antisemitismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La retorica della prevaricazione nel passaggio tra vecchio e nuovo antisemitismo https://www.carmillaonline.com/2025/06/05/la-retorica-della-prevaricazione-nel-passaggio-tra-vecchio-e-nuovo-antisemitismo/ Wed, 04 Jun 2025 22:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88324 di Fabio Ciabatti

Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13,30.

Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.

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di Fabio Ciabatti

Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13,30.

Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.

Contrariamente al senso comune, ci ricorda l’autrice, l’antisemitismo non acquisisce centralità nel discorso pubblico subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quando si scopre l’orrore del genocidio nazista degli ebrei. E questo vale anche per lo Stato di Israele che, subito dopo la sua nascita, è impegnato a prendere le distanze dall’immagine dell’ebreo come vittima che nella Shoah aveva avuto la sua massima espressione. D’altronde, una parte consistente dell’opinione pubblica internazionale era stata favorevole allo stato israeliano nei suoi primi venti anni di vita. Ma le cose iniziano a cambiare con la guerra dei Sei Giorni del 1967 che porta Israele a occupare e a colonizzare Cisgiordania, Striscia di Gaza e alture del Golan. Cresce la solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi, fino a quel momento sostanzialmente ignorati, fino a che, nel 1975, su iniziativa dell’Unione Sovietica, l’Assemblea dell’Onu vota la Risoluzione 3379 nella quale si afferma che “il Sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale” (risoluzione che sarà abrogata nel 1991). L’ostilità nei confronti del sionismo cresce nel 1982 con l’invasione israeliana del Libano durante la quale vengono perpetrati i massacri di inermi civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila. Fioccano allora i paragoni tra Israele e il Terzo Reich invertendo la retorica della Shoah che, nel frattempo, si stava affermando come legittimazione dello stato sionista per opera dei conservatori israeliani, andati per la prima volta al governo nel 1977 con il partito Likud.
Anche a seguito degli eventi storici brevemente tratteggiati, il governo israeliano inizia a interessarsi alla lotta contro l’antisemitismo nel mondo. Solo nel 1988 viene istituito l’Inter-Ministerial Forum for Monitoring Anti-Semitism, cui viene affiancato lo Stephen Roth Institute for the Study of Contemporary Antisemitism and Racism dell’Università di Tel Aviv. Il fatto è che la nuova centralità assunta dall’antisemitismo si afferma insieme al discorso sul nuovo antisemitismo, inizialmente riferito alla citata risoluzione dell’Onu. Il sionismo delle origini aveva rifiutato l’idea di un “eterno antisemitismo” quale fondamento dell’ostilità dei paesi arabi perché questo avrebbe portato a immaginare un futuro di guerra perpetua. In contrasto con questa visione “guadagnò terreno la narrazione mitica […] del destino di Israele come un ciclo ininterrotto di catastrofi e redenzioni”, 1 rafforzata dalla retorica delle leadership arabe, non sempre esenti dall’attingere all’archivio antiebraico importato dall’Europa. 

Il passaggio dal nuovo antisemitismo all’antisionismo come forma per eccellenza dell’odio antiebraico necessita di un passaggio intermedio: l’idea, sostenuta dalla politica estera del Likud, di Israele come “ebreo collettivo”. Idea in base alla quale chi critica lo stato sionista vuole in realtà colpire tutti gli ebrei. In primo luogo bisogna notare il fatto paradossale che identificare Israele con tutte le persone di fede giudaica, attribuendo a tutti gli ebrei le responsabilità degli atti compiuti dal governo di Tel Aviv, è proprio uno di quegli atteggiamenti che è stato giustamente identificato come caratteristica di un antisemitismo mascherato da antisionismo. Insomma  l’idea di Israele come “ebreo collettivo” assomiglia molto a una forma di antisemitismo rovesciata di segno. Ma c’è di più. Parlare di “ebreo collettivo” significa personificare intere comunità nazionali o religiose (non solo Israele ovviamente) e immaginare questi “personaggi-sineddoche” come soggetti che si combattono nell’agone storico assumendo, attraverso grossolane semplificazioni, “tratti caratteriali semi-permanenti, biografie storiche, tradizioni ancestrali e motivazioni psicologiche profonde”.2 In breve la figura dell’ebreo e quella dei suoi nemici vengono essenzializzate.

Ma è proprio questo tipo di operazione concettuale che costituisce uno dei nuclei fondanti dell’antisemitismo. 

Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli antisemiti essenzializzano gli ebrei, riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo. Ma la naturalizzazione delle categorie socialmente costruite è tipica di ogni discorso razzista3. 

Chi invece aspira liberarsi dalla narrazione antisemita, sostiene Pisanty, considera l’avversione contro gli ebrei come un fenomeno storicamente variabile interrogandosi sulle dinamiche che hanno di volta in volta reso possibile la sua insorgenza. Quando analizziamo queste dinamiche possiamo rilevare che l’antisionismo attinge allo stesso repertorio storico del pregiudizio antiebraico? Perché è proprio questo che bisognerebbe dimostrare, caso per caso, quando si cerca di identificare antisionismo e antisemitismo. Una dimostrazione tanto più necessaria alla luce del fatto che la storia ci dimostra come filosionismo e antisemitismo non siano mutuamente esclusivi. Il caso più clamoroso è probabilmente quello di Lord Arthur Balfour, il ministro degli esteri della Corona britannica che, con la sua famosa Dichiarazione del 1917, dà il via libera all’emigrazione ebraica della Palestina con l’obiettivo dichiarato di scongiurare il rischio di un’infiltrazione giudaico-bolsceviche nel suo paese. Sta di fatto che la dimostrazione della suddetta identità, afferma l’autrice, non viene mai fornita. La coincidenza tra i due tipi di fenomeni viene semplicemente presupposta. 

E allora chiediamoci chi è questo mitico ebreo bersaglio dell’odio antisemita.

Gli attributi antitetici di cui è portatore si ricompongono in un unico personaggio da feuilleton la cui caratteristica più saliente è per l’appunto la doppiezza. Come si fa a essere simultaneamente capitalisti e comunisti, apolidi e nazionalisti, prepotenti e servili, e chi più ne ha più ne metta? Basta immaginare che tutte le contraddizioni siano artifici di copertura. L’“Ebreo” non è mai colui che dice di essere. Dietro la maschera della povera vittima si nasconde il più perfido dei manipolatori.4

Se la doppiezza è la caratteristica essenziale presa di mira dal classico odio antiebraico “il nemico immaginario degli antisemiti non ha gli stessi tratti del nemico degli antisionisti, che di Israele detestano l’arroganza, la belligeranza, la ruvidezza, la chutzpah”.5 

Ma tutto ciò viene bellamente ignorato da chi, per comminare scomuniche o addirittura sanzioni legali, brandisce la Working definition dell’antisemitismo adottata nel 2016 dalla International Memorial Holocaust Allianche (Ihra). Questo atto ufficializza, di fatto, l’equivalenza tra antisionismo e antisemitismo. Abbiamo utilizzato l’espressione “di fatto” perché, come racconta dettagliatamente Pisanty, la Ihra in realtà accoglie soltanto la definizione generale della Working definition mentre, dopo un’aspra discussione tra i rappresentanti dei suoi trentacinque Stati suoi membri, esclude esplicitamente gli esempi che ne costituisco la parte più cospicua, consapevole della loro problematicità soprattutto per la parte che riguarda l’assimilazione tra antisemitismo e antisionismo. Nel 2018, tuttavia, vari sostenitori della versione integrale cominciarono ad affermare che l’accordo raggiunto due anni prima riguardava l’intera definizione e chi affermava il contrario era un “antisionista antisemita”. Questa è la versione oramai comunemente accettata della storia tanto che l’Eumc, l’organismo indipendente che aveva originariamente ideato la definizione operativa come mero strumento per individuare possibili fenomeni di antisemitismo, finisce per rinnegare la sua stessa Working definition

Insomma in questa vicenda i paradossi si accumulano. Tra questi uno dei più preoccupanti è quello che porta a sottovalutare le reali nuove insorgenze di odio antiebraico perché l’antisionismo non viene soltanto considerato come un equivalente dell’antisemitismo, ma soprattutto come l’unica forma realmente rilevante di antisemitismo. L’esempio più lampante di questa dinamica è il caso, evidenziato dall’autrice, dell’ungherese George Soros, individuato come nemico per eccellenza nella campagna elettorale del 2008 dal presidente magiaro Viktor Orban. Si tratta di una trovata escogitata dai consulenti delle campagne elettorali di Netanyahu che, assoldati da Orban sotto consiglio dello stesso premier israeliano, non si sono fatti scrupolo di mobilitare un intero arsenale di argomentazioni antisemite nei confronti del finanziere ebreo Soros. Argomentazioni riprese poi a piene mani da moltissimi leader politici di altri Paesi. Tra questi gli italiani Salvini e Meloni che hanno aggiunto a carico di Soros un altro classico della propaganda antiebraica: accusato di finanziare i flussi migratori verso l’Europa, il finanziere ungherese viene considerato l’architetto occulto di una nuova sostituzione etnica, secondo i dettami del famigerato piano Kalergi. Questa galleria degli orrori non può che finire con Netanyahu che accusa Soros di essere l’eminenza grigia dietro ai suoi guai giudiziari e con il figlio del premier che pubblica un meme, raffigurante il finanziere ungherese, dal tono inequivocabilmente antisemita.
La cosa più grave di tutta questa vicenda è che, nonostante il gran parlare del pericolo antisemita, attraverso il mito di Soros, frammenti dell’archivio antiebraico siano stati riscattati dalla latenza e abbiano ricominciato a circolare non solo nei circuiti dell’estrema destra, ma anche nei settori della cultura mainstream”.6 Ma c’è anche di peggio, sottolinea con dolore Pisanty: se si consolida l’idea che opporsi al massacro dei palestinesi significa essere antisemiti, l’antisemitismo stesso può, nel più tragico dei paradossi, acquisire un’accezione positiva per il senso comune. 

Se questi sono i risultati, sembra proprio che la difesa dagli ebrei da nuove insorgenze di antisemitismo non sia la principale preoccupazione di chi ha imposto come dogma di fede, in molti casi giuridicamente vincolante, il nuovo antisemitismo. In effetti in gioco sembra esserci qualcosa di diverso. Pisanty accenna a questo ordine di problemi quando sostiene che la già citata International Memorial Holocaust Alliance “è l’organizzazione internazionale cui si deve il progetto di riempire il vuoto ideologico creato dal crollo del comunismo con la narrativa ‘cosmopolita’ dell’Olocausto che ha plasmato l’immaginario politico occidentale dell’ultimo quarto di secolo”.7 In questo immaginario, sottolinea l’autrice, hanno trovato comodamente posto i diversi partiti di estrema destra che negli anni duemila hanno acquisito sempre più consenso. Il vecchio antisemitismo, incistato nel loro DNA, è stato prontamente condonato in cambio del ripudio del nuovo antisemitismo, cioè dell’appoggio incondizionato alle politiche di Israele. Lo Stato sionista gli ha così conferito una patente di democratica rispettabilità, noncurante del razzismo di cui sono ancora i campioni. È sufficiente che questo non si eserciti, almeno esplicitamente, nei confronti delle persone di fede e cultura ebraica.
Nel nuovo immaginario, invece, non trovano spazio l’anticolonialismo, l’antimperialismo e l’antiamericanismo che vengono demonizzati in quanto correnti politiche ispiratrici di un antisionismo equiparato tout court all’antisemitismo. Insomma, ce n’è abbastanza per respingere senza indugio il nuovo dogma, come fa Pisanty nella conclusione del suo libro dove introduce, purtroppo solo di sfuggita, il tema del clima bellico in cui tutta questa vicenda sembra inscriversi.

Chiunque impieghi il termine antisemita nel senso imposto dalla definizione IHRA deve sapere in quale catena di prepotenze, non solo linguistiche, si sta collocando. A meno di non prendere atto che il mondo è entrato in una fase di guerra senza quartiere, o si vince o si muore, di cui la retorica della prevaricazione è il naturale corollario8.


  1. V. Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, p. 42, edizione Kindle. 

  2. Ivi, p. 56. 

  3. Ivi, p. 26. 

  4. Ivi, pp. 32-33. 

  5. Ivi, p. 55. 

  6. Ivi, p. 100. 

  7. Ivi, pp. 77-78. 

  8. Ivi, p. 104. 

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L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv https://www.carmillaonline.com/2024/04/19/lebreo-immaginario-degli-antisemiti-non-abita-a-tel-aviv/ Thu, 18 Apr 2024 22:10:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81974 di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro [...]]]> di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita. 

E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna. La natura “sordidamente giudaica” infatti non viene attribuita agli ebrei, ma a tutta la società contemporanea, caratterizzata dalla scissione tra il citoyen, il cittadino astratto dedito al bene comune, incarnazione della volontà generale, portatore della razionalità illuministica, da una parte, e il bourgeois, l’uomo concreto, egoista, dedito esclusivamente ai suoi interessi individuali, ostinatamente attaccato alla sua particolarità, dall’altra. La raffigurazione dell’ebreo altro non è che il risultato dell’attribuzione a un’alterità mostruosa delle caratteristiche proprie del bourgeois. Le caratteristiche, cioè, della società civile che mettono costantemente a rischio l’appartenenza dell’individuo alla comunità politica raggiunta attraverso la partecipazione alla vita dello stato.
In queste pagine del giovane filosofo tedesco abbiamo, insomma, un’anticipazione del concetto psicoanalitico di proiezione, il meccanismo inconscio attraverso il quale un soggetto attribuisce a un nemico immaginario il proprio lato oscuro e inconfessabile. Nel caso specifico, la sua essenziale asocialità. Questo stesso dispositivo retorico viene replicato in molti altri testi, come accade ripetutamente con l’utilizzo da parte di Marx della figura dell’usuraio ebreo Shylock, il personaggio del Mercante di Venezia di Shakespeare. E ciò testimonia, secondo Disegni, come il tema dell’antisemitismo sia presente in tutta la sua produzione teorica. Sebbene in modo implicito, Marx ci ripete che gli antisemiti hanno la stessa religione dei loro ebrei immaginari: adorano solo il dio denaro.

Ma c’è di più. Secondo l’autore l’opera matura di Marx si può configurare anche come una critica dell’economia politica dell’antisemitismo. Quest’ultimo, sin dai suoi inizi fino al suo apice nazista, si basa sulla dicotomia tra lavoro e denaro. Il primo santificato, il secondo demonizzato. Il lavoro rende liberi, sta scritto all’entrata del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Quella che potrebbe sembrare soltanto una macabra ironia è in realtà uno dei fondamenti dell’antisemitismo, secondo Disegni.
Il lavoro è al centro del progetto emancipatore della modernità borghese. È ciò che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia della natura e di costruire liberamente il proprio mondo. È il naturale fondamento della proprietà. Ma il lavoro è anche ciò che, nell’ideologia nazista, connette i singoli alla comunità razzialmente connotata. Esso è pensato come intrinsecamente nazionale, ariano. Ma il mondo in cui si esplica questo lavoro è tutt’altro che coeso, pacificato, comunitario. È un mondo in profonda crisi, scisso. E questa crisi deve essere attribuita al potere del denaro che ha un carattere cosmopolita, ubiquo, astratto. In una parola, ebraico. Il potere del denaro opprime e disgrega la laboriosa comunità nazionale. Bisogna perciò eliminare ciò che impedisce il naturale compimento del benessere collettivo sopprimendo il mostruoso detentore di questo potere. In sintesi, si parte dalla dicotomia tra lavoro e denaro e si arriva alla soluzione finale. 

Vedremo tra breve la critica di Marx a questo dispositivo, ma prima bisogna notare che esso può funzionare solo se viene accettato il binomio ebrei-denaro. Un binomio che affonda le sue radici nel medioevo quando gli ebrei, impediti nel partecipare alle più comuni attività produttive, si specializzano nel commercio e nel prestito di denaro. Tutto ciò potrebbe far pensare a una sostanziale continuità tra il medioevo e modernità quanto a discriminazione contro gli ebrei. Cosa che Disegni nega decisamente. L’antisemitismo, afferma, è un fatto moderno che ha natura completamente diversa dall’antigiudaismo medioevale. Insomma, “soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare”, per dirla con Marx, può sorgere una questione ebraica, cioè il problema se sia lecito o meno negare l’emancipazione a un gruppo particolare.
Il trattamento discriminatorio riservato agli ebrei non poneva alcun problema alla coscienza medioevale. Quel mondo era esplicitamente composto da diversi gruppi caratterizzati da differenti diritti e doveri. La mancata emancipazione degli ebrei è dunque una questione che si pone nell’ambito del progetto illuministico, segnalando le sue interne contraddizioni. Anche se il binomio ebrei-denaro nasce in un lontano passato il suo significato muta con il mutare del significato del denaro che, nel mondo borghese, ha un ruolo essenzialmente diverso rispetto a quanto accadeva nei modi di produzione precapitalistici.

E qui è il concetto di modo di produzione ad essere quanto mai rilevante. Marx non parla semplicemente di un modo di appropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro. Cosa che sarebbe tutto sommato compatibile, secondo Disegni, con l’idea, antisemita, che è il potere del denaro ad espropriare il lavoro. Marx parla, appunto, di modo di produzione e cioè di una modalità in cui si esplica il lavoro che è essa stessa la forma in cui si realizza l’espropriazione. Insomma, la contraddizione è tutta interna al lavoro che, da una parte è strumento di potenziale emancipazione, dall’altra di effettivo sfruttamento.
Non è un caso che Marx giunge a formulare i suoi concetti più maturi sul capitale passando attraverso la critica di Proudhon che vorrebbe abolire il denaro per salvaguardare il lavoro. Il lavoro così com’è. Il socialista francese, veemente antisemita fino al punto di invocare lo sterminio degli ebrei, sarà sempre uno dei suoi bersagli polemici da un punto di vista teorico e politico. Perché la sua puerile dialettica tra un lato buono da salvaguardare (il lavoro) e un lato cattivo da abolire (il denaro) mette capo ad un programma che potremmo sintetizzare con la famosa formula “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Marx invece vuole un cambiamento radicale, a partire dal rivoluzionamento dei rapporti di produzione. Il filosofo tedesco non nega l’importanza del lavoro per l’emancipazione dell’umanità, ma ritiene che è proprio in questo ambito che si infrangono le promesse della modernità. Ed è proprio da qui che bisogna iniziare ad incidere se a quelle promesse si vuol tener fede.

Ma non è tutto. Il potere del denaro non è un mero abbaglio, ma un’apparenza necessaria che scaturisce dallo stesso modo di produzione capitalistico. È la realtà fenomenica, il mondo come appare immediatamente agli individui che si sentono soggiogati da una potenza aliena, estranea di cui non riescono a comprendere il funzionamento. Il denaro è la manifestazione più appariscente del capitale, anche se in realtà è solo una delle forme in cui si incarna il capitale stesso per adempiere alla sua natura di valore che incessantemente si valorizza. Tutto ciò sarebbe assolutamente impensabile al di fuori del modo di produzione capitalistico in cui il denaro, nelle sue diverse forme, è il medium universale della produzione materiale e dunque della riproduzione degli individui. Per questo il binomio ebrei-denaro nella modernità capitalistica mette capo a un particolare tipo di pregiudizio antiebraico, l’antisemitismo, che è cosa storicamente diversa dall’antigiudaismo del medioevo, epoca in cui il denaro ha solo un ruolo limitato.
Questo ci spiega, secondo Disegni, la pervasività dell’antisemitismo. Non è sbagliato parlare della radice piccolo-borghese di questo fenomeno, ma è limitativo. Se ci si fermasse a questa considerazione di natura sociologica, sostiene l’autore, non potremmo capire perché l’antisemitismo abbia attecchito ampiamente anche tra la borghesia propriamente detta e tra le classi popolari. L’apparenza necessaria di cui abbiamo parlato, essendo un fenomeno che in modi diversi riguarda tutti, ci può infatti spiegare la diffusione del pregiudizio antiebraico. 

In sede di commento, come già anticipato, prendiamo spunto da alcune questioni suscitate dal libro per arrivare ai giorni nostri. Sebbene Disegni non lo espliciti, a partire dalla connotazione storicamente determinata del pregiudizio antiebraico moderno, così come la descrive lo stesso autore, si può contestare alla radice l’idea che le critiche allo stato di Israele possano rappresentare una forma di antisemitismo, come pretenderebbe, per esempio, la cosiddetta definizione operativa dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto. La connotazione ectoplasmatica dell’ebraismo immaginario degli antisemiti è infatti l’esatto opposto della natura concreta di uno Stato. A maggior ragione se abbiamo a che fare con una potenza fortemente militarizzata e pervicacemente impegnata a conquistare palmo a palmo la “terra promessa”, incurante di chi da secoli la abita. Il forte legame con la terra contrasta in modo netto la natura deterritorializzata del potere del denaro, espressione per eccellenza del presunto potere ebraico.
Insomma, se vogliamo capire dove attecchiscono oggi le radici della sempreverde malapianta dell’antisemitismo dobbiamo guardare altrove. Bisognerebbe indagare il rapporto tra il pregiudizio antiebraico e il razzismo genericamente inteso, tema che è completamente assente nel testo di Disegni. Per esempio si potrebbe fare riferimento al ruolo attribuito al miliardario ebreo Soros nell’attuazione del fantomatico Piano Kalergi, cioè la sostituzione etnica delle popolazioni bianche attraverso l’immigrazione extraoccidentale. In questo ever green del complottismo più farneticante, vediamo fondersi il più classico antisemitismo con il razzismo altrettanto classico nei confronti delle popolazioni non occidentali che oggi si declina soprattutto come islamofobia. La comunità nazionale degli onesti lavoratori, per riprendere uno dei temi del libro di Disegni, non sarebbe oggi minacciata solo dall’alto, dal potere “ebraico” del denaro, ma anche (o forse soprattutto) dal basso, dalla marea di colore formata dai migranti. 

Il fatto è che in tempi recenti il capitale ha iniziato a dismettere le sembianze cosmopolite e multiculturaliste degli anni ruggenti della mondializzazione neoliberista. In tempi di deglobalizzazione selettiva (processo, invero, assai contraddittorio) indossa sempre più volentieri una maschera nazionale. Ma, sotto questa maschera, la comunità nazionale rimane un’ombra priva di corpo perché la scissione marxiana tra citoyen e bourgeois rimane operativa e, semmai, si è approfondita. Per questo si cerca dare nuova linfa a questo corpo esangue attraverso una retorica etno-nazionalista. Il risultato, però, è solo una fragile soggettività pseudo-collettiva caratterizzata da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Un rancore che può avere come bersaglio, anche se con motivazioni differenti, gli immigrati o un qualsiasi altro gruppo razzializzato. Compresi, evidentemente, gli ebrei perché il capitale deterritorializzato può tornare a rappresentare un nemico da dare in pasto alla plebe impoverita in un periodo in cui monta la retorica del rimpatrio dei capitali (che poi si rivela essere una parziale rilocalizzazione in chiave geopolitica).
Inutile girarci attorno, mettere a tema il rapporto tra antisemitismo e razzismo non può che creare imbarazzo tra i sostenitori a prescindere dello stato di Israele (per essere chiari, non sto parlando dell’autore del libro recensito di cui non conosco le posizioni in proposito). Il legame indissolubile tra colonialismo e razzismo, infatti, riguarda anche il sionismo che, sin dalle sue origini tardo ottocentesche, è un progetto di carattere coloniale. L’idea che la Palestina fosse una terra senza popolo da destinare a un popolo senza terra (in teoria al popolo ebraico, in realtà al movimento politico sionista che non ha mai coinciso con l’insieme delle persone di fede e cultura ebraiche) è tutto sommato sovrapponibile al concetto che da sempre giustifica la spoliazione coloniale, quello terra nullius: terra di nessuno, appunto, e per questo liberamente appropriabile. Il fatto che il sionismo abbia avuto successo perché ha offerto un approdo di salvezza agli ebrei perseguitati in Europa nulla toglie alla sua natura coloniale, mentre aggiunge sale sulle ferite del popolo palestinese che, utilizzando le parole di Edward Said, si trova a vivere non solo il dramma dell’occupazione, ma anche “la tragedia di essere vittima delle vittime”. 

In conclusione, tornando al testo di Disegni, è senz’altro vero, come sostiene l’autore, che l’antisemitismo ha una sua connotazione peculiare che lo distingue dal razzismo genericamente inteso. Ma distinto non significa privo di relazioni. Se, per contrastare un supposto antisemitismo, si finiscono per alimentare stereotipi razzisti di altra natura (per esempio quelli nei confronti delle popolazioni di fede islamica che si oppongono allo stato di Israele), si rischia seriamente di bruciarsi con il fuoco che si sta appiccando per tenere lontano dal proprio fortino le orde di barbari. Ha di nuovo ragione Disegni quando sostiene che l’antisemitismo è il frutto di una mancanza di radicalità nell’affrontare il tema del lavoro sfruttato e alienato, ma lo stesso vale per il razzismo in quanto tale. Una radicalità che possiamo ritrovare anche con l’aiuto di Marx. Una radicalità che la leggenda del suo antisemitismo vorrebbe screditare. Anche per questo è oggi utile leggere Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo.

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Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/ Wed, 01 Nov 2023 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79758 di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e [...]]]> di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.

L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.

Anche se, soprattutto qui nell’Italietta dell’opportunismo e del fascismo sempre strisciante e servile e del razzismo d’accatto, i media mainstream continuano ad usare termini bellicosi e insultanti nei confronti della comunità arabo-palestinese che da 75 anni rivendica il diritto al governo della propria terra senza imposizioni coloniali di alcun genere, esiste una storia di riflessioni sul destino di Israele e le sue origini provenienti proprio dall’interno del mondo e della cultura ebraica. Motivo per cui, qui di seguito, si cercherà di delineare ciò che Domenico Quirico ha sintetizzato nell’epigrafe posta in apertura di questo articolo attraverso le parole di storici, politici e filosofi di origine ebraica. Rimuovendo quindi quella stupida affermazione di “principio” secondo cui qualsiasi protesta o condanna anti-sionista va accomunata immediatamente all’anti-semitismo.

Come ricorda in uno dei suoi testi più importanti uno degli storici israeliani che da decenni si battono per una revisione della storiografia dello Stato di Israele e sull’uso mitopoietico della Shoa, senza negarla ma inserendola in un contesto non più metafisico (il male assoluto), ma incastonato in un quadro storico e culturale, oltre che sociale ben più complesso:

Nel 1938, con la ribellione araba contro il Mandato sullo sfondo, David Ben-Gurion dichiarò:
«Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono… Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono».
Ben-Gurion aveva ragione, naturalmente. Il sionismo era colonizzatore ed espansionista, sia in quanto movimento sia in quanto ideologia2.

Il mito del diritto al rientro degli Ebrei nei loro “millenari” territori d’origine, negando successivamente quello dei Palestinesi espulsi con la Nabka seguita alla dichiarazione dello Stato di Israele, si fondava sull’opera di un ebreo austriaco, giornalista, laico e privo della conoscenza della lingua ebraica, Theodor Herzl (1860- 1904), che a seguito dell’affaire Dreyfus (1894-95) di fatto inventò il movimento politico sionista.

Egli riassunse il suo punto di vista in un pamphlet profetico-programmatico di 30.000 parole: Der Judeenstaat (Lo Stato ebraico), pubblicato nel 1896, col sottotitolo Un moderno tentativo di soluzione della questione ebraica. […] Uno Stato siffatto avrebbe potuto essere utile alle grandi potenze sia in quanto «avamposto contro la barbarie», sia in quanto avrebbe risolto il problema della convivenza tra ebrei e gentili3.

I discorsi che abbiamo sentito negli ultimi giorni, ma anche negli anni precedenti, sulla barbarie di Hamas è dunque l’ultima manifestazione di una concezione razzista che il sionismo, non soltanto nel suo intimo, ha sempre portato con sé. Talvolta travestito sotto le spoglie del miglior utilizzo del territorio oppure sotto l’abito militare violento della rimozione e stermino dei “barbari”, ogni qualvolta questi osassero alzare la testa per non accettare una condizione schiavile a cui i colonizzatori li volevano ridurre e mantenere. E’evidente che una constatazione del genere ricorda una storia secolare di oppressione e sfruttamento coloniale non soltanto in Palestina (tutto sommato abbastanza recente), ma in ogni angolo del mondo in cui, a partire dal XV secolo, le potenze coloniali europee hanno fatto sentire il rombo dei loro cannoni e lo schioccare della frusta ai popoli sottomessi degli altri continenti.

Uno schiavismo, che come ricordava già Marx, non aveva nulla a che fare con quello delle società antiche, ma che ha costituito uno degli assi portanti del capitalismo, fin dalle sue origini. Uno schiavismo che sta alla base dei campi di concentramento usati dall’Uomo bianco in Sud Africa, in Nord America, in Australia, in India e successivamente qui in Europa con i lager e il gulag.

A testimonianza di ciò, occorre qui ricordare quanto scrisse Primo Levi, a proposito dell’intimo rapporto che legava l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager, collegando per questo motivo i lager non alla metafisica del “male assoluto”, ma alla logica spietata dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale4.

Non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano un’istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse5.

Come si è affermato prima, le osservazioni e le note di Primo Levi rimettono sui giusti binari della Storia il tema della Shoa e dell’antisemitismo, liberandolo dai miti giustificazionisti dello stato di Israele per integrarlo all’interno dello sviluppo delle forme concentrazionarie che hanno reso possibile l’espandersi dello sfruttamento capitalistico, dal Panopticon di Bentham agli istituti carcerari privati americani di oggi, nati proprio come investimenti per l’utilizzo di manodopera a basso costo6.

Aggiungeva, però, poi ancora Levi:

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva voluto [e] il mondo […] provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica […]. E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro […] ci sono campi di concentramento in Grecia, Unione Sovietica, in Vietnam e in Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo7.

Non ha smesso di promettere la vittoria del bene contro l’”asse del male” e dei valori occidentali su quelli dei “barbari”. Trasferendosi talvolta là dove, invece, avrebbe formalmente dovuto essere escluso. Come sottolinearono allarmati, in una lettera al New York Times del 2 dicembre 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt.

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut)8, un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, una organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. […]
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del Sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato Fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
[…] All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza anti-britannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo9.

Giudizio rafforzato da quanto dichiarato 34 anni dopo da Primo Levi in un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa a seguito del massacro di palestinesi avvenuto all’epoca a Sabra e Chatila in Libano.

Per Begin «fascista» è una definizione che accetto. Credo che lo stesso Begin non la rifiuterebbe. E’ stato allievo di Jabotinski: costui era l’ala destra del sionismo, si proclamava fascista, era uno degli interlocutori di Mussolini. Sì, Begin è stato suo allievo […] Begin sta in piedi soprattutto con i voti dei giovani e degli immigrati recenti, cioè non dei profughi dell’Europa Orientale, bensì di quegli ebrei che vengono dai paesi del Medio Oriente o che sono nati in Israele. E’ tutta gente che nutre una forte animosità nei confronti degli Stati vicini, dai quali spesso provengono, e ciò, in una certa misura, spiega questa guerra e quel che è avvenuto durante la guerra. La mia condanna comunque è totale10.

Secondo Hannah Arendt (1906-1975), storica e filosofa ebreo-tedesca e una dei più influenti teorici politici del XX secolo, uno «Stato ebraico» non si sarebbe limitato a distruggere l’entità palestinese, come già aveva denunciato nella lettera citata prima, ma si sarebbe rivelato pregiudiziale per la stessa comunità ebraica di Palestina. Uno Stato-nazione che traeva la propria legittimità da una potenza straniera e lontana era, a suo avviso, foriero di sicuro disastro.

Il nazionalismo è piuttosto nefasto quando s’appoggia unicamente alla forza bruta della nazione. Un nazionalismo che riconosce la necessità di dipendere dalla forza di una nazione straniera è ancora peggiore. E’ questo il destino incombente sul nazionalismo ebraico e sul progettato Stato ebraico, inevitabilmente circondato da Stati Arabi e popolazioni arabe. Persino una maggioranza di ebrei in Palestina – anzi, perfino il trasferimento di tutti gli arabi di Palestina, come i revisionisti [sionisti] richiedono apertamente – non cambierebbe, nella sostanza, una situazione in cui gli ebrei devono, nello stesso tempo, chiedere la protezione di una potenza estera contro i loro vicini e pervenire a un accordo efficace con loro. […] se i sionisti continueranno a ignorare i popoli del Mediterraneo e a guardare unicamente alle grandi potenze lontane, finiranno coll’apparire strumenti o agenti di interessi estranei e ostili. Gli ebrei che conoscono la loro storia dovrebbero rendersi conto che una situazione del genere condurrebbe inevitabilmente a una nuova ondata di odio anti-ebraico, l’anti-semitismo di domani11.

Ma i nemici non sarebbero stati soltanto fuori dalla comunità ebraica, visto che la stessa Arendt avrebbe in seguito manifestato i suoi timori per le critiche e minacce ricevute a seguito della pubblicazione del suo reportage sul processo Eichmann tenutosi in Israele (La banalità del male, Feltrinelli 1964).

Coloro che sono dalla mia parte mi scrivono lettere private, ma nessuno più osa farle circolare in pubblico. E con ragione: sarebbe estremamente pericoloso, poiché un’intera e assai ben organizzata muta [mob] di cani rabbiosi si scaglia subito su chiunque osi fiatare. Insomma siamo al punto in cui ciascuno crede in quello in cui tutti credono: in vita nostra abbiamo spesso vissuto questa esperienza12.

Basti pensare all’omicidio di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano favorevole alla pace di Oslo, assassinato nel novembre 1995 da un estremista ebreo.
Oppure a quegli storici israeliani come Benny Morris, Ilan Pappe, Norman Finkelstein, Tom Segev, Shlomo Sand che per le loro ricostruzioni obiettive della storia dello stato di Israele e della cacciata dei palestinesi con la Nabka oppure per la critica dell’uso esagerato e ideologico della Shoa per giustificare i crimini contro i palestinesi, sono stati criticati, minacciati e perseguitati e, in alcuni casi (Finkelstein, figlio di sopravvissuti ai lager), costretti a recarsi in esilio all’estero a causa degli attentati subiti.

La violenza contro i Palestinesi si è dunque sempre accompagnata, in Israele alla violenza e alla repressione contro il dissenso interno. Fino a oggi, fino a quel video di cui si è parlato in apertura che è stato censurato dai canali televisivi israeliani in nome dell’unità e della sicurezza nazionale. Secondo Michel Warschawski, (figlio di un rabbino, nato in Francia nel 1949, trasferitosi ancor sedicenne a Gerusalemme e fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984):

Per giustificare dinanzi l’opinione pubblica locale e internazionale la violenza nei confronti dei civili, è indispensabile «decivilizzare» tale popolazione. Di qui l’uso sistematico, nei territori palestinesi occupati del concetto di terrorismo: la sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di «guerra contro il terrorismo». Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d’assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che, di fronte alla quinta potenza militare del mondo, non c’è una popolazione civile, ma un’altra forza militare, e che ciò giustifica l’uso di carri armati, di elicotteri da combattimento e di aerei da caccia. […] è l’intera società palestinese che diventa il nemico; è essa che bisogna sradicare «come un cancro», come dirà un comandante in capo dell’esercito, Moshe Yaalon. […] Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni civili e militari, nessun segno di capitolazione è vista. La determinazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni. […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti ad ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore13.

Aggiungendo una considerazione proprio sulla condizione reale di Israele:

Per ironia della storia, il sionismo che voleva far cadere le mura del ghetto ha creato il più grande ghetto della storia ebraica, un ghetto super-armato, certo e capace di estendere in permanenza il suo territorio, ma pur sempre un ghetto, ripiegato su se stesso e convinto che, al di fuori delle sue mura c’è la giungla, un mondo radicalmente e irrimediabilmente antisemita che non ha altro obiettivo che quello di distruggere l’esistenza degli ebrei, Nel Medio Oriente e su tutta la Terra14.

E sottolineando all’epoca, ancora a proposito degli accordi di pace di Oslo, che:

nel corso dei sette anni di «processo di pace», i palestinesi hanno assistito a una creazione di più del 40 per cento della colonizzazione ebraica su terre dalle quali Israele si era impegnato a ritirarsi entro cinque anni […] il periodo di Oslo è quello del più classico rapporto coloniale nei confronti degli autoctoni: favori, creazione di una classe di intermediari per gestire la vita quotidiana della popolazione occupata, polizia indigena per mantenere l’ordine15.

Ricostruzione di una situazione in cui, più che la crescita o meno di Hamas tra una popolazione che ancora a settembre di quest’anno, secondo un sondaggio, riteneva per il 53% che solo la lotta armata possa condurre alla formazione di uno Stato palestinese contro un 20% ancora convinto dell’utilità di quegli accordi, si è oggi resa evidente agli occhi di tutti la perdita di consenso dell’Autorità palestinese. Probabilmente per essere stata la “migliore” interprete, insieme a i suoi ormai corrotti leader, di quella ipotesi di accordo.

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura16, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza17.

E’ giunto però il momento di interrompere questa lunga carrellata di giudizi e previsioni sull’azione e il destino dello Stato ebraico in rapporto alla condizione dei Palestinesi e degli interessi “reali” delle comunità ebraiche sia al suo interno che nella diaspora; constatando come tutto quanto è avvenuto dal 7 ottobre in avanti fosse ampiamente prevedibile, se soltanto i governi israeliani e, in particolare, quello di estrema destra di Benyamin Netanyahu, avessero voluto dare ascolto, ancor prima che al Mossad o allo Shin Bet, all’esperienza, alla cultura e alla riflessione di tanti che invece, seppur in misura diversa, sono stati osteggiati, colpiti, insultati all’interno della stessa Israele e dai suoi falsi alleati dei paesi occidentali. I quali ultimi, pur portando il vero fardello storico della Shoa, preferiscono ancora discolparsi appoggiandone qualsiasi sciagurata avventura militare.

Avventura, quest’ultima, destinata comunque a schiantarsi contro un mondo che, nel bene e nel male, sta manifestando sempre più il bisogno di allontanarsi dal modello culturale e politico occidentale. Certo non in nome di valori rivoluzionari e anzi, spesso, in nome di valori tradizionali, patriarcali e autoritari certamente non condivisibili da chi milita ancora nelle forze che intendono rovesciare, una volta per tutte, l’attuale modo di produzione e le sue distinzioni, ormai insopportabili, di classe, religione, “razza” e genere. Troppo spesso mascherate dietro a fumosi discorsi sui diritti, le libertà e la democrazia.

Modo di produzione, caratterizzato da contraddizioni, oltre che di classe, interimperialistiche di carattere geopolitico ed economico, che nel Medio Oriente, nel ruolo coloniale di Israele e nella questione palestinese trovano ancora uno degli snodi più importanti, esplosivi e fragili. Come ben dimostra il fatto che mentre in Ucraina gli Stati Uniti, pur in guerra, hanno potuto far combattere altri eserciti e popoli in nome dei loro interessi, a ridosso di Gaza, minuscola striscia di terra ma tutt’altro che insignificante politicamente, hanno dovuto muovere portaerei, soldati, aerei e sistemi balistici. Esponendosi in prima persona, ma anche cercando opportunisticamente di mascherare i propri interessi imperiali dietro un volto umanitario.

La colpa di Netanyahu, nei confronti degli alleati-padroni, è così quella di aver costretto il gigante americano a mostrare, in maniera confusa, le proprie carte, che sono sempre le stesse, sia nelle mani di Biden che di un presidente repubblicano: America First!
Questo ha indebolito ulteriormente Netanyahu, poiché gli Stati Uniti non potranno appoggiarlo apertamente fino in fondo e potrebbero anche abbandonarlo al suo destino, insieme a quello degli ebrei di Israele.

Molte cose si stanno muovendo nel mondo e non solo per responsabilità di Putin, Netanyahu, Zelensky, Hamas e tanti altri villain proposti in continuazione dai media occidentali come nemici o amici (sempre inaffidabili) da appoggiare o combattere a seconda del caso. Questa novità inizia a pesare sui rapporti internazionali18, a partire dalle Nazioni Unite fino alle divisioni interne all’Unione europea, ma anche sui popoli coinvolti in guerre sempre più feroci e senza altri sbocchi che la distruzione di uno dei contendenti oppure di tutti. Anche questo c’era nell’urlo di Danielle Albani.

Mentre la protervia, l’arroganza e la ferocia contenute nella risposta di Netanyahu durante la conferenza stampa dello stesso giorno non hanno fatto altro che dimostrare la confusione e la debolezza di un governo, di una strategia militare e di un uomo che, puntando tutto su una soluzione militare, hanno già perso. Senza riuscire ad incrinare l’orgoglio di un popolo e la sua capacità di resistere, sostanzialmente, da 75 anni allo stato d’assedio, alle prevaricazioni, alle violenze, ai soprusi, ai sequestri di beni e persone, alle torture praticate nei suoi confronti da ogni governo succedutosi alla Knesset, con la scusa di proteggere efficacemente le comunità ebraiche. Ora quella promessa è venuta meno, nella realtà e nello stesso immaginario degli ebrei di Israele e non basteranno certo le bombe sui campi profughi, sulle donne e sui bambini di Gaza a ristabilire quella fiducia.

Per numerose, già troppo numerose, che siano le perdite palestinesi, Israele ha perso senza aver ancor nemmeno affrontato l’inferno della resistenza in una città distrutta, un assedio il cui eccessivo prolungamento finirebbe con lo scoraggiare più gli assedianti che i difensori di Gaza City oppure la possibile discesa in campo delle milizie di Hezbollah. Che già in passato hanno dimostrato la capacità di di mettere in difficoltà Israele. Con una intensa guerriglia nel Sud del Libano che portò alla ritirata di Israele nel 2000. Oppure nel 2006, quando un’incauta missione di Gerusalemme nel Sud del Libano per liberare due soldati prigionieri si trasformò in 5 settimane di guerra, da cui Israele dovette sottrarsi con un non molto onorevole rapido ritiro.

Terrorismo è un’etichetta che si presta a molte definizioni, ma che, soprattutto, in Occidente serve a designare qualsiasi avversario politico che si opponga all’ordine imperante, anche con l’uso della lotta armata. Prima di Hamas ed Hezbollah sono stati definiti terroristi i combattenti dell’OLP e prima di loro i partigiani italiani (banditen per gli occupanti nazisti e per i fascisti che a loro si appoggiavano), solo per fare degli esempi. Terrorista è chiunque non appartenga all’ordine imperiale del mondo e si rifiuti di essere integrato nello stesso, con l’uso della forza oppure, più semplicemente, si rifiuti di abbandonare la terra su cui è nato e vissuto.

Le forze di sicurezza [israeliane] affermano che la loro azione consiste nel “prevenire il terrore”, ma le testimonianza dei soldati mettono in luce che il termine “prevenzione” è in realtà utilizzato in senso molto esteso, tanto da diventare una parola in codice per intendere qualsiasi tipo di azione offensiva attuata nei Territori. Le dichiarazioni qui raccolte mostrano che una parte significativa delle azioni offensive non mira a prevenire uno specifico atto terroristico, quanto piuttosto a punire, produrre un effetto di deterrenza o a rafforzare il controllo sulla popolazione palestinese. Ma l’espressione “prevenzione del terrore” costituisce una sorta di visto di autorizzazione per qualsiasi azione condotta nei Territori, oscurando la distinzione fra un uso della forza rivolto contro i terroristi e quello che colpisce i civili. La IDF può così giustificare il ricorso a metodi che servono a intimorire e ad opprimere la popolazione in generale19.

Facciamocene una ragione, così come per l’uso del termine anti-semita per chi si oppone al sionismo e al colonialismo israeliano. Siamo in compagnia di Hannah Arendt, Albert Eistein, Primo Levi e Marek Adelman (comandante della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia) e tanti altri ebrei che vivono e sono vissuti nella diaspora. Senza sentire il richiamo di uno Stato che più che sforzarsi di esser tale si è trasformato in un ghetto per gli ebrei e per i palestinesi. Che forse un giorno troveranno il modo di liberarsi insieme.

Per ora ci basti registrare ciò che ha affermato un noto giornalista di «Haaretz» e dell’«Economist», Anshel Pfeffer: «Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu»20. Prima molto probabilmente, forse ancora prima della fine della guerra in corso. Fatto che lega probabilmente il destino di Bibi a quello di un altro “messianico” difensore dell’umanità e dell’Occidente contro la “barbarie asiatica”: Volodymyr Zelens’kyj21.


  1. cfr. Nadia Boffa, Per ora Netanyahu è messo peggio di Hamas, «Huffington Post» 30 ottobre 2023  

  2. Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano 2001, p. 837.  

  3. B. Morris, op.cit., pp. 33-37  

  4. Non a caso, forse, un ex-generale delle SS, che si occupavano della gestione e amministrazione dei campi di concentramento, Reinhard Höhn (1904-2000), sfuggito come tanti altri dirigenti e tecnocrati del Terzo Reich alla “denazificazione” fu il fondatore del primo istituto di formazione al management nella Germania del dopoguerra. Proprio per questo istituto è passata gran parte della dirigenza d’azienda tedesca: 600.000 persone almeno. Cfr. J. Chapoutot, Nazismo e management, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed. originale Gallimard 2020).  

  5. Primo Levi, Prefazione 1972 ai giovani, in P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi scuola, Torin 1972, pp. 5-6.  

  6. cfr. Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Elèuthera, Milano 1996.  

  7. P. Levi, Prefazione 1972, cit., pp. 6-7.  

  8. Partito politico da cui deriva e ha le sue radici il partito di Netanyahu, il Likud, fondato nel 1973 proprio da Menachem Begin.  

  9. Albert Einstein e Hannah Arendt (più altri 48 firmatari), lettera al New York Times, 2 dicembre 1948  

  10. P. Levi, «Io, Primo Levi chiedo le dimissioni di Begin», intervista rilasciata a G. Pansa, «la Repubblica» 24 settembre 1982.  

  11. H. Arendt, Zionism Reconsidered ora in Idith Zertal. Israele e la Shoa. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2000, p. 165  

  12. Lettera a Karl Jaspers del 20 ottobre 1963 ora in I. Zetal, op. cit., nota 104 a p. 161  

  13. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana , Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15-49  

  14. M. Warschaski, op. cit., pp. 63-64  

  15. Warschawski, op. cit., pp. 86-90  

  16. Occorrerebbe, forse, analizzare come una serie di successo come Fauda (trasmessa su Netflix), i cui principali attori sono oggi attivi in chiave militare a Gaza, abbia influito sulla formazione di una concezione più dura della funzione della polizia e dei servizi ad essa collegata e nel far ritenere inutile o vile chi non abbia un tale approccio ai problemi inerenti alle condizioni socio-economiche e politiche degli arabi in Palestina  

  17. Ivi, pp. 115-124  

  18. Al di là delle scontate condanne dei bombardamenti israeliani sui campi profughi da parte dei paesi del Golfo, costretti a ciò per non inimicarsi troppo l’opinione pubblica araba, oppure delle minacce provenienti dall’Iran, è da segnalare invece la rottura dei rapporti diplomatici con Israele da parte di vari paesi latino-americani come Cile, Colombia e Bolivia o la condanna della condotta militare israeliana da parte di un paese come il Brasile.  

  19. Premessa a La nostra cruda logica. Testimonianza dei soldati israeliani dai Territori occupati, (a cura di “Breaking the silence”), Donzelli Editore, Roma 2016, p.11.  

  20. A. De Girolamo – E. Catassi, L’ora di Netanyhau è giunta al termine, «Huffington Post» 1 novembre 2023.  

  21. Cfr. qui  

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Potere ed impotenza della parola davanti all’orrore della Shoah https://www.carmillaonline.com/2023/09/01/potere-ed-impotenza-della-parola-davanti-allorrore-della-shoah/ Fri, 01 Sep 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78548 di Armando Lancellotti

Rodolphe Gasché, Storytelling. La distruzione dell’inalienabile nell’epoca dell’Olocausto, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2023, pp. 146, € 14,00

Perché molti dei sopravvissuti alla Shoah dai campi di internamento e di sterminio sono tornati “muti”, incapaci cioè di raccontare le loro storie, impossibilitati a farlo dall’insensatezza assoluta dell’orrore che hanno osservato e subito? Se la (non)vita nel lager zittisce ogni parola, spegne l’immaginazione ed ottunde qualsiasi altra facoltà della mente, non è allora proprio questa l’esperienza più disumanizzante ed alienante che l’uomo abbia mai conosciuto, poiché gli sottrae la qualità che più lo [...]]]> di Armando Lancellotti

Rodolphe Gasché, Storytelling. La distruzione dell’inalienabile nell’epoca dell’Olocausto, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2023, pp. 146, € 14,00

Perché molti dei sopravvissuti alla Shoah dai campi di internamento e di sterminio sono tornati “muti”, incapaci cioè di raccontare le loro storie, impossibilitati a farlo dall’insensatezza assoluta dell’orrore che hanno osservato e subito?
Se la (non)vita nel lager zittisce ogni parola, spegne l’immaginazione ed ottunde qualsiasi altra facoltà della mente, non è allora proprio questa l’esperienza più disumanizzante ed alienante che l’uomo abbia mai conosciuto, poiché gli sottrae la qualità che più lo contraddistingue, ossia la capacità di raccontare, di trovare e dare senso alle cose attraverso lo strumento della parola e nella forma del racconto?
Intorno a queste domande si sviluppa il discorso del filosofo lussemburghese e docente della State University di New York, Rodolphe Gasché, che cerca possibili risposte negli scritti di Wilhelm Schapp, Walter Benjamin e Hanna Arendt.

Risalendo all’origine stessa della filosofia, Gasché ricorda come il logos abbia preso forma, per progressivo distanziamento, dal mito, ossia dalla modalità narrativa di descrizione e spiegazione della realtà. La filosofia «quando è fedele al suo gesto fondatore, consiste nel non raccontare storie» (p. 11). Ma in realtà la relazione tra logos o filosofia, da un lato, mito o narrazione, dall’altro, è molto più complessa già in Platone: più volte il mito, nei dialoghi platonici, va in soccorso al logos, lo sostiene, lo compendia e talvolta lo oltrepassa per la superiore capacità di cogliere in maniera diretta la verità. Il logos non esclude il racconto e la decisione della filosofia di non raccontare storie presuppone la possibilità di farlo, così come il silenzio – a differenza del mutismo – presuppone la possibilità di parlare.

Ma vi sono casi in cui l’interdizione di raccontare storie non è dovuta, come per la filosofia, alla scelta di ricorrere ad altre modalità di spiegazione della realtà, ma al fatto che alcune cose, vicende o esperienze non possiedono il requisito necessario affinché possano essere raccontate, cioè la qualità dell’intelligibilità e di conseguenza si sottraggono alla possibilità stessa dell’atto narrativo, inducendo chi le ha vissute al mutismo, all’azzeramento della possibilità di parlare.
«Il mutismo non è il silenzio. […] Il silenzio presuppone la possibilità di parlare» (p. 14); sta in silenzio chi potrebbe parlare. In sostanza, il silenzio è complementare alla parola e non la esclude affatto. Ben diverso è il mutismo cioè l’incapacità di parlare, il venir meno della possibilità del ricorso al linguaggio, dovuto ad eventi impronunciabili, indicibili, per la loro traumatica violenza.

Gasché distingue – forse in maniera un po’ troppo rigida e schematica, soprattutto in riferimento agli internati sopravvissuti dei lager – tra tre diverse modalità di parlare: informare, testimoniare, raccontare e associa il fornire informazioni al lavoro storico-archivistico, la testimonianza all’iniziativa di ricostruzione dei fatti, per esempio in una prospettiva giuridica e il raccontare una storia all’azione propriamente umana del trovare e dare senso alle cose e alle esperienze vissute, che nella rielaborazione attraverso la parola assumono un senso e divengono intelligibili.
Ma è proprio questo terzo ed ultimo uso della parola che è spesso impossibile per i sopravvissuti alla Shoah, relegati in una condizione di mutismo, che sottrae a loro la possibilità di raccontare, di fare della loro esperienza una storia e questo perché ciò che hanno vissuto manca del requisito necessario ad ogni racconto, manca di senso e di intelligibilità.

L’autore insiste particolarmente su questo aspetto della soluzione finale – l’assenza di senso – e lo fa per esempio sulla scorta delle riflessioni della Arendt: i campi di sterminio non furono solo luoghi in cui violenza e brutalità si scatenarono senza freni, ma furono anche e soprattutto territori del non-senso. Dal punto di vista economico e militare risultarono addirittura controproducenti ed inadeguati al fine della vittoria della guerra, pertanto un qualcosa di a-razionale, un’insensatezza fine a se stessa. E allora, se la storia è una forma del discorso «in cui gli eventi si intrecciano in modo da diventare significativi, la storia dell’evento in questione non può essere raccontata» (p. 18).

Auschwitz rimane pertanto un’aporia della civiltà occidentale e proprio la sua aporetica assenza di senso fa di esso un abominio diverso da tutti gli altri ed imparagonabile. Ciò non significa – osserva Gasché – rinunciare al tentativo e allo sforzo razionali della comprensione anche dell’incomprensibile o concepirla come possibile solo per un Dio capace di includere l’orrore in un ordine di senso sovrannaturale, bensì significa riconoscere che «la natura dell’evento chiamato Auschwitz è tale da distruggere ogni senso che potrebbe essergli attribuito» (p. 22). Ricorrendo alla distinzione tra Sinn (senso) e Bedeutung (significato, riferimento), Gasché sostiene che sia impossibile dare un senso (Sinn) ad Auschwitz, nonostante il suo evidente significato (Bedeutung) fosse il progetto di sterminio di un intero popolo. Malgrado l’insieme dei suoi significati o riferimenti sia chiaro, il senso di ciò che condensiamo con la parola Auschwitz sembra consistere nella inintelligibilità della sua insensatezza, che «inocula mutismo nelle sue vittime» (p. 24).

È come se nei sopravvissuti la facoltà dell’immaginazione si paralizzasse dinanzi all’orrore e non fosse più in grado di svolgere il compito che Kant le attribuiva, quello di sintetizzare la molteplicità sensibile dei fenomeni, attribuendole un senso concettuale. «Un’immaginazione terrorizzata dall’enormità dell’orrore insensato è un’immaginazione che condanna al silenzio, o meglio al mutismo, tutte le altre facoltà della mente» (p.27).
Il raccontare storie è una forma del discorso che conferisce senso alle cose e consente a chi le ascolta di trovarvi un indirizzo da seguire, un consiglio, un modello; insomma una storia ha anche una funzione etica. Ma la Shoah, l’evento più traumatico per la civiltà occidentale, ha condotto – dice Gasché – «alla bancarotta dell’etica. Infatti, che una cosa del genere sia stata possibile ha modificato per sempre i fondamenti – metafisici, umanistici e teologici – su cui si è basata almeno l’etica occidentale» (p. 29).

I termini utilizzati per nominare la soluzione finale, come Olocausto o Shoah, al di là delle eccezioni che si possono sollevare sulla loro pertinenza, in qualche modo tentano di dare un senso all’insensatezza, associando una parola a ciò che è propriamente indicibile. Rifacendosi ai termini della lingua tedesca, Gasché considera appropriato usare la parola Erlebnis (vissuto) per indicare ciò che le vittime hanno subito nei campi e non Erfahrung, che sta ad indicare un’esperienza dotata di un senso. Erlebnis, cioè un vissuto che non può essere comunicato attraverso quella figura di senso che è un racconto, perché propriamente non è neppure un’esperienza (Erfharung).

Il mutismo dei sopravvissuti alla soluzione finale trova un’anticipazione storica nell’analogo fenomeno accaduto ai soldati della Grande Guerra. Le atrocità subite e vissute azzerano la forza di quella facoltà umana che dovrebbe essere inalienabile, cioè la capacità di comunicare e scambiare esperienze, di raccontare le proprie storie. Il fenomeno dell’alienazione dell’inalienabile, nel caso della Shoah, è amplificato ed elevato a potenza dal fatto che si tratta di un effetto pianificato, programmato e perseguito dai carnefici, che predispongono ed attuano ogni possibile forma di disumanizzazione della vittima.

Facendo leva sulle testimonianze di Tadeusz Borowski e Primo Levi, Gasché osserva come i prigionieri dei lager appena possibile trascorressero il tempo raccontandosi e scambiandosi storie, «semplici ed incomprensibili» – dice Levi in Se questo è un uomo – «come le storie della Bibbia» (p. 38). Questa frenetica attività di narrazione è da leggersi come un modo per attaccarsi alla vita, per rimanere umani, continuando ostinatamente a dare senso alle cose attraverso il racconto, proprio laddove e quando l’umanità veniva negata e ridotta a mera e cruda vita organica.

Al di là delle cause socioculturali (il senso di colpa e di vergogna dei sopravvissuti, che li induce al silenzio; la paura di alimentare, attraverso la testimonianza, ulteriore odio antisemita) o delle motivazioni psichiatriche (il trauma subito e il disturbo psichico conseguente), secondo Gasché il fenomeno del “mutismo” delle vittime della Shoah richiede di essere spiegato con un approccio più universale e generale, cioè filosofico e da questo punto di vista esso è interpretabile come l’effetto dell’alienazione della capacità umana di creare storie, di condividere la propria storia e se stessi raccontandosi, di costruire un’autocoscienza attraverso le proprie storie.

In conclusione, se la soluzione finale non si fosse interrotta a seguito della sconfitta della Germania, l’intero popolo ebraico – riflette Gasché – sarebbe andato incontro all’estinzione, alla cancellazione totale, di esso non sarebbe rimasta traccia o memoria alcuna per un possibile racconto; sarebbe avvenuta in maniera assoluta ed irreversibile la dissociazione definitiva tra quel popolo e la parola, la narrazione.

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Lo sguardo dei viaggiatori stranieri sulla quotidianità del Terzo Reich https://www.carmillaonline.com/2023/08/06/lo-sguardo-dei-viaggiatori-stranieri-sulla-quotidianita-del-terzo-reich/ Sun, 06 Aug 2023 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78112 di Gioacchino Toni

Julia Boyd, Turisti nel Terzo Reich. Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo, Luiss University Press, Roma, 2023, pp. 424, € 26,00 stampa, € 14,99 ebook

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la Germania esercitava ancora una forte attrazione sugli stranieri presentandosi come un paese incantevole e incontaminato, con le sue città, i suoi borghi medievali, i suoi castelli e le sue cattedrali risparmiati dal conflitto, a cui si aggiungeva il fascino della sua cultura romantica e della sua tradizione musicale. La quantità di stranieri che, per vari motivi, soggiornavano [...]]]> di Gioacchino Toni

Julia Boyd, Turisti nel Terzo Reich. Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo, Luiss University Press, Roma, 2023, pp. 424, € 26,00 stampa, € 14,99 ebook

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la Germania esercitava ancora una forte attrazione sugli stranieri presentandosi come un paese incantevole e incontaminato, con le sue città, i suoi borghi medievali, i suoi castelli e le sue cattedrali risparmiati dal conflitto, a cui si aggiungeva il fascino della sua cultura romantica e della sua tradizione musicale. La quantità di stranieri che, per vari motivi, soggiornavano e attraversavano il paese – in buona parte statunitensi e britannici – era decisamente elevata, tanto da arrivare a toccare nel 1937 quasi il mezzo milione di presenze l’anno.

Raccogliendo le testimonianze di tanti studenti, giornalisti, diplomatici, letterati, musicisti ecc., il corposo volume di Julia Boyd ricostruisce lo sguardo con cui i viaggiatori stranieri osservavano la quotidianità tedesca nel periodo hitleriano. Molti di loro avevano già un’idea ben precisa della Germania hitleriana prima di mettervi piede e la loro permanenza in terra tedesca, spesso, non faceva che confermare le loro aspettative; pochi cambiarono idea dopo avervi soggiornato. Tra gli stranieri presenti in Germania, almeno fino al 1937, a denunciare la deriva intrapresa dal paese erano soprattutto giornalisti e diplomatici ma, in molti casi, ai loro allarmi si guardava con disinteresse in patria.

Non è facile, sostiene, Boyd, trovare una spiegazione al perché così tanti statunitensi e britannici inviassero i loro figli a soggiornare nella Germania nazista persino quando la guerra sembrava sempre più imminente. Nonostante a livello internazionale non mancassero i timori che Hitler potesse condurre a un nuovo conflitto, molti visitatori desideravano vedere in lui un uomo di pace. Inoltre, l’enfasi nazista sull’ordine e sulla ferrea disciplina non mancava di esercitare un certo fascino sugli stranieri.

Nonostante fosse passato poco tempo dalla fine del primo conflitto mondiale, molti dei britannici che mettevano piede in Germania tendevano a guardare a quel paese come a un modello a cui ispirarsi. I viaggiatori statunitensi, sottolinea Boyd, pur stupiti dalla diffusione capillare di proclami antisemiti, faticavano ad affrontare criticamente la persecuzione nei confronti degli ebrei non solo in quanto, in molti casi, erano antisemiti loro stessi, ma anche perché ciò li avrebbe costretti a fare i conti con le discriminazioni praticate nel loro paese nei confronti degli afroamericani.

Inizialmente, per conquistarsi i favori stranieri, i nazisti insistevano molto nel presentarsi come baluardo alla minaccia “bolscevico-ebraica”. E se diversi viaggiatori di fede antibolscevica erano pronti a denunciare l’onnipotenza della polizia segreta, la propaganda martellante e l’autoritarismo del paese di Stalin, non altrettanto erano disposti a fare nei confronti di quello di Hitler, forse che le finalità di quest’ultimo bastassero a far passare del tutto in secondo piano tutto il resto.

Le prime testimonianze raccolte dal volume fanno riferimento al periodo weimariano, quando gli stranieri, nel visitare la Germania, non potevano che notare quanto fosse diffuso il risentimento per le condizione imposte dal Trattato di Versailles accentuato dall’impressionante livello di malnutrizione e povertà che toccava anche il ceto medio soprattutto nelle grandi città.

A stupire i viaggiatori britannici e statunitensi erano anche le tante espressioni artistiche, cinematografiche e teatrali d’avanguardia, il livello di emancipazione femminile, il libertinismo che si respirava a Berlino e, più in generale, la tendenza a un’esibizione del corpo del tutto sconosciuta nei loro paesi di provenienza. Negli ultimi anni della Germania weimariana a colpire i visitatori stranieri era anche l’incredibile attenzione riservata alle aggregazioni giovanili da parte di associazioni ecclesiastiche e formazioni politiche.

In apertura degli anni Trenta, la crisi dilagante aveva ridimensionato la presenza di visitatori stranieri in Germania, inoltre, le prime forme di turismo organizzato diminuirono le spese pro capite dei gruppi rispetto a quelle dei viaggiatori in proprio. Dopo la presa del potere da pare di Hitler, non pochi stranieri notarono come pian piano i tedeschi, a prescindere dalle precedenti posizioni politiche, si allineassero sempre più al nazismo per questioni di sopravvivenza.

Nel volume sono riportati gli sguardi attraverso cui i viaggiatori stranieri guardarono al rogo dei libri, ai sempre più frequenti prelievi di oppositori operati nottetempo e alle persecuzioni nei confronti degli ebrei. A proposito di queste ultime, dalle testimonianze raccolte, emerge come molti stranieri tendessero a ritenerle “un piccolo prezzo da pagare” per la rinascita di una grande nazione di cui si comprendeva, tutto sommato, il risentimento post Versailles.

Nel 1933 così vedeva invece le cose il giornalista francese di sinistra Daniel Guérin:

Per un socialista, visitare la Germania al di là del Reno era come esplorare le rovine di una città dopo un terremoto. Qui, fino a poco tempo fa, c’era il quartier gemerle di un partito politico, di un sindacato, di un giornale,là una libreria per i lavoratori. Oggi a quegli edifici son appese enorme bandiere con la svastica. Questa era solita essere una strada rossa; qui sapevano come si combatte. Oggi ci si imbatte solo in uomini silenziosi, dagli sguardi tristi e preoccupati, mentre i bambini ti spaccano i timpani con i loro “Heil Hitler!” (p. 114)

Quegli ostelli che solo poco tempo prima erano gremiti di giovani escursionisti pacifici ora erano occupati da giovani nazisti con cinturoni, stivali e la cravatta della Gioventù hitleriana indossata sulla camicia color cachi, indottrinati a ricordare agli stranieri che era grazie a loro se si stava salvando il pianeta dal bolscevismo. Non era difficile immaginare come questi giovani così entusiasti della disciplina a cui erano stati assoggettati prima o poi sarebbero stati ben disposti a prender le armi.

Oltre a notare quanto i giovani fossero stati coinvolti dal movimento nazista, qualche osservatore straniero restò stupito dal vedere come il ceto medio fosse disponibile a rinunciare a diverse libertà conquistate nel periodo weimariano e come molte donne, in nome dell’“interesse del popolo tedesco”, accettassero di abbandonare il lavoro per occuparsi solo della famiglia e di essere riprese se fumavano in pubblico o se andavano in giro truccate.

Se molti viaggiatori stranieri preferivano non guardare troppo in profondità la realtà tedesca, Guérin aveva notato come esistessero ancora luoghi nelle città tedesche in cui i nazisti preferivano non avventurarsi: nei bassifondi di Amburgo, ad esempio, continuavano a comparire sulle mura scritte come “Morte a Hitler!” e “Lunga vita alla rivoluzione”. Per qualche tempo, osservando piccoli comportamenti quotidiani, alcuni viaggiatori dedussero che non tutti i tedeschi sembravano in realtà convinti nazisti.

Consapevole dell’importanza del turismo come strumento di propaganda, il regime si adoperò per mostrare ai visitatori stranieri quanto la Germania fosse una nazione “amante della pace”, gaudente e ospitale: «“Venite a vedere con i vostri occhi” vantava un opuscolo “i progressi che sta facendo la Germania: disoccupazione assente, produzione ai massimi livelli, sicurezza sociale, grandi opere per lo sviluppo industriale, pianificazione economica, efficienza organizzata, una dinamica volontà di unire le forze, un popolo felice ed energico, lieto di condividere i sui successi con voi”» (p. 119).

A colpire gli stranieri era anche l’utilizzo propagandistico del festival wagneriano di Bayreuth, della festa del raccolto sulla collina di Bückeberg nei pressi di Hamelin, della rappresentazione della Passione di Oberammergau, di cui si accentuavano i caratteri antisemiti già presenti alla sua nascita secentesca. Probabilmente a sbalordire maggiormente i visitatori stranieri erano le tante iniziative neopagnane che celebravano il solstizio d’estate spronando i giovani al fervore patriottico. Molti stranieri raccontarono degli imponenti festeggiamenti annuali tenuti sulla collina di Hesselberg, scelta come Montagna Sacra dai nazisti, in cui si danzava attorno a un grande falò rivolgendo preghiere al sole e venerando Hitler. Centinaia di viaggiatori stranieri parteciparono agli oceanici raduni di Norimberga organizzati tra il 1933 e il 1938 e in diverse loro testimonianze raccontarono di quanto fossero coinvolgenti.

Nei primi tempi il campo di Dachau, inaugurato nel 1933, veniva mostrato con orgoglio ai visitatori stranieri. Le testimonianze riportate nel volume sono di diverso tono; mentre alcuni visitatori mettevano l’accento sul terrore che si poteva leggere negli occhi dei reclusi, consapevoli di essere in balia del totale arbitrio delle guardie, altri evidenziavano come, dopotutto, non si trattasse che di una modalità di rieducazione attraverso il lavoro. «L’antisemitismo era diffuso nell’alta società inglese, come pure in Francia e in buona parte dell’America. Analogamente il destino dei comunisti, degli zingari, degli omosessuali e dei “malati di mente”, che finivano a Dachau insieme agli ebrei, non rappresentava di certo una questione scottante per molti» (p. 154).

La testimonianza di uno straniero che aveva voluto sperimentare la partecipazione a un campo di lavoro nei primi anni del regime hitleriano riporta la facilità con cui era risuscito a integrarsi con lo spirito cameratesco dei giovani presenti e, soprattutto, come le esercitazioni fisiche che si tenevano – come nelle scuole –, pur essendo eseguite senza armi, si sarebbero potute rivelare un ottimo addestramento per un futuro conflitto militare.

Stando a Boyd non erano pochi gli statunitensi presenti a Berlino nel 1934 per il congresso battista – che si diceva contrario al razzismo e all’antisemitismo – ad apprezzare la Germania hitleriana per aver «dato alle fiamme cumuli di libri e riviste diseducativi» facendo «piazza pulita delle librerie ebraiche comuniste» (p. 140). A visitare il paese erano anche diversi letterati europei e statunitensi. Anche in questo caso l’esperienza diretta aveva confermato il giudizio che già avevano del regime.

Nel volume viene racconta anche l’esperienza di un gruppo di studenti cinesi decisi a passare un periodo di vacanza a Berlino anche perché meno costosa rispetto alla capitale francese ove studiavano. Dai resoconti di questi studenti emerge un certo fastidio per l’ossessione con cui i tedeschi si esibivano costantemente in saluti a braccio teso e, soprattutto, la piena consapevolezza delle politiche repressive riservate agli ebrei.

Rimettendo piede in Germania dopo alcuni anni, qualche visitatore aveva notato come la popolazione apparisse improvvisamente più bionda; nel solo 1934 erano state vendute nel paese oltre 10 milioni di confezioni di tinta per capelli, mentre il rossetto, considerato non in linea con l’ideale femminile ariano, era letteralmente scomparso.

Nel 1936 si erano svolte in Germania sia le olimpiadi estive che quelle invernali e ciò aveva portato nel paese – soprattutto a Berlino – un numero elevato di stranieri, seppure, a conti fatti, inferiore alle attese. Per il regime nazista si trattava di una grande occasione per mostrare al mondo la rinascita e l’efficienza del paese. Se qualche inviato straniero colse l’occasione per denunciare quanto i giochi intendessero nascondere il totalitarismo del regime, così invece si esprimeva l’antisemita e razzista presidente del Comitato olimpico americano Avery Brundage: «Nessuna nazione dai tempi dell’antica Grecia ha colto il vero spirito olimpico come la Germania» (p. 218).

Anche nel biennio 1937-1938 il numero di visitatori stranieri in Germania restava alto. Nel commentare la sua visita alla mostra di Arte degenerata inaugurata a Monaco nel 1937, un commentatore straniero si diceva colpito dall’insistita presenza presenza tra le opere esposte di didascalie, punti esclamativi e interrogativi, «quasi come se i nazisti avessero paura che i visitatori non le schernissero abbastanza» (p. 270).

Curiosi sono i commenti rilasciati da un uomo di provate simpatie naziste come Crawford, consigliere del re d’Inghilterra, a margine della sua partecipazione (su invito) a una delle crociere a basso prezzo che lo stato, tra il 1933 ed il 1939, offriva ai lavoratori tedeschi: stupito dal cameratismo e dalla naturalezza con cui i tedeschi rispondevano con entusiasmo agli ordini loro impartiti – cosa, a suo avviso, inimmaginabile per i britannici –, con ironia espresse il convincimento che i tedeschi fossero gli unici al mondo «nati socialisti».

Parrebbe che persino i viaggiatori fondamentalmente ostili al nazismo guardassero istintivamente oltre il regime e vedessero quella che immaginavano essere la reale Germania: un paese che, nonostante tutto, conservava la sua inossidabile capacità di sedurre e incantare (p. 281).

A partire dal 1938, quando si assistette a una vera e propria escalation di violenze, la visione della Germania da parte dei viaggiatori stranieri iniziò a cambiare; diversi “scoprirono” quanto sino ad allora non avevano saputo o voluto vedere e si resero conto di come la guerra fosse sempre più imminente. Non a caso nel 1939 le presenze straniere sul suolo tedesco diminuirono decisamente e molti tra i presenti optarono per abbandonare velocemente il paese. Poi arrivò la guerra. «Tutti i racconti che ci hanno tramandato gli stranieri ancora in grado di viaggiare in modo indipendente nel Reich durante gli ultimi tre anni di guerra sono raccapriccianti e commoventi al tempo stesso. Un tema li accomuna, i bombardamenti» (p. 229)

Ricostruendo le modalità con cui tanti viaggiatori stranieri avevano guardato alla quotidianità tedesca durante il regime hitleriano, il volume di Boyd, pur non aggiungendo nulla di nuovo sulla Germania del periodo, ha il merito di mostrare come a lungo, soprattutto i britannici e gli statunitensi avessero voluto vedere soltanto ciò che confermava il giudizio che già avevano sul regime e come, in diversi casi, forti delle convinzioni antibolsceviche e antisemite, che di certo non mancavano nei paesi d’origine, vi avessero guardato con una certa benevolenza, almeno fino allo scoppio della guerra.

Certo, non erano mancate voci dissonanti, provenienti da chi politicamente manifestava convincimenti risolutamente antinazisti, ma, complice anche la composizione sociale dei viaggiatori, i più non trovarono poi così disdicevole il totalitarismo incontrato visto che questo garantiva, ai loro occhi, l’efficiente rinascita di una nazione umiliata dal Tratto di Versailles e, soprattutto, un baluardo al comunismo. E pazienza per chi ne faceva e ne avrebbe fatto le spese con lo scoppio della guerra.

Attorno alla metà degli anni Trenta molti viaggiatori stranieri erano stati favorevolmente colpiti dal livello di idealismo e patriottismo manifestato dai tedeschi comuni, cosa che ritenevano del tutto impossibile nei loro paesi. Altra cosa che, come testimoniano diversi racconti, aveva profondamente colpito gli occhi dei visitatori era l’ostinato desiderio dei tedeschi di essere apprezzati, capiti e rispettati dagli stranieri.

Persino alla fine degli anni Trenta era ancora possibile per uno straniero passare settimane in Germania e non provare niente di più spiacevole di una puntura d’insetto. Tuttavia c ’ è una differenza tra “non vedere” e “non sapere”. E dopo la Notte dei cristalli del 9 novembre 1938 non potevano esserci scusanti per un viaggiatore straniero che affermasse di “non conoscere” la vera natura dei nazisti (p. 362).

A distanza di tempo, la disinvoltura con cui si tende ad appiccicare l’etichetta “nazista” a tutto ciò che si presenta autoritario rischia di sminuire la portata di quanto accaduto. Meglio sarebbe non dimenticarsi mai cosa è stato davvero il nazismo e di cosa è stato capace.

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Razzismo: falsa coscienza della modernità occidentale https://www.carmillaonline.com/2020/09/11/razzismo-falsa-coscienza-della-modernita-occidentale/ Fri, 11 Sep 2020 20:30:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62718 di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle [...]]]> di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle condizioni di possibilità e di realizzazione della razionalità che ha prodotto l’ordine del discorso razzista; in altre parole, del razzismo vuole comprendere la genesi, la ragion d’essere e la morfologia.

Sul piano metodologico Burgio, fin dalle prime pagine, mette a fuoco come si renda necessario procedere preliminarmente ad una definizione del concetto di razzismo, che sia in grado di fuggire i limiti di un approccio meramente “storiografico”, che sembrerebbe intendere il razzismo come l’inventario fenomenologico completo delle sue multiformi manifestazioni. Si ripresenta, insomma, l’annosa questione, ben nota da molto tempo alla riflessione epistemologia, del corto circuito tra concetto (“a priori”, “la parola”) e dato empirico (“a posteriori”, “la cosa”); tra la necessità di una preliminare elaborazione concettuale, che guidi l’atto empirico, rendendolo capace di riconoscere “il dato” e l’altrettanto indispensabile e costante confronto con la concreta realtà dei dati d’esperienza (in questo caso le specifiche forme e manifestazioni particolari del razzismo), che diano sostanza e legittimità alla definizione del concetto.

In altri termini, Burgio esprime il bisogno di un’azione di comprensione “teoretica” del razzismo, che possa fungere da cornice di conoscenza complessiva della sua storia, dalla sua genesi fino alla contemporaneità. Si tratta allora di cogliere le strutture fondanti di quella che Burgio definisce come una «insaziabile fame di discriminazione» (p. 15) che turba la civiltà e la società moderne dal Cinquecento ad oggi, da quando l’Occidente non riesce a «fare a meno di inventare “razze” inferiori e parti infette dei corpi sociali che meritano di essere isolate o amputate». (p. 15)

Una delle tesi portanti di tutto il discorso di Burgio è che tra modernità e razzismo vi siano, per dir così, consustanzialità e consequenzialità: il razzismo è una malattia congenita della modernità e della nostra civiltà. Pertanto, esso va inteso come un fenomeno storico, vale a dire storicamente determinato e la sua storicità coincide con la modernità occidentale. L’autore critica le interpretazioni “metastoriche” del razzismo, che leggendolo come un aspetto congenito della “natura” umana e considerandolo avulso dalla concreta e determinata cornice storica della sua genesi e del suo sviluppo, lo trasformano di fatto in un fenomeno “naturale” e pertanto in qualcosa non solo di inevitabile, ma, alla fine, anche di giustificabile. Lo stesso deve dirsi delle interpretazioni “teologiche”, che, ancora una volta in maniera astorica e “metafisica”, lo leggono come la realizzazione del male assoluto, precludendosi così la possibilità di comprenderlo per ciò che è: un fenomeno storico, prodotto della storia della civiltà umana, insomma un fatto di cultura, non di natura. In quanto fenomeno culturale, il razzismo – spiega Burgio – si configura invece come a) un’organica e specifica struttura discorsiva; b) basata su antropologie di tipo essenzialistico; c) nata tra Sette e Ottocento sullo sfondo dei processi di modernizzazione (definitiva affermazione degli Stati-Nazione, urbanesimo, colonialismo e adozione di politiche imperialistiche, sviluppo dell’economia manifatturiera capitalistica, divisione sociale ed internazionale del lavoro); d) con potenti capacità performative, cioè di produzione di comportamenti collettivi.

Dinanzi ai cambiamenti profondi e sconvolgenti dell’età moderna, l’uomo occidentale ha avvertito il bisogno di nuove granitiche certezze e la ha trovate nel razzismo e nella convinzione incrollabile della propria superiorità essenziale. Molti sono gli intellettuali e numerose sono le opere che hanno posto l’accento sul legame tra modernità e violenza e tra i più significativi Burgio annovera i francofortesi Adorno e Horkheimer con la Dialettica dell’Illuminismo e Zygmunt Bauman con Modernità e Olocausto. Le tesi e le argomentazioni dei due scritti sono troppo note perché occorra qui ripercorrerle, ma entrambe le analisi sono da Burgio giudicate inadeguate, in quanto unilaterali, perciò riduttive e deterministiche. Individuano un solo aspetto della modernità, quasi che fosse l’unica epoca storica ad avere l’esclusiva della violenza e non, al contrario, proprio quella che ha dato il contributo essenziale e decisivo all’elaborazione di principi quali il rispetto della dignità umana, il riconoscimento dei diritti, la ricerca della giustizia, la libertà dell’individuo, insomma proprio quei valori “moderni” che fungono da criteri su cui si fondano i giudizi negativi espressi dai francofortesi e da Bauman sulla “modernità”. La tesi avanzata da Burgio è, potremmo dire, uguale e contraria: uguale, per l’individuazione dello stretto legame che unisce modernità e razzismo (e quindi violenza); contraria, in quanto l’autore ritiene che il razzismo sia nato «proprio perché la modernità non si è mai conciliata con la violenza che la pervade, e che per questa ragione – perché fonte di irrisolti conflitti etici – esige giustificazioni» (pp. 21-22): il razzismo è esattamente questa giustificazione, che permette alla civiltà occidentale moderna di trovare una conciliazione tra il piano intellettuale e teorico dei valori e dei principi che è andata elaborando e quello materiale, concreto, delle forme di violenza, sfruttamento e ingiustizia che ha sprigionato a seguito dei propri processi di sviluppo e di affermazione mondiale. Il razzismo è il lato oscuro della modernizzazione, il prodotto, l’espressione e l’esplicitazione delle sue contraddizioni strutturali.

È sul piano dell’etica, quindi, che l’analisi teoretica dei fondamenti e delle condizioni di possibilità della ragione razzista avanzata da Burgio rintraccia il cuore del problema: il razzismo ha risolto il dilemma etico prodotto dalla natura critica, ossia contraddittoria, della modernità, dalla divergenza tra quanto teorizzato e quanto praticato, tra il piano strutturale dei processi materiali di sviluppo e riproduzione economica e sociale (che hanno causato disuguaglianza, violenza, sopraffazione e sfruttamento) e quello intellettuale e valoriale di una cultura che parallelamente andava codificando i principi di libertà dell’individuo, di uguaglianza tra gli uomini e di fraternità universale. Per reggere il peso di questa palese contraddizione serviva una giustificazione autoassolutoria, un’ideologia adatta allo scopo: il razzismo.

La modernità ha una natura critica (cioè vive di lacerazioni e contrasti) ed è all’interno della contraddizione della modernità che occorre rintracciare la genesi del razzismo. Tra il Cinquecento e il Settecento la cultura moderna ha elaborato e diffuso il principio della “libertà” dell’uomo, inteso come uno di quei diritti inalienabili che tali sono perché naturali, ossia posseduti da tutti gli uomini, propri della sua natura e che pertanto rendono tutti gli uomini uguali; “uguaglianza” che ha senso solo se declinata in termini universali ed estesa a tutti gli esseri umani. Uguaglianza e universalità – dice Burgio – sono «cardini dell’ethos moderno» (p. 23), non di epoche storiche precedenti, fondate su distinzioni e gerarchie sociali essenzialistiche e quindi inattaccabili poiché pensate come – per esempio – parte dell’ordine divino. Con l’Ottocento e il Novecento, poi, la diffusione degli ideali e dei sistemi politici democratici ha ulteriormente sviluppato questo processo. È nella collisione tra principi etici (universalistici ed egualitari) e processi materiali di sopraffazione e sfruttamento che si consuma la tragedia della modernità che ha prodotto il razzismo come soluzione ideologica e come razionalizzazione autoassolutoria.

È la cultura illuministica che fissa definitivamente il binomio «libertà-uguaglianza definito sullo sfondo universalistico, cosmopolitico, dell’universalità» – in sostanza i “principi dell’89” – come cardine della tavola dei valori della civiltà occidentale, ma, al tempo stesso, le modalità della realizzazione materiale del principio della libertà all’interno delle relazioni e dei processi economico-sociali concreti e le dinamiche dei rapporti economico-politici tra l’Occidente e il resto del mondo hanno palesemente contraddetto quella stessa tavola assiologica egualitaria. La libertà è andata realmente configurandosi in termini esclusivamente individuali, particolaristici e privati: essa è la libertà economica dell’individuo della società borghese e capitalistica, che non riesce a trovare un punto di convergenza con il principio dell’uguaglianza. Se la libertà borghese, a seguito delle dinamiche della sua attuazione capitalistica si manifesta come libertà di iniziativa privata, di appropriazione, di imposizione di sé e subordinazione dell’altro, allora essa ripudia ed esclude l’uguaglianza, perché produce disuguaglianze, rinnovate forme di sfruttamento e di esclusione, nuove gerarchie sociali e conseguenti pratiche di sfruttamento e violenza. Se lo slancio e il pieno sviluppo dell’economia capitalistica moderna, mercantile e manifatturiera, determinano sul piano internazionale la corsa imperialistica dell’Occidente alla conquista coloniale e allo sfruttamento di risorse e di popoli lontani, allora il valore universalistico della fraternità si riduce ad una nobile ed elegante parola svuotata di senso.

Sono gli sviluppi stessi del progresso e dell’affermazione dell’Occidente moderno, quindi, che lo conducono di fronte ad una lacerante contraddizione, tutta interna alla modernità stessa: la divergenza tra l’idealità dei valori e la concretezza dei processi materiali, economico-sociali. La libertà borghese si riduce ad essere una libertà formale e giuridica che si regge su nuove disuguaglianze ed ingiustizie, che essa stessa produce, nonostante fosse stata elaborata, sul piano ideale, per sovvertire le disuguaglianze e le ingiustizie feudali dell’antico regime. Si tratta di una contraddizione palese tra ideale e reale, tra valori diffusi e condivisi dal senso comune e comportamenti altrettanto correnti nelle relazioni sociali in genere; un conflitto che ingenera nell’uomo occidentale un disagio morale ed un equivoco etico che richiedono di essere risolti. La disuguaglianza e l’ingiustizia praticate de facto necessitano di una giustificazione de jure, che salvaguardi la tavola dei valori ideali. Il razzismo risponde perfettamente a questa necessità e il caso dello schiavismo coloniale (della tratta dei neri africani, ecc.) è quello più emblematico: trasformare i popoli conquistati o i neri africani deportati in “razze”, renderli diversi ed inferiori in base a teorie (pseudo)scientifiche comporta la loro espulsione dal terreno di applicazione del valore dell’uguaglianza, che può così essere idealmente ribadito e al contempo concretamente e palesemente tradito. Il razzismo, osserva pertanto Burgio, è un potentissimo dispositivo ideologico di giustificazione e di riconciliazione dell’Occidente moderno con se stesso. E per elaborare questo apparato ideologico, la cultura moderna si serve di un altro dei suoi pilastri fondamentali, cioè della razionalità scientifica, ricorrendo ai saperi e alle scienze della vita o inventando nuove discipline, come la craniologia o l’eugenetica e così facendo, attribuisce oggettività, attendibilità e rigore a politiche, metodi e pratiche di sfruttamento, di discriminazione e di violenza.

Insomma, il razzismo è un processo di “razionalizzazione”, intendendo il concetto nel suo significato psicanalitico: è un meccanismo inconscio di difesa che consente la giustificazione e quindi l’accettazione di comportamenti altrimenti psicologicamente traumatici, disturbanti o angoscianti. Tale fenomeno di razionalizzazione viene conseguito attraverso la stesura di una narrazione ideologica (le teorie della razza) che funge da “falsa coscienza” dell’Occidente.

Burgio di seguito si occupa della morfologia e della fenomenologia del razzismo, analizzandone le forme fondamentali e le particolari manifestazioni storiche. Una prima tipologia di razzismo, detta poligenetica e sorta principalmente nell’ambito delle relazioni commerciali coloniali con il Nuovo mondo, nega l’esistenza di un’unica specie umana, teorizzando la compresenza di una pluralità di esse, tra di loro incommensurabilmente differenti (e che pertanto dovrebbero evitare ogni tipo di ibridazione o meticciato). Tale forma poligenetica è detta anche (secondo la categorizzazione di Pierre-André Taguieff, a cui più volte Burgio si riferisce) “differenzialistica” e conosce la propria manifestazione storica paradigmatica nell’antisemitismo moderno pseudosceintifico, erede di quello religioso antico e medievale, che ha condotto allo sterminio nazista degli ebrei d’Europa, considerati non tanto e non solo una “razza” non ariana “inferiore” da schiavizzare (al pari di slavi e latini), ma propriamente una razza “diversa”, di fatto disumana, la cui distruzione non comporta quindi l’insorgenza di alcuna resistenza etica.

La seconda fondamentale forma di razzismo è detta monogenetica e gerarchica: essa non nega l’appartenenza all’unica specie umana delle differenti razze, ma le colloca in una rigida gerarchia antropologica che sentenzia l’inferiorità delle une e la superiorità (per intelligenza, sensibilità, capacità, ecc.) delle altre, che possono così sentirsi legittimate a discriminare, segregare, asservire, sfruttare e infine anche sterminare le razze inferiori. Nel linguaggio di Taguieff, si tratta del razzismo “inegualitario”, che conosce la propria manifestazione paradigmatica nello schiavismo coloniale e nella tratta dei neri.

Va per prima cosa sottolineato come, nonostante le differenze, i due modelli possano intrecciarsi e sovrapporsi e come, in secondo luogo, la logica e la sintassi del discorso razzista si articolino secondo le medesime strutture in entrambi i casi e che sostanzialmente uguali sono anche gli effetti, ovverosia la giustificazione teorica di atti e comportamenti crudeli, che dalla discriminazione procedono fino alla possibile eliminazione fisica del gruppo che subisce il processo di trasformazione in “razza”. In linea di principio il razzismo “inegualitario” tende soprattutto a giustificare il dominio e lo sfruttamento, mentre quello “differenzialista” teorizza e prepara il terreno per l’esclusione e lo sterminio. Ma – rileva efficacemente Burgio – «l’ebreo, il non-uomo, può anche servire egregiamente come schiavo» – prima di essere eliminato – e «il nero e il proletario, “schiavi naturali”, possono ben essere sfruttati sino allo sfinimento in quanto, in definitiva, non pienamente umani» (p. 53) perché inferiori.

Per quanto riguarda la struttura logica della narrazione razzista, Burgio individua i seguenti elementi essenziali: la stereotipizzazione olistica, essenzialistica, riduzionistica e fissistica del gruppo che viene definito “razza”. Qualsiasi discorso razzista si regge sulla creazione di uno “stereotipo” fatto di presunti tratti fisici e psichici propri ed esclusivi di quel gruppo, che risulta in tal modo delineato e circoscritto. Fondamentale è il vincolo psico-somatico (in questo senso “olistico”), stretto e necessario, che il razzismo pone tra gli aspetti esteriori del corpo e le attitudini intellettuali, spirituali e morali della persona, che forzatamente ne conseguono. I tratti che connotano una razza vengono ipostatizzati, in sostanza vengono intesi come “essenze” naturali e non più come caratteristiche storicamente determinate di un gruppo umano, vale a dire caratteri culturali. In quanto tali, le proprietà di una razza diventano eterne ed immutabili, permangono “fisse” ed immodificabili nel tempo, vincolando in modo totale ed assoluto l’individuo alla razza di appartenenza. Si tratta di un tratto deterministico e totalitario del razzismo in forza del quale il singolo uomo è “ridotto” ad identificarsi totalmente con il gruppo, perdendo ogni aspetto o tratto individuale e particolare e finendo per essere considerato identico ad ogni altro.

«Lungi dall’essere entità naturali» – riflette Burgio – «le “razze umane” sono il prodotto (artificiale, simbolico) di tale articolato dispositivo. Per ciò stesso […] deve considerarsi oggetto di razzismo (“razzizzato”) qualsiasi gruppo umano nei confronti del quale venga impiegato questo dispositivo». (p. 54)
In altre parole «è oggettivamente razzista ogni discorso che proietti su un qualunque gruppo umano stereotipi olistici, essenzialistici, riduzionistici e fissistici». (p. 53) Pertanto, a nostro parere opportunamente, Burgio sottolinea come le forme di discriminazione e violenza che possono e che devono essere riconosciute come declinazioni particolari del dispositivo razzista siano molto più numerose di quelle “classicamente” considerate tali in riferimento al passato storico o al presente, ma in quanto ricollegabili o eredi di quelle passate. Perché il razzismo, si è visto, è un sistema ideologico di giustificazione e razionalizzazione della violenza dinamico e adattabile a contesti e oggetti differenti, ai quali applica lo stesso dispositivo di procedure. E allora nel corso del Settecento, nel momento della ascesa e dell’affermazione della borghesia europea e del sistema di produzione capitalistico, il sistema logico del razzismo si è rivelato arma potente nelle mani della borghesia nel conflitto sociale che ha condotto alla “razzizzazione” della classe operaia. E medesima sorte è toccata alle donne, ai poveri e alle altre categorie di “asociali” e refrattari all’ordine vigente, ai “delinquenti nati” dell’antropologia criminale lombrosiana e così via.

Osserva Burgio che per un lungo periodo «le classi lavoratrici e le donne sono state escluse dalla cittadinanza e integrate nella popolazione in funzione subordinata. E il discorso razzista ha costituito una risorsa ideologica fondamentale nella gestione di questa dinamica. Per secoli e ancora nella prima metà del Novecento servi, lavoratori salariati e donne furono rappresentati come “razze” a sé stanti, afflitte da specifiche tare fisiche e da insormontabili limiti intellettivi, caratterizzate da odori particolari e dall’insopprimibile vocazione a trasgredire i valori morali della classe media. […] Nei confronti delle componenti più povere delle comunità civili europee fu impiegato lo stesso schema sperimentato tra Sette e Ottocento sugli schiavi “negri” delle colonie» (p. 105). La stessa sorte che oggi tocca a chi occupa l’ultimo gradino della scala sociale, ai reietti delle nostre società di inizio XXI secolo, non più gli operai delle fabbriche, ma i migranti che si avvicinano alle porte dell’Occidente e i nuovi schiavi del capitalismo contemporaneo globalizzato.

Non è possibile in questa sede affrontare in maniera esaustiva la presentazione e il commento dell’intero contenuto del lavoro di Burgio, un libro rigoroso e profondo nell’analisi dell’argomento studiato e molto ricco ed articolato, per la capacità di affrontare i numerosissimi aspetti della storia del razzismo, come la complessa questione dell’antisemitismo, delle sue relazioni con l’antigiudaismo cristiano, che vengono esposte in modo puntuale ed incisivo, seppur necessariamente riassuntivo, nelle pagine centrali del libro, che si conclude con il sesto capitolo dedicato ad un aspetto dell’argomento di grande interesse e che più volte è stato da noi affrontato: il caso del razzismo italiano e della sua quasi totale rimozione dalla coscienza collettiva del nostro paese.

La riflessione di Burgio prende le mosse da una considerazione di Enzo Collotti, che nel suo libro del 2003 – Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza – avanzava l’ipotesi che gli italiani, nell’immediato secondo dopoguerra, avessero rimosso le leggi razziali del 1938 e l’antisemitismo fascista per l’incapacità di affrontare e di elaborare fino in fondo l’enorme responsabilità di quanto accaduto e che per queste ragioni la voce “disturbante” dei testimoni, dei sopravvissuti, fosse rimasta per lo più inascoltata. L’autore opportunamente rileva che se il ragionamento dello storico e tra i massimi studiosi italiani del nazismo può essere considerato valido e pertinente per gli anni di poco successivi alla tragedia della guerra, lo stesso non si può dire per le generazioni di italiani successive e per i nostri giorni, per i quali si rende necessario comprendere come, perché e con quali conseguenze sia stato elaborato il mito collettivo del “bravo italiano”, che mostra una capacità di resistenza nel tempo e di pervasività tali da essere diventato parte essenziale ed inamovibile della coscienza collettiva italiana.

Per ricostruire la genesi e lo sviluppo del processo che ha condotto all’elaborazione dell’inossidabile immagine dell’italiano per indole e natura buono e quindi mai razzista, Burgio risale al lavoro storiografico di De Felice, che già a partire dagli anni Sessanta del XX secolo poneva le fondamenta dell’interpretazione sostanzialmente assolutoria della politica razziale fascista, che presentava le leggi del ’38 come una dettatura di Berlino, recepita e subita da Roma al fine di consolidare l’alleanza italo-tedesca e che non avrebbero però mai trovato un terreno adatto in cui attecchire, essendo il popolo italiano non ostile verso gli ebrei e in generale immune, a differenza di altri popoli e paesi europei, dalla malattia del razzismo; estraneità tra il carattere italiano e le dottrine della razza che sarebbe stata corroborata dalla tradizione cattolica del paese e dall’operato della Chiesa. Si trattava – è facile comprenderlo – di una rappresentazione “riduzionistica” di una delle pagine peggiori della storia della dittatura italiana, che si prestava ad un utilizzo ideologico, teso a diffondere un’immagine bonaria del fascismo e di Mussolini e che consentiva agli italiani di deresponsabilizzarsi e di concepirsi come “buoni” ed incapaci di quegli orrori che venivano imputati completamente ai “cattivi tedeschi”.

Sulla scorta dei risultati a cui, da molti anni ormai, è giunta la storiografia italiana antidefeliciana, Burgio ricorda come le leggi razziali del 1938 abbiano avuto una genesi ed uno sviluppo autonomi ed indipendenti dalle leggi di Norimberga e che i loro presupposti siano da ricercarsi nella legislazione di discriminazione e segregazione razziale in Africa e nelle brutali politiche di polizia coloniale, attuate in Libia e in AOI sia prima sia dopo la guerra d’Etiopia. Come, ben lungi dall’essere per indole estraneo ad ogni forma di razzismo, il popolo italiano abbia recepito la propaganda e la politica razziali volute dal regime, salutando positivamente l’emanazione delle leggi del ’38 ed avvantaggiandosene a scapito dei connazionali ebrei e come, infine, il tutto sia potuto accadere anche grazie ad una robusta e lunga tradizione di antigiudaismo cattolico, teorizzato, predicato e praticato dalla Chiesa e da molti suoi organi ed influenti esponenti.

A questo si aggiunga che ben prima del fascismo la pianta venefica del razzismo aveva messo radici in Italia, già a fine Ottocento nell’Italia liberale che si lanciò nelle imprese coloniali in Africa orientale e poi a inizio Novecento in Libia e, prima ancora, anche l’”epopea” risorgimentale del processo di unificazione nazionale non può dirsi esente da evidenti tratti di razzismo, un razzismo tutto interno al paese e diretto nei confronti della sua metà meridionale.

Di grande interesse sono le considerazioni di Napoleone Colajanni, a fine Ottocento, e di Antonio Gramsci, trent’anni dopo, che mostrano come fosse ben chiaro nella mente di entrambi il funzionamento di quel dispositivo di razzizzazione di un gruppo umano, da Burgio descritto nelle pagine e nei capitoli del nostro libro. Per celare la natura “coloniale” del Risorgimento italiano nel Meridione e le vere responsabilità dell’arretratezza del Sud e della sua sottomissione al Nord, furono attuati, nei confronti dei meridionali in genere e delle plebi in particolare, i medesimi processi di codificazione di una “razza”, da considerare inferiore e perciò da sottomettere e sfruttare, già ampiamente praticati da tutto l’Occidente in Africa, nei confronti dei neri.

Negli ultimi anni dell’Ottocento il mondo scientifico italiano fu messo a rumore da una raffica di pubblicazioni di argomento antropologico che prospettavano una precisa interpretazione delle cause del forte divario economico che già separava il nord e il sud del paese. […] La tesi sostenuta da questi autori era chiara, non lasciava margini al dubbio. Il Meridione era arretrato perché i meridionali – i “sudici” – sono un’altra “razza”: renitenti al lavoro; indisciplinati e inadatti a cooperare; propensi a forme brutali di violenza e criminalità. E tali sono perché, come le donne e i selvaggi, prodotti di un arresto evolutivo. (p. 243)

Gramsci constatava che le stesse masse lavoratrici del Nord avevano fatto proprio tale punto di vista razzista e anziché comprendere le reali dinamiche dell’arretratezza del Meridione «il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico[…] non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica [A. Gramsci, Quaderni dal carcere]». (pp. 249-250)

Pertanto, conclude Burgio, «La storia del nostro paese tra il XIX e il XX secolo non si discostò in nulla di sostanziale da quella degli altri paesi europei, Germania compresa. Di questa storia il razzismo fu parte integrante e questa circostanza contribuisce a spiegare l’avvento del fascismo col suo carico di ferocia, di brutalità criminale e di atrocità». (p. 250)

Consideriamo questo bel libro di Alberto Burgio un lavoro fondamentale di uno dei più importanti studiosi italiani del razzismo; un volume prezioso, che merita di essere letto con attenzione da chi voglia avere del razzismo una conoscenza approfondita circa i fondamenti, i presupposti e le condizioni storiche determinate che lo hanno generato, che continuano a renderlo possibile e a conservarlo, purtroppo, in ottima salute. Un contributo, quindi, ad un lavoro di studio del razzismo che più che altrove sarebbe urgentemente necessario promuovere e soprattutto divulgare – affinché si estenda oltre l’ambito comunque ristretto degli addetti ai lavori – proprio in Italia; un passaggio indispensabile per uscire dalle pastoie di quell’approccio opportunisticamente riduzionistico che contraddistingue il modo distorto e falso con cui la coscienza collettiva italiana si rapporta col proprio passato prossimo.

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Il grande nulla * https://www.carmillaonline.com/2020/02/04/il-grande-nulla/ Tue, 04 Feb 2020 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57755 di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. (La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e [...]]]> di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
(La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e non è mai morto, l’informazione mainstream, le frange superstiti di partiti ormai morti o in via di estinzione e anche alcuni siti che si vorrebbero antagonisti hanno esultato per la vittoria elettorale dell’”antifascismo”.
Una sorta di rivincita da campionato regionale su un avversario (le cui miserabili imprese politiche ed iniziative securitarie sono state già abbondantemente raccontate e vivisezionate sulle pagine di Carmilla da Alessandra Daniele) che come tattica elettorale, oltre al discorso securitario cucinato in ogni possibile salsa, ha avuto quella di baciare salumi e formaggi e andare a suonare i citofoni degli stabili di periferia, come un monello destinato prima o poi ad essere preso a sberle da qualche inquilino indispettito.

Ma si gongola anche qui e là per la vittoria del rappresentante di un partito che da anni ha fatto del mantenimento dell’ordine pubblico e della stabilità finanziaria la sua unica ragione di vita (e che senza vergogna sta al governo con chi ha precedentemente avvallato tutte le mosse di cui oggi il leader della destra è accusato). Si festeggia, inoltre, la scomparsa di un movimento (fondato da un comico e finito in farsa) nel quale molti dei critici odierni avevano precedentemente creduto, rivelando così, complessivamente, una cecità politica e una visione perbenista della realtà che non sa più assolutamente distinguere il grano dalla pula, la realtà dalla fantasia, il risotto dalla merda e, soprattutto, ciò che serve a liberare il pianeta e la specie dall’oppressione del modo di produzione più vorace e distruttivo che sia mai esistito.

Sì, cari lettori e compagni, perché ancora una volta non è stato l’antifascismo a vincere. Quello è stato sapientemente sbandierato da sardine e soci soltanto per nascondere il fatto che la scelta elettorale era tutta all’interno dello stesso campo.
Il campo giustizialista e securitario di chi suona ai citofoni e minaccia i migranti e quello di chi chiede un’identità digitale per accedere ai social e il daspo per chi non rispetta le regole del dialogo civile definite dall’ordine borghese.
Il campo della violenza organizzata delle squadre fasciste e delle ronde anti-migranti e della violenza di Stato che garantisce il dis/ordine pubblico nelle piazze e nei centri di detenzione attraverso la militarizzazione dei territori e del tessuto urbano.
Il campo della “giustizia” che reprime i sindacati di base e i lavoratori in lotta, i difensori della terra e delle comunità locali e sulla quale gli “antifascisti” vincitori non hanno nulla da dire, ma con il quale hanno molto da condividere (scusate se non ricordo, ma chi era il sindaco di Bologna definito lo sceriffo e a quale partito apparteneva?).

Il campo delle grandi opere inutili e dannose al Nord come al Sud (la prima dichiarazione della candidata del centro destra, dopo la vittoria in Calabria, ha riguardato la necessità di portare anche lì l’alta velocità ferroviaria, confermando così di fatto gli interessi della ‘ndrangheta nelle grandi opere, dalla Valsusa al resto del paese).
Il campo di chi reprime i migranti internandoli nei campi libici oppure negando loro lo sbarco sulle nostre coste oppure, ancora, trasformandoli in schiavi per il lavoro nero (soprattutto nell’edilizia e nei campi).
Il campo degli interessi incrociati tra aziende private, cooperative e finanza ed imprese edili di origine illegale.
Il campo dell’estrattivismo dichiarato, a favore delle trivelle nell’Adriatico e degli interessi dell’ENI.
Il campo di chi si affanna ad equiparare la violenza verbale a quella fisica, salvo poi voltarsi dall’altra parte quando i manganelli scendono pesantemente sulle schiene e sulle teste dei manifestanti contrari all’ordine esistente. Oppure di chi non sa cogliere nemmeno lontanamente l’enorme ingiustizia e la violenza insite nei licenziamenti individuali e di massa e nei rapporti di lavoro definiti dalle aziende, multinazionali o nazionali che siano, in nome del profitto e dell’estrazione selvaggia di plusvalore.
Il campo di chi non sta con le lotte, ma con gli imprenditori.
Il campo di chi si crede il mare, ma è soltanto una palude.

Ho sentito parlare di buon governo della regione “rossa”: certo il buon governo del capitalismo ben temperato di prodiana memoria1, in cui dalla collaborazione tra privato e pubblico può sorgere il “radioso avvenire” di una società capitalistica avanzata e magari green.
Il buon governo della triplice sindacale che vota favorevolmente per le grandi opere in nome del lavoro salariato e degli interessi delle azienda e delle coop rosse e bianche oppure, ancor meglio, della Nazione. Buon governo che, però, non sembra aver toccato o convinto tutti allo stesso modo (qui).

No, non è così che si vince il fascismo. Come già sapevano i migliori compagni comunisti, anarchici e antifascisti negli anni ’20 e ’30,2 la cui esperienza fu cancellata dalla controrivoluzione staliniana e dalla carneficina del secondo conflitto mondiale, il fascismo si batte soltanto vincendo sul capitalismo e superando proprio i limiti del dettato nazionale, aziendale, produttivistico e lavoristico su cui fonda il suo discorso. Di cui però gli attuali, momentanei, vincitori della schermaglia elettoralistica sono tra i migliori ed agguerriti rappresentanti.

Un vecchio comunista italiano, Amadeo Bordiga, affermava che chi vuol essere progressista dovrebbe avere almeno il coraggio di dichiararsi fascista, poiché proprio l’idea di progresso, tipica di questo modo di produzione oggi fallimentare in tutti i campi, fin dalle sue origini ha avuto come corollari il rafforzamento degli stati nazionali, il governo dei loro confini, lo sfruttamento in casa e fuori della manodopera schiavizzata nelle fabbriche e nei campi. Qualunque fosse il colore della pelle e a qualsiasi latitudine appartenessero gli imprenditori e i governanti.

Il capitalismo industriale è nato in carcere3 e il fascismo ne ha sempre esaltato le funzioni. Sia dell’uno che dell’altro.
Nazionalizzare le masse, questa la funzione del fascismo (il razzismo, che non può essere ridotto al solo anti-semitismo che è molto più antico, ne costituisce solo uno dei corollari, non il fondamento, poiché nacque con il colonialismo che avrebbe posto le fondamenta dell’attuale immondo modo di produzione)4. Rendere i cittadini tali in quanto orgogliosi del proprio (buon) governo e solidali con gli interessi del capitale e dell’imperialismo.
Non membri di una comunità umana, la marxiana gemeinwesen, di eguali sia dal punto di vista sociale che economico, ma partecipi di una comune fortuna di cui pochi, sempre meno visto che gli italiani più abbienti oggi detengono il 72% della ricchezza nazionale mentre a livello mondiale 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale5, detengono i rubinetti e il patrimonio globale.

Esaltare il lavoro produttivo e la “vittoria” sulla Natura sono altri due aspetti immarcescibili del fascismo e sono entrambi, ullallà, derivati dall’idea di progresso figlia dell’Illuminismo ben pensante e moderato.
Atteggiamenti moderati nei rapporti politici tra le classi, ma smoderati nel consumo di risorse, territori, merci e forza lavoro. Tanto da dimenticare sempre più spesso, nell’attuale gozzovigliare alla tavola della shoa, che i lager nazisti come i gulag staliniani furono sempre e prima di tutto campi di lavoro forzato. In cui “naturalmente” milioni di individui di qualsiasi fede, etnia, nazione, genere ed età sarebbero morti prima di tutto per la fatica, la fame e le malattie. Esattamente come capita ancor oggi, a cielo aperto e senza SS a far la guardia, in tante, troppe parti del mondo.

Esaltare l’ordine e zittire le voci “altre”, contrarie oppure solo critiche del regime è l’altra pratica del Fascismo, che affonda però le sue radici in tutta la Storia di un mondo diviso in classi fin dall’avvento della proprietà privata e che fa delle maggioranze silenziose il proprio ideale di partecipazione politica. Esattamente come possono esserlo le folle che cantano inni patriottici e inneggiano alla figura del Capo nelle adunate di piazza a sostegno di un regime (o di un movimento che ha nel non aver nulla da dire sulla realtà delle contraddizioni economiche e sociali reali la sua unica arma di distrazione di massa).

Pesci in barile, citofonatori e mortadelle benedette non rappresentano dunque altro che le due facce di una stessa medaglia, di uno stesso ordine. Così come lo erano i 5 stelle di qualche anno fa (con l’unica differenza che oggi la rabbia non deve essere nemmeno manifestata o sussurrata, per rispetto del borghesissimo bon ton).
Non vale neppure la pena di far nomi in queste considerazioni, non per timore di denunce o intimidazioni, ma soltanto perché tutti questi miserrimi soggetti, che nascondono la realtà di contraddizioni e di lotte che ci circondano in ogni dove e che in alcuni casi si affannano a definire come “ondata di destra a livello mondiale” (mescolando insieme gilets jaunes e Orban, lotte sociali ed ignobili episodi di razzismo delle periferie che sono in subbuglio senza neanche comprendere appieno il perché) le lotte, spesso sanguinose, che si sviluppano in ogni dove, sono già destinati all’oblio anche se oggi, dando per un momento ragione a Andy Warhol, hanno avuto modo di brillare come meteore per un istante o ancor meno.

I tempi della Storia, invece, sono molto lunghi. Il capitalismo non è stato mai ben temperato se non sulla pelle di qualche popolo o continente dominato e sfruttato per qualche decennio. In questa fasulla modernità la sua anima resta fascista e oggi, ancora una volta, sia in Calabria che in Emilia Romagna, ha comunque vinto il nostro peggior nemico. Quello con cui non possiamo esser altro che in guerra. Perché il dovere di combatterlo ci apparterrà sempre.
Fino alla morte o alla vittoria.

Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che oblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
(G. Leopardi – La ginestra)

* In omaggio a James Ellroy e alla sua nerissima e spietata Storia degli Stati Uniti dal secondo conflitto mondiale agli anni ’70. Una tecnica letteraria (l’abbinamento tra crimine e storia americana) perfetta per raccontare efficacemente la contemporaneità e i suoi sottoprodotti sociali, politici e culturali.


  1. Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino, Bologna 1995  

  2. Si veda almeno Arthur Rosenberg, Il fascismo come movimento di massa. La sua ascesa e la sua decomposizione (1934), Circolo Internazionalista Francesco Misiano – Pagine Marxiste, 2019 che sarà recensito nei prossimi giorni su Carmillaonline  

  3. Si veda Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Oscar Studio Mondadori, 1982  

  4. Per un’analisi delle origini del razzismo moderno e della cultura che lo ha fondato, basati entrambi tanto sull’ammirazione acritica della cultura greco-romana quanto sull’idea, mai dimostrata, dell’esistenza di una comune radice indoeuropea “bianca”, si veda Martin Bernal, Atena Nera, il Saggiatore, Milano 2011  

  5. “Alla fine del primo semestre del 2018 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 8.760 miliardi di euro, registrando un aumento di 521 miliardi in 12 mesi) vede il 20% più ricco degli italiani detenere il 72% della ricchezza nazionale, il successivo 20% controllare il 15,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero appena il 12,4% della ricchezza nazionale. Il top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.” (qui)  

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L’Italia nera https://www.carmillaonline.com/2019/08/08/litalia-nera/ Thu, 08 Aug 2019 21:02:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54021 di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra [...]]]> di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra estrema italiana, oltre che a far comprendere quella particolare area politica, le sue idee, i suoi progetti ed il suo operato nel corso degli anni, possa contribuire anche ad approfondire in controluce momenti importanti della storia repubblicana. L’autore sceglie di limitare il più possibile il ricorso alle note e alle citazioni, in tal modo rendendo molto scorrevole ed agile la lettura del libro ed inserisce, distribuendolo in modo omogeneo nel corpo del testo, una sorta di glossario dei termini e dei concetti chiave necessari per la comprensione del fenomeno del neofascismo italiano.

La tesi che Vercelli espone fin da subito nell’Introduzione è che la storia della destra radicale e neofascista italiana sia il “reciproco inverso” della storia della Repubblica, cioè della democrazia nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Paradossalmente il neofascismo italiano, dopo la sconfitta del 1945, trova la sua ragion d’essere nel proprio opposto, ovverosia nella natura parlamentare, democratica, pluralista ed antifascista delle nuove istituzioni repubblicane, che prendono in mano la guida di quel paese che era stato la culla del fascismo. Pertanto, riflette Vercelli, nonostante le diverse forme assunte dal neofascismo italiano, dal 1945 – quando prevalgono ancora nostalgia per il passato prossimo e rancore contro i nemici – fino ad oggi – quando le formazioni dell’estrema destra più seguite, come Casa Pound, parlano di “fascismo del terzo millennio” – la «radice comune è la posizione antisistemica, ossia l’intenzione di mutare […] il “sistema” istituzionale, politico e finanche culturale della democrazia contemporanea. Negandone la radice egualitaria, che il neofascismo denuncia come una perversione dell’ordine naturale delle cose» (p. 9).

Nonostante la sconfitta nella guerra ed il crollo subiti tra il 1943 e il 1945, il fascismo ha continuato ad essere un soggetto politico presente nel nostro paese per tre ragioni fondamentali: in primo luogo, un’esperienza politica e poi un regime così duraturi come quelli mussoliniani non potevano scomparire improvvisamente, poiché troppo profondo era stato il loro radicamento nel paese. In secondo luogo, dopo il ’45 ciò che rimaneva del fascismo attira le attenzioni di quelle componenti conservatrici della società italiana che fasciste non sono, ma che coi reduci del fascismo intendono formare un “blocco d’ordine” capace di arginare i cambiamenti in atto nel paese. Infine, la contrapposizione tra i due blocchi della guerra fredda e la volontà, interna ed esterna al paese, di evitare lo spostamento italiano su posizioni apertamente filocomuniste, produce l’effetto della mancata epurazione e – come insegna Pavone – della netta prevalenza della “continuità” politico-istituzionale dello Stato rispetto al “cambiamento” auspicato dalle forze resistenziali partigiane. A questo si aggiunga che, come cent’anni fa, ancora oggi il neofascismo pretende di essere riconosciuto come forza politica rivoluzionaria: una rivoluzione che assume la forma della “reazione”, o meglio, si potrebbe dire, quella del “ritorno”, del “recupero” di un passato puro (in realtà mitico ed astorico) e di un presunto stato “naturale” sconvolto dalla corruzione della modernità, che avrebbe prodotto la democrazia, l’egualitarismo, il cosmopolitismo, considerati disvalori e perversioni della società. Al materialismo, al pragmatismo utilitaristico, all’economicismo, alla quantità equivalente della democrazia devono contrapporsi la qualità elitaria dell’aristocraticismo, lo spiritualismo, l’eroismo disinteressato del guerriero, la tradizione, il radicamento. Insomma una politica fatta più di evocazione suggestiva del mito e di estetica del gesto e dello stile esistenziale che di analisi razionale della realtà materiale, storica e sociale.

Nella prima parte del libro vengono considerati i primi anni dopo il crollo della Repubblica sociale e l’avvento della Repubblica e della democrazia. Per i fascisti italiani è il tempo del disorientamento, della difficoltà – per i più coinvolti con il regime di Salò – di nascondersi, di scappare, di cambiare identità o anche solo di passare inosservati, aspettando l’evoluzione della situazione interna al paese. Ma è anche il tempo della rivendicazione delle proprie convinzioni e dei primi tentativi di riorganizzazione, così come della accusa di codardia verso i “traditori” del 25 luglio e della elaborazione della figura del “proscritto”, cioè di colui che viene, ma soprattutto vuole, essere messo al margine della nuova società democratica ed antifascista che disprezza. La condizione del proscritto, rivendicata come segno distintivo ed elettivo, è quella che maggiormente accomuna i reduci di Salò e che ne rinserra le file. Figure di riferimento di quel primo periodo sono innanzi tutto Pino Romualdi, collaboratore di Pavolini e vicesegretario del Partito repubblicano fascista, che fin da subito cerca di stabilire contatti con i servizi segreti americani in funzione anticomunista e il “principe nero”, Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas. Il luogo dove il neofascismo inizia ad organizzarsi è Roma, in cui la presenza di un clero disposto ad aiutarli e a nasconderli, permette ai reduci di Salò di sfuggire alla cattura. Le prime azioni sono soprattutto atti velleitari e dimostrativi, che intendono recuperare lo spirito dell’arditismo e delle provocazioni squadriste in stile futurista del fascismo delle origini. Ma poco dopo comincia ad emergere anche un altro atteggiamento, quello che non disdegna l’idea dell’avvicinamento ai partiti conservatori del nuovo arco costituzionale e alla Democrazia cristiana in particolare; indirizzo che poi sfocerà nella fondazione del partito neofascista legalitario, il Movimento sociale italiano (MSI).

Il neofascismo italiano nasce in ogni caso dal trauma della sconfitta, che impone un processo di metabolizzazione e di ripensamento complessivo dell’esperienza del regime, che conduce i neofascisti a giudicare il fascismo regime come una “rivoluzione mancata”, soprattutto a causa delle componenti conservatrici della società italiana, che avrebbero usato solo strumentalmente il fascismo; oppure come “terza via” tra collettivismo comunista e liberismo capitalista; oppure, infine, come “rivolta” contro la modernità. Nel secondo e nel terzo caso c’è evidentemente la volontà di smarcare il fascismo dal suo passato per dargli la possibilità di rappresentare un’opzione politica per il futuro.  Tra il 1945 e il ’46 i neofascisti più disposti ad imboccare la via legalitaria individuano nell’anticomunismo la merce di scambio da offrire alle forze conservatrici in cambio di un allentamento dei provvedimenti penali e punitivi contro gli ex repubblichini. Spiega di seguito Vercelli come gli eventi del giugno 1946, il referendum istituzionale e il varo dell’amnistia Togliatti, mettano i neofascisti nella condizione di tornare ad agire più scopertamente rispetto ai mesi precedenti, separandosi definitivamente dai monarchici (che fondano un loro partito) e avvalendosi della scarcerazione di molti militanti che tornano a fare attivismo politico e si impegnano nella fondazione dell’MSI del dicembre del 1946.

Ma accanto alle iniziative politicamente legali, Vercelli richiama l’attenzione su una miriade di opuscoli, giornali, riviste, semplici fogli, pubblicazioni di ogni genere e tipo, inizialmente clandestini, a cui si aggiungono gruppi, altrettanto illegali, come l’Esercito Clandestino Anticomunista (ECA) o i FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), fondati da Romualdi stesso.  La prolificità editoriale dell’estrema destra neofascista, che si affianca a quella dei gruppi dell’attivismo politico militante, è un tratto costante del neofascismo italiano, dalle sue origini fino ad oggi, anche nei momenti di oggettivo e netto svantaggio, quantitativo e qualitativo, politico, culturale e sociale rispetto alla sinistra parlamentare ed extraparlamentare e attesta la presenza e la permanenza nel nostro paese di un’area politica, di un pezzo di società e di una parte dell’opinione pubblica inequivocabilmente fascisti, che, pur assumendo forme parzialmente diverse a seconda del mutare dei tempi e del contesto sociale, tengono fermo il riferimento al fascismo storico e ai suoi principi fondamentali.

Fin da subito, la prima distinzione interna alla destra estrema si sviluppa sull’alternativa tra l’accettazione «almeno formale e di circostanza, del parlamentarismo e delle istituzioni repubblicane» (p. 43), salvo prefiggersi lo scopo ultimo di sovvertirle se e quando possibile e la scelta eversiva della lotta senza quartiere ed esclusione di colpi contro l’assetto democratico della Repubblica italiana. La distinzione tra “eversione” e “legalità” va poi ulteriormente dettagliandosi, anche all’interno dello stesso partito ammesso alla legalità parlamentare, per esempio nelle posizioni dei reduci veri e propri, dei nostalgici del regime e della repubblica di Salò, i quali andranno via via perdendo posizioni, sia per evidenti ragioni generazionali sia per la passività e l’inconcludenza della posizione sul piano politico. Segue poi la posizione dei sostenitori della sola via legale, che si concretizza nel partito il quale però è chiamato ad affrontare fin da subito evidenti contraddizioni: i suoi dirigenti sono prevalentemente settentrionali e reduci di Salò, mentre l’elettorato è di gran lunga più consistente al Sud e legato al ricordo del «fascismo di regime, quello dai connotati notabiliari, fortemente conservatori» (p. 57). Sul piano ideologico poi, la “sinistra”, che recupera il programma di “socializzazione” di Salò, la suggestione della “terza via” e che si colloca su posizioni “antiamericane”, si scontra con le posizioni moderate aperte all’”atlantismo”, che sfoceranno più tardi nel collateralismo alla DC. Infine si configura anche la posizione, sostanzialmente eversiva, degli “spiritualisti”, ovverosia di coloro per i quali il fascismo come “idea” trascende le sue manifestazioni storiche particolari e si presenta come una “visione del mondo” che valorizza l’aspetto “spirituale” dell’uomo di contro a quello “economico-materiale” e pertanto individua i propri principi fondamentali nella “tradizione”, nella “comunità” e nella “identità” – vale a dire nella “razza” – nel “nazionalismo”, nella “gerarchia” come ”ordine naturale” che si regge sulla “disciplina”, nel rifiuto della modernità e dell’intero suo portato politico e culturale. Si tratta di quella parte dell’estrema destra neofascista che ha gravitato per molto tempo attorno a Julius Evola e che ancora oggi continua a richiamarsi a quel bagaglio di idee e che individua l’essenza e l’eccentricità del fascismo nella figura estetico-esistenziale del “legionario”, cioè del militante disciplinato, virile e combattivo che è «pronto a trasformare la propria esistenza in una continua impresa indirizzata al combattimento» (p. 47). È il “soldato politico”, parte di una élite aristocratica che si distingue dalla massa per destino, prima ancora che per volontà.

Ai suoi esordi il programma dell’MSI si concentra sull’anticomunismo, sul nazionalismo, sul richiamo ai progetti sociali della RSI, sull’idea di Stato forte e sul rifiuto della democrazia. Dopo pochi mesi di segreteria di Giacinto Trevisonno, durante la fase di gestione collegiale del partito e non potendo Romualdi assumere incarichi per ragioni giudiziarie, è Giorgio Almirante che dal giugno del ‘47 ricopre la carica di segretario della giunta esecutiva e di seguito quella di segretario del partito. Almirante intende mantenere un forte legame con l’esperienza della RSI e ripropone i temi dell’anticapitalismo e dell’antiamericanismo. Gli ultimi anni ’40 sono quelli dell’assestamento per l’MSI e nel frattempo i governi democristiani chiudono definitivamente la fase delle comunque blandissime epurazioni. Con la fine della segreteria Almirante (gennaio 1950), che viene sostituito da De Marsanich, è la parte moderata del partito a prevalere, per poi stabilizzarsi definitivamente con la scelta della linea del collateralismo nei confronti della DC, operata tanto dallo stesso De Marsanich, fino al 1954, quanto da Michelini, che guida il partito per ben quindici anni, fino al 1969. Neppure l’ingresso e l’assunzione di incarichi nel partito da parte di Rodolfo Graziani e di Junio Valerio Borghese, salutati con speranze sia dalla sinistra sociale dell’MSI sia dalla destra tradizionalista e spiritualista evoliana, producono un cambiamento della rotta politica moderata, ed è in questo contesto che nel 1956, Pino Rauti, su posizioni di tradizionalismo evoliano, esce dal partito e fonda l’associazione politico-culturale Centro Studi Ordine Nuovo (CSON).

Per Rauti – spiega Vercelli – «si trattava di trovare nuovi riferimenti alla tradizione culturale, ai simbolismi e alla mitografia neofascista. Ne derivarono alcuni risultati, destinati a lasciare un lungo segno. Il primo fu la piena e definitiva nobilitazione dell’impostazione evoliana, quella sospesa tra aristocraticismo, tradizionalismo, ed esoterismo» (p. 75). Il materialismo, l’edonismo, il consumismo, che trovano il loro equivalente giuridico-politico nel parlamentarismo democratico, devono essere combattuti attraverso forme di militanza politica che si richiamano ai movimenti legionari di estrema destra, come quello della Guardia di Ferro di Codreanu, nella Romania degli anni Trenta e Quaranta. Per superare la logica dell’alternativa tra Oriente e Occidente, viene elaborata la teoria dell’”Europa Nazione”, che – fa notare Vercelli – riprendendo l’idea nazista della “Fortezza Europa”, sfocia in una sorta di “europeismo suprematista”, che declina l’idea nazionalistica sul piano continentale europeo. Quando nel 1969, con il ritorno di Almirante alla segreteria del Movimento sociale, Rauti decide di rientrare nel partito, la componente più intransigente di Ordine Nuovo non sposa questa scelta rautiana e fonda il Movimento Politico Ordine Nuovo (MPON). Complessivamente l’esperienza di Ordine Nuovo, riflette Vercelli, costituisce «una pietra miliare nella storia della destra estrema italiana» (p. 75), sia perché molte delle sue idee sopravvivono all’organizzazione stessa e ricompaiono in altre formazioni e gruppi del neofascismo italiano fino ad oggi, sia perché «la sua traiettoria operativa s’incrociò più volte con lo strutturarsi di quel livello parallelo e non ufficiale di attività militare, lo Stay-behind, che in Italia già dal 1956 implicò la nascita dell’organizzazione Gladio» (pp. 78-79). Pertanto Ordine Nuovo è stato parte essenziale ed attore tra i principali di quella “strategia della tensione” che si è poi concretizzata nello “stragismo”, in stretta collaborazione con servizi segreti deviati ed appartati occulti dello Stato, tra gli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, da piazza Fontana alla Stazione di Bologna.

Gli anni Sessanta della destra eversiva italiana si aprono con la fondazione di una nuova organizzazione – Avanguardia nazionale – ad opera, tra gli altri, di un rautiano già coinvolto nelle attività di CSON: Stefano Delle Chiaie. Osserva Vercelli che «Avanguardia nazionale si rifaceva alla RSI come a diversi aspetti del nazionalsocialismo, giudicando fattibile una battaglia contro la democrazia solo attraverso la formazione di militanti tanto disciplinati quanto animati da un fideismo totale, nello “stile legionario” che doveva contraddistinguere le avanguardie della “rivoluzione nazionale”» (pp. 82-83). L’organizzazione di Delle Chiaie e poi di Adriano Tilgher è apertamente favorevole a soluzioni golpiste ed intrattiene rapporti coi regimi militari dell’America latina, di Spagna, Portogallo e soprattutto Grecia. Si impegna negli scontri di piazza e all’interno del mondo studentesco e universitario; il suo coinvolgimento nelle trame eversive e terroristiche di quegli anni è tale che nel 1976 viene dichiarata fuori legge. Altri eventi rilevanti di quel decennio sono il cosiddetto “piano Solo”, ovvero il tentato colpo di Stato ordito dal comandante dell’Arma dei Carabinieri, il generale Giovani de Lorenzo; l’uscita dall’MSI di Junio Valerio Borghese (1968), che dà vita al Fronte Nazionale, che due anni dopo sarà in prima fila nell’organizzazione del cosiddetto “golpe Borghese”. Una formazione politica dai progetti velleitari – tanto quanto il tentativo fallito di sovvertimento dell’ordine costituito – che, osserva Vercelli, ripropone vecchi cliché politici, che non vanno al di là della nostalgia del fascismo storico, proprio in un momento in cui, anche nell’area dell’estremismo di destra, sorgono nuovi fermenti e soprattutto l’esigenza di ripensare la militanza politica neofascista in modo indipendente dal passato.

Proprio per queste ragioni, in quegli anni hanno successo anche in Italia le idee di Jean-Francǫis Thiriart, fondatore nel 1962 di Jeune Europe, teorizzatore del “comunitarismo”, vale a dire di una confusa visione politica che intende proporsi come sintesi e quindi superamento dell’opposizione fascismo-comunismo, che riprende e corrobora l’idea di Europa Nazione, come “terza via” possibile nel mondo della contrapposizione tra blocchi, che, assumendo posizioni di antiamericanismo ed antisionismo, intende tanto opporsi al neoimperialismo, appoggiando i paesi non allineati o simpatizzando per il “guevarismo”, quanto rifiutare il materialismo edonistico ed il meticciato privo di radici, rappresentati dal modello statunitense. Idee che attraggono i giovani italiani cresciuti nell’area della destra radicale, in cerca di idee alternative tanto a quelle del conservatorismo legalitario dell’MSI, quanto a quelle del golpismo vecchio stampo. È da qui che iniziano a dipanarsi i fili di un percorso politico di lungo periodo, che ancora oggi è chiaramente presente nelle posizioni “rosso-brune” variamente espresse di volta in volta da Forza Nuova o da Casa Pound.

Il decennio 1969-1979, che Vercelli definisce “La stagione delle bombe”, è contraddistinto dai tentativi sempre più evidenti della destra estrema italiana di tagliare il cordone ombelicale col fascismo storico vissuto in modo nostalgico, perché «paralizzante rispetto a qualsiasi concreta azione politica» (p. 103). Da queste premesse prendono il via diverse linee di sviluppo politico: una è quella che si rifà al nazionalsocialismo e ad altre forme di fascismo di movimento e di militanza legionaria come le già ricordate Guardie di Ferro rumene o le Croci Frecciate ungheresi, perché ritenuto più capace di fornire una visione globale ed organica del mondo, il primo, e un modello valido di militanza, di fatto molto simile a quello evoliano del “soldato politico”, le seconde. Si tratta di idee che sostanziano le posizioni radicalmente eversive di Franco Freda, che con il suo “La disintegrazione del sistema”, ricorda Vercelli, diviene una figura carismatica di primissimo piano per il mondo dell’ultra destra italiana. Il passaggio successivo è quello della costituzione di nuove formazioni eversive, che prendano il posto delle ormai tramontate formazioni storiche (Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), che rompano definitivamente – almeno nelle dichiarazioni – con l’MSI, considerato ormai come un partito di delatori, rinnegati, traditori compromessi col sistema che dovrebbero combattere e infine che, anche nel tentativo di competere con la forza superiore delle organizzazioni della lotta armata comunista, intraprendano la via dell’eversione terroristica, da interpretare nel modo più violento e duro possibile. Da queste premesse nascono sia Terza Posizione, di Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri, sia i Nuclei Armati Rivoluzionari, gruppo eversivo esclusivamente terroristico che in Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti trova l’esponente più rappresentativo della sua essenza criminale.

Sul piano ideologico Terza posizione ripropone la prospettiva “nazionalrivoluzionaria” e mescola idee vecchie e nuove del fascismo e del neofascismo italiani: allo “Stato organico” come superamento dei conflitti di classe, al fascismo come “terza via” e al “socialismo nazionale”, alla difesa della “tradizione”, al ruolo politico delle “avanguardie consapevoli”, si aggiungono la teoria dell’Europa Nazione, il rifiuto dell’atlantismo missino, il coinvolgimento popolare nella lotta rivoluzionaria, l’attenzione per le marginalità sociali e per il mondo giovanile e di conseguenza il radicamento nel territorio e nei quartieri con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione e protesta, il sostegno alle lotte di liberazione nazionale, ma in quanto interpretate come movimenti di salvaguardia delle tradizioni dei popoli. Delle due anime dell’organizzazione, una – precisa Vercelli – più spontaneista e una invece (quella di Fiore e Adinolfi) che ritiene «indispensabile dotarsi di una filiera gerarchica e paramilitare per garantire la continuità organizzativa» (p. 131), è la seconda a prevalere nettamente, mentre lo spontaneismo armato e violento trova nei NAR le condizioni ideologiche e pratiche per la sua realizzazione compiuta. «I NAR, quindi, si svilupparono da subito, di contro all’esperienza di Terza Posizione, come una struttura aperta e acefala, una sorta di sigla-brand sotto la quale potevano riconoscersi soggetti anche molto diversi, ma accomunati dall’identità fascista e dalla disposizione al ricorso alle armi» (p. 134). Fioravanti, la Mambro e tutti gli altri si rifanno, aggiornandola ed adattandola al contesto degli anni in cui i NAR sono operativi (1977-1982), alla tradizionale idea fascista del primato della prassi sulla riflessione, dell’azione che fonda e giustifica se stessa, della violenza come mezzo di lotta politica non solo lecito, ma assolutamente necessario, in quanto atto che permette l’affermazione della forza guerriera degli individui superiori e che pertanto ristabilisce il naturale ordine della disuguaglianza. L’esaltazione della violenza, del ricorso necessario alle armi, della spontaneità autogiustificante dell’atto di forza, da un lato e la debolezza e la labilità ideologiche, dall’altro, conducono i NAR ad intrattenere relazioni sempre più strette con organizzazioni della malavita comune, come la banda della Magliana o la mala del Brenta. Insomma, spiega Vercelli, l’esperienza politico-terroristica dei NAR si sviluppa in direzione di un nichilismo individualistico destinato a concretizzarsi in un bagno di sangue privo di alcun senso, cioè del tutto fine a se stesso. E ancora una volta sono suggestioni evoliane, quelle dell’ultima fase della riflessione del filosofo fascista, che impregnano e supportano l’agire della più violenta tra le formazioni dell’estrema destra eversiva italiana.

In quegli stessi anni, nell’area dell’estrema destra legale e in collegamento con il partito, si sviluppano però anche altre iniziative, che, di fronte alle difficoltà di conseguire concreti risultati politici, spostano l’asse della loro azione sul piano sociale e soprattutto culturale, cioè “metapolitico”, secondo l’espressione usata a destra e in questo contesto rientrano le esperienze dei tre Campi Hobbit (1977, 1978, 1980), che per la prima volta promuovono il fenomeno della musica e dei gruppi musicali di destra, oppure di esperienze e sperimentazioni artistiche, grafiche e comunicative che possano rappresentare forme nuove di aggregazione e mobilitazione per i giovani dell’estrema destra, stanchi delle modalità tradizionali missine e che in qualche modo possano emulare le forme aggregative dell’estrema sinistra, per competere con esse.

Con il passaggio al decennio successivo, in un quadro complessivo di riflusso e declino generalizzato della partecipazione e della militanza politiche, è proprio il piano “metapolitico” quello su cui a destra si lavora con più convinzione, attraverso un consistente numero di iniziative editoriali, spesso di bassissima tiratura e di effimera durata, ma che dimostrano in ogni caso una certa vivacità dell’area politica del neofascismo italiano, che si avvale anche delle idee della cosiddetta Nuova Destra di Alain de Benoist, che dalla Francia approdano in Italia. Il bagaglio ideologico rimane sostanzialmente sempre lo stesso degli anni e dei decenni precedenti, ma si lavora soprattutto sul piano “metapolitico” e “culturale”, anche attraverso il filtro della letteratura e dell’immaginario del genere fantasy e con il fine ultimo di conquistare una posizione di “egemonia culturale”, «intesa come capacità di influenzare in maniera decisiva l’opinione pubblica, orientandone gli atteggiamenti, le preferenze e, in immediato riflesso, le scelte» (p. 156).

L’ultima parte dell’interessante saggio di Vercelli è dedicata al periodo 1992-2019, dalla fine della prima Repubblica ad oggi, in cui va profilandosi lo scenario di un nuovo neofascismo, con la diffusione innanzi tutto del fenomeno dei gruppi skinhead (Azione Skinhead, Circolo Ideogramma, Veneto Fronte Skinhead, ecc) e con la loro capacità di infiltrazione delle tifoserie calcistiche ultras e poi con l’attivismo via via crescente delle due formazioni politiche più dinamiche in questi anni: Forza Nuova e Casa Pound Italia. La prima, nota Vercelli, è più evidentemente legata all’ex militanza e all’esperienza politica di Terza Posizione di Fiore ed Adinolfi e mantiene un’impostazione ideologica decisamente più dogmatica ed ortodossa che si incentra su tradizionalismo, vetero cattolicesimo, antisemitismo, omofobia, identitarismo, sovranismo, avversione per lo straniero e rifiuto del meticciato, antimondialismo, anticapitalismo, ma da intendersi non tanto come messa in discussione delle strutture del modo di produzione capitalistico, quanto piuttosto come avversione nei confronti del sistema bancario e finanziario internazionale (associato al sionismo). La seconda, seppur il suo armamentario ideologico non si discosti poi più di tanto e in modo sostanziale da quello di Forza Nuova, si propone come una formazione politica meno rigida e dogmatica, più capace di muoversi sul piano “metapolitico” e su quello del radicamento nel territorio e nei quartieri, con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione sociale. Nonostante che sul piano elettorale nazionale, entrambe le formazioni politiche abbiano raccolto esiti del tutto irrilevanti (diverso è il discorso riguardante le aree tradizionalmente di maggior radicamento), anche grazie alle recenti e sempre più frequenti relazioni di Casa Pound con la Lega di Salvini, gli obiettivi dei neofascisti di ottenere una posizione di maggiore visibilità e rilevanza e di “occupare” un’area dell’opinione pubblica e dell’immaginario diffuso con alcune delle idee fondamentali dell’estrema destra, sembrano purtroppo essere stati conseguiti. Ma questo è un discorso che merita maggiori approfondimenti e più accurate analisi, essendo una pagina ancora aperta e in fieri della storia “nera” italiana che dura esattamente da un secolo.

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Cattolici antisemiti 2/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/02/cattolici-antisemiti-2-2/ Tue, 02 Oct 2018 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48800 di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

[Qua la prima parte della recensione]

Di notevole interesse sono le riflessioni che Marino Ruzzenenti propone a partire dallo studio del caso spagnolo cinquecentesco degli Estatutos de limpieza de sangre e per dimostrare e ribadire come tra antisemitismo cattolico, che si vorrebbe religiosamente fondato e antisemitismo razzista moderno, basato sul concetto pseudoscientifico di razza, non vi siano quelle differenze e distanze che invece gli storici cattolici, anche [...]]]> di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

[Qua la prima parte della recensione]

Di notevole interesse sono le riflessioni che Marino Ruzzenenti propone a partire dallo studio del caso spagnolo cinquecentesco degli Estatutos de limpieza de sangre e per dimostrare e ribadire come tra antisemitismo cattolico, che si vorrebbe religiosamente fondato e antisemitismo razzista moderno, basato sul concetto pseudoscientifico di razza, non vi siano quelle differenze e distanze che invece gli storici cattolici, anche i più avveduti come Giovanni Miccoli, tendono a fissare con estrema fermezza. Quello spagnolo è proprio un esempio, il più chiaro ed importante storicamente, di razzializzazione degli ebrei, in quanto per gli Esatatutos, anche a fronte della conversione e del battesimo, il giudeo, rimaneva giudeo, il converso era comunque marrano.

Gli Esatutos servivano in buona sostanza proprio per escludere dalla vita civile e politica, dall’accesso alle cariche ecclesiastiche, politiche o militari i conversos, i cristianos nuevos, affinché rimanessero relegati nella condizione di casta inferiore rispetto ai critianos vejos, i veri spagnoli. Come a dire che – secondo Ruzzenenti a differenza di quanto sostenuto da Miccoli – in questo caso la condizione di “razza maledetta”, l’ebraicità considerata infamia judìa, non era affatto una condizione storica, storicamente determinata e quindi storicamente superabile con l’ingresso nella nuova fede, ma costituiva un qualcosa di sostanzialmente immodificabile, un dato di natura, una condizione razziale, appunto.

Gli Estatutos vennero introdotti a partire dal 1495, in una Spagna – considera Ruzzenenti – proiettata verso la creazione del suo impero, e che avvertiva fortemente l’esigenza di autodefinire se stessa, di darsi un’identità contrapposta a ciò che era percepito come “altro”, tanto che questo fosse un “diverso interno” (ebrei e mori), quanto che fosse “esterno” (gli indios). Analoga situazione si sarebbe riproposta secoli dopo nella Germania nazista, che, protesa verso la realizzazione del proprio “impero millenario”, avrebbe sentito il bisogno di fissare un’identità tedesca, di definire il germano, l’ariano e quindi anche la conseguente necessità di individuare un polo opposto, negativo, rispetto al quale determinarsi. Ed anche per il caso del fascismo italiano si possono avanzare considerazioni simili, se è vero – come ormai tutta la storiografia al riguardo sostiene – che il razzismo e l’antisemitismo italiani abbiano trovato il luogo della loro incubazione nell’Africa coloniale, dopo la proclamazione dell’impero abissino e con l’introduzione di pesanti provvedimenti razzisti e segregazionisti nei confronti delle popolazioni del Corno d’Africa e quindi in un momento, nella ventennale storia del fascismo, in cui il regime avvertiva l’esigenza di procedere speditamente alla costruzione di un “italiano nuovo”, pronto per affrontare oneri ed onori imperiali e quindi solidamente certo della propria identità e superiorità razziali.

Certo, nel caso dell’antisemitismo nazista e fascista sono chiari gli apporti della scienza che da fine Settecento e per tutto l’Ottocento aveva classificato e misurato crani, tratti somatici o pigmentazioni della pelle, aspetti questi che sarebbe anacronistico cercare nella Spagna del ‘4/500, dove la definizione delle categorie veniva operata sulla base prevalentemente di aspetti religiosi, ma tanto nell’uno quanto nell’altro caso, sul piano giuridico, quando cioè il legislatore dovette fissare criteri precisi di identificazione, si fece ricorso alla genealogia, nella convinzione – anche nella Spagna della prima età moderna – che la presenza in essa di parentele, anche lontane, di natura giudaica inquinasse inesorabilmente il sangue, non più limpido, non più spagnolo. Se ciò che si ritiene di dover difendere da corruzione è il sangue, risulta allora difficile, secondo Ruzzenenti, sostenere che l’antisemitismo cattolico sia stato solo di matrice religiosa, culturale e storica e non razziale. Gli Estatutos, quindi, servirono nella cattolicissima Spagna per creare una “casta”, una “razza” inesorabilmente e costitutivamente inferiore, cosicché i conversos rimanessero in una condizione di «permanente inferiorità civile e sociale» (p. 49), condizione che neppure l’acqua della fonte battesimale poteva modificare completamente.

Pertanto, nel caso di un antisemitismo che si vorrebbe presentare come solamente “religioso”, la genealogia e quindi la trasmissione dei caratteri da genitori a figli e discendenti – osserva puntualmente Ruzzenenti – servirono per definire chi fosse cristianos vejos o spagnolo e chi conversos o marrano, così come sarebbe successo negli anni Trenta del ‘900 per i Volljuden, i Mischlingen e gli ariani. E all’estremo opposto, cioè quello di un antisemitismo che si vorrebbe solo “razziale”, vista la difficoltà di utilizzare solo fattori genealogici e (pseudo)scientifici per la distinzione dei gruppi razziali, si fece ricorso, per l’applicazione delle Leggi di Norimberga, anche a criteri culturali e religiosi per individuare entrambi i poli dell’opposizione ariano-ebreo. Nel caso della definizione dell’ariano intervennero elementi come la lingua, la cultura, la religione, le tradizioni e i costumi, ovvero tutti quei fattori che cementavano il legame Blut und Boden tanto caro all’ideologia völkisch e, per classificare e determinare i Mischlingen o meticci, discriminanti erano anche aspetti religiosi come l’iscrizione ai registri della sinagoga o l’appartenenza e la frequentazione della comunità religiosa ebraica. Tutto ciò prova come la teoria di una precisa e netta separazione tra un razzismo solo religioso e uno solo razziale sia insostenibile e come il confine tra i due concetti sia impreciso e poroso e frequenti siano i punti di tangenza e sovrapposizione.

La seconda parte del lavoro di Ruzzenenti si concentra su aspetti e momenti dei rapporti tra antisemitismo e cattolicesimo interessanti e di cruciale importanza tanto quanto quelli sui quali in questa sede si è scelto di concentrare principalmente l’attenzione, ma senz’altro più noti ai lettori (e per questo qui di seguito considerati più superficialmente), poiché concernenti i pontificati di Pio XI e Pio XII, le relazioni tra la Chiesa cattolica e i regimi fascista e nazista ed infine la vexata questio della posizione della Chiesa di fronte alla Shoah. Nel caso italiano, Ruzzenenti parla di una evidente convergenza e di una duratura e proficua collaborazione tra fascismo e Chiesa cattolica, che però «non significò necessariamente perfetta consonanza, perché Chiesa cattolica da un canto e regime fascista dall’altro rappresentavano in modo diverso istituzioni “totalitarie”, con finalità proprie e distinte, in quanto tali tendenti a un primato esclusivo, che mal si conciliava con una pacifica cooperazione». (p. 96)

Ma, si potrebbe aggiungere, troppo importanti erano per entrambe le parti i benefici di quella alleanza, perché il sodalizio tra cattolicesimo italiano e fascismo non riuscisse a superare qualche motivo di screzio. Il caso tedesco fu, senza dubbio, diverso e più complesso per la Chiesa, che non usufruiva in Germania della posizione di monopolio assoluto assicuratale in Italia dai Patti lateranensi, in più era religione minoritaria rispetto al protestantesimo e dovette rapportarsi ad un regime che, a differenza di quello mussoliniano, che si ancorò senza reticenza alcuna alla tradizione religiosa cattolica italiana, aspirò a sostituirsi al cristianesimo, legando il popola a sé attraverso la fede laica del razzismo ariano.

Nella politica della Chiesa di pieno appoggio al fascismo e di collaborazione con il nazismo, l’antisemitismo non poteva che diventare elemento centrale e decisivo. Ruzzenenti studia le posizioni della Chiesa del tempo, come già fatto col pensiero di Toniolo, anche attraverso l’esame delle riflessioni di due figure centrali dell’intellighenzia vaticana: Agostino Gemelli, allievo di Toniolo, tra i fondatori del Ppi e soprattutto dell’Università cattolica e tanto altro ancora e Mario Bendiscioli, intellettuale cattolico, che poi sarà anche partigiano ed antifascista, ma che negli anni Trenta esprimeva le stesse posizioni ideologiche di Gemelli e delle componenti più reazionarie ed antisemite della Chiesa, come la più volte citata Civiltà cattolica.

Gemelli, convinto sostenitore del fascismo e tenace antisemita, colse nel Concordato l’occasione per compiere quella restaurazione della società cristiana dentro la modernità, ma contro di essa, che era già stato il progetto politico di Leone XIII, che permaneva anche in Pio XI e che era stato pensato pure da Toniolo. Numerose sono le affermazioni antisemite di Gemelli in interventi e discorsi pubblici, in cui il ricorso alla formula della perfidia giudaica conseguente al deicidio è frequente, al punto che si meritò pure l’apprezzamento – espresso mezzo stampa – di uno dei più fanatici antisemiti del regime: Roberto Farinacci. Bendiscioli tradusse il libro del francese naturalizzato inglese Hilaire Belloc – The Jews – testo di riferimento fondamentale per gli antisemiti del periodo e pubblicato poi da Vita e Pensiero di Gemelli nel 1934. Nel testo l’autore sosteneva la tesi della impossibile assimilazione degli ebrei e della necessità della loro separazione ed espulsione dal corpo della società; in sostanza si trattava di quella “segregazione amichevole” che la Chiesa fece propria e di cui si è già detto.

Sostiene Ruzzenenti che la Chiesa, a metà anni Trenta, con i suoi esponenti, organi ed ambienti antisemiti, per certi versi anticipò, quindi facilitò, lo scatenamento della campagna propagandistica antisemita italiana, che di lì a poco il fascismo avrebbe montato in maniera sempre crescente – anche nel contesto della svolta imperiale, della guerra d‘Etiopia e della politica demografica e razziale innescata da questa – e che poi sarebbe culminata nel famigerato e tragico 1938.

«Per conquistare il dominio del mondo, il giudaismo si serve delle due potenze più efficaci di dominazione del mondo: l’una materiale, l’oro, che è al presente il padrone assoluto del mondo, e l’altra ideale: l’internazionalismo. Quanto all’oro, già lo ha in massima parte in mano. Gli resta ad accaparrarsi del tutto l’internazionalismo. Il giudeo è per essenza internazionalista e cosmopolita. Internazionalista, perché il suo sogno messianico di dominazione mondiale non può conciliarsi con i nazionalismi; cosmopolita, perché, in ragione della sua adattabilità, si stabilisce da per tutto, e da per tutto è a casa sua» (p. 139)

Queste parole, in cui ritroviamo tutti gli stereotipi dell’antisemitismo e che facilmente si penserebbero pronunciate da un Giovanni Preziosi o da un Roberto Farinacci o urlate da un qualsiasi balcone d’Italia da Mussolini, furono invece scritte da un religioso – padre Barbera, direttore della Civiltà cattolica – nell’aprile del 1937 e costituiscono solamente uno dei numerosissimi esempi che Ruzzenenti propone per mostrare quanto la Chiesa fosse impregnata di antisemitismo ed impegnata in una politica antisemita su posizioni di sostanziale allineamento a quelle del regime.

Le divergenze circa la politica antisemita tra Chiesa e fascismo riguardarono principalmente due questioni, una giuridica e una teorica. La seconda era conseguenza del fatto che in «Italia vi erano i “razzisti biologici” alla Telesio Interlandi, poi direttore de La difesa della razza o gli “spiritualisti esoterici” alla Julius Evola, o “i fanatici antisemiti” alla Giovanni Preziosi o alla Roberto Farinacci, che riflettevano posizioni presenti in alcuni esponenti del nazismo». (p. 135) La Chiesa diffidava del razzismo “scientifico” ma soprattutto di quello “neopagano” ed anticristiano nazista e cercò in tutti i modi di far sì che l’antisemitismo italiano e fascista rimanesse fedele alla tradizione dell’antisemitismo cattolico. Insomma, vi era un antisemitismo “buono”, quello pensato e praticato dalla Chiesa, dai suoi più alti vertici e avvallato dal papa e uno “cattivo” perché anticristiano e neopagano. Proprio per evitare frizioni con il Vaticano – secondo Ruzzenenti – gli estensori del Manifesto degli scienziati razzisti del 14 luglio 1938 usarono certe parole e formule. Il punto 7 – È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti – infatti diceva: “La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano – nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono”.

Non è un caso che – fa notare Ruzzenenti – l’assenza di intenzioni filosofico-religiose, il carattere italiano dell’antisemitismo e la presa di distanza dall’antisemitismo nazista venissero immediatamente apprezzate dalla Chiesa attraverso la Civiltà cattolica, l’Osservatore romano e L’Avvenire d’Italia. E questo tornava comodo anche al regime che, in un paese in cui gli ebrei erano una esigua e quasi trascurabile minoranza, in cui l’emancipazione ottocentesca era avvenuta con successo e in cui non vi era un sentimento antisemita diffuso, il fascismo «cercò di tracciare un proprio percorso autoctono all’antisemitismo, con un’elaborazione in qualche modo originale, che nel caso italiano non poteva non raccordarsi all’unica tradizione antisemita nazionale, quella cattolica. […] Ciò che importa sottolineare è che la responsabilità di aver adottato una legislazione antisemita è da addossare interamente al fascismo e alla Chiesa cattolica che […] condivise quella scelta». (p. 156)

Per quanto concerne l’altro motivo di frizione, quello giuridico, riguardò la questione dei “matrimoni misti”, che le leggi del 1938 proibivano, con disappunto della Chiesa, intenzionata a tutelare, innanzi tutto, quanto stabilito dai Patti lateranensi, che riconoscevano valore civile al matrimonio religioso, dal pericolo di un’invasione di campo da parte del regime e, in secondo luogo, la possibilità di celebrazione del matrimonio tra un cattolico “ariano” e un ebreo “convertito”, quindi “cattolico” per la Chiesa, ma per il regime di “altra razza”. Come è facile comprendere, si trattava di una inezia, che non metteva minimamente in discussione l’impianto complessivo e lo spirito della legislazione antisemita del 1938, per la quale la Chiesa in più occasioni, attraverso i propri organi ufficiali, espresse chiari apprezzamenti. Ed inoltre, come doverosamente fa notare Ruzzenenti, nulla sarebbe cambiato per la sorte degli ebrei italiani, discriminati e perseguitati, se anche quel punto della legge, disapprovato dalla Chiesa, fosse stato emendato.

Anche in Germania e per le stesse ragioni, la questione dei matrimoni misti dal 1935 aveva dato il via ad una polemica tra Chiesa cattolica e regime nazista, a cui si aggiungeva però un motivo di critica e dissenso di superiore peso specifico. Si trattava di ciò che papa Pio XI espresse nella molto nota Mit brennender Sorge, del marzo 1937, dalla storiografia cattolica, ricorda Ruzzenenti, spesso citata con l’intento di avvalorare la tesi dell’opposizione al nazismo della Chiesa stessa. In realtà ciò che il papa esprimeva con quell’enciclica era la preoccupazione per la diffusione in Germania di un neopaganesimo nazista ed anticristiano dal Vaticano deprecato e di un etnicismo razzista assurto a ruolo di fede religiosa e pertanto inaccettabile per una Chiesa cattolica intenta nella restaurazione dell’ordinamento cristiano della società dentro alla modernità. Per le stesse ragioni, osserva Ruzzenenti, il testo più importante di Alfred Rosenberg, Il mito del XX secolo, in cui il massimo ideologo del nazismo ipotizzava una riforma religiosa che eliminasse il Vecchio Testamento e le radici ebraiche del cristianesimo, fu dalla Chiesa condannato e proibito. Erano il razzismo e l’arianesimo assurti a dogma religioso e le derive neopagane ed anticristiane del nazismo – con il conseguente rischio di una loro diffusione anche oltre la Germania – che preoccupavano il Vaticano, che si guardò bene però dal condannare il nazismo in quanto tale, dal ridiscutere o sospendere il Concordato col regime hitleriano firmato nel 1933, dal denunciare la barbarie delle Leggi di Norimberga.

Marino Ruzzenenti in questo suo denso libro di poco più di duecento pagine fornisce un quadro estremamente dettagliato e complesso della problematica affrontata e suggerisce numerose piste di indagine per ulteriori studi e ricerche e rende evidente come, da parte della Chiesa cattolica, considerata la portata e la lunghissima storia del suo coinvolgimento nella questione dell’antisemitismo, sarebbero opportuni dichiarazioni ed atti ben più autocritici delle omertose parole del documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (1998), stilato dalla Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo della CEI, durante il pontificato di Giovanni Paolo II.

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Cattolici antisemiti 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/09/25/cattolici-antisemiti-1-2/ Mon, 24 Sep 2018 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48795 di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

Alcune delle ragioni che rendono apprezzabile il libro di Marino Ruzzenenti sono la chiarezza delle tesi esposte, la precisione ed il rigore con cui vengono sostenute ed argomentate alla luce di una corposa documentazione e di ricchi riferimenti storiografici. Idee e punti di vista probabilmente destinati a ridestare discussioni tra gli studiosi, in realtà mai del tutto sopite, ovvero fra i sostenitori della discontinuità tra antisemitismo religioso (e cattolico in [...]]]> di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

Alcune delle ragioni che rendono apprezzabile il libro di Marino Ruzzenenti sono la chiarezza delle tesi esposte, la precisione ed il rigore con cui vengono sostenute ed argomentate alla luce di una corposa documentazione e di ricchi riferimenti storiografici. Idee e punti di vista probabilmente destinati a ridestare discussioni tra gli studiosi, in realtà mai del tutto sopite, ovvero fra i sostenitori della discontinuità tra antisemitismo religioso (e cattolico in particolare) ed antisemitismo razziale (premessa e causa della Shoah) e i fautori della tesi della tangenza e convergenza, senza una sostanziale soluzione di continuità, tra le due principali modalità storiche di odio antiebraico.

L’autore – che delimita il campo altrimenti sterminato del suo studio, chiarendo l’intenzione di considerare esclusivamente le posizioni ufficiali ed istituzionali della Chiesa riguardo agli ebrei ed in particolare a partire dal pontificato di Leone XIII e non altri aspetti del problema dei rapporti tra il mondo cattolico, gli ebrei d’Europa e la Shoah – appoggia risolutamente la tesi della consequenzialità e continuità e pertanto, fin dalle prime pagine, prende le distanze da quello che considera un apriori storiografico dogmatico, osservato – salvo qualche rara eccezione – non solo da tutti gli storici cattolici, ma anche da buona parte degli storici laici ed ebrei, forse preoccupati questi ultimi di non incrinare i rapporti tra ebraismo e Chiesa. Un apriori che distanzia l’antisemitismo cristiano (per questo il più delle volte chiamato antigiudaismo) da quello razzista (nazista in particolare) ed eliminazionista, sostenendo che il primo non si fondi su principi razziali, ma solo religiosi e che abbia come suo fine la conversione, il cui conseguimento estinguerebbe il disprezzo e l’ostilità.

Secondo Marino Ruzzenenti codesta interpretazione dei fatti risulta essere funzionale, in buona sostanza, ad una lettura riduzionistica del ruolo svolto dalla Chiesa nella elaborazione delle categorie dell’odio antisemita e nella loro diffusione, proprio nel momento storico decisivo per lo sviluppo del razzismo come ideologia forte del pensiero e della cultura occidentali, cioè in quella seconda metà dell’Ottocento in cui sul soglio pontificio a Pio IX succede Leone XIII. Ecco allora perché l’assunto aprioristico della netta differenza propende per la separazione tra le posizioni di certi ambienti ecclesiastici, come la rivista dei gesuiti – la Civiltà cattolica – su posizioni rozzamente e grossolanamente antisemite ed il papato, quello di Leone XIII e della sua Rerum Novarum, presentato come un pontificato “sociale e liberale”. Rappresentazione lontana dalla realtà storica dei fatti, secondo Ruzzenenti, che sostiene e spiega come il papa stesso sia stato attore in prima persona della politica antisemita della Chiesa tra ‘800 e ‘900, cioè nel momento storico in cui si formarono le idee che poi sarebbero tragicamente confluite nell’antisemitismo genocida della Shoah.

In sintesi Ruzzenenti ritiene che per pesantezza delle accuse rivolte, per virulenza degli attacchi, per persistenza storica del fenomeno, per corrispondenza quasi perfetta tra provvedimenti discriminatori adottati (o auspicati) da Chiesa e stati cristiani nel passato e dalle legislazioni razziali degli anni Trenta del ‘900 poi, l’antisemitismo cattolico abbia agito da premessa, da presupposto propedeutico allo scatenamento dell’antisemitismo razziale. Infatti, anche l’argomento secondo il quale l’ostilità antiebraica cattolica non avrebbe contenuti e connotati razzisti – poiché contrari ai fondamenti della fede cristiana – è privo, pensa l’autore, di cogenza logica, dal momento che l’attribuzione collettiva e sulla base di stereotipi e pregiudizi di colpe e misfatti, il determinismo che vincola necessariamente l’individuo e il suo comportamento al gruppo e alle sue presunte caratteristiche, la trasmissione ereditaria e persistente nel tempo di quei medesimi caratteri sono tutti aspetti essenziali del razzismo, tanto che abbia il suo fondamento in principi teologico-religiosi, quanto che li ritrovi in teorie pseudoscientifiche. E la “perfidia del popolo deicida” – per racchiudere in questa formula tutti i possibili stereotipi antisemiti – che apparterebbe a tutti i “giudei” in quanto tali, che ne determinerebbe inesorabilmente i comportamenti, che si trasmetterebbe di generazione in generazione, per secoli e millenni, non può non essere considerata la base granitica di un “razzismo antisemita religioso”, che neppure l’eventuale ed auspicata conversione alla “vera fede” elimina del tutto, come dimostra – afferma Ruzzenenti – il caso spagnolo degli Statuti di Limpieza de sangre del ‘500.

Di sicuro interesse sono poi le analisi che Ruzzenenti propone di due casi quanto mai significativi a supporto della tesi principale dell’intero suo lavoro: si tratta delle vicende dei partiti cristiano-sociali austriaco e francese, cioè di due paesi di radicatissima tradizione cattolica, che dal pontificato di Leone XIII ricevettero incentivo e sostegno alla partecipazione alla vita politica e all’impegno nella società. È noto quanto contemporaneamente molto differente fosse la situazione del mondo cattolico italiano, ancora per molto tempo vincolato al rispetto del non expedit di Pio IX e quindi anche per questo i casi austriaco e francese risultano ancora più decisivi per comprendere quali fossero i tratti essenziali e la cornice complessiva del pensiero sociale della Chiesa nell’ultimo quarto del secolo XIX. Quello austriaco fu il primo partito cristiano-sociale a prendere il potere e a conquistare posizioni di governo in Europa, quindi dalla Chiesa fu visto quasi come un avamposto del progetto del Vaticano di spingere il laicato cattolico all’impegno nel mondo civile e sociale, al fine di ricristianizzare la società moderna, cioè quella modernità che al controllo della Chiesa aveva iniziato a sfuggire alla fine del secolo precedente, con la rivoluzione francese e il pensiero illuministico.

Nell’interpretazione dei fatti di Ruzzenenti, ciò che muoveva l’attenzione della Chiesa per la società moderna, interesse poi espresso organicamente nella Rerum Novarum, non erano l’intento del dialogo con essa, la ricerca di una mediazione delle posizioni o la volontà di rendere moderna la Chiesa, ma, tutto al contrario, un progetto neoteocratico di ri-cristianizzazione della società laica moderna, del quale l’antisemitismo era parte integrante. E le presunte aperture della Rerum Novarum, tanto valorizzate dalla storiografia cattolica, in realtà rientravano in una complessiva visione conservatrice e statica della società, che leggeva le dinamiche sociali secondo modalità tradizionali e che criticava la modernità e i suoi prodotti, cioè tanto il capitalismo quanto il marxismo, visti come espressioni complementari di uno spirito moderno materialista ed ateo ed entrambi messi in relazione all’ebraismo, che, dopo l’emancipazione iniziata a fine Settecento, era considerato dalle forze politiche e sociali conservatrici come causa e al contempo effetto della modernità stessa e comunque ad essa consustanziale. Capitalismo e marxismo, l’uno dal lato dell’individualismo liberale e l’altro da quello del collettivismo socialista, erano giudicati come prodotti dello spirito giudaico e del suo razionalismo materialista.

Dopo l’elezione al soglio pontificio di Leone XIII, nel 1878, partiti cattolici come quello austriaco e quello francese furono spinti all’azione dal Vaticano, nel quadro generale della politica voluta dal papa di lotta contro la modernità, contro la civiltà moderna laica e liberale e sulla base del collante ideologico dell’antisemitismo, che avrebbe assicurato ottime possibilità di presa e di diffusione nella due società. Il tutto si reggeva sull’equazione per cui il giudaismo, emancipato ed assimilato, coincideva con la massoneria, quindi con le forze laiche, illuministiche, razionalistiche che con la rivoluzione francese avevano preso il comando della società “moderna”, capovolgendo quella “naturale”, poiché “cristiana”, dell’ancien régime. La lotta contro la modernità era quindi tout court una lotta contro gli ebrei e le loro cospirazioni massoniche. Alla modernità la Chiesa contrapponeva il programma di una riorganizzazione sociale corporativa e al confronto tra capitale e lavoro e allo scontro di classe sostituiva l’idea dell’armonia sociale da conseguire ricollocando la Chiesa stessa al centro della società, in posizione di guida e comando.

È illuminante e meritevole di ulteriori approfondimenti l’idea di Ruzzenenti che sembra cogliere uno dei presupposti del processo di avvicinamento e poi di stretta alleanza tra cattolicesimo e fascismo in una comune e convergente visione complessiva della società e delle sue dinamiche economiche: si tratta di quel corporativismo che, mutatis mutandis, dalla dottrina sociale della Chiesa a inizio ‘900 passò al nazionalismo italiano e da questo al fascismo, divenuto prima forza di governo e poi regime. Di questa complessiva visione della società parte essenziale – e quindi anello di congiunzione decisivo tra cattolicesimo e fascismo – era l’antisemitismo, che la Chiesa coltivava ed esprimeva da moltissimo tempo e che il fascismo adottò da un certo momento in poi e – come è ben noto – con esiti nefasti per gli ebrei italiani.

Questo importante nucleo tematico viene di seguito approfondito da Ruzzenenti nelle pagine dedicate al pensiero di Giuseppe Toniolo (o di Agostino Gemelli), figura assolutamente centrale per la genesi e lo sviluppo del pensiero economico sociale del cattolicesimo italiano, e non solo, e padre nobile del movimento cattolico italiano novecentesco. Toniolo elaborò una organica e generale teoria economica che intendeva, per sua stessa dichiarazione, muovere una critica del capitalismo moderno, dopo averne colto genesi e sviluppo e con finalità restauratrici, cioè con l’idea di ripristinare l’ordine sociale cristiano tradizionale. Si tratta di quella “neoteocrazia della modernità” che Ruzzenenti attribuisce al pontificato di Leone XIII come sua cifra essenziale, ovvero del «progetto di ricondurre il progresso tecnologico, industriale ed economico (le rerum novarum, appunto) all’interno di una società cristianamente ordinata secondo i principi eterni della Chiesa e della potestà divina rappresentata sulla terra dal pontefice, come vigeva nell’aura età media». (p. 77) Per questo Giuseppe Toniolo propose una “filosofia della storia” secondo la quale lo spirito laico e razionalistico del Rinascimento e poi a seguire il protestantesimo avrebbero sovvertito l’ordine naturale e divino delle cose e della società, introducendo un sistema economico e relazioni sociali incentrate esclusivamente sul principio del profitto individuale che causa eccessiva disuguaglianza. Insomma si tratta di quel capitalismo delle origini che trovò, secondo Toniolo, nel mutuo feneratizio, nel monopolismo e nel commercio speculativo i suoi pilastri fondamentali; in altre parole quello che, se volessimo attualizzare i concetti dell’economista cattolico, oggi chiameremmo capitalismo finanziario o finanziarizzazione dell’intera economia o subordinazione dell’economia produttiva all’economia finanziaria e speculativa.

Nel medioevo era stata la Chiesa a porsi come argine a queste storture economiche e sociali e, secondo il pensatore ed economista cattolico – dal 2012 beato, per decisione di papa Benedetto XVI – aveva tentato di opporsi alla deriva della società istituendo e promuovendo il sistema dei Monti di pietà, come alternativa alla speculazione, immancabilmente – anche per Toniolo – monopolizzata dagli ebrei. Ecco il punto saliente, pure secondo Toniolo, la degenerazione capitalistica della modernità costituiva un tutt’uno con l’imposizione dell’egemonia del dominio giudaico all’interno delle società cristiane. Lo strumento vincente di questo progetto/complotto giudaico per il controllo del mondo cristiano era quindi quello economico-finanziario.

L’anticapitalismo di Toniolo – come risulta dalle riflessioni di Ruzzenenti – cioè quello della dottrina sociale della Chiesa di Leone XIII, quello della Rerum Novarum, quello dei partiti cattolici sorti e promossi dal Vaticano in Austria, Francia e altri paesi cattolici, quello che poi a inizio ‘900 in Italia fu espresso anche dal nazionalismo e che in seguito, sia attraverso quest’ultimo sia grazie alla politica di avvicinamento tra fascismo e cattolicesimo, entrò nel fascismo era reazionario, antimoderno e apertamente antisemita.

Tornando ai partiti cristiano-sociali, quello austriaco fece breccia soprattutto presso la piccola borghesia, spaventata dal marxismo ed egualmente dal grande capitale e dalla modernità, che venivano identificati con l’ebraismo. A questo si aggiungevano numerosi elementi di nazionalismo völkisch, che sostenevano l’idea della contrapposizione inconciliabile tra Judentum e Deutschtum. Nel programma del partito del 1894 si ritrovano affermazioni antisemite sconcertanti, così come nei discorsi, ampiamente riportati da Ruzzenenti, del suo più importante leader Karl Lueger. Tutto questo non solo era noto alla Chiesa, ma – sottolinea l’autore – approvato dal Vaticano e da papa Leone XIII, nonostante alcune perplessità espresse da certi gruppi o esponenti del mondo cattolico viennese. Un così diffuso antisemitismo, in buona parte dovuto anche al solido e duraturo successo del partito cristiano sociale austriaco, può aiutare a capire – osserva Ruzzenenti – perché la “piccola” Austria, una volta annessa al Terzo Reich nel 1938, abbia dato un contributo percentualmente altissimo alla messa in opera delle politiche antisemite naziste e della Shoah.

Analogo è il caso francese del partito cattolico denominato “Democrazia cristiana”, che attinse a piene mani alle idee del campione indiscusso dell’antisemitismo francese dell’epoca: Édouard Drumont, autore de La France juive e fondatore del giornale reazionario ed antisemita La Libre Parole. Pure in questo caso, aiuti ed appoggi da parte del Vaticano e del papa agli ambienti e ai gruppi antisemiti francesi non tardarono ad arrivare, così come a tutto il fronte antidreyfusardo. La vittoria della Francia laica nell’affaire Dreyfus, paradossalmente, peggiorò la situazione, perché gli ambienti cattolici antisemiti si convinsero ancora di più che ci fosse un complotto ebraico in atto e che avesse ormai irrimediabilmente conquistato la guida del paese. È questo l’humus, alla crescita del quale la Chiesa cattolica contribuì in maniera fondamentale, da cui si sviluppò il partito dell’Action française di Charles Maurras, che fu antisemita, nazionalista, fascista, filomussoliniano, filofranchista e che animò la politica della Repubblica di Vichy, emanando una legislazione antisemita, senza che vi fosse alcuna esplicita richiesta o pressione da parte dell’occupante tedesco e che guidò il rastrellamento degli ebrei francesi per la loro deportazione a est.

Nel novembre del 1896 – ricostruisce Ruzzenenti – «nel periodo infuocato dell’affaire Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale della Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale». (p. 25) Il congresso discusse sulle norme antiebraiche la cui adozione il partito avrebbe sostenuto e promosso e ne individuò cinque; le prime due dichiaravano: «1. Il decreto del 1791, che ha dato il diritto di cittadini francesi agli ebrei, deve essere abolito. 2. Nel frattempo, gli ebrei devono essere esclusi dall’insegnamento pubblico, dalla magistratura, dagli impieghi amministrativi e dai gradi dell’esercito». (p. 27) È sin troppo facile osservare come questi provvedimenti, insieme ad altri, sarebbero stati adottati in seguito dalle legislazioni antisemite dei fascismi del XX secolo. In sostanza – conclude Ruzzenenti – si può sostenere che in Francia l’antisemitismo, profondamente radicato a fine ‘800 e inizio ‘900 e dai toni violentissimi, sia nato, si sia sviluppato e diffuso all’interno del mondo cattolico, sulla base del tradizionale odio antiebraico cristiano-cattolico e con l’aperto appoggio del Vaticano.

Tra gli organi della Chiesa che più si impegnarono nella politica antisemita, la Civiltà cattolica fu certamente in prima fila ed in particolare per opera – ricorda Ruzzenenti – di padre Giuseppe Oreglia, autore di numerosissimi articoli trasudanti un antisemitismo virulento. Nelle pagine della Civiltà cattolica si realizza anche il passaggio senza soluzione di continuità tra “antigiudaismo” e “antisemitismo” per mezzo della “razzializzazione” degli ebrei, che vengono esplicitamente definiti “razza” e in quanto tali, cioè in quanto “razza”, a loro vengono attribuite le peggiori caratteristiche dello stereotipo antisemita. È all’interno di questo quadro ideologico complessivo che la Chiesa spinse in Austria e Francia i partiti cattolici alla partecipazione all’agone politico, in vista di un progetto di riconquista cristiana della società, per la realizzazione del quale l’arma principale da utilizzare era proprio l’antisemitismo, al punto che fu la Chiesa stessa a richiedere per prima l’adozione di legislazioni speciali antiebraiche già a fine ‘800.

«Inoltre, ed è il caso di sottolinearlo, lo stesso Oreglia in un articolo del 1880 ipotizzava esplicitamente misure restrittive nei confronti degli ebrei in Europa, come la negazione della cittadinanza, la confisca dei beni e delle proprietà terriere, l’allontanamento dall’insegnamento e dal giornalismo, in buona sostanza i provvedimenti che, come abbiamo visto, diventarono a fine secolo programma politico dei partiti cattolici francese e austriaco e che, mezzo secolo dopo, formeranno l’ossatura della legislazione antisemita nazista e fascista». (p. 35)

Ed è sempre la Civiltà cattolica che arriva alla elaborazione del concetto della “segregazione amichevole”, che di fatto la Chiesa manterrà anche successivamente e che le permise non solo di tollerare, ma addirittura di considerare come opportuni molti dei provvedimenti antisemiti delle legislazioni razziali fasciste. Sulla rivista dei Gesuiti nel 1881 si leggeva: «Ma […] può ognuno congetturare quanta sia la sapienza dei moderni legislatori che, seguendo i principii liberali e massoni, tolsero ogni freno di leggi eccezionali a una razza forastiera a ogni paese dove abita; e quanto sia per essere vana e fuoco di paglia qualsivoglia agitazione antisemita, la quale non riconduca una legislazione speciale per gli ebrei; in forza di cui essi non siano già perseguitati o vessati, ma difesi e frenati contro sé medesimi e le loro vessazioni e persecutrici tendenze sempre riuscite fatali prima ai popoli che non seppero frenarli e poi agli stessi ebrei; contro i quali presto o tardi suole poi sempre prorompere l’odio e la vendetta popolari». (p. 37) Insomma, è da loro stessi – e dalla loro connaturata malvagità – che gli ebrei devono essere difesi, quindi segregati, come il sistema medievale dei ghetti aveva fatto in passato, in quella “età d’oro” della società cristiana che la Chiesa di fine ‘800 vorrebbe restaurare.

Sulla base di queste considerazioni, sostiene Ruzzenenti, continuare a dire che l’antigiudaismo religioso della Chiesa cattolica sia stato costitutivamente altro dall’antisemitismo razziale dei fascismi successivi appare argomentazione speciosa ed altrettanto si dovrebbe dire delle reticenze della storiografia cattolica nel riconoscere l’antisemitismo del pontefice, che viene percepito come una contraddizione rispetto alle presunte aperture alla società e alla modernità della Rerum Novarum, aperture che in realtà si muovono in tutt’altra direzione, cioè in quella di una “restaurazione neoteocratica“. Insomma si potrebbe dire che per Ruzzenenti definire Leone XIII un “papa sociale” perché emanò la Rerum Novarum sarebbe come pensare – come si erano illusi di poter fare i neoguelfi di metà 800 – a Pio IX come a un “papa liberale” solo perché indirettamente diede inizio al biennio delle riforme. La vera differenza tra i due papi, secondo Ruzzenenti, sta nel fatto che Pio IX dopo il Sillabo e la Quanta Cura si arroccò su posizioni di intransigente chiusura e rifiuto di dialogo con la modernità, mentre Leone XIII volle entrare nell’agone politico e sociale per creare un argine al laicismo, al liberalismo, alla democrazia e soprattutto al socialismo, assumendo una posizione attiva e di attacco alla modernità, ma uguale rimaneva il fondamento ideologico dei due papi. Per questi fini Leone XIII rispolverò il tomismo e lo impose come paradigma della visione della società, promuovendo una sorta di medievalismo a cavallo tra ‘800 e ‘900.

[continua]

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