antagonisti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 09 May 2025 06:05:47 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Curve pericolose https://www.carmillaonline.com/2022/04/15/sport-e-dintorni-curve-pericolose/ Fri, 15 Apr 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71365 di Gioacchino Toni

Giuseppe Ranieri, Matthias Moretti, Curve pericolose. Antagonisti, sovversivi, antifa: quando le gradinate minacciano il potere, Il Galeone editore, Roma 2021, pp.

“Fuori la politica dalle curve” è un adagio spacciato come espressione di semplice buon senso che risuona, online come offline, tutte le volte che qualcuno, forse non sapendo cosa altro dire, tenta/spera di spostare un discorso che rischia di infrangere la bolla in cui il giocattolo calcio “dovrebbe” essere mantenuto, come si trattasse di un videogioco destinato ad essere separato dal mondo fuori-schermo. Ma se nemmeno l’universo videoludico è [...]]]> di Gioacchino Toni

Giuseppe Ranieri, Matthias Moretti, Curve pericolose. Antagonisti, sovversivi, antifa: quando le gradinate minacciano il potere, Il Galeone editore, Roma 2021, pp.

“Fuori la politica dalle curve” è un adagio spacciato come espressione di semplice buon senso che risuona, online come offline, tutte le volte che qualcuno, forse non sapendo cosa altro dire, tenta/spera di spostare un discorso che rischia di infrangere la bolla in cui il giocattolo calcio “dovrebbe” essere mantenuto, come si trattasse di un videogioco destinato ad essere separato dal mondo fuori-schermo. Ma se nemmeno l’universo videoludico è davvero una realtà a sé stante rispetto a quella che lo ha progettato, prodotto, immesso sul mercato e che lo utilizza, figurarsi se può esserlo quel carnaio umano che sfoga, nel bene e nel male, le sue passioni e le sue frustrazioni sugli spalti di uno stadio.

Certo, se si intende con il termine “politica” quella sorta di show televisivo propinato quotidianamente a reti unificate – nei confronti del quale persino i dibattiti sul nulla messi in scena, anticipando i tempi, dal Processo del lunedì di Biscardi sembravano più seri –, allora che questa politica resti davvero lontana dalle curve, ma se – scrivono Giuseppe Ranieri e Matthias Moretti nel loro Curve pericolose – si intende per “politica” «la voce collettiva che si alza da una comunità di persone, su un qualsiasi argomento che riguarda quella collettività», allora occorre accettare il fatto che «una curva è senza dubbio una comunità di persone, oltretutto molto coesa per via di un’appartenenza profondamente vissuta e molto semplice da intraprendere», dunque diventa chiaro che «non esiste, e non può esistere, una curva “totalmente apolitica”, per quanto ce ne siano molte che si professano tali».

Non mancano di certo tifoserie che esprimono precisi orientamenti politici e, quando ciò avviene, in linea con una propensione ultras votata ad esasperare tutto, si tratta facilmente di posizionamenti attorno ad immaginari politici estremi. Così come vi sono casi di convivenza di sensibilità politiche anche molto diverse all’interno della stessa curva e, a volte, persino dello stesso gruppo. «C’è poi da considerare il senso del branco, fortissimo nelle dinamiche di stadio e influente anche sugli aspetti “politici”: spesso basta che avanguardie riconosciute all’interno della curva siano nettamente schierate, per fare in modo che la massa le segua nell’intonazione di certi cori e nell’esposizione di certi simboli, cosicché sembra che ci sia una forte consapevolezza politica che pervade tutti; in realtà spesso non è così, ed è una “militanza della domenica” che poi non trova seguito nella vita quotidiana, e questo vale tanto a destra quanto a sinistra».

Se, come detto, l’adagio “fuori la politica dalle curve” non ha molto senso, qualche riflessione merita anche lo slogan “fuori i fascisti dalle curve”: non solo, come affermano gli autori del libro, occorrerebbe chiarirsi circa chi dovrebbe farsi carico dell’incombenza, ma, si può aggiungere che, sotto alla pur apprezzabile intenzione, pare aleggiare, nuovamente, l’idea dello sport come luogo al riparo dal resto della società. Cacciare dalle curve i fascisti è di certo lodevole ma rischia di tradursi in un relegare il problema là fuori, lontanto dal sacro agone sportivo-campanilistico, nella società, tra le brutture quotidiane dei suoi quartieri.

Curve pericolose racconta storie di “aggregazioni da stadio” che hanno saputo interpretare i sentimenti e le pulsioni di rottura propri di comunità urbane, quando non addirittura nazionali, che in alcuni momenti e in determinate circostanze hanno voluto e saputo opporsi al potere. Le tifoserie a cui viene fatto riferimento nel volume non sono state selezionate in base ad una semplicistica “conta” dei vessilli con l’effige del Che o delle stelle rosse riprodotte sugli striscioni, quanto piuttosto per l’essere state nei fatti “curve pericolose” per l’ordine costituito, per il protagonismo dispiegato al fine di migliorare la propria situazione di esistenza insieme a quella della comunità di appartenenza.

Per scendere nel concreto, gli esempi delle rivolte in Turchia contro il regime di Erdogan, guidate nelle piazze dagli ultras delle varie squadre uniti nella causa comune, così come l’azione di varie tifoserie nordafricane nell’epoca alle cosiddette “primavere arabe” e in quella successiva, rappresentano esempi interessantissimi di sfida aperta al potere costituito, pur non potendosi inserire comodamente nei nostri schemi ideologici […] Ci saranno quindi, senza dubbio, le storie inserite in modo più chiaro nella tradizione politica della sinistra rivoluzionaria, ma anche qui, spaziando in giro per il mondo, vediamo che le sfaccettature sono tantissime, perché nei diversi angoli della terra e nelle diverse epoche cambiano i rivoluzionari così come cambiano i nemici da combattere. Ci saranno vicende che affondano le radici nella storia lontana, nella fondazione stessa dei club e nelle lotte contro le potenze coloniali, per affermare la propria indipendenza, come nel caso del Celtic Glasgow, baluardo irlandese, cattolico e proletario nel cuore del Regno Unito, che per forza di cose non poteva che avere una storia di totale antagonismo; o come nel caso dei Paesi Baschi e della Catalogna e delle loro espressioni sportive all’interno di una lotta irriducibile per l’indipendenza e l’autodeterminazione politica; o ancora, come quella dell’Omonia Nicosia, baluardo internazionalista in un paese in cui il cancro del nazionalismo su base etnica ha portato grandi tragedie. D’altro canto ci saranno storie di contrapposizioni nate al contrario in epoche del tutto recenti, come accade in paesi come Israele e Stati Uniti, che spesso consideriamo (a ragione) avamposti del peggiore oscurantismo imperialista, ma dove allo stesso tempo fioriscono anche gli antagonismi, e negli ultimi anni fioriscono anche e soprattutto sulle gradinate. Attraverseremo, come detto, le piazze bollenti della Turchia e del Nordafrica, ma anche le altrettanto roventi città dell’America Latina che si rivoltano contro i governi della destra neoliberista e nostalgica delle dittature fasciste del Novecento. Perché in quelle città c’è anche un inestimabile ed enorme patrimonio di lotte e movimenti sociali, e quindi, manco a dirlo, ne sono piene anche le curve. Non mancheremo poi di soffermarci, grazie anche a preziosi contributi di cari amici, su piazze europee coerentemente presenti nelle lotte anticapitaliste degli ultimi decenni, come quelle greche e quella del Sankt Pauli, o come quelle delle torride e tragiche giornate di Genova 2001, così strettamente connesse ai movimenti politici e sociali che si battono senza sosta contro lo stato di cose presente.

Nell’affrontare in questo volume il fenomeno ultras, rifacendosi alle categorie dei banditi, dei ribelli e dei rivoluzionari proposte da Eric Hobsbawm, secondo gli autori la categroria a cui possono essere associati gli ultras è quella dei banditi, in particolare gli aiduchi, che lo storico inglese «indicava come la forma più alta di banditismo primitivo: un uomo libero che non si considera da meno dei signori, che vive nell’anonimato ai margini della società dotandosi di strutture sociali, combatte contro gli oppressori, ma non è legato ad approvazioni morali che siano differenti dalla propria, in una dimensione prepolitica e potenzialmente in perenne rivolta».

Ranieri e Moretti individuano in questo

un ritratto chiaro di chi si ritrova idealizzato suo malgrado, proprio come gli ultras quando si sono ritrovati a scendere in piazza dando anima all’adagio “ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle strade”, ma spesso senza quell’intenzionalità che gli è stata affibbiata a posteriori per romanticizzarne i tratti. Molto più prosaicamente, la gentrificazione del calcio e la normalizzazione delle curve a un certo punto sono diventate tasselli fondamentali della ristrutturazione sociale che impone il nuovo corso neoliberista, e coloro che avrebbero dovuto tradurre in pratica questo nuovo paradigma facendolo rispettare alla “plebe” sarebbero stati i medesimi attori di sempre: i presidenti oligarchi a raccogliere i frutti più maturi e le forze dell’ordine a fare rispettare il nuovo ordine. Proprio la commistione tra la capacità – propria degli ultras – di fronteggiare queste ultime senza paura e l’allergia a ogni forma di autorità e alle gerarchie sociale imposte dall’esterno sono i motivi per cui è nato questo libro, in cui si è cercato di rintracciare analogie e differenze tra i vari casi [evidenziando] come certi gruppi, a prescindere dal reale attivismo propriamente politico, costituiscano quasi una subcultura nazionale capace di coagulare generazioni di ribelli, reietti e sognatori che spesso la prima volta che sono scesi in piazza non avevano altra bandiera per cui battersi se non quella della propria squadra del cuore.

Soprattutto di questi tempi è difficile non pensare a quanto alcuni settori dell’universo ultras abbiano, nei fatti, finito per fare da manovalanza al potere in diverse sue sfaccettature, dalla criminalità organizzata ai gruppi militari. Di certo le curve rappresentano una palestra di violenza e autoritarismo che hanno trovato sbocchi persino nel più infame e sanguinario nazionalismo in mimetica – basti pensare ai conflitti nei Balcani e in Ucraina –, il volume di Ranieri e Moretti ha il merito di ricordare e raccontare come le curve siano però anche spazi d’intervento e di vita per antagonisti, sovversivi e antifascisti ostili al potere in tutte le sue forme.

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Noe Itō, anarchica e femminista giapponese https://www.carmillaonline.com/2018/12/05/noe-ito-anarchica-e-femminista-giapponese/ Wed, 05 Dec 2018 22:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49942 di Gioacchino Toni

Francisco Soriano, Noe Itō. Vita e morte di un’anarchica giapponese, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 116, € 13,00

Nel settembre del 1923 il “Male Oscuro” si abbatte sulla regione del Kantō in Giappone: un violento terremoto devasta i territori di Tōkyō e Yokohama ponendo termine ad oltre centomila vite umane. Sullo sfondo di tale catastrofe naturale, sfruttando il generale disorientamento, uno squadrone della polizia militare non ha di meglio da fare che arrestare e uccidere la scrittrice anarco-femminista Noe Itō, l’anarchico Sakae Ōsugi ed il piccolo nipotino che era con loro.

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di Gioacchino Toni

Francisco Soriano, Noe Itō. Vita e morte di un’anarchica giapponese, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 116, € 13,00

Nel settembre del 1923 il “Male Oscuro” si abbatte sulla regione del Kantō in Giappone: un violento terremoto devasta i territori di Tōkyō e Yokohama ponendo termine ad oltre centomila vite umane. Sullo sfondo di tale catastrofe naturale, sfruttando il generale disorientamento, uno squadrone della polizia militare non ha di meglio da fare che arrestare e uccidere la scrittrice anarco-femminista Noe Itō, l’anarchico Sakae Ōsugi ed il piccolo nipotino che era con loro.

Il libro di Francisco Soriano, oltre a fornire elementi di storia, cultura, religione e politica del Giappone, narrando la vicenda di Noe Itō e il dibattito prodotto dalla rivista «Seitō», contribuisce a ricostruire la nascita e l’evoluzione dei movimenti anarchici e femministi nipponici  nella prima metà del Novecento.

Scrive Rossella Renzi nella Prefazione che quando in un Pese monta l’ossessione per la sicurezza, così come accadde nel Giappone di inizio Novecento che fa da sfondo alle vicende narrate nel libro di Soriano, «tutto ciò che diverge dai Codici […], dal Diritto costituito e dalla Legge consuetudinaria deve essere espulso o distrutto. A livello più generale, il desiderio psicologico delle autorità di avere tutto sotto controllo e di aspirare a una sicurezza assoluta può portare a conseguenze terribili, come ci ha tristemente dimostrato il XX Secolo, sfociando nei fenomeni del totalitarismo. Il terremoto aveva generato negli abitanti dell’isola un senso di precarietà, insieme al bisogno di trovare una “causa”, una radice che avesse generato quella calamità che si era abbattuta sulla loro terra. Proprio in quegli anni, in pieno sviluppo economico, quando stava nascendo un proletariato consapevole della propria identità e stava prendendo forma una “coscienza collettiva popolare”, ci si iniziava ad interrogare sulla correttezza e sul rispetto dei principali diritti civili: si percepiva allora un fermento di rinnovamento e di desiderio libertario che infastidiva non poco le autorità giapponesi. La gestione della sicurezza interna diviene una preoccupazione ossessiva, così l’autorità giapponese – attraverso corpi di polizia e squadre di controllo – mette in atto azioni di persecuzione nei confronti di quegli attivisti che agivano per affermare e proteggere il bene dell’individuo, per ottenere leggi più giuste e umane, in particolare in favore dei lavoratori e delle donne. In questa campagna di odio, scaturita in particolare nei confronti di anarchici e coreani, vengono perseguitati i movimenti libertari composti da operai, studenti, medici e professori, intellettuali e monaci buddisti, le cui attività erano pacifiche» (p. 14).

Nel caos seguente al disastro naturale che nel settembre 1923 aveva sconvolto la regione del Kantō, con il pretesto che trame bolsceviche e rivoluzionarie avrebbero potuto usurpare il potere, il governo giapponese ritenne necessario scatenare la persecuzione e la soppressione degli oppositori politici. Con la scusa di evitare atti di sciacallaggio vennero conferiti maggiori poteri ai militari che, in una escalation paranoica, giunsero persino a bloccare gli aiuti di prima necessità inviati dalla Russia nel timore che tra viveri e medicine si potessero celare sobillazioni sovversive.

«Fu il tempo di una sistematica e programmata caccia alle streghe: cominciò una capillare ricerca di presunti responsabili di azioni di sabotaggio. Moltissimi cittadini indifesi rimasero uccisi nei linciaggi della folla inferocita e aizzata dalla propagazione di false notizie diramate anche dalle autorità nipponiche. Fu un gesto ragionato e criminoso, messo in opera da coloro i quali intendevano sconfiggere il potere di un male oscuro, alimentato da un demone occulto nella coscienza collettiva popolare. In Giappone, già tre anni prima del sisma del Kantō, si verificarono i primi casi di insofferenza. Si diede inizio a una persecuzione sorprendente di intellettuali e di dirigenti dei movimenti antagonisti al regime» (pp. 23-24).

L’ossessione securitaria era dilagata al pari delle notizie incontrollate e abilmente diffuse dal regime che volevano gruppi di socialisti, nei pressi degli incendi divampati a causa del terremoto, intenti ad agitare le loro bandiere rosse inneggiando alle fiamme divoratrici della società capitalistica, si diceva di anarchici e socialisti intenti ad appropriarsi dei beni dei cittadini, appiccare fuochi e avvelenare i pozzi. Anche gli stranieri, soprattutto coreani, vennero additati di condotte criminali durante le fasi convulse successive alla catastrofe. Furono organizzate milizie di cittadini per dare la caccia e uccidere i coreani; nella sola Yokohama almeno trenta furono giustiziati sommariamente (bruciati vivi), mentre a Saitama vennero presi d’assalto i camion sui quali venivano trasportati i coreani fermati e molti di costoro finirono per essere torturati, uccisi e fatti a pezzi.

Negli anni dell’Era Taishō (1912-1926), che portano il Giappone a diventare una potenza industriale, un nascente proletariato cosciente della propria identità e forza oppositiva, insieme a una parte della borghesia più illuminata, mette in discussione alcuni dei valori fondanti il sistema imperiale. Con l’avvento di Hirohito e il radicamento di forme estremiste di sciovinismo, il paese che intendeva presentarsi come moderno e progressista virò presto su posizioni liberticide che portarono alla promulgazione di leggi emergenziali esplicitamente rivolte a contrastare l’azione antagonista di anarchici, socialisti e comunisti.

«Dalla sordida retorica del regime, gli anarchici erano stati etichettati come sabotatori di idee positive colpevoli di minare l’ottimismo nazionalista, di essere irriguardosi verso la fede e l’obbedienza all’imperatore, di cospirare contro le istituzioni a favore di forze straniere. La repressione fu senza esclusione di colpi proprio nel momento in cui, il terremoto aveva devastato e reso fragili, le coscienze degli uomini. Una logica perversa messa in atto per annientare i propri figli illegittimi come agnelli sacrificali» (p. 26).

Partiti radicali messi fuori legge, stampa sottoposta a censura e a veline di regime, sospensione dagli incarichi e condanne a chiunque si mostrasse non in linea con le autorità, epurazioni e sparizioni di personaggi scomodi, riunioni pubbliche sottoposte a controllo poliziesco, questo era il clima che si respirava nel Giappone dei primi decenni del Novecento. «In venti anni, fino al 1945, più di 75.000 persone furono attenzionate, imprigionate e torturate. Le vittime vennero sottoposte a regimi detentivi inumani e trattate con inusitata efferatezza: pochi riuscirono a sopravvivere alle malversazioni fisiche e psicologiche. Le formazioni politiche più reazionarie, con la collaborazione delle forze dell’ordine e dei militari, riuscirono a costruire un clima culturale di aggressione incondizionata al fine di tutelare la sicurezza» (p. 26).

La figura di Noe Itō, nata nel 1895 da una famiglia poverissima sull’isola di Fukuoka, scrive Soriano, deve essere inquadrata in un momento storico caratterizzato da un serrato scontro generazionale e di classe, in cui si fronteggiavano aspramente movimenti antagonisti e istituzioni, istanze internazionalistiche pacifiste e nazionalismi. «In tale contesto la società patriarcale tentò una strenua resistenza come risposta alla moltiplicazione di idee e gruppi di oppositori politici. La prospettiva di superamento del feudalesimo non fu certo indolore e le contraddizioni sociali non fecero altro che estremizzarsi all’ombra di una centralizzazione nel potere nipponico parallelamente a una deriva decisionale e sovranista senza precedenti» (p. 80-81).

L’approccio politico di Noe Itō e del compagno Sakae Ōsugi «era completamente diverso da quello di socialisti e comunisti: si innestava sui principi anarchici universali che superavano culture, Stati e frontiere. A differenza di molti esponenti del socialismo nipponico ma anche di tanti libertari, non subirono mai la folgorazione del culturalismo nazionale, riferimento imprescindibile per le istituzioni e per una larga maggioranza della popolazione educata allo sciovinismo, al consenso e alla sete di conquista» (p. 84).
Nel 1911 Noe Itō etra a far parte del gruppo della rivista «Seitō», pubblicazione caratterizzata da una «vocazione polemica che poneva l’accento su problematiche che riguardavano il mondo femminile, nel suo ruolo sociale e nella sua funzione politica. Il matrimonio combinato, l’aborto, la prostituzione, la contraccezione furono i primi temi affrontati dalla rivista nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica non solo femminile alla rivendicazione dell’uguaglianza di genere» (p. 85). La rivista verrà chiusa nel 1916 dalla censura dopo numerose vessazioni poliziesche.

«Noe Itō fu una donna intelligente e brillante; nonostante fosse di umili origini seppe imporsi, in un contesto sociale fortemente discriminante, con lo studio appassionato e uno spirito di abnegazione incredibile. Con coraggio e ostinazione, prima collaborò con i suoi articoli al successo della rivista «Seitō», in seguito ne divenne la caporedattrice. Al suo arrivo, la testata giornalistica subì una vera e propria mutazione genetica: si caratterizzò nella rivendicazione dei diritti di uguaglianza di genere conferendo ai suoi scritti una chiara impronta anarco-femminista. Le autorità seguirono con estrema attenzione la svolta che Noe Itō aveva impresso al mensile: mise in discussione, radicalmente, i valori di una cultura maschilista e oscurantista […] Con una critica sociale serrata e con la rivendicazione forte della libertà d’opinione, Noe Itō testimoniò il suo impegno politico portando a compimento la traduzione del libro The Tragedy of Woman’s Emancipation, di Emma Goldman. Dalla libertaria occidentale trasse l’afflato femminista più autentico e interpretò con estrema coerenza il principio dell’azione diretta per il raggiungimento di obiettivi reali. Fu compagna e attivista di Sakae Ōsugi che collaborò alla traduzione degli scritti della pensatrice russo-lituana. Fu grazie a questa iniziale collaborazione che fra i due nacque una vorticosa relazione amorosa. Il loro rapporto basato sul rispetto assoluto della libertà individuale e sessuale sorprese i benpensanti e scatenò scandali e dicerie. […] Noe Itō ha rappresentato per il suo Paese l’anima ribelle di una nuova generazione di donne. La sua lotta è la testimonianza che l’afflato libertario ha pervaso anche comunità di popoli geograficamente e culturalmente distanti ma non marginali alle realtà europee e occidentali. L’elaborazione teorica, l’azione diretta, la fondazione di movimenti sindacali, l’infaticabile lavoro di traduzione di classici dell’anarchismo internazionale, dimostrano quanto sia fuorviante la convinzione che a oriente del mondo, i modelli libertari siano irrealizzabili o incomprensibili» (pp. 30-31).

Tra i responsabili della feroce eliminazione di Noe Itō, Sakae Ōsugi e del nipotino, figura il capitano Amakasu Masahiko, tristemente noto per il suo sadismo nei confronti dei prigionieri. Dopo aver ammesso di aver organizzato e preso parte alla spedizione punitiva, strangolando personalmente i tre dopo averli bastonati, Masahiko dichiarò di “aver agito per l’amor di patria e nel timore che gli anarchici potessero provocare disordini nella difficile ora del terremoto”. Insomma il fine supremo del mantenimento dell’ordine giustificò la formazione di squadroni della morte al fine di bonificare cittadini inermi e ideologicamente antagonisti al potere. Nelle due settimane successive al sisma furono arrestati e assassinati in una caserma di Tōkyō almeno altri quattordici operai attivisti del movimento sindacale, probabilmente con modalità non tanto diverse da quelle con cui era stata eliminata la famiglia Ōsugi.

Nel primo anniversario del terremoto, l’anarchico Kyutaro Wada pensò di vendicare l’uccisione dei compagni con un attentato nei confronti del generale Fukuda Masataro, comandante militare all’epoca dei fatti. L’attentato fallì e Wada, condannato per tentato omicidio a vent’anni di carcere nel terribile terribile penitenziario di Akita, dopo quattro anni di detenzione venne ritrovato impiccato. Il capitano Masahiko, torturatore e pluriomicida, venne invece condannato a dieci anni di carcere poi commutati in due per amnistia.

***

La storia di Noe Itō e Ōsugi Sakae è stata narrata nel film Eros + Massacre (1969) di Kijū Yoshida, regista formatosi nell’ambito del cinema d’avanguardia nipponico degli anni Sessanta.

Film: Eros + Massacre (1969) di Kijū Yoshida

«Il film è una sequenza di immagini che sembrano astratte e si sovrappongono vorticosamente in azioni, gestualità e dialoghi che giocano ruoli di realtà e finzioni su piani diversi e sospesi. Le voci degli attori fuori campo diventano suoni suggestivi e spesso i protagonisti sembrano recitare con i loro sguardi fissando il vuoto: i due studenti che si mettono sulle tracce di Itō e Ōsugi, si muovono in un gioco di realtà e finzione, nel tentativo di rappresentare l’ellissi umana e politica dei due libertari. Eiko e Wada sono ricercatori e indagano sulla vita politica di questi personaggi intersecando le esistenze dei protagonisti in un gioco complesso e affascinante. Yoshida esalta alcune problematiche che la coppia Ōsugi-Itō cercava di affrontare sublimando la loro idea libertaria e antistatalista. Il crimine di Stato perpetrato in quell’occasione rimane un fatto storico di analisi e riflessione. È la consapevolezza forse, come ammette lo stesso Yoshida nel 1970 in una intervista alla rivista «Cahiers du Cinema», che “alcuni dei problemi posti da Ōsugi sono quelli che ancora sopravvivono nel sociale del Giappone contemporaneo e sono utili per capire come cambiare le cose e in che modo farlo”» (pp. 96-97, n. 40).

 

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Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2017/01/07/calibano-e-la-strega-le-donne-il-corpo-e-laccumulazione-originaria/ Fri, 06 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35496 federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante [...]]]> federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante ricostruzione storica, offre un contributo fondamentale alla lettura degli attuali processi della globalizzazione.

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente Federici si è impegnata contro i processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo.

In coda alla Prefazione sono disponibili i link ai video di due interessanti interviste a Silvia Federici: la prima è stata realizzata dal Laboratorio Sguardi sui Generis in occasione della sua presenza in Val di Susa, la seconda (in lingua inglese) è stata effettuata da Gender Links all’uscita del saggio S.   Federici, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), uscito successivamente in lingua italiana S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 159, € 15,00 –  ght]


Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria

di Silvia Federici

Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.

Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.

È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.

Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.

Il libro che è nato da questa prima ricerca, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984), si proponeva di ripensare l’analisi dell’accumulazione originaria di Marx da un punto di vista femminista. Ma nel corso di questo lavoro le categorie marxiane si sono rivelate inadeguate. Anzitutto, si è visto che l’identificazione da parte di Marx del capitalismo con l’avvento del lavoro salariato e del lavoratore “libero” contribuisce a nascondere e a naturalizzare la sfera della riproduzione. Il Grande Calibano criticava anche la teoria del corpo di Michel Foucault. Abbiamo infatti rilevato che l’analisi di Foucault delle tecniche del potere e delle discipline a cui il corpo è stato assoggettato ignora il processo di riproduzione, riduce le storie delle donne e degli uomini a un tutto indifferenziato e si disinteressa a tal punto della “disciplina” imposta alle donne da non menzionare uno degli attacchi più orrendi al corpo perpetrato in era moderna: la caccia alle streghe. La tesi principale sostenuta dal Grande Calibano era che, per comprendere la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, si devono analizzare i cambiamenti che il capitalismo ha introdotto nel processo della riproduzione sociale, soprattutto nella riproduzione della forza-lavoro. Il libro prendeva quindi in esame la riorganizzazione del lavoro domestico, della famiglia, della cura dei bambini, della sessualità e dei rapporti tra uomo-donna e tra produzione e riproduzione nel XVI e nel XVII secolo in Europa. La stessa analisi è riproposta nel Calibano e la strega, ma lo scopo di questo volume è diverso da quello del Grande Calibano in quanto risponde a un diverso contesto sociale e alla crescita della nostra conoscenza della storia delle donne.

Poco dopo la pubblicazione del Grande Calibano, ho lasciato temporaneamente gli Stati Uniti per insegnare all’Università di Port Harcourt in Nigeria dove, a periodi alterni, ho lavorato per quasi tre anni. Prima di partire ho sepolto i miei libri in cantina, pensando che per un po’ di tempo non mi sarebbero serviti. Ma le circostanze del mio soggiorno in Nigeria non mi hanno consentito di dimenticare questo studio. Gli anni tra il 1984 e il 1986 sono stati decisivi per la Nigeria, come per la maggior parte dei paesi africani. Erano gli anni in cui, in risposta alla crisi del debito, il governo nigeriano avviava con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale accordi che risultarono nell’adozione del programma di aggiustamento strutturale, la ricetta universale imposta dalla Banca Mondiale, nel nome della ripresa economica, ai governanti di gran parte del pianeta.

Lo scopo dichiarato di questo programma era di rendere la Nigeria competitiva sul mercato internazionale. Ma si è reso subito evidente che questo programma era lo strumento di una nuova fase di accumulazione originaria e di una razionalizzazione della riproduzione volta a distruggere le ultime vestigia di proprietà e rapporti comunitari, e imporre forme più intense di sfruttamento del lavoro. Ho visto quindi dispiegarsi sotto i miei occhi processi molto simili a quelli che avevo analizzato durante la stesura del Grande Calibano, fra cui un attacco sistematico alle terre comuni e un decisivo intervento dello stato, definito “guerra all’indisciplina”, teso a ridurre le aspettative di una popolazione considerata troppo pretenziosa in prospettiva di un suo inserimento nell’economia globale. Insieme a queste misure, ho assistito all’evolversi di una campagna misogina, che denunciava la vanità e le eccessive pretese delle donne, e allo sviluppo di un acceso dibattito, simile per molti versi alla querelle des femmes del XVII secolo, che investiva ogni aspetto della riproduzione della forza-lavoro: la famiglia (poligama vs. monogama, estesa vs. nucleare), l’educazione dei bambini, il lavoro delle donne, l’identità maschile e femminile e i rapporti tra uomini e donne.

In questo contesto il mio lavoro sulla transizione ha assunto un nuovo significato. In Nigeria ho compreso che la resistenza all’aggiustamento strutturale fa parte di una lunga lotta contro la privatizzazione della terra e contro le “recinzioni”, non solo delle terre comuni ma anche dei rapporti sociali, che risale alle origini del capitalismo. Ho anche capito che la vittoria che la disciplina del lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. Per gli imprenditori, le multinazionali e gli investitori stranieri è proprio questo il problema di paesi come la Nigeria. Ma per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici. Devo questa nuova consapevolezza anche all’incontro con Donne in Nigeria (WIN), la prima organizzazione femminista del paese, che mi ha aiutata a comprendere le lotte che le donne nigeriane stanno sostenendo per difendere le proprie risorse e per rifiutare il nuovo modello di patriarcato, promosso dalla Banca Mondiale, che si vuole loro imporre.

Ben presto il programma di austerità adottato dal governo ha raggiunto anche il mondo accademico e, non essendo più in grado di mantenermi, nell’autunno del 1986 ho lasciato la Nigeria, se non con l’anima con il corpo. Ma non ho dimenticato l’attacco mosso contro il popolo nigeriano e, dopo il mio rientro, il desiderio di tornare a studiare la “transizione al capitalismo” non mi ha più abbandonata. Avevo letto gli eventi in Nigeria con le lenti dell’Europa del XVI secolo. Tornata negli Stati Uniti, è stato il proletariato nigeriano che mi ha riportato alle lotte per le terre comuni e contro il disciplinamento delle donne, dentro e fuori l’Europa. Dopo il mio ritorno ho iniziato anche a insegnare in un programma interdisciplinare per studenti universitari, dove ho dovuto affrontare un tipo diverso di enclosure: quella del sapere, la crescente perdita cioè, da parte delle nuove generazioni, del senso storico del nostro passato collettivo. Ecco perché nel Calibano e la strega ho ricostruito le lotte antifeudali del Medioevo e le lotte con cui il proletariato europeo ha resistito all’avvento del capitalismo. Il mio scopo non è stato solo quello di fornire ai non specialisti la documentazione su cui si basa la mia analisi; ho voluto anche far rivivere fra le giovani generazioni il ricordo di una lunga storia di resistenza che oggi corre il rischio di essere cancellata. Preservare la memoria storica è cruciale se dobbiamo trovare un’alternativa al capitalismo, perché ciò sarà possibile solo se saremo capaci di ascoltare le voci di coloro che hanno percorso lo stesso cammino.


Interviste a Silvia Federici

Il Laboratorio Sguardi sui Generis intervista Silvia Federici, in occasione della sua presenza in Val di Susa. L’intervista è in cinque parti visionabili su YouTube. Prima parte: autodeterminazione dei corpi, delle sessualità e delle scelte riproduttive. Seconda parte: i movimenti, i momenti di socialità e di riproduzione dei movimenti stessi. Terza parte: donne e movimenti. Quarta parte: Politica del Debito. Quinta parte: Femminicidio.

Gender Links recently interviewed Silvia Federici after the launch of her book, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), inspired by Federici’s organisational work in the Wages for Housework movement. In this interview she provides insight into book and shares her views on women’s on going struggle as well as gender-based violence. In this extended version of the interview she also discusses the importance of the commons, social reproduction, the need for more co-operative forms of organisation, valorising domestic work and how inequality and injustice is fueled by neo-liberal capitalism.

 

 

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Estetiche del potere. I manifesti dopo il ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/09/04/estetiche-del-potere-i-manifesti-dopo-il-68/ Fri, 04 Sep 2015 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24241 di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono [...]]]> di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono da una parte le modalità innovative del linguaggio dei manifesti prodotti dai movimenti extraparlamentari e, dall’altro, l’influenza esercitata da tali novità sulla produzione dei manifesti della politica istituzionale. “La ricerca si è sviluppata in due direzioni: da un lato, la ricostruzione dell’attività sociale connessa alla produzione e diffusione dei manifesti, sia nel vivace magma delle migliaia di collettivi di movimento che nei grandi partiti di massa; dall’altro, l’analisi dell’iconografia e delle forme narrative assunte dai manifesti delle differenti forze politiche”. Il saggio intende indagare quanto “l’urto destabilizzante” dei movimenti abbia influenzato la comunicazione e la rappresentazione della politica istituzionale italiana.

Tra i vari aspetti trattati da Gambetta, in questa sede, si preferisce insistere sulle “modalità di recupero” dei manifesti e del linguaggio della sinistra radicale attuate, per quel che possibile, dal sistema istituzionale con il duplice fine di dotarsi di un linguaggio in grado di comunicare con i soggetti sociali che, a partire dal ’68, animano le piazze (giovani, operai, donne) e, dall’altro, di addomesticarne e depotenziarne i contenuti. Ovviamente, un conto sono le finalità che i singoli partiti istituzionali, ed i singoli manifesti, nel corso degli anni ’70, si danno, altro è il raggiungimento degli scopi. Non mancano tentativi maldestri e palesi incapacità ma è innegabile che, anche in tale ambito, il processo di riassorbimento delle lotte antisistemiche e del loro linguaggio, si è dispiegato con un potenza di fuoco impari, soprattutto se si pensa a come la controffensiva dei manifesti istituzionali sia stata supportata dalla comunicazione televisiva.

Nel saggio è presente un corposo apparato iconografico che raccoglie un’ottantina di riproduzioni dei manifesti che, nel corso del testo, vengono analizzati nel lessico, nell’iconografia, nelle caratteristiche tipografiche e compositive, nelle scelte cromatiche, nel lettering, nei contenuti più espliciti ed in quelli più profondi. “Studiare esclusivamente l’iconografia dei manifesti significa fermarsi alle soglie della loro specificità, che consiste in una più complessa articolazione tra racconto generale (il manifesto come parte di un sistema più complesso di comunicazione), sua elaborazione grafica e diffusione nella società”.
1969-operai-studenti-unitiLa prima parte del testo ricostruisce la nascita dei manifesti italiani della sinistra rivoluzionaria a partire dal ’68. La fonte d’ispirazione maggiore è costituita dalla produzione del Maggio francese che basa la comunicazione sulla “combinazione essenziale di immagini e parole, privilegiando messaggi di rottura” spesso provocatori ed aggressivi, ricorrendo al “ribaltamento di senso dei termini, simboli e modi di dire del linguaggio dominante per mostrarne incoerenze e contraddizioni (…) per far emergere concetti e significati alternativi”, rifacendosi alle pratiche di détournement di matrice situazionista. Un ruolo importante spetta anche alla cultura underground statunitense che, già prima del ’68 si diffonde negli ambienti più inquieti della società italiana, soprattutto tra gli studenti. Altre fonti d’ispirazione sono la grafica cubana, una volta emancipatasi dal realismo di matrice sovietica ed, in maniera minore, per quanto riguarda la rielaborazione grafica per manifesti pubblici, la Rivoluzione culturale cinese. L’iconografia cinese viene infatti ripresa più per la produzione di manifesti da esporre nelle sedi politiche o domestiche che non per la produzione pubblica. Sicuramente la sinistra radicale è debitrice nei confronti della rivoluzione maoista per quanto riguarda il ricorso ai ta-tse-bao, ma si tratta, in questo caso, di “linguaggio delle parole”, ben distante dalla “comunicazione iconografica ed essenziale del manifesto”. Sarebbe sbagliato enfatizzare le abilità comunicative dei manifesti, o dei giornali murali, di movimento così come non si dovrebbero stroncare i manifesti della politica istituzionale; nel corso degli anni ’70 si ha un interesse talmente diffuso per il dibattito politico che riescono ad incidere a livello comunicativo anche manifesti prolissi, maldestri e poco attraenti.

tesseramento pci 1979__1980Dall’indagine sviluppata dall’autore emerge come la propaganda politica istituzionale di fine anni ’60 risulti decisamente arretrata tanto rispetto alle tecniche della promozione commerciale, quanto alle strategie comunicative dei movimenti antagonisti ma, tale ritardo, deve essere imputato anche ad una sostanziale inadeguatezza politica nei confronti delle figure sociali emergenti. Il sistema politico ufficiale si dimostra, insomma, in forte ritardo nel comprendere la trasformazione in corso tanto nella società italiana, quanto internazionale, ed il ritardo nella comunicazione politica è legato sia al permanere di un’immagine del paese che ormai non esiste più, che ad una difficoltà di dare risposte a domande che si sono fatte radicali e che, probabilmente, non possono ottenere risposte istituzionali. Insomma, dopotutto ad essere messo in discussione è il sistema capitalistico; difficile dare risposte a chi intende promuovere una rivoluzione radicale.
L’autore segnala come il Pri sia la prima forza politica che, sin dall’inizio degli anni ’60, ricorre ad un art director per rinnovare l’immagine del partito di Ugo La Malfa: viene abbandonata la tradizionale comunicazione realista in favore di uno stile razionalista derivato dalle nuove strategie di promozione commerciale. Con un decennio di ritardo rispetto all’esperienza dei repubblicani, anche il Partito socialista inizia a ricorrere a qualche designer professionista al fine di riformulare la propria immagine. In questo caso vengono mantenuti alcuni simboli tradizionali seppur rinnovati stilisticamente anticipando quella che sarà la sostanziale trasformazione del partito che si compie con l’avvento di Bettino Craxi ed il riposizionamento della forza politica quando, una volta messa in secondo piano la tradizionale base operaia, decide di concentrarsi sui ceti medi.
Nel corso degli anni ’70 sono diversi i grafici, i pittori ed i fumettisti che si prestano alle strategie comunicative dei partiti istituzionali o dei movimenti. Ricorso a professionisti della comunicazione o meno, l’intero panorama politico istituzionale, nel corso degli anni ’70, si trova a fare i conti con la rappresentazione dei soggetti sociali che animano la scena: giovani, operai e donne.

psi 1972Il mondo giovanile, sostiene Gambetta, è il primo soggetto ad essere ridefinito graficamente nei manifesti e nell’immaginario iconico dei partiti istituzionali di fine anni ’60. Il divario tra l’immagine dei giovani offerta dai partiti e la loro autorappresentazione appare decisamente incolmabile anche dal punto di vista grafico. Sin dalle elezioni del maggio 1968 i partiti si trovano a doverli rappresentare nei manifesti ed optano per una descrizione composta e misurata attraverso immagini di rassicuranti “volti acqua e sapone”. Successivamente il Partito comunista tenta di collegarsi maggiormente con il mondo reale ricorrendo a fotografie di manifestazioni studentesche accostate però, in maniera stridente, a testi tradizionali tesi a “normalizzare” le immagini (es. “innovazione nella continuità”). I partiti istituzionali di sinistra (Pci, Psi, Psiup) iniziano pian piano ad utilizzare immagini di giovani in corteo, spettinati e con tanto di pugni chiusi ma, tale rappresentazione dei partiti, attraverso l’immagine del giovane maschio risulta piuttosto una metafora di “vitalità, e vigore, nonché di virilità” tesa ad esaltare la potenza rigeneratrice delle organizzazioni. Nei partiti di sinistra, in sostanza, le immagini dei giovani servono per rappresentare le qualità giovanili dei partiti. In alcuni casi la medesima immagine viene utilizzata con finalità opposte. Fgci1977_tesseraGambetta propone a tal proposito l’esempio della celebre foto di Uliano Lucas di Piazzale Accursio a Milano nel 1971, utilizzata dalla Fgci nel 1977 con lo slogan “Unità dei giovani per salvare l’Italia” e, qualche anno dopo, dall’area dell’autonomia romana per ricordare Valerio Verbano. I partiti più moderati, invece, ricorrono alle immagini dei giovani sopratutto “per comunicare con quello specifico target sociale, rifiutando cioè l’idea di autorappresentarsi attraverso il volto dei giovani”. La Democrazia cristiana, ad esempio, attraverso le immagini dei giovani inseriti nei manifesti vuole sottolineare l’interesse e la fiducia in essi ma non intende associare il partito alla giovinezza.

1968_fabbrica_pciGli operai rappresentano il secondo soggetto a trovare spazio sui manifesti dei partiti politici istituzionali. Le formazioni conservatrici tendono ad evitare di rappresentare il mondo del lavoro attraverso una specifica categoria professionale, soprattutto operaia, preferendo puntare sull’idea di cittadinanza: ogni lavoratore diventa più genericamente un cittadino. Nei casi in cui tale cittadino venga ritratto, esso si presenta come maschio, adulto ed appartenente alla piccola o media borghesia. Nelle rappresentazioni dei partiti della sinistra parlamentare si riprende l’iconografica ottocentesca che prevede un lavoratore maschio, muscoloso e virile, non di rado a torso nudo con gli attrezzi da lavoro e lo sguardo rivolto al futuro. Tale rappresentazione, però, abbandona l’iconografia cara al realismo socialista; viene scemando la raffigurazione dell’operaio in marcia al fianco di contadini ed intellettuali con bandiere rosse e nazionali. Se prima del ’68 l’operaio viene presentato, nei manifesti dei partiti di sinistra istituzionale, come uomo maturo, esperto ed orgoglioso della sua professionalità, soprattutto dopo le vertenze dell’Autunno caldo ’69 l’operaio si trasforma in giovane combattivo ritratto in situazione di conflitto. La marcia orgogliosa verso il “sol dell’avvenire” lascia il posto al corteo conflittuale ed allo sciopero.
Tanto negli ambienti radicali, quanto in quelli istituzionali si ricorre anche a personaggi di fantasia disegnati in maniera caricaturale con una notevole dose ironica e dissacrante. Se in un primo tempo la caricatura nasce per irridere la controparte, sull’onda della grafica politica radicale nordamericana, ora questa viene utilizzata per l’autorappresentazione di una classe perennemente in lotta.

manifesto_dcLa donna è il terzo soggetto che, irrompendo sulla scena, obbliga il sistema politico a ripensare e ridefinire la comunicazione tramite manifesto. Si tratta di una rincorsa, spesso maldestra, frequentemente di facciata, funzionale da una parte a conquistare il foto femminile, non più scontato, e dall’altra a depotenziare la portata eversiva dei movimenti femministi. Se sin dai tempi antichi la figura femminile viene utilizzata soprattutto per incarnare un ideale, raffigurare un mito, tra il XIX ed il XX secolo le donne borghesi diventano consumatrici di merci ed iniziano a perde l’astrattezza simbolica in un processo di “riduzione alla fisicità”. Ben presto l’immagine femminile viene costruita dall’immaginario maschile e dal sistema commerciale come veicolo per vendere merci. Le formazioni moderate e conservatrici, non di rado, continuano a rifarsi all’immaginario di matrice religiosa ove la donna è prima di tutto, quando non esclusivamente, madre. In generale la donna è mostrata come madre e moglie nell’ambito domestico, tanto che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, molti manifesti politici ripropongono la tradizionale associazione “donna/madre/famiglia”. Con l’avvento dei collettivi femministi vengono contestati radicalmente sia i ruoli tradizionali assegnati alle donne, che il consumismo, imponendo tanto alla sinistra rivoluzionaria, quanto al mondo politico istituzionale, la “necessità di parlare delle donne e alle donne e di tener conto delle loro aspirazioni”. I manifesti prodotti dall’area femminista risultano piuttosto in linea con la “presa di parola”, con la necessità di raccontarsi autonomamente. “I titoli e i testi colloquiali ed evocativi, i simboli femministi disegnati e rielaborati in mille modi, l’impiego dominante e originale di colori come il viola, il rosa, l’azzurro, i caratteri tipografici più dinamici e spesso tratteggiati a mano, l’ampio utilizzo di fumetti, caricature e fotografie inconsuete – soprattutto in funzione autoironica, più raramente autocelebrativa – furono i segni di questa nuova narrazione tra donne”. Alla fine degli anni ’70 tutte le formazioni politiche si trovano costrette a divulgare una nuova immagine della donna. Nell’ambito della politica istituzionale, il Partito radicale, per certi versi partito maggiormente di frontiera tra istituzioni e movimenti, è tra i primi ad inserire una rinnovata immagine femminile: o come “denuncia della propria oppressione” o come “protagonista della propria liberazione”.

manifesto_psi_00Il Partito socialista nelle campagne referendarie per il divorzio e, successivamente, per l’aborto inizia a rappresentare il mondo femminile non solo tramite l’icona della donna autonoma e consapevole ma con l’aspetto e il volto delle donne che protestano in piazza: il manifesto del Psi del 1977 per l’8 marzo ricorre ad un volto di donna urlante associato alla scritta. “No a una giornata celebrativa – Le donne in lotta per l’alternativa”. Ancora nel 1979, quando ormai può dirsi iniziato il processo di trasformazione del Psi in forza politica sempre meno di lotta e sempre più riformista, il partito continua a mantenere un certo protagonismo femminile nei manifesti: il tentativo diviene quello di “mitizzare quella battaglia, di strapparla dal fermento vivo del conflitto per renderla narrazione epica”.
Gambetta sintetizza, attraverso l’analisi di due manifesti ravvicinati di metà anni ’70, la trasformazione in corso nell’immagine femminile del Pci.

pci 1975 donna_jpgIn un manifesto del 1975 il ritratto femminile “è accompagnato da un invito esterno”: “Donne siete più forti – Con il vostro voto cambiate la società”. Nel manifesto del 1976 all’immagine femminile viene associata la scritta: “Voto comunista perché il domani sia anche mio”. Si è passati dall’immagine di una donna come “soggetto da esortare” ad una donna che si fa protagonista del suo slogan. Qualcosa di analogo, tenuto conto del diverso orizzonte politico, accade anche nella Dc. In un manifesto del 1972 all’immagine di una giovanissima donna dall’aria incerta viene associata la frase: “Tu voti per la prima volta – Attenta che non sia anche l’ultima”. In un manifesto di qualche anno dopo, del 1976, l’immagine mostra un gruppetto di donne che parlano tra loro in pubblico, una di loro fuma una sigaretta ed a tale scena è associato lo slogan. “Vieni con noi” (da intendersi nella doppia accezione con noi donne / con noi Dc). Anche in questo caso si passa dalla donna come soggetto a cui suggerire ciò che è meglio per lei, ad una donna che, agendo in prima persona, invita altre donne a partecipare.
La radicalità del messaggio femminista e dell’autorappresentazione data dalle stesse militanti attraverso i manifesti risulta difficilmente riassorbibile dalla politica istituzionale (e dalla cultura maschilista del paese): a parte l’area politica istituzionale più vicina ai movimenti (nuova sinistra e radicali) nessun partito si sente di “superare alcuni limiti, scardinati invece nei manifesti femministi come, ad esempio, la denuncia dei rapporti patriarcali interni alla famiglia o le disparità sessuali nelle gerarchie di lavoro”, così come nessun partito decide di affrontare “esplicitamente i temi legati alla sessualità e al corpo femminile”.

1975_violenza_jpgParlando del decennio post ’68, è inevitabile per i manifesti affrontare la questione della violenza politica. Gambetta sottolinea come l’etichetta di “anni di piombo”, applicata al decennio, riconduca tutte le pratiche in cui vi è ricorso ad una forma di violenza, all’interno di un insieme indistinto: scontri tra opposte fazioni o con la polizia, bombe stragiste, azioni di fuoco di gruppi armati ecc., tutto diviene parte di una nebulosa indistinta. Dalla ricerca dell’autore emergono tre schemi comunicativi principali: l’esaltazione della forza del popolo o del partito al fine di piegare la violenza negativa dei nemici, la denuncia della violenza di Stato e l’appello alla concordia istituzionale contro un nemico estraneo alla vita democratica del paese.
La forza del popolo tendenzialmente viene celebrata tanto dai manifesti dei movimenti radicali, quanto dalla sinistra istituzionale. Nel primo caso l’accento è spesso posto sul legame tra le lotte popolari internazionali e la lotta anticapitalista portata avanti all’interno del paese. Il ricorso alla violenza, anche armata, non solo è condivisibile nei confronti delle lotte di popolo in atto (es. Vietnam), ma non è da escludere nemmeno sul fronte interno. Molti sono i manifesti in cui al pugno chiuso inizia ad essere associata l’icona dell’Ak 47. Nella sinistra istituzionale, invece, il riferimento alle armi si limita o alla celebrazione della Resistenza italiana al nazifascismo o alle guerre popolari di liberazione nel sud del mondo. Dal punto di vista “interno”, nazionale, la forza “delle masse” viene tradotta graficamente dalla sinistra parlamentare dalle immagini di un popolo che si mobilita riempiendo le piazze, “nei volti severi ma scoperti dei manifestanti e nelle bandiere”.
dc_76_violenzaMolti manifesti nel corso del “lungo Sessantotto”, adottano un sistema dicotomico ove una violenza “legittima e necessaria” si scontra con una violenza “immorale e arbitraria”: partiti costituzionali vs. “opposti estremismi”, sinistra rivoluzionaria vs. neofascisti e/o Stato borghese e/o capitalismo ecc. Non è infrequente che nei manifesti di tutte le forze politiche, istituzionali e non, il nemico venga mostrato come entità anonima, col volto celato (passamontagna o casco d’ordinanza, in base allo schieramento della forza politica), incline alla violenza cieca ed indiscriminata. Il nemico violento viene raffigurato come automa senza volto, mero simbolo o marionetta guidata da dietro le quinte. Le forze politiche istituzionali, al fine di negare legittimità agli avversari, tendono a denunciare la violenza armata o “attraverso immagini verosimili, ideate appositamente”, o “modificando profondamente le fotografie originali” al fine da enfatizzare l’impatto emotivo. Alla condanna del terrorismo (termine che ben presto diviene quasi onnicomprensivo di qualsiasi ricorso a forme di violenza), i manifesti istituzionali associano spesso l’indicazione di come sconfiggerlo. La comune “battaglia per la difesa della democrazia” nei manifesti Dc diviene “difesa delle istituzioni e della sua classe dirigente”, mentre nella produzione del Pci la risposta viene dalla “mobilitazione popolare”, dalla massa di lavoratori che scende in piazza e partecipa alla vita democratica del paese. Allo schema più diffuso, basato sulla semplificazione “bene vs. male”, si sottraggono le formazioni della nuova sinistra ed i radicali. La campagna referendaria (un quesito riarda l’abolizione della Legge Reale) di questi ultimi, in pieno 1977, ne è un esempio emblematico. Vengono affissi due manifesti del tutto uguali in termini di slogan (“Disarmiamoli con la non violenza firmando gli 8 referendum”) e di grafica recanti in un caso la celebre foto del militante che spara in via De Amicis a Milano e, nell’altro, l’altrettanto celebre immagine del poliziotto travestito da manifestante che, dopo aver sparato, pistola in pugno, si ritira tra le fila delle forze dell’ordine. In questo caso di duplice manifesto, il messaggio radicale è chiaro: condannare tanto la violenza armata di piazza, quanto la violenza armata repressiva. La nuova sinistra, volendo problematizzare il ricorso alla violenza nelle sue svariate manifestazioni, fatica a ricorrere ad un mezzo sintetico come il manifesto necessitando di argomentazioni articolate inadatte ad una comunicazione così “drastica”.

In conclusione Gambetta segnala come, a partire dai primi anni ’80, con l’affievolirsi dei movimenti e della conflittualità sociale, il linguaggio dei manifesti subisca una sorta di “ritorno all’ordine”. La comunicazione politica si avvicina sempre più a quella commerciale ed il ruolo della televisione diviene sempre più determinante tanto che, gli stessi manifesti vengono ad avere la funzione di “richiamare messaggi ascoltati altrove, promossi e diffusi attraverso altri canali, nei talk show o negli spot televisivi”.

 

 

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Copertina: W. Gambetta, I muri del lungo ’68…, Derive Approdi (2014)
– Manifesto: Operai-studenti…, Movim. studentesco di Bologna (1968)
– Manifesto: Per uscire dalla crisi…, Pci (1979)
– Manifesto: Lotta col voto…, Psi (1972)
– Tessera: Unità dei giovani…, Fcgi (1977)
– Manifesto: Assemblea operaia…, Pci (1968)
– Manifesto: Tu voti per la prima volta…, Dc (1972)
– Manifesto: No a una giornata celebrativa…, Psi (1977)
– Manifesto: Voto comunista perchè…, Pci (1976)
– Manifesto: No alla violenza…, Pci (1975)
– Manifesto: La violenza distrugge la libertà…, Dc (1976)

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