitamente il proprio percorso come nel caso dell’eroe femminile. Emergono in questo modo tipi di viaggio diversi rispetto a quello concepito da Vogler. La loro natura sbilanciata, incompiuta, circolare potrebbe addirittura configurarsi come struttura narrativa, epistemologica e politica alternativa. All’interno di queste considerazioni, la posizione del midpoint – la “prova centrale” in cui l’eroe ha l’illuminazione che gli permette di vedere la realtà con occhi nuovi e affrontare il nemico nella battaglia finale – è uno dei punti nodali di tale operazione.

Nella retorica mediatica italiana, durante i giorni più drammatici della pandemia, i medici e gli infermieri sono stati insistentemente chiamati “eroi”. I diretti interessati, tuttavia, hanno a più riprese dichiarato di non sentirsi a proprio agio con questa definizione pomposa, preferendo considerarsi professionisti e lavoratori che da sempre svolgono il loro compito in condizioni di disagio e precarietà. Altri commentatori più maliziosi si sono chiesti se lo stato – responsabile dei tagli neoliberisti alla sanità pubblica – si ricorderà, a emergenza rientrata, di coloro che oggi blandisce.
Alle professioni sanitarie è stata inoltre avvicinata quella del poliziotto: “Ciascuno degli agenti di Polizia che in questo momento sono impegnati a fronteggiare la pandemia da Covid-19, è un eroe nazionale”, ha dichiarato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. L’azione delle forze dell’ordine, infatti, avrebbe accompagnato i cittadini “in una sfida inedita che impone un serio ripensamento delle abitudini di vita e delle libertà fondamentali”2.
Secondo queste accezioni, l’eroe è un individuo straordinario e coraggioso che si mette al servizio di una causa meritevole. Fin qui nulla di male, se non fosse che il passo successivo è quello di esaltare gli aspetti bellici, retorici e patriarcali di questa figura, oscurando altri lati che possono risultare più fecondi. L’eroe che emerge dalla narrazione mediatica, in altri termini, rappresenta in modo monodimensionale e per certi versi fin troppo letterale il soggetto studiato da Campbell e da Vogler. La sua utilità si esaurisce nello spazio di un claim emozionale: si tratta di un eroe conservatore, se non propriamente reazionario, che serve a imbonire le masse e che può, al massimo, riportare la situazione alla normalità precedente alla catastrofe. Tuttavia, come recitava una scritta proiettata su un edificio di Santiago del Cile nell’autunno del 2019, “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”. Prendendo atto di ciò, l’eroe di cui si occupa il libro è una figura molto più sfaccettata di come viene normalmente raffigurata, al punto di presentare aspetti propriamente rivoluzionari: non ci riporta immancabilmente a casa, alla vita precedente, ma rimane in viaggio nel mondo straordinario.

Dopo due anni di intensi confronti privati e pubblici3, aver scritto dell’eroe proprio quando su scala planetaria infuriava la pandemia del Covid-19, è rilevante per un secondo motivo: l’inizio del viaggio di questa figura archetipica avviene infatti per causa di una catastrofe, il cosiddetto “incidente scatenante” che nelle narrazioni può essere un tradimento, la scomparsa di una persona amata, un torto subito. Si tratta di un collasso del “mondo ordinario” che spinge il protagonista all’azione, al farsi soggetto. Qualcosa di simile avviene anche nella storia della conoscenza e in quella politica. Nella prima assistiamo all’emergere di nuove idee e teorie quando le preesistenti hanno ripetutamente fallito nello spiegare il mondo, generando problemi pratici che mettono a rischio la riproduzione sociale; nella seconda il collasso dello stato dovuto a una guerra persa, a una carestia o a una stessa epidemia, irrobustiscono alternative sociali precedentemente represse che ora si candidano all’egemonia. Da questo punto di vista, la catastrofe distruggendo il mondo ordinario ci svela ciò che è sempre vero, ma abitualmente rimosso: ci sono sempre alternative allo stato di cose presenti, migliori e peggiori.

Luca Cangianti (Cambiare il mondo con un bacio. Narrazione, conoscenza, rivoluzione) analizza l’omomorfismo tra viaggio dell’eroe, rivoluzioni scientifiche e presa di coscienza rivoluzionaria, utilizzando esempi tratti dalla letteratura, dal cinema e dalla memorialistica. Pensiero narratologico, epistemologia kuhniana, sociologia del lavoro, psicologia ed etologia s’intrecciano per spiegare come nasce un soggetto capace di capire, agire e cambiare lo status quo.
Maurizio Marrone (La decisione dell’eroe. Apocalisse, zombie e clown. Tre variazioni) si affida ad alcuni esempi tratti dall’immaginario letterario e cinematografico per affermare che la figura dell’eroe rappresenta il tentativo ostinato della soggettività di costituirsi in quanto tale, vale a dire di dare un senso al mondo e di cambiarlo segnando il passaggio dal soggetto alla comunità. Affinché il viaggio possa dirsi compiuto, tuttavia, questa invariante normativa, che è la matrice trascendentale del suo agire progettante, deve entrare in consonanza con elementi imprevedibili, in altre parole, con le condizioni storiche date e con la potenza oscura e imponderabile della decisione.
Il contributo di Fabio Ciabatti (L’eroe smascherato eppure rivendicato. Dal mito all’utopia passando per Hollywood, il romanzo e la cultura popolare), parte dalla constatazione che l’immaginario hollywoodiano ricorre spesso a un modello antico per i suoi eroi. La prima parte del saggio ha un’attitudine critica nei confronti dell’eroe moderno, inteso come immagine trasfigurata dell’individuo borghese nonostante i suoi mille volti mitologici. La seconda, utilizzando l’arsenale narrativo della cultura popolare, ricerca un altro eroe possibile, presentando figure caratterizzate da una relazione positiva tra individuo e collettività e da un rapporto non pacificato con il mondo. Nella terza, infine, si rivendica la figura dell’eroe a un immaginario antagonista perché essa fa affiorare l’impulso alla felicità e l’urgenza di un’utopia realizzata.
Per Gabriele Guerra (L’eroe e i suoi mondi. Narrazione, verità, comunità) l’eroe trova un’altra sua possibile declinazione nella figura narrativa che racconta la missione compiuta in nome di una comunità, esemplata su quelle di Frodo e di Sam del tolkieniano Signore degli Anelli. Tale narrazione, tuttavia, non è solo mero racconto di fatti avvenuti e trasfigurati in leggenda, ma una costruzione epica e attiva, nel senso di Benjamin (“chi ascolta una storia è in compagnia del narratore”); in tal modo viene a costruirsi una vera e propria circolarità ermeneutica tra eroe protagonista dell’agency, narratore e suo pubblico.
Mazzino Montinari (Lʼeroe nelle tenebre. Torri, trincee e replicanti. Addormentarsi in un mondo che non cambia) mette il multiforme protagonista di questo volume di fronte al suo fallimento, al progetto che non si è realizzato, a quel mancato tendere verso un nuovo mondo con regole del tutto diverse da quelle preesistenti. In un tortuoso e accidentato percorso composto da cinque opere letterarie e dalle corrispettive trasposizioni cinematografiche, l’eroe non trova il midpoint, non prende la decisione fatidica, ergendosi nella migliore delle possibilità, a difensore del mondo così com’è.
Chiude il volume una postfazione di Gioacchino Toni (L’eroe dell’immaginario antagonista) che, dopo essersi soffermato sul caso particolare dell’eroe sportivo nella stagione dei movimenti, tratteggia il viaggio compiuto dagli autori di questo volume nei meandri del mondo degli eroi alla ricerca di figure adeguate all’immaginario antagonista contemporaneo.

Ritornando alle mascherine con le quali si erano aperte queste considerazioni introduttive possiamo immaginare un’ulteriore capovolgimento semiotico di questo dispositivo di protezione che ne faccia nuovamente un simbolo di ribellione al dolore dell’esistenza quotidiana, non più di una minoranza, ma di una maggioranza planetaria temprata dal lungo viaggio attraverso la catastrofe.


  1. Cfr. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma 2005. 

  2. Adnkronos, 10 aprile 2020. 

  3. I saggi qui raccolti nascono da una serie di interventi pubblicati sulla rivista online “Carmilla” e da un ciclo di incontri pubblici, svoltisi nel biennio 2018-2019 presso la Libreria Caffè Giufà di Roma ai quali sono stati invitati Alberto Prunetti, Vanessa Roghi, Rocco Ronchi e Gioacchino Toni. 

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L’eroe smascherato eppure rivendicato https://www.carmillaonline.com/2019/10/30/leroe-smascherato-eppure-rivendicato/ Tue, 29 Oct 2019 23:01:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55582 di Fabio Ciabatti

[Il testo che segue è l’introduzione all’incontro sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” che si è svolto nell’ambito del Carmillafest, ospitato a Bologna dallo spazio libero autogestito Vag61.]

Nell’incontro di oggi parleremo del “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” con il gruppo di studio Antongiulio Penequo. Vorrei introdurre l’argomento ricordando brevemente le riflessioni di Ernst Bloch di fronte all’ascesa del nazismo in Germania. In Eredità di questo tempo il filosofo tedesco critica i marxisti volgari per il fatto di aver sottoalimentato la fantasia delle masse, di aver trascurato il mondo dell’immaginazione e di [...]]]> di Fabio Ciabatti

[Il testo che segue è l’introduzione all’incontro sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” che si è svolto nell’ambito del Carmillafest, ospitato a Bologna dallo spazio libero autogestito Vag61.]

Nell’incontro di oggi parleremo del “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” con il gruppo di studio Antongiulio Penequo. Vorrei introdurre l’argomento ricordando brevemente le riflessioni di Ernst Bloch di fronte all’ascesa del nazismo in Germania. In Eredità di questo tempo il filosofo tedesco critica i marxisti volgari per il fatto di aver sottoalimentato la fantasia delle masse, di aver trascurato il mondo dell’immaginazione e di non aver montato “la guardia nelle regioni del primitivo e dell’utopia, proprio laddove i nazisti attingono il loro potere di seduzione”. Questo tipo di propaganda, imperniata in modo freddo e pedante solo sul momento economico, rincara la dose Bloch, è incapace di “contrapporre al mito… [una] contropartita che sappia trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari”.1

Seguendo la vena di Bloch, si parva licet, ci chiediamo se sia possibile rivendicare la figura dell’eroe a un immaginario antagonista, radicalmente alternativo allo stato di cose presenti. Perché tentare questa operazione? Perché quella dell’eroe è una figura potente, pervasiva che forse vale la pena di sottrarre ad un immaginario conservatore se non addirittura reazionario.
Per questo motivo presentiamo oggi, per la prima volta in forma collettiva, i risultati di una riflessione portata avanti dal gruppo di studio di cui faccio parte insieme a Luca Cangianti, Mazzino Montinari, Maurizio Marrone e Gabriele Guerra.
Prima di entrare nel merito, una breve presentazione del gruppo che si è formato nel 1990 quando era appena scoppiata la prima guerra del Golfo. Avevamo davanti un mondo in fiamme e il desiderio, certo un po’ naïf, di metterci insieme per spegnere quegli incendi e per appiccarne altri. All’epoca le nostre vicende personali ci hanno portato a separarci. Ci siamo però rimessi insieme a distanza di 27 anni, curiosamente lo stesso lasso di tempo che divide i due episodi narrati da Stephen King in IT. Come i protagonisti del romanzo, passati tanti anni facevamo ancora parte del “Club dei perdenti”, eravamo ancora dalla parte del “lato cattivo” della storia. A distanza di tanti anni il mondo è ancora in fiamme. Forse non sono le stesse di quel tempo, però bruciano e fanno male lo stesso.
Ci siamo messi alla ricerca di tracce e segnali che prefigurassero il possibile insorgere di forme antagoniste all’altezza dei nostri tempi e ci siamo ritrovati a ragionare sulla figura dell’eroe, declinato inizialmente secondo le funzioni simboliche analizzate da Campbell prima (L’eroe di mille volti) e da Vogler poi (Il viaggio dell’eroe). Per quale motivo?

Seduti sul palco della Carmillafest gli esponenti del gruppo di studio Antongiulio Penequo pronti a parlare del viaggio rivoluzionario dell’eroe. Da sinistra: Luca Cangianti, Gabriele Guerra, Fabio Ciabatti, Mazzino Montinari, Maurizio Marrone.

Mettiamo un po’ di carne al fuoco per introdurre la discussione. Per quale motivo abbiamo ragionato di questa figura?
Perché il viaggio dell’eroe può essere interpretato come l’archetipo dell’agency, della soggettività politica. Tale archetipo non è solo alla base dell’agire, ma ha anche una forma che condivide con il narrare e il conoscere: l’eroe delle narrazioni moderne percorre un cammino simile a quello dello scienziato rivoluzionario kuhniano che viaggia tra paradigmi e a quello di chi prende coscienza di una situazione d’oppressione e decide di ribellarsi (vedi qui e qui).
Perché l’eroe è quella figura narrativa che racconta la missione (solitaria?) compiuta in nome di una comunità; in cui la narrazione, cioè, non è solo mero racconto di fatti avvenuti, ma costruzione epica (vedi qui e qui).
Perché l’errare iniziatico dell’eroe è scandito dal complicato rapporto che egli intrattiene con la coscienza di sé e con la conoscenza, ovvero con il compimento della propria soggettività (vedi qui, qui e qui).
Perché, in fondo, quella dell’eroe è una figura ambigua, come ambigue sono le nostre vite e il contemporaneo … tutti i contemporanei. L’eroe crea nuove regole? Le detta? Le infrange? Le fa rispettare? (vedi qui e qui)
Per ciò che mi riguarda, almeno all’inizio, ero quello più scettico riguardo a questo percorso di ricerca (vedi qui, qui e qui). E forse anche per questo posso moderare questo incontro facendo un po’ da avvocato del diavolo. O, se preferite, il rompiscatole. E proprio con questa funzione vorrei proporre alcune brevi considerazioni prendendo di nuovo spunto da Ernst Bloch che, scrivendo Il principio speranza, non mostra particolare simpatia per questa figura.

Partiamo da una veloce premessa. Bloch sostiene che “L’uomo è ciò che ha ancora molte cose davanti a sé”.2 In altri termini di fronte all’uomo c’è la possibilità di un novum che riguarda sia sé stesso sia il suo mondo. Ma, in quanto non completamente condizionato, il possibile rimane in sospeso. E “di fronte a questo essere in sospeso reale, di primo acchitto è adeguata … sia la paura sia la speranza”. Soltanto quando ci si decide ad agire con “ardimento” può predominare la speranza.3
Veniamo dunque al punto che ci interessa riguardo alla tematica dell’eroe. L’ardimento può rappresentare “una contromossa” rispetto alla paura solo in quanto, a differenza “dell’azione eroica rapida e astratta”, media se stesso con la maturità delle condizioni date che si trovano “all’ordine del giorno sociale”.4 La mediazione con le condizioni date richiede una conoscenza che è rivolta “all’efficacia operativa” e non alla “quiete contemplativa”. Bloch ritorna sullo stesso concetto: quando Marx scrive Il capitale, non fornisce “una ricetta per una rapida azione eroica ante rem“,5 ma va alla ricerca dei nessi di cui è intessuta la più difficile realtà.
Dunque, come anticipavo, Bloch dà una connotazione sostanzialmente negativa dell’azione eroica. Ripetiamolo: l’azione eroica è caratterizzata come “rapida e astratta”, priva cioè delle necessarie mediazioni con le condizioni reali. Ma c’è una seconda faccia della medaglia che vale la pena considerare. La ricerca dell’efficacia operativa, il rifiuto della quiete contemplativa portano con sé alcuni significative conseguenze: niente si oppone alla coscienza utopica più “dell’utopia con un viaggio illimitato; l’infinità del tendere è vertigine, inferno”; l’utopia non vuole una “distanza eterna dall’oggetto” ma “coincidere con esso quale oggetto non più estraneo all’oggetto”; la speranza non vuole un “processo infinito” ma “un risultato coinciso”.6

A questo punto, con riferimento all’eroe, possiamo fare un’operazione simile a quella di Bloch nei confronti dell’happy end. Secondo Bloch l’arte che si presta ad essere mero divertimento, allegro imbroglio ci rappresenta “il lieto fine come fosse raggiungibile in un immutato oggi della società”, “senza che si sia dovuto cambiare nulla della realtà esistente”.7 Eppure l’happy end, per il filosofo tedesco, non va soltanto smascherato. L’happy end va anche rivendicato. Per quale motivo? Perché in esso possiamo riconoscere un impulso che non è limitato alla credulità. In esso infatti possiamo scorgere anche l’impulso umano alla felicità, impulso a cui si trova ancorata la speranza. La speranza diventa motore della storia nel suo attendere e suscitare una meta positivamente visibile. Lo spirito utopico autentico, quello che attraverso la conoscenza tende all’utopia concreta, “distrugge l’ottimismo putrido” ma non “l’urgente speranza di un buon esito”.8
E proprio in questa urgenza del buon esito, nella volontà del risultato coinciso, nel rifiuto del viaggio illimitato possiamo comprendere la pregnanza della figura dell’eroe. Perché, in effetti, l’eroe è proprio colui che consente di raggiungere con rapidità ciò che urge, anche se solo astrattamente, vale a dire quando le condizioni reali non sono ancora presenti o comunque non ancora riconosciute.
Occorre dunque smascherare l’eroe perché esso è ciò che riempie illusoriamente un vuoto, una mancanza di condizioni oggettive e di ardimento collettivo. Si può però allo stesso tempo rivendicare questa figura perché attraverso essa affiora l’impulso alla felicità e l’urgenza di una utopia realizzata.
Allora in consonanza con la corrente fredda del marxismo, possiamo rivendicare la famosa sentenza del Galileo di Brecht: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Spesso nella storia, infatti, questa figura si è trovata associata a dannosi patriottismi e sventurati proclami d’azione. Ma possiamo anche dire sventurata è quella terra che ha dimenticato la figura dell’eroe, perché essa è una metafora “calda”, potente che ci spinge a prendere coscienza dell’oppressione e a decidere di ribellarci.

In conclusione, chi non si emoziona di fronte alle gesta più o meno fantastiche di un eroe che sconfigge il male difficilmente sarà capace “di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”, come diceva Che Guevara. Ciò non toglie che chi pensa sia necessario un eroe per combattere l’oppressione difficilmente prenderà parte a una lotta contro quella stessa oppressione.


  1. Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, Mimesis, 2015, pp. 319 e 102. 

  2. Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti 2005, p. 289. 

  3. Ivi, pp. 289-290. 

  4. Ivi, p. 290. 

  5. Ivi, p. 327. 

  6. Ivi, pp. 369-370. 

  7. Ivi, pp. 508-509. 

  8. Ivi, p. 509. 

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L’eroe sportivo diviso tra lo spettacolo e il suo popolo https://www.carmillaonline.com/2019/01/18/leroe-sportivo-diviso-tra-lo-spettacolo-e-il-suo-popolo/ Thu, 17 Jan 2019 23:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50633 di Fabio Ciabatti e Mazzino Montinari

La società moderna appare a tutta prima assai prosaica, eppure non può fare a meno delle sue nicchie dove poter coltivare figure eroiche. Ad esempio, le gesta dei campioni dello sport possono essere interpretate come una moderna epopea borghese, in forma atletica. Secondo Joseph Campbell la parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe ha una struttura ricorrente che si consuma in tre atti: “L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe [...]]]> di Fabio Ciabatti e Mazzino Montinari

La società moderna appare a tutta prima assai prosaica, eppure non può fare a meno delle sue nicchie dove poter coltivare figure eroiche. Ad esempio, le gesta dei campioni dello sport possono essere interpretate come una moderna epopea borghese, in forma atletica. Secondo Joseph Campbell la parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe ha una struttura ricorrente che si consuma in tre atti: “L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini”. Allo stesso modo, il campione sportivo è un individuo che dopo aver scoperto di possedere capacità fuori dal normale, si avventura nel mondo straordinario costituito dal campo di gioco dove vigono regole a sé stanti che non sono alla portata di tutti, compie azioni straordinarie sconfiggendo nemici temibili e spesso infingardi, e infine condivide la propria felicità con il popolo dei suoi tifosi e degli sportivi tutti. Inoltre, a rimarcare il tono epico dell’impresa, l’evento sportivo è spesso descritto come una battaglia e le metafore belliche abbondano nel vocabolario dei cronisti.

“Eroici!” titolava a tutta pagina il «Corriere dello sport» il giorno dopo la conquista italiana del Mundial del 1982 in Spagna. E come Luke Skywalker, anche i protagonisti del Mundial non erano consapevoli della propria forza, se non dopo la vittoria con l’Argentina. Solo in quel momento iniziarono a comprendere di poter intraprendere un viaggio assolutamente diverso da quello previsto. E improvvisamente il mondo circostante che li detestava, li considerò “esseri superiori” intorno ai quali identificarsi. Invertendo l’ordine dei fattori, gli eroi avevano creato un popolo che apparve nelle piazze avvolto da bandiere.
Un atleta può essere d’esempio nella capacità di scoprire il proprio talento, nell’impegno costante a migliorare, nel condividere la propria ambizione con i compagni, nell’accettare la sconfitta e nel rendere merito all’avversario. Tutto ciò ha a che fare con il gesto, con le regole, con lo specifico di una disciplina. Esiste poi un altro tipo di identificazione, che prescinde dallo svolgimento della gara e che crea un senso di appartenenza.
Lo status di eroe, per motivi diversi e talvolta imponderabili, rende possibile il cameratismo dei tifosi. L’eroe sportivo incarna i sogni e i desideri di una comunità, spesso fittizia ma non sempre: gli afroamericani o gli abitanti di Kinshasa stretti intorno a Muhammad Ali forse erano animati da sentimenti più autentici degli italiani abbracciati per i trionfi calcistici.
Ad ogni modo, la distinzione tra l’eroe sportivo e il suo popolo funziona in certe narrazioni se si mantiene una distinzione netta tra il mondo straordinario della competizione e quello ordinario in cui i tifosi vivono tutti i giorni. Affinché lo stadio possa rappresentare il tempio in cui si riproducono ritualmente eventi meravigliosi, il mondo circostante deve rimanere profano, banale, borghese. Il fatto è che le cose non sempre vanno come previsto. Il mondo straordinario e quello ordinario sconfinano l’uno nell’altro, addirittura s’invertono, rompendo o comunque dando al giocattolo una forma diversa e inattesa.

L’ideale eroico dello sportivo rimanda ambiguamente alla concezione aristocratica promossa da De Coubertin: per l’atleta, rigorosamente dilettante e originariamente dell’upper class, la partecipazione e la disciplina sono da porsi sopra la vittoria. Se invece guardiamo allo sportivo contemporaneo, assistiamo a uno sdoppiamento: da una parte l’eroe senza macchia e senza paura, non più accostabile alla concezione decoubertiana, ma ancora legato a una visione disinteressata dell’attività sportiva, si potrebbe quasi dire “ideale”; dall’altra l’atleta che nella sua immagine spettacolarizzata riflette un’attività sempre più professionalizzata e, dunque, tutt’altro che priva di scopi. Per questa seconda figura, l’unica cosa che conta è vincere. L’eroe immacolato, perciò, è a rischio di trasformarsi nel fellone privo di ogni scrupolo alla ricerca di una gloria mediaticamente e chimicamente dopata.
Lo sport spettacolo e lo sport business procedono di pari passo, con tutte le contraddizioni che ne conseguono, se è vero che il primo può provare insofferenza per il secondo (non sempre le vittorie tanto amate da chi mette i soldi producono piacere e divertimento) e, al tempo stesso, può apprezzarne (fino a una dipendenza totale) la capacità di estendere qualsiasi evento a fenomeno planetario. Uno scontro/incontro che inizia significativamente dagli anni Settanta del secolo scorso. E quanto più avanza questa contaminazione, tanto più lo spettacolo sportivo invade la vita quotidiana. L’evento non è delimitato dall’inizio e dalla fine della gara, ma si espande indefinitamente attraverso i media, la gadgettistica, le chiacchere da bar e i più contemporanei forum, peraltro terreno di caccia prediletto dai cosiddetti hater.
Esiste poi un contro-movimento. Quanto più il fenomeno sportivo diventa invasivo rispetto alla vita quotidiana, tanto più gli spettatori tendono a invadere il campo di gioco, per esempio in Europa o in Sud America (l’ultima finale di Coppa Libertadores, giusto per citare il caso più recente), attraverso le iniziative anche estreme del tifo organizzato. Fenomeni complessi che in parte non sarebbero concepibili senza la centralità mediatica assunta dagli eventi e dalla loro caratteristica di business spettacolare.
La stigmatizzazione del tifo organizzato in parte deriva dal fatto che questo fenomeno è in contraddizione con la tendenza a identificare il tifoso con il mero spettatore/consumatore. Va ricordato che in Italia il fenomeno calcistico degli ultras nasce negli anni Settanta del secolo scorso e la sua denominazione deriva dal gergo politico: ultras, con chiaro intento denigratorio, erano definiti i gruppi di estrema sinistra. In effetti, all’epoca esisteva una sovrapposizione tra i gruppi della sinistra rivoluzionaria e quelli dei tifosi. È cosa nota che oggi il segno politico di queste aggregazioni si è spesso invertito. Rimane però visibile, sebbene solo in controluce, un legame ancora esistente tra il tifo organizzato e lo sport come festa popolare che contrasta con l’atomizzazione consustanziale allo spettare/consumatore.
In Inghilterra il fenomeno degli hooligan fu combattuto nell’epoca thatcheriana, non solo con le misure poliziesche, ma soprattutto con gli alti prezzi degli stadi. Impianti divenuti gradualmente di proprietà delle società calcistiche, trasformati in centri commerciali a tema che, per massimizzare i guadagni, attirano spettatori con potere d’acquisto (negli Stati Uniti dove i principali raduni sportivi durano almeno tre ore, il consumo di vivande e bevande diventa uno degli aspetti principali). È la fine del calcio come festa popolare cui il fenomeno del tifo organizzato ancora rimanda, sebbene debolmente. Un legame che però è suscettibile, nelle opportune condizioni, di rivitalizzarsi. Si può citare soltanto un esempio: le tifoserie delle due squadre del Cairo, dopo essersi scontrate per tanti anni, si riuniscono nella difesa di piazza Tahrir sostenendo, data la loro preparazione “bellica”, in modo efficace gli scontri con polizia e mazzieri del regime. Abbiamo qui un’inversione. Non c’è più bisogno di un eroe da ammirare per creare un legame: tutti diventano eroi e, al tempo stesso, nessuno lo è. Al contrario del Mundial 1982, il popolo prova a riprendersi il diritto di creare i propri eroi.

In generale, quando il mondo ordinario entra in fermento tende a rompere la quiete olimpica degli eventi sportivi. Molti i casi entrati nella storia. Il più famoso è probabilmente quello delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. La manifestazione è preceduta dalla strage degli studenti nella piazza delle Tre culture e dalla conseguente richiesta di bloccare i Giochi. Lo spettacolo però non si ferma. La contestazione prosegue assumendo forme impreviste. Quella più celebre riguarda i due corridori afroamericani Tommie Smith e John Carlos che durante la cerimonia di premiazione dei 200 metri, scalzi, alzano il pugno avvolto in un guanto nero e ascoltano l’inno con lo sguardo basso a rimarcare l’estraneità e il dissenso verso il simbolo di un potere che li opprime. Non vogliono più essere i cavalli da corsa dell’uomo bianco. Un nero se vince è accolto come un americano, se perde torna a essere un negro. Con questo gesto svelano al mondo intero, dentro lo spettacolo ordito dal potere, l’ipocrisia dell’ideologia dominante: quella che rappresenta lo sport come un’istituzione neutrale, superiore a tutti gli interessi perché fondata sulla uguaglianza delle possibilità e dei criteri di valutazione di ogni rendimento. Tutti possono diventare eroi. Per questo lo sport unisce. Per questo l’unico modo in cui la politica può essere riconosciuta all’interno dello sport è quello della glorificazione della nazione, con il suono ridondante degli inni, e della sua unità, con il continuo appello a tutti, atleti e tifosi, a intonare tenendosi per mano le note di quella musica.
Il gesto degli atleti afroamericani è dirompente. Introduce nel mondo dorato dello sport le spaccature reali della società, anche se poi lo spettacolo continua e nel corso del tempo il gesto dei dissidenti diventerà iconografico e oggetto del merchandising. Tuttavia, nel presente storico, gli eroi saranno cacciati dall’Olimpo sportivo, puniti come Prometeo dagli dei. I due atleti evidenziano un legame vero con i loro sostenitori, innervato nella comune condizione sociale, economica e culturale. L’eroe sportivo si scopre prima di tutto un essere umano. Ciò che lo rende simile ai suoi fratelli e alle sue sorelle non è la gloria, ma la comune condizione di miseria, di discriminazione.
In questo senso, forse, si può individuare una figura differente di eroe sportivo che non suscita ammirazione solo per le sue capacità straordinarie (pur avendone bisogno), ma anche per le sue debolezze, per la sua umanità claudicante che lo accomuna ai suoi ammiratori spezzando il mondo fatato della competizione atletica e facendoci entrare nel mondo reale. Si pensi, nel campo del calcio, a una figura come Cristiano Ronaldo, micidiale macchina da goal che nella sua perfezione non può suscitare forme di identificazione che non siano di tipo proiettivo e la si paragoni a una vera a propria icona come Diego Armando Maradona, capace con il suo genio e la sua sregolatezza, con le sue cadute rovinose e le sue resurrezioni, di rappresentare alla perfezione, anche a molti anni di distanza dal suo ritiro, il desiderio di riscatto dei quartieri popolari argentini e napoletani.

Di certo ogni qual volta si assiste a una “invasione di campo” della realtà circostante nel perimetro di gioco, la classe dirigente sportiva, politica e mediatica si chiude a riccio sostenendo che lo sport è un fenomeno compreso in se stesso, pacificato, neutro, puro, limpido, onesto. Insomma, è un’oasi felice, immune dall’ideologia, strumento di formazione dei giovani ai valori della ragione e della misura, sana valvola di sfogo. In estrema sintesi, lo sport deve unire, non dividere.
Ciò nonostante, gli spazi dello sport non sono immuni dalla realtà e dai suoi conflitti perché essi possono essere riconfigurati, simbolicamente o materialmente, come spazi aperti, fluidi e contesi. O almeno così è accaduto in passato, come documenta il libro di Gioacchino Toni e Alberto Molinari Storie di sport e di politica (Mimesis 2018), con riferimento al decennio 1968-1978. Può accadere nuovamente o il mondo dello sport si è definitivamente immunizzato dal contagio della realtà a lui esterna? Non c’è da essere ottimisti se si pensa alla scarsa risonanza che ha avuto il tentativo di contestare il Giro d’Italia del 2018 e le tre tappe iniziali in Israele, soprattutto se confrontiamo questo episodio con analoghe contestazioni del passato, per esempio quelle veementi alla finale di Coppa Davis del 1976 nel Cile di Pinochet o al Mondiale del 1978 nell’Argentina di Videla, anche se fallimentari, perché ancora oggi nella bacheca risalta l’ambito trofeo tennistico e nella nostra memoria sono ancora vivide le immagini dei giovani Rossi e Cabrini.

I semi della speranza possono ancora germogliare se, invece, guardiamo al movimento dello sport popolare: un fenomeno che in Italia, sebbene sotterraneamente, continua a consolidarsi sviluppando, sulle orme dei fenomeni nati negli anni Settanta, una concezione dell’attività atletica che ne vuole superare gli aspetti competitivi e mercificanti a favore di una dimensione dello sport come festa popolare, inclusiva, ricreativa, associativa, legata alle rivendicazioni sociali.
Se c’è un comune denominatore delle vicende sportive, si potrebbe individuare nella ricerca spasmodica della vittoria e nella retorica che ne deriva. Senza di essa non parleremmo del gesto di sfida di Smith e Carlos e non avremmo ceduto al desiderio di andare in Cile a prenderci la Coppa Davis, due esempi storici che citiamo non a caso, proprio per la loro esemplare differenza e per le complessità che scatenano. Oltre ogni discorso immediatamente socio-politico, il vero ostacolo da superare sembra essere costituito dal delirio della vittoria, sia nella vita sia nella sua versione eroicizzata rappresentata dallo sport. Se si vince si ha tutto e, a posteriori, ogni spiegazione e riflessione acquisisce legittimità. Certamente vincere è meglio che perdere e tutti sperano che prima dei titoli di coda vi sia un lieto fine. Ciò nonostante, senza inciampare in una retorica aristocratica alla De Coubertin, possiamo considerare il “viaggio dell’eroe” esemplare per il movimento che un individuo dotato di talento mette in atto, lasciando in secondo piano l’esito che ne consegue?

[Nell’ambito del ciclo di incontri sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe”, il Gruppo di Studio Antongiulio Penequo discuterà della figura dell’eroe sportivo con Gioacchino Toni il 28 gennaio alle ore 19.00 (Libreria Caffè Giufà, via degli Aurunci 38, Roma). Altri interventi sul tema dell’eroe e del suo viaggio sono disponibili qui]

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Zombie: il soggetto e la massa https://www.carmillaonline.com/2018/11/30/zombie-il-soggetto-e-la-massa/ Thu, 29 Nov 2018 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49877 di Gabriele Guerra e Maurizio Marrone

Gli zombie sono tra noi. Questa affermazione ormai è diventata mainstream, nella sua intenzione scopertamente politica di vedere nella figura del morto vivente che è mosso soltanto dal desiderio di nutrirsi degli esseri umani; nella raffigurazione del compiuto dominio capitalistico, della “zombificazione” dei rapporti sociali, del collasso di qualsiasi forma di convivenza. Come tutte le affermazioni mainstream, però, questa raffigurazione, pur contenendo degli indirizzi critici notevoli, sta diventando una frase irriflessa, che non si chiede davvero chi siano gli zombie e chi siamo [...]]]> di Gabriele Guerra e Maurizio Marrone

Gli zombie sono tra noi. Questa affermazione ormai è diventata mainstream, nella sua intenzione scopertamente politica di vedere nella figura del morto vivente che è mosso soltanto dal desiderio di nutrirsi degli esseri umani; nella raffigurazione del compiuto dominio capitalistico, della “zombificazione” dei rapporti sociali, del collasso di qualsiasi forma di convivenza. Come tutte le affermazioni mainstream, però, questa raffigurazione, pur contenendo degli indirizzi critici notevoli, sta diventando una frase irriflessa, che non si chiede davvero chi siano gli zombie e chi siamo noi. Gli zombie, con la loro apatia, quel loro incedere in un mondo in rovina alla ricerca esclusivamente di fonti primarie di sostentamento, in realtà “portano alle estreme conseguenze la crisi del processo di individuazione”, come è stato notato da Rocco Ronchi.1 Questo autore si è confrontato filosoficamente con la moda zombie, rilevandone le caratteristiche letteralmente trans-umane. Secondo questa lettura lo zombie è il nostro prossimo che ha cessato per sempre di essere tale, con il quale non si può instaurare alcun rapporto possibile che non sia di mero conflitto. Quindi – aggiunge Ronchi – non esiste lo zombie, esistono solo gli zombie, massa indistinta e priva di ogni forma di individuabilità, “un plurale che non ha più l’uno come unità di misura”.2 In questo senso gli zombie rappresentano l’esatto antitipo del Leviatano di Hobbes che vediamo nel suo celebre frontespizio: un sovrano che domina la città, il cui corpo è formato da tutti i suoi sudditi. Agli zombie Ronchi riserva, con una intuizione davvero interessante, il titolo greco – già rintracciabile in Platone – di onkos, “peso”, “massa”.

Insomma: gli zombi sono una massa asoggettuale, oncologica, priva di volontà e scopo che non siano quelli di distruggere gli umani viventi, i soggetti. Questi invece formano una massa di tante individualità autocoscienti; in questo senso si potrebbe dire che l’onkos costituisce l’estrema propaggine teoretica delle descrizioni della massa che Elias Canetti compie in Massa e potere. Proprio su questa inaggirabile contraddizione fondamentale tra una massa di zombie incoscienti e la comunità di soggetti coscienti occorre riflettere seriamente, per evitare facili derive simboliche (gli zombie che stanno sempre per qualcos’altro), o facili liquidazioni. Dire che lo zombie, essendo puro corpo, si collega a “una biopolitica immaginaria dei corpi dei lavoratori”3 costituisce un’acuta osservazione rispetto alla genesi della figura dello zombie e al nesso strettissimo che instaura con il capitalismo e i suoi sistemi storici di dominio e di controllo; ma al tempo stesso si espone al pericolo di poter essere considerata come una delle tante figure di questo stesso sistema, quasi fosse un concreto antesignano, o un simbolo, del proletariato.
A prendere davvero sul serio la massa degli zombie come onkos, invece, occorre preventivamente interrogarsi sul suo statuto filosofico, e pensiamo che sia sempre Rocco Ronchi a fornire il quadro teorico di riferimento. Nella sua opera più recente, Il canone minore,4 egli tenta di definire delle coordinate storico-filosofiche di tipo nuovo che descrivano le modalità di esistenza dell’essere umano nel mondo. Tale essere umano qui è definito come non naturale, come un essere del possibile, in grado cioè di non fare qualcosa. Lo zombie invece somiglia allo scorpione di quell’apologo classico, ricordato sempre da Ronchi, che chiede alla rana un passaggio sul dorso per attraversare un fiume, promettendole di non pungerla. Cosa che invece fa, e alla rana dolorosamente stupita che gliene chiede conto mentre entrambi stanno annegando risponde che quella era la sua natura, che non poteva fare altrimenti. Lo zombie non può non mordere, insomma, come lo scorpione non può non pungere; mentre il soggetto umano è come il Bartleby melvilliano, che risponde sempre con I would prefer not to alle ingiunzioni a eseguire un compito. “Avrei preferenza di no” è dunque il motto dell’essere umano capace di deflettere dalla coazione “naturale” all’azione.

Ma se fosse lo zombie a mostrare una simile attitudine? Esiste un esempio nella vasta letteratura zombie che sembra andare nella direzione di una risposta a questo interrogativo: il romanzo del 2015 La ragazza che sapeva troppo,5 che mostra, nel solito mondo postapocalittico squassato da un’epidemia zombificante, una seconda generazione di morti viventi nati da madri infette. Essi si trovano nella terra di nessuno che separa i vivi sani dai morti viventi malati: esseri senzienti, che però regrediscono alla fame atavica di carne umana non appena sentono l’odore del sangue. La protagonista, di nome Melanie, è una bambina che scopre la sua natura duale, imparando a conviverci e anzi alla fine a farla fruttare. Realizza così il cammino dell’eroe che porta dall’acquisizione di sé e del proprio compito alla sua realizzazione attraverso il superamento di una serie di ostacoli. Il viaggio dell’eroe, inerente a qualsiasi testo che intenda porre la questione del soggetto nel mondo, in questo esempio estremo di letteratura zombie, comincia proprio quando si riaccende la coscienza: dall’onkos come insieme indifferenziato di un molteplice che ha perso il suo principio di unificazione, ovvero la capacità per gli individui di essere soggetti, si mostrano dei segnali di individuazione di un soggetto in grado di ri-fondare una comunità – senz’altro inedita e a tratti non riconoscibile come tale, ma sicuramente portatrice di un qualche futuro collettivo.
Melanie incarna insomma una possibile linea di individuazione di qualcosa come una soggettività al di là dell’onkos, una sorta di contraddizione in atto nel mondo, che del soggetto riprenda le categorie di atto e potenza, dell’onkos la massa “pesante”, e riconfiguri il tutto in forme e modi che superino sia la questione, tradizionalmente aristotelica del soggetto, sia le derive apocalittico-nichilistiche dell’onkos.
Crediamo che queste riflessioni di Rocco Ronchi intorno al soggetto e alla sua pretesa “naturalità”, come anche quelle intorno alla natura dello zombie possano andare ben al di là di una riflessione eccentricamente elegante circa la “zombologia”. Possano cioè fungere da spunto prezioso, se abbandoniamo l’ontologia dello zombie e per così dire viriamo su una sua “estetica”; ovvero sulla percezione che di esso – dell’altro, del corpo dell’altro – si sta dando in questi sventurati tempi.
Gli zombie sono tra noi, dicevamo. Il che oggi significa, fuori dalla metafora filmica: i migranti che arrivano in Europa, dopo un viaggio davvero eroico, tra mille incidenti e pericoli, vengono percepiti come una massa indistinta (e quanto pesante nel dibattito pubblico!) e dunque minacciosa, proprio come gli zombie che assediano in massa gli umani superstiti. E se fosse possibile invertire il processo degenerativo della percezione, e leggere in quelle masse di migranti il momento in cui dall’onkos emerge un soggetto individuabile, una massa di soggetti individuabili? È possibile cioè rintracciare una nuova genealogia del soggetto (e dell’eroe) proprio laddove il sistema compie il massimo sforzo per trasformare in onkos una comunità potenziale? Occorre insomma una riflessione all’altezza del fatto che l’essere umano non solo può non, ma anche del fatto che si comporti come lo scorpione della favola. È qui può giungere in soccorso una riflessione inedita sullo statuto degli zombie.

[Nell’ambito del ciclo di incontri sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe”, il Gruppo di Studio Antongiulio Penequo discuterà di eroi, zombie e migranti con Rocco Ronchi il 12 dicembre alle ore 19.00 (Libreria Caffè Giufà via degli Aurunci 38, Roma). Il tema dell’eroe è già stato affrontato su “Carmilla” da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui, qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio Marrone (qui e qui), Gabriele Guerra (qui e qui) e Pierpaolo Ciccarelli. Riguardo alla figura del morto vivente si segnalano inoltre i contributi di Gioacchino Toni (qui)]


  1. Rocco Ronchi, Zombie outbreak, La filosofia e i morti-viventi, Textus, L’Aquila 2015, p. 14. 

  2. Ivi, p. 25. 

  3. Antonio Lucci, Metafore della non-morte. Riflessioni culturologiche sul potenziale metaforico della figura dello zombie, in “Trópos”, n. 2, 2016, p. 104. 

  4. Rocco Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017. 

  5. M.R. Carey, La ragazza che sapeva troppo, Newton Compton, Roma 2015. 

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