antagonista – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Dec 2025 21:04:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Mikasa ti amo. L’attacco dialettico dei giganti https://www.carmillaonline.com/2025/07/22/mikasa-ti-amo-lattacco-dialettico-dei-giganti/ Mon, 21 Jul 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89757 di Luca Cangianti

L’antagonista, il villain, il mostro, il nemico si presentano come doppio dell’eroe. Di questo abbiamo parlato in un articolo precedente. Nell’Attacco dei giganti – manga di Hajime Isayama dal quale è stato in seguito realizzato un anime – si fa un passo avanti verso una relazione dialettica dalle tinte hegeliane.

Uno spoiler titanico Per argomentare questa tesi partiamo da un’esposizione priva di qualsiasi cautela in materia di spoiler. Da cento anni l’umanità residua vive nella città di Paradis protetta da un muro alto cinquanta metri. Fuori c’è il “nemico naturale”, i giganti. Si tratta di umanoidi che ricordano [...]]]> di Luca Cangianti

L’antagonista, il villain, il mostro, il nemico si presentano come doppio dell’eroe. Di questo abbiamo parlato in un articolo precedente. Nell’Attacco dei giganti – manga di Hajime Isayama dal quale è stato in seguito realizzato un anime – si fa un passo avanti verso una relazione dialettica dalle tinte hegeliane.

Uno spoiler titanico
Per argomentare questa tesi partiamo da un’esposizione priva di qualsiasi cautela in materia di spoiler. Da cento anni l’umanità residua vive nella città di Paradis protetta da un muro alto cinquanta metri. Fuori c’è il “nemico naturale”, i giganti. Si tratta di umanoidi che ricordano degli zombie in formato ciclopico. Nei documenti storici non c’è traccia della causa che ha portato alla loro apparizione; divorano solo gli esseri umani, ma non disponendo di un apparato digerente li rigurgitano; non respirano, non soffrono la fame né la sete, non hanno organi sessuali e se privati di un arto lo rigenerano. Hanno bisogno solo di luce e il loro punto debole si trova dietro il collo.
L’incidente scatenante avviene quando due giganti, il Colossale e il Corazzato, aprono una breccia nelle mura: i mostri dilagano causando morte e distruzione. Eren Jaeger, l’eroe, assiste impotente alla morte della madre. Giura vendetta e, insieme ai suoi amici Armin e Mikasa, si unisce al Corpo di Ricerca, il cui scopo è scoprire l’origine e la natura dei giganti. I suoi militi, tenaci e indomiti, sono gli unici a uscire dalle mura. Sono rivoluzionari e sognatori: in una società chiusa e dominata dalla paura, rappresentano la speranza di un mondo migliore, il coraggio di andare oltre i limiti, praticamente e metaforicamente. Il loro motto è: «Offriamo i nostri cuori!»
Nel corso degli eventi Eren scopre di avere la capacità di trasformarsi egli stesso in gigante, pur conservando la sua coscienza umana. Inizia così una lunga guerra, non solo per sconfiggere i giganti, ma anche per svelare molti misteri. Si scopre che i giganti sono esseri umani trasformati e che il vero nemico è il mondo esterno alle mura – in particolare la nazione di Marley, che da secoli opprime gli eldiani, gli unici esseri umani capaci di trasformarsi in giganti. L’isola di Paradis altro non è che l’ultimo rifugio di questo popolo dopo la caduta dell’impero di Eldia. Gli abitanti della città fortificata pensavano di combattere contro i mostri e adesso scoprono che i mostri sono loro, o almeno che il mondo li considera tali.
Ereditando i ricordi del padre, Eren scopre l’origine dei nove giganti primordiali, la storia del popolo di Ymir, cioè Eldia, e i conflitti tra questa e Marley. Eren decide allora di distruggere il mondo per garantire la sopravvivenza del suo popolo. Alleatosi temporaneamente con il fratellastro Zeke Jaeger, s’impossessa del potere della Fondatrice Ymir che permette il controllo assoluto su tutti i giganti. Infine scatena il Boato della Terra che consiste nella liberazione di milioni di giganti colossali imprigionati nelle mura di Paradis. Questi si mettono in marcia per sterminare l’umanità fuori dall’isola.
Quando Mikasa e Armin scoprono gli intenti di Eren, si ribellano al suo piano e formano un’alleanza con alcuni ex avversari, uniti da un obiettivo comune: fermare Eren e salvare l’umanità. Quest’ultimo nel frattempo si è trasformato in un mega-mostro osseo. Durante lo scontro finale, Armin colpisce la bestia con il potere del Colossale, mentre Mikasa penetra all’interno della struttura titanica per cercare il corpo umano di Eren. Lo trova in stato semicosciente, con un’espressione di pace sul volto. Mikasa, da sempre legata a Eren da un amore tragico e sconfinato, si trova di fronte alla scelta più difficile: salvare il mondo oppure l’uomo che ama. Gli taglia la testa e lo bacia (esattamente in quest’ordine). In una realtà alternativa mostrata nei capitoli finali, Eren rivela a Mikasa di aver voluto essere fermato da lei. Sapeva di essere oltre ogni redenzione, ma desiderava che fosse Mikasa a chiudere il cerchio. Il potere dei giganti scompare e l’umanità, pur se ridotta a un misero venti per cento, sopravvive. Ciò nonostante la tensione tra Paradis e le altre nazioni rimane.

La negazione determinata
L’attacco dei giganti è una narrazione di scontro, di guerra, di svolte, di rivelazioni e di paradossi, ma i termini che si oppongono e cozzano non sono estrinseci. Essi si strutturano secondo uno schema prossimo alla negazione determinata di Hegel. Come il filosofo spiega nella Scienza della logica «L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico […] è la conoscenza […] che il negativo è insieme anche il positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata. […] Codesta negazione è un nuovo concetto, ma un conetto che è superiore e più ricco che non il precedente […] ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto.»1 Facciamo un esempio: nel confliggere frontale di due figure sociali (negazione astratta), una potrebbe esser pronta a sottomettersi all’altra per salvare la propria vita (negazione di sé). Si genera così la relazione tra servo e signore descritta nella Fenomenologia dello spirito.2 Hegel dice che il lato dominato di questo rapporto è costretto a lavorare per quello dominante, ma in questo modo apprende a plasmare gli oggetti e il mondo, dunque acquisisce potere e coscienza di sé (negazione determinata), mentre il signore si limita a fruire immediatamente dei prodotti creati dal servo. Quest’ultimo grazie al lavoro nega sé stesso come pura passività e trasforma tale negazione in un momento positivo: si forma nel lavoro e si riconosce come soggetto più libero e cosciente del signore. La negazione determinata non comporta distruzione, ma trasformazione e conservazione di un contenuto in un nuovo contesto più avanzato.

Le contraddizioni dei giganti
Riassumiamo ora i conflitti principali dell’Attacco dei giganti. 1) I giganti sono nemici degli umani rinchiusi in Paradis, ma poi si rivela che anche quest’ultimi possono trasformarsi in giganti. L’alterità nemica è quindi interiorizzata e il conflitto si sposta fuori le mura. 2) Le mura proteggono l’umanità dai giganti, ma la loro capacità di resistenza è dovuta al potere d’indurimento dei giganti che sono intrappolati all’interno delle fortificazioni stesse. 3) Eren e Armin sognano il mare e la libertà oltre le mura e i giganti, ma scopriranno che al di là dell’oceano c’è Marley che vuole sterminare gli abitanti di Paradis considerandoli mostri. È da Marley infatti che provengono i giganti che assediano Paradis. Essi altro non sono che parte della popolazione eldiana trasformata forzosamente. 4) Eren è l’eroe che sogna un mondo migliore, ma si trasforma nel distruttore della Terra. 5) Sempre lui dichiara: «Io sono uno schiavo della libertà!». Vuole andare oltre le mura, conoscere il mondo, essere libero di scegliere, ma quando accede ai ricordi del futuro del Gigante Fondatore si rende conto che le sue azioni erano già state previste. È lui che ha mostrato al padre gli eventi a venire per costringerlo a compiere determinate azioni. 6) Mikasa ama Eren, ma lo uccide: la ragazza compie l’impresa dell’eroe Eren sconfiggendo l’antagonista Eren e la sua dialettica priva di sintesi – il Boato della Terra.

L’amore di Mikasa
«Il primo momento nell’amore», sostiene Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, «è che io non voglio essere una persona autonoma per me e che, se lo fossi, mi sentirei manchevole e incompleto. Il secondo momento è che io acquisto me in un’altra persona, che io valgo in lei ciò che a sua volta essa consegue in me. L’amore è pertanto la contraddizione più prodigiosa, che l’intelletto non può sciogliere, giacché non vi è nulla di più arduo di questo carattere puntiforme dell’autocoscienza, che viene negato e che io pur tuttavia devo avere come affermativo.»3 Il primo momento è simbolizzato da Mikasa che non si separa mai dalla sciarpa regalatale da Eren; il secondo dalle caratteristiche di Eren che attraggono Mikasa: lo spirito combattivo, il desiderio di giustizia e di libertà. Il motto ricorrente dell’eroe è infatti: «Combatti, devi combattere!» Nel momento in cui questi stessi elementi rischiano di provocare la distruzione, Mikasa compie il più grande atto di amore. Uccide il suo amato per conservarne le aspirazioni. Gli taglia la testa e, dopo un bacio che toglie il fiato, la trattiene in grembo. In questo modo, prossemicamente, Mikasa nega, ma conserva Eren e ciò che egli simbolizza. Dando la morte, Mikasa è la vita che trionfa sulla morte, la dialettica allo stato puro, lancinante, eroica, struggente. Per questo non si può che amare Mikasa.

L’antagonista come motore della storia
Jean Hyppolite afferma che nella Fenomenologia dello spirito «la dialettica producentesi nell’esteriorità si traspone all’interno dell’autocoscienza stessa». In questo modo «la dualità delle autocoscienze viventi diviene la duplicazione dell’autocoscienza all’interno di sé. L’indipendenza del signore e la severa educazione del servo divengono la padronanza-di-sé dello stoico – sempre libero quali che siano le circostanze o i casi della sorte – o l’esperienza della libertà assoluta dello scettico, il quale dissolve ogni posizione diversa da quella dell’io stesso.»4 E così come Alexandre Kojève ricorda che la negazione dell’Altro in Hegel non è assoluta, ma sempre determinata,5 noi possiamo affermare che il gigante rappresenta la negazione determinata di Eren e che, più in generale in narratologia, l’antagonista nega determinatamente l’eroe. Questo infatti riesce a compiere il proprio viaggio6 grazie alla lotta con l’antagonista così come il servo progredisce spiritualmente in virtù del conflitto con il signore, che funge da catalizzatore. Il nemico, l’antagonista, non è mera opposizione esterna, ma momento interno del processo dialettico che permette all’eroe di confliggere, negarsi e autogenerarsi in una nuova superiore identità. Non si sconfigge il nemico annientandolo, ma passandoci attraverso, interiorizzandolo come negativo.
Marx affermava che «È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia». Noi possiamo aggiungere che senza «questo inconveniente della società»7 non ci sarebbe stato né incidente scatenante né conflitto. Saremmo rimasti a casa, non avremmo intrapreso viaggio alcuno e di conseguenza non ci saremmo evoluti. Nessuna storia sarebbe stata scritta o raccontata; non ci saremmo innamorati di Mikasa, non saremmo morti e non continueremmo a vivere in lei.


  1. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, vol. I, Laterza, 1988, p. 36. 

  2. Cfr. id., Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1988, pp. 159-164. 

  3. Id. Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio con le aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Laterza, 1999, pp. 332-333. 

  4. Jean Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, La Nuova Italia, 1989, p. 191. 

  5. Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 1996, p. 65. 

  6. Cfr. A. Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi, Mimesis 2020. 

  7. K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1993, pp. 78-79. 

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Il nemico siamo noi https://www.carmillaonline.com/2025/04/21/il-nemico-siamo-noi/ Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87991 di Maurizio Marrone

Ήθος ανθρώπω δαίμων. Il daimon è per ciascuno il suo carattere. (Eraclito, fr. 119 D.-K.)

Oltre la costruzione identitaria del nemico Mai come in questi giorni cupi, in cui l’Antropocene sembra voler immortalare il proprio suicidio simbolico nell’istantanea di un corpo che annega nelle sue stesse deiezioni, la percezione del mondo è per lo più filtrata da una nozione di soggettività posticcia che, come mera appropriazione identitaria, si nutre di separazione; una divergenza progressiva che esaspera, fino a farla esplodere, non solo la dialettica amico/nemico, ma anche la nozione stessa d’identità dell’individuo in quanto tale, espungendone alla radice l’alterità [...]]]> di Maurizio Marrone

Ήθος ανθρώπω δαίμων.
Il daimon è per ciascuno il suo carattere.
(Eraclito, fr. 119 D.-K.)

Oltre la costruzione identitaria del nemico
Mai come in questi giorni cupi, in cui l’Antropocene sembra voler immortalare il proprio suicidio simbolico nell’istantanea di un corpo che annega nelle sue stesse deiezioni, la percezione del mondo è per lo più filtrata da una nozione di soggettività posticcia che, come mera appropriazione identitaria, si nutre di separazione; una divergenza progressiva che esaspera, fino a farla esplodere, non solo la dialettica amico/nemico, ma anche la nozione stessa d’identità dell’individuo in quanto tale, espungendone alla radice l’alterità intrinseca che la costituzione più intima del soggetto stesso reca in sé, come proprio fondamento inespresso. In forza di questo costante svuotamento di senso, entrambi i termini della relazione – io/altro, amico/nemico – si presentano spesso come significanti vuoti e, soprattutto la nozione di nemico, declinata a uso e consumo di una propaganda dissennata, rimane irrimediabilmente cristallizzata in una sterile costruzione identitaria ad escludendum in forza della quale dalla parte giusta della storia ci siamo noi e da quella sbagliata ci sono gli altri, i nemici, gli stranieri, gli usurpatori, da additare ed eliminare, come gli ultracorpi nel celebre remake del film di Don Siegel. Con buona pace di Edmond Jabès quando ci dice che «lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero»1.

Mai come in questi giorni cupi sarebbe invece opportuna una riflessione ponderata proprio sulla figura del nemico; un’analisi critica, depurata da ogni hybris etnocentrica, capace di restituirne la complessità proteiforme e di scardinare la logica tanatopoietica che, in forza di una fatwa perenne e di una separazione postulata ma fittizia, domina la costruzione del soggetto come mera appartenenza identitaria. Ma di tale riflessione non v’è traccia perché, si sa, la sfida della complessità è merce rara, mentre la semplificazione è in saldo in tutte le vetrine dell’impero. Ciò a cui si assiste, al contrario, è una saga del declino in forma di farsa, messa in scena da una grottesca schiera di saltimbanchi dell’apocalisse che, se non fosse drammaticamente reale, potrebbe a pieno diritto figurare come episodio pilota di una serie distopica di grande successo. Mentre a Gaza va in scena l’atto finale di uno sterminio annunciato e i tecnocrati del dominio giocano a dadi con il nostro futuro. Il vero è diventato un momento del falso, avrebbe detto Debord; e dato che il vero si presenta ormai come un deserto di senso, per trovarne traccia, come spesso accade, è utile volgere lo sguardo proprio al falso, alla finzione, ovvero al territorio dell’immaginario.

Nel vasto panorama della recente produzione fantastica – sia letteraria che cinematografica o seriale – vale la pena di citare almeno due esempi di indubbia originalità e acume. Il primo è il romanzo incompiuto di Valerio Evangelisti intitolato La fredda guerra dei mondi (Mondadori, 2023) che doveva essere composto da 45 capitoli di 5 pagine ciascuno e, nella volontà dell’autore, avrebbe dovuto rappresentare l’ampliamento dell’omonimo racconto uscito nel 2020 in un fascicolo Urania Millemondi chiamato Distopia, (Mondadori, 2020). Data la scomparsa prematura di Evangelisti, del libro, purtroppo, sono disponibili solo i primi 17 capitoli, con l’eccezione del capitolo 10 che il curatore Franco Forte non è mai riuscito a trovare nel lascito dello scrittore bolognese. Il secondo esempio è Scissione (Severance), la serie televisiva creata da Dan Erickson, la cui seconda stagione è da poco andata in onda su Apple Tv.

Valerio Evangelisti

La fredda guerra dei mondi
Nella Fredda guerra dei mondi Evangelisti mette in scena un conflitto globale che vede come protagonisti da una parte la Terra (o meglio le potenze occidentali) e dall’altra una presunta razza aliena dalle sembianze vagamente umanoidi. Una potenza «straniera» venuta dallo spazio profondo, dotata di tecnologie sofisticatissime che sta distruggendo, uno a uno, tutti i monumenti delle principali città impegnate nei combattimenti, senza però fare alcuna vittima, né tra i civili né tra i militari. L’esistenza degli alieni è nota ai governanti di turno da molti anni – da quando cioè alcuni di loro sono stati catturati – ma è stata tenuta nascosta alla popolazione civile, fino a quando «gli extraterrestri» individuano i loro compagni rapiti e scatenano l’attacco contro la Terra per riportarli a casa. Il conflitto è gestito da un’entità sovranazionale, composta da capi di stato, militari e tecnocrati che, senza alcun mandato, si sono intestati il diritto di condurre la parte sana dell’umanità alla vittoria, costi quel che costi; ed è lecito presumere che il tempo della narrazione, ambientata tra Parigi e Tolosa, sia più o meno quello del nostro presente. Le vicende legate alla guerra, però, intersecano anche quelle di una scalcinata accolita di malviventi dalla raffazzonata quanto traballante vocazione anarchica. Il capo, soprannominato «il Reverendo», durante una rapina a casa di un generale, assiste per caso a una videoconferenza tra i potenti della Terra, dalla quale apprende dell’invasione aliena. Seguendo le gesta del Reverendo e della sua banda di sodali, si scoprirà che in realtà gli invasori alieni non sono altro che gli umani di un lontano futuro che, grazie a un entanglement spazio-temporale, sono tornati a salvare i loro fratelli tenuti prigionieri. Per questa ragione non uccidono i propri presunti nemici: perché la morte di ciascun nemico nel presente eliminerebbe migliaia di loro nel futuro. La chiamata alle armi e la rivelazione della minaccia aliena – con il consueto corredo di fanatismo nazionalista e vaneggiamenti su una imminente sostituzione etnico-culturale – vengono annunciate a reti unificate, senza però svelare la reale provenienza degli invasori. Perché, dice Evangelisti per voce del segretario di Stato americano, «L’uomo del popolo deve individuare confusamente chi è il nemico e starsene al riparo a sostenere chi combatte, oppure arruolarsi e obbedire agli ordini». Lo stato di guerra contro un nemico di cui non si rivela mai il vero volto (perché è il nostro), consente al potere di perpetrare se stesso e di stroncare sul nascere ogni forma di dissenso, così come di giustificare impunito – in nome di una ragione superiore – qualsiasi ripugnante metodo repressivo. Ma la chiamata alle armi nasconde anche un duplice e più agghiacciante obbiettivo: in moltissime città, a contingenti di 20 mila per volta, i riservisti che si sono offerti volontari per combattere gli alieni, vengono sterminati col gas, come bestie da macello. Perché, annuncia tronfio un autorevole burocrate dello sterminio, il sacrificio di 20 mila dei nostri nel presente, annienterà all’istante milioni dei loro nel futuro dal quale provengono.
Il romanzo in sostanza si conclude qui. Purtroppo Evangelisti ci ha lasciati prima di poter comporre il puzzle ma, tenendo fede al finale dell’omonimo racconto del 2020 e avendo una qualche dimestichezza con l’universo narrativo dello scrittore bolognese, è lecito avanzare qualche ipotesi. Fatte salve le sorti, rimaste indecise, del Reverendo e della sua banda possiamo infatti immaginare che un entanglement spiraliforme travolga nel suo vortice il presente della narrazione, per proiettarlo in un tempo X dalla struttura ignota, nel quale però un altro gruppo di ladri e puttane deciderà che resistere non è mai inutile.

Rispetto alle questioni relative allo statuto del nemico/straniero sollevate nella nostra breve quanto sommaria premessa, è utile ribadire come Evangelisti, soprattutto nel ciclo di Eymerich, si sia confrontato principalmente con la natura del potere, che egli incarna nella figura dell’inquisitore catalano: una natura spietata, pervasiva ma, allo stesso tempo, estremamente seducente (tutti i lettori tifano per il Magister) e, per questo, ancor più subdola e pericolosa. Lo stesso personaggio di Eymerich, tuttavia, diventa anche un topos narrativo di sperimentazione nel quale soprattutto da un punto di vista archetipico, agisce proprio la questione del nemico come alterità consustanziale al soggetto. Perché se è vero, da una parte, che il Magister rappresenta il villain per eccellenza (spietato, determinato, feroce, astuto, implacabile e quasi sempre malvagio), dall’altra il lettore è portato a schierarsi sempre dalla sua parte e, in tutto il ciclo, sembra mancare un vero e proprio antagonista in senso narratologicamente codificato. Perché, in realtà, i vari avversari che Eymerich inesorabilmente sconfigge nel corso delle sue imprese e investigazioni (eretici, catari, giudei, alchimisti, falsi profeti e soprattutto donne, alle quali egli imputa il peccato originale dell’empatia e della carnalità), in virtù di un rovesciamento tanto intrigante quanto sofisticato, rappresentano il lato vitale di sé, che egli detesta e dal quale è terrorizzato. Corpus vs dogma, il volto lunare di Ecate e del femminile vs fede e ragione. Ogni forma di partecipazione emotiva e di contatto col corpo vivo del mondo, che Eymerich avverte dentro di sé, viene vissuta come l’azione strisciante del demonio, repressa e esternalizzata in una schiera di nemici da abbattere ad ogni costo.

Nella Fredda guerra dei mondi, per quanto è dato rilevare vista l’incompiutezza del romanzo, questo medesimo meccanismo di rifiuto e outsourcing del rimosso viene declinata in modo più esplicito e secondo uno schema più squisitamente politico e interno alle dinamiche di conservazione del potere. Non importa, infatti, che gli umani si facciano la guerra tra di loro perché, purtroppo, è cosa fin troppo comune; non importa neanche che siano disposti ad annientarsi come specie, perché anche questa, purtroppo, è un’ipotesi sul tavolo. Importa però in maniera cogente che gli umani del futuro, universalmente trattati come nemici da eliminare, vengano costantemente definiti e considerati «alieni», anche e soprattutto da chi è a conoscenza della loro vera natura, che è la nostra. Importa l’incapacità di accettare un corpo – e un volto – che il tempo ha trasformato e verso il quale non si nutre alcune curiosità o empatia, ma disgusto e derisione. Importa la reductio a semplice entità malevola (l’alieno da abbattere) di una specie – la nostra – che ha percorso milioni di anni di storia a ritroso nel tempo e nello spazio per salvare i propri fratelli. Per tornare a Jabès, importa la manifesta e patologica volontà di disconoscere lo straniero che è in noi. Ma, soprattutto, in chiave sociopolitica, importa l’arroganza del potere che, per affermare e salvaguardare se stesso, è disposto a cancellare con un gesto milioni di possibili storie future. E rileva importa che la vera natura degli invasori, tenuta sapientemente nascosta alla popolazione, sembra venir dimenticata anche da chi siede nella stanza dei bottoni. Perché, appunto, il nemico deve rimanere un significante vuoto, uno stereotipo strumentale che definisce per via negationis tanto il soggetto quanto la sua appartenenza ad una comunità di eletti che blinda il proprio perimetro al grido di «Morte all’invasore, morte al mostro!».

Scissione
Scissione (Severance) – il secondo dei nostri esempi – è una serie del 2022 targata Apple Tv, di cui per ora sono disponibili due stagioni, anche se è già stata annunciata la messa in onda della terza. Ideata da Dan Erickson e prodotta da Ben Stiller (che dirige magistralmente anche metà degli episodi) rappresenta un piccolo capolavoro, sia per quanto riguarda la scrittura che le scelte estetico-formali. La vicenda, situata in un tempo imprecisato, ma ragionevolmente prossimo tanto al nostro passato recente, quanto al nostro futuro imminente, è ambientata in parte nella desolata cittadina di Kier – nello stato di New York – e in parte negli uffici della Lumen Industries, un’azienda tanto misteriosa quanto potente, che ha brevettato una procedura neurologica in grado di scindere la coscienza dei propri impiegati in due entità completamente distinte e irrelate. I dipendenti che sono stati sottoposti al processo di scissione – gli interni – sono completamente ignari di quanto accade loro al di fuori dell’ambiente lavorativo, mentre i loro corrispettivi mondani – gli esterni – non sanno nulla di ciò che avviene negli uffici dell’azienda con la quale hanno sottoscritto il contratto di assunzione. L’unica differenza di consapevolezza tra le due parti del sé scisso è che gli esterni hanno scelto di sottoporsi alla procedura, mentre gli interni l’hanno subita. Oltre a ciò, ed è un distinguo di non poco conto nell’economia dell’impianto narrativo, solo gli esterni possono risolvere il contratto, a significare che gli interni sono, loro malgrado, imprigionati in una realtà che non hanno scelto e dalla quale, al contrario degli alter ego che gli hanno in qualche modo generati, non possono evadere se non al prezzo del loro stesso autodissolvimento. Quanto alle ragioni che hanno portato ciascuno dei protagonisti a sottoporsi alla procedura e ad avere – si fa per dire – una seconda vita ignara della prima, sono sia di carattere personale (l’incapacità di sopportare il dolore di una perdita, un’omosessualità repressa vissuta come colpa, il senso di fallimento per la mancanza di un lavoro stabile) che dettate da deliri di marketing aziendale (l’erede al trono della famiglia Eagan – proprietaria della Lumen – che decide di sottoporre se stessa al processo di scissione per santificarne la fulgida efficacia).
L’ambiente lavorativo è asettico, labirintico, claustrofobico, volutamente estraniante, dominato da un bianco privo di spessore e di tempo; mentre la vita lavorativa degli interni – che è l’unica di cui dispongono – è sempre identica a se stessa, se non per il fatto che, di tanto in tanto, è costellata da surreali siparietti fatti di recite, cappellini e premi produzione della portata di un dolcetto in più da consumare durante la pausa pranzo. Per il resto il loro lavoro consiste nell’individuare e rimuovere numeri «pericolosi» da enormi set di dati, senza sapere realmente quale sia il loro significato. Una surreale distopia dell’assurdo che però scompare dalla memoria una volta oltrepassata la soglia dell’azienda. Così come scompaiono lo sfruttamento, le vessazioni e le torture psicologiche a cui vengono sottoposti gli interni ogni volta che cercano di evadere dalla routine alienante.
Un dispositivo espropriante quasi perfetto che però si inceppa quando un ex collega di Mark (il personaggio principale della serie) viene ucciso dopo aver contattato il suo esterno e avergli fatto capire che è possibile la reintegrazione parziale delle due parti scisse e che la Lumen non è esattamente quello che sembra. È questo l’evento scatenante che, in una atmosfera cupa e straniante, nella quale si fondono noir, thriller, spy story e qualche venatura horror, mette in moto il meccanismo che porterà gli interni a voler accedere con la coscienza intatta al mondo dei propri esterni, per carpire le ragioni di un esilio che è tutt’uno con la loro nascita tardiva.

Oltre il rimosso
Come si evince da questa breve ricostruzione la trama, di cui non sveleremo altro, è molto sofisticata e si presta a molteplici livelli di lettura. Se in forma piuttosto esplicita l’idea centrale della serie allude a Freud e al rapporto tra Io e Es (anche se ovviamente in forma rovesciata, visto che la parte rimossa non è quella sofferente ma quella apparentemente felice che trova nel lavoro una distrazione dalla nevrosi del quotidiano), il modo in cui evolve il racconto intercetta una serie di riflessioni e di tematiche ognuna delle quali meriterebbe di essere trattata a parte. Alienazione (nel senso marxiano del termine), disumanizzazione, dominio, controllo, potere, memoria, identità; e, anche se in forma non immediata, ma non per questo meno stimolante, la questione del nemico posta in relazione proprio con il concetto di identità scissa e alterità rimossa. Perché dal momento in cui ciascuno degli interni, grazie a un breve episodio di reintegrazione, entra in contatto con la parte a lui sconosciuta della propria vita, si innesca un movimento a spirale che porterà le due metà della coscienza disgregata a diventare una nemica dell’altra; un processo di progressiva e sistematica ostilizzazione del rimosso che, se declinata in chiave politico-sociale, rischia di congelarsi in una frattura insanabile – quasi un nuovo nomos della Terra in forma di muro – che pone come inaggirabile e costituente del nostro stesso patto fondativo la distinzione fittizia tra «noi» – i buoni – e «loro» – i nemici. Dicevano Chamosieau e Glissant che «Ogni volta che una cultura o una civiltà non è riuscita a pensare l’altro, a pensarsi con l’altro, a pensare l’altro in sé, queste rigide difese di ferro, di filo spinato, di reti elettrificate o di ideologie chiuse si sono innalzate, sono crollate e ora ritornano con nuovi stridori»2. Perché se è vero che l’identità pensata come «muro» è presente in tutte le culture, è in Occidente che ha mostrato (e continua a mostrare) tutta la sua forza di devastazione.

Per ora non è dato sapere se l’umanità presente e futura della Fredda guerra dei mondi troverà un modo di convivere pacificamente o se i personaggi di Scissione riusciranno a ricomporre la lacerazione che, per loro stessa mano, ha precipitato parte della loro identità in territorio ostile. Certo è che solo accettando l’altro che è in noi riusciremo ad abbattere il muro da noi stessi edificato e forse, come auspicava il compianto Alessandro Leogrande, a farci testimoni dell’unicità di ogni ferita, compresa la nostra.


  1. Cfr. E. Jabès, Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato, SE, Milano, 1991. 

  2. Cfr. P. Chamosieau-E. Glissant, Quando cadono i muri, Nottetempo, Roma 2008. 

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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente/ 4: a caccia di mostri https://www.carmillaonline.com/2022/07/06/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-4-a-caccia-di-mostri/ Tue, 05 Jul 2022 22:10:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72780 di Fabio Ciabatti

I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per [...]]]> di Fabio Ciabatti

I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per provare a disertare il campo di battaglia è proprio quello di riconoscere che il nemico non rappresenta un’alterità incommensurabile rispetto alla nostra identità (stiamo parlando di una diserzione ideale ben consapevoli che quella reale cosa assai diversa). In questo modo possiamo mettere in questione la logica assoluta dell’“amico-nemico” che ci viene imposta e contrastare gli slanci bellicamente eroici che essa porta con sé. Si tratta certamente di un primo passo necessario perché ci consente di capire che, al di là delle manifeste differenze, esiste un sostrato comune tra i contendenti.1

Adesso, però, è venuto il momento di chiederci se questo passo sia anche sufficiente. La suggestione del lato oscuro l’abbiamo ripresa da uno dei manuali di sceneggiatura più diffusi di Hollywood, Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. Qui l’antagonista è considerato come l’“insieme degli aspetti negativi dell’Eroe stesso”, come la “dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi”. Il nemico non è altro che l’eroe al rovescio, il suo lato oscuro, appunto. In questo contesto, la sconfitta dell’antagonista deve passare necessariamente per una trasformazione dell’eroe, perché la vittoria contro il male che è rappresentato esteriormente dal nemico significa anche la sconfitta del male che si cela in profondità nel protagonista stesso. La domanda da porsi a questo punto è la seguente: a partire da questa dinamica si può immaginare che la trasformazione dell’eroe possa produrre qualcosa di realmente nuovo?
Per rispondere occorre storicizzare la concezione del nemico che abbiamo ripreso da Vogler. E a tal fine occorre porsi un’ulteriore domanda: non è che questo modo di concepire il nemico si può affermare quando si è consolidata, fino a diventare senso comune, la convinzione che il nostro mondo non è solo quello più giusto, ma anche l’unico realmente esistente? Quando siamo oramai convinti che “there is no alternative”, né all’interno delle nostre società occidentali né al di fuori? Se esistiamo solo “noi” l’unico nemico può stare solo dentro di noi.
Insomma, il nemico vogleriano fa parte di un tipo di narrazione adeguato ai tempi del neoliberismo trionfante e della globalizzazione rampante. Tempi in cui il nemico storico del sistema capitalistico, quello interno rappresentato dall’Unione Sovietica e quello interno formato dalla classe operaia, sono stati sconfitti. Sulla scena rimane soltanto “il mondo libero”, destinato ad espandersi su tutto il globo. Rimane solo il capitale.

Si può dunque sostenere, utilizzando le categorie di Frederic Jameson, che l’idea del nemico come lato oscuro dell’eroe rappresenti una soluzione immaginaria ad una contraddizione reale che può essere posta in questi termini: come è possibile che esista ancora il male quando il bene ha oramai trionfato? Si tratta di una soluzione che occulta le radici storiche del problema cui cerca di dare una risposta: il problema stesso viene infatti rappresentato come espressione delle eterne contraddizioni della natura umana. Detto in altri termini, il male persiste perché luce e ombra fanno parte dell’essenza immutabile dell’umanità. L’unica soluzione possibile sembra stia nel prevalere del lato positivo su quello negativo. Il primo deve riuscire a inglobare e governare il secondo. Quest’ultimo, però, può sempre risorgere perché imperituro. L’eterno ritorno del conflitto tra luce e tenebre finisce però per offuscare la necessità di un superamento della contraddizione reale si concretizzi in una nuova configurazione storica. Quando le contraddizioni di un periodo storico si incancreniscono, infatti, è inutile sperare che uno dei poli esca vincitore dalla lotta senza che questo comporti la riproposizione di un medesimo ordine in forma sempre più marcescente. Non era questa la lezione di Marx quando sosteneva che la classe operaia deve negare sé stessa per poter trionfare, pena la comune disfatta delle classi in lotta?
Solo attraverso una soluzione immaginaria si può pensare di evitare questo esito riproducendo un vecchio mondo già condannato. In effetti nella narrazione che contiene il moderno archetipo del nemico come ombra, la già richiamata saga di Star Wars, c’è il trucco che consente al mondo di ritrovare il suo perduto equilibrio. Il lato oscuro della forza, Dart Fener, riconosce alla fine la sua manchevolezza e si sacrifica per il trionfo della luce. In fin dei conti la speranza in un regime change in Russia sembra rimandare a questo tipo di epilogo. C’è purtroppo un altro esito possibile che la serialità televisiva ci suggerisce. Dexter, il famoso serial killer che uccide solo serial killer (state forse pensando agli Stati Uniti e alla Russia?), alla fine non riesce più a convivere con il suo “passeggero oscuro”, il suo irresistibile impulso omicida. Le regole del suo “codice” che lo obbligano ad uccidere solo i malvagi sfuggiti alla giustizia ordinaria non sono più sufficienti a impedire che la sua oscurità faccia del male agli innocenti (danni collaterali?). L’unico modo per evitarlo è uccidere il “passeggero oscuro” insieme a chi gli dà il passaggio. Siamo destinati ad un suicidio collettivo? Magari con una guerra nucleare in cui il Sansone occidentale perisce insieme a tutti i filistei russofoni? Forse per evitare questo tragico esito dobbiamo andare a caccia di mostri, quelli veri, non gli spauracchi che ci vengono spacciati come tali. 

Uno che di mostri se ne intende, il romanziere marxista China Mieville, afferma: “La massima ‘Abbiamo visto i veri mostri e siamo noi’ non è né una rivelazione, né una cosa intelligente, interessante o vera. È un tradimento del mostro e dell’umanità”.2  Il mostro, in senso forte, è infatti ciò che è completamente altro da noi. E come tale è inafferrabile, inconoscibile, irrazionale. Il mostro nella sua totale alterità sembra venire dall’esterno: è un’entità extraterrestre (la cosa venuta dallo spazio), extramondana (il demone), extraumana (la catastrofe naturale). Ma, in un senso forse ancora più forte, il mostro, nella sua completa indecifrabilità, non ci rivela la sua origine. Non riusciamo a sapere se provenga da un qualche altrove o se sia un parto del nostro mondo. Il mostro, sostiene sempre Mieville, è l’impossibile eppure necessaria incarnazione dell’inconoscibile. Tale incarnazione è talmente necessaria che “La storia delle società fino ad ora esistite è la storia di mostri”. O, detto altrimenti, “Le epoche generano i mostri di cui hanno bisogno. Dei mostri e attraverso di essi può essere scritta la storia”. Una cosa necessaria richiede una spiegazione, ma una cosa impossibile la rifiuta. Da questa tensione scaturisce l’irresistibile tendenza all’esemplificazione del mostruoso. “Una cosa così evasiva rispetto alla categorizzazione provoca – e si arrende a – un desiderio famelico di specificità, di elencazione del suo corpo impossibile, di genealogia, di un’illustrazione. Il telos dell’essenza mostruosa è l’esemplificazione”.

Cerchiamo di applicare queste idee alla guerra che, in fin dei conti, potrebbe essere considerata uno dei peggiori mostri di cui possiamo fare reale esperienza. Prendiamo gli Stati Uniti, la nazione guida del “mondo libero” che senz’altro influenza più di ogni altra il nostro immaginario collettivo. Dal 1776, anno della dichiarazione di indipendenza “solo 18 anni su 245 sono trascorsi in completa pace”.3 La guerra è dunque necessaria perché viene praticata in continuazione. È il passeggero oscuro della nazione americana, il suo irresistibile impulso omicida. Ma essa è al contempo impossibile perché gli USA sono il faro della democrazia, la terra delle opportunità per tutti, il campione dell’autodeterminazione dei popoli. E allora sorge la necessità di esemplificare la guerra attraverso una sequela di nemici cattivi, anzi cattivissimi che possano rientrare nel novero degli assassini meritevoli di essere uccisi secondo il “codice” del serial killer statunitense. Dopo la Seconda guerra mondiale, in ogni conflitto arriva immancabile la reductio ad Hitlerum. Il primo prototipo di questa illustrazione è L’URSS che viene assimilata alla Germania nazista attraverso un utilizzo disinvolto della categoria di totalitarismo.
Ma il nemico, anche se cattivissimo come può essere un Putin qualsiasi, rimane una cosa diversa dal mostro, almeno nel senso forte che abbiamo attribuito a questo termine. Il nemico è qualcosa con cui siamo in grado di fare i conti perché possiamo comprenderlo o quantomeno collocarlo in uno spazio conoscitivo oscuro, ma delimitato. Per questo, quando affrontiamo un nemico, la nostra identità e le nostre coordinate esistenziali non sono messe in discussione fino alla loro radice ultima.  Questo scontro, almeno fino a quando pensiamo di poter essere vittoriosi, ci impone solo di rafforzare la nostra identità, cambiandola quanto basta per sconfiggere l’avversario, qualora necessario. Il mostro ci pone di fronte a un compito ben più difficile: ci obbliga a negare radicalmente il nostro mondo e dunque noi stessi. Poiché la sua minaccia è al tempo stesso inafferrabile e mortale, nulla di ciò che sappiamo o siamo in grado di fare ci può salvare. La catastrofe che incombe manifesta i limiti invalicabili del nostro universo, dal punto di vista pratico e da quello conoscitivo. Pensare di sconfiggere il mostro significa cercare di oltrepassare questi confini provando a immaginare un altro mondo possibile, un’esigenza che appare al contempo impossibile e necessaria. Mi verrebbe da dire che si tratta di una dialettica aperta. Senza garanzie. Anche questo fa paura.

Cerchiamo di approfondire la questione prendendola da un altro punto di vista. L’idea che il nemico sia il lato oscuro dell’eroe, come abbiamo già accennato, rimanda ad una sorta di pessimismo antropologico. Il presupposto è che ci sia un lato oscuro dell’umano in quanto tale da cui scaturisce, tra le sue peggiori manifestazioni, l’incapacità di pensare l’alterità senza mostrificarla. Questo è un dato che possiamo senz’altro ammettere, in considerazione degli orrori ripetuti della storia (dis)umana. Eppure, fermarci a questa considerazione non ci porta molto lontano. Se è vero che il rapporto con l’alterità è sempre stata problematica, non per questo ciò ha dato sempre luogo a esiti estremi come la demonizzazione dell’altro. L’etnocentrismo, che per semplicità possiamo considerare un fenomeno universale, è una cosa, il razzismo è un’altra. Vero è che nel primo possono essere individuati i semi del secondo. Ma non sempre quei semi germogliano. 

Possiamo pensare … che la propensione al dominio e alla violenza, il gusto per la crudeltà e il penchant totalitario facciano parte della natura umana, che siano intrinseci al desiderio che ci muove. È una posizione filosofica fin troppo convincente, molto disperata e infine profondamente reazionaria. Oppure possiamo pensare che violenza, crudeltà, abuso e produzione di miseria siano una possibilità ineludibile, che tuttavia deve ogni volta di nuovo essere scelta. Che siano, cioè, l’esito di una storia.4

La scelta di cui si parla, dunque, avviene ogni volta in condizioni diverse, storicamente determinate e produce effetti di volta in volta differenti. “Le epoche generano i mostri di cui hanno bisogno”, ripetiamo insieme a Mieville. Il mostro, potremmo dire, è un modo per raffigurare ciò che le categorie con cui si autorappresenta una data epoca non possono concettualizzare; un modo per narrare allegoricamente le conseguenze più disumane che scaturiscono da un dato sistema sociale e che questo stesso sistema non può riconoscere come propri frutti necessari. Perché se li riconoscesse come tali verrebbe meno quell’etnocentrismo che appare come momento necessario per cementare una qualche forma di solidarietà e di unione di un dato gruppo umano. Il mostro non è solo l’essere spaventoso che minaccia di divorare qualche malcapitato, ma quello che preannuncia la possibile distruzione di un intero mondo. È ciò che, per dirla con De Martino, minaccia la presenza e annuncia l’apocalisse culturale.
Nella concezione di Mieville il mostro deve rimanere qualcosa di inspiegabile, una sorta di imperscrutabile divinità malevola. Rimanendo nell’ambito della narrazione romanzesca, ciò evita il rischio di scadere nel didascalico. Ma se usciamo dalla fiction, siamo sicuri che non possiamo fare qualche passo ulteriore per affacciarci al di là delle categorie con cui si autorappresenta una data epoca? Scrivere la storia attraverso i mostri che di volta in volta essa ha generato non prelude proprio a questo tipo di tentativo?

Ritorniamo alla guerra. Lo sviluppo della cosiddetta globalizzazione avrebbe dovuto portare al mondo la “pace perpetua” perché, secondo uno stereotipo fondante dell’ideologia moderna reso celebre da Kant, lo “spirito commerciale” non può coesistere con la guerra. E invece ci ha condotto alle soglie di un conflitto mondiale. Non dobbiamo perciò pensare la guerra come l’esito delle scellerate azioni del mostriciattolo di turno che interrompe il normale funzionamento di un sistema altrimenti destinato a diffondere la pacifica e fattiva coesistenza tra i popoli. Queste azioni sono solo le cause immediate di un conflitto. Dobbiamo pensare la guerra come un fenomeno mostruoso in senso forte, come raccapricciante conseguenza dei fondamenti indicibili del nostro mondo. In altri termini, con buona pace di Kant, dobbiamo pensare la “guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali”. 5
Ovviamente la guerra non l’ha inventata il capitalismo. Ma la guerra in grado di distruggere, letteralmente, l’intera umanità (un conflitto mondiale, a maggior ragione se nucleare) è impensabile senza il capitalismo. Cannoni, missili, carri armati sono le zanne e gli artigli più visibili del capitale totale che ci sta divorando. Ciò detto è evidente che una cosa è individuare la genesi dei mostri che appartengono al nostro mondo e pensare le condizioni di una società libera dalle loro minacce, altro è riuscire a immaginare un mondo che sia privo da qualsiasi mostro. Insomma, liberarci da un male storicamente determinato non è lo stesso che liberarci da ogni male. Un mondo libero dalla minaccia di una guerra totale può ben essere costellato da una serie di feroci battaglie locali, tribali, sociali. Anche in questo senso la dialettica di una possibile liberazione non può che rimanere aperta. 

(4 – fine– le precedenti puntate qui, qui e qui)


  1. Lo abbiamo già detto, ma vale la pena qui ripeterlo. Oggi assistiamo a uno scontro tra potenze che si gioca sulla pelle della popolazione ucraina, vera carne da cannone cinicamente mandata allo sbaraglio dagli USA e massacrata senza pietà dalla Russia. Ciò sia detto senza nulla togliere al fatto che le responsabilità dello scoppio di questa guerra ricadono, nell’immediato, sullo stato guidato da Putin, incapace di rispondere politicamente, con una strategia di tipo egemonico, alla Nato che abbaiava alle sue porte. 

  2. China Mieville, Theses on Monsters, pubblicato in www.chinamieville.net. Le successive citazioni sono tratte dallo stesso scritto (traduzione nostra). 

  3. Questa affermazione non è presa non da un sito filo-Putin, ma dalla sezione Infodata del Sole 24 ore 

  4. Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 72. 

  5. Sandro Moiso, Il nuovo disordine mondiale: chi semina vento raccoglie tempestasu “Carmilla” qui. 

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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente/ 3: a proposito di oligarchie https://www.carmillaonline.com/2022/06/26/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-3-oligarchie-a-confronto/ Sat, 25 Jun 2022 22:10:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72650 di Fabio Ciabatti

Nella saga di Star Wars, vera e propria fabbrica di moderni archetipi, l’intero universo è permeato e governato da una sorta di misterioso campo di energia, la “forza”. Questa però ha anche il suo lato scuro, che, in ultima istanza, genera il più terrificante dei nemici, l’Impero. C’è un momento di verità in questo modo di concepire il nemico. Ed è per questo che può essere utilmente applicata alla Russia di Putin che, al di là dei punti di scontro, condivide con l’Occidente l’accettazione dei principi del capitalismo [...]]]> di Fabio Ciabatti

Nella saga di Star Wars, vera e propria fabbrica di moderni archetipi, l’intero universo è permeato e governato da una sorta di misterioso campo di energia, la “forza”. Questa però ha anche il suo lato scuro, che, in ultima istanza, genera il più terrificante dei nemici, l’Impero. C’è un momento di verità in questo modo di concepire il nemico. Ed è per questo che può essere utilmente applicata alla Russia di Putin che, al di là dei punti di scontro, condivide con l’Occidente l’accettazione dei principi del capitalismo neoliberista, a differenza di quanto avveniva con l’URSS che proponeva un sistema socioeconomico diverso da quello capitalistico (quanto poi fosse migliore è un’altra questione). Rimanendo all’allegoria cinematografica, possiamo considerare la forza come i flussi di valore capitalistici che oramai attraversano e plasmano l’intera realtà producendo anche il tenebroso capitalismo russo. Ovviamente il meccanismo narrativo e quello ideologico funzionano finché lo scontro tra il bene e il male è raffigurata come la lotta tra Davide e Golia. Nella realtà i rapporti di forza sono ribaltati, ammesso che la guerra attuale è uno scontro tra Usa e Russia per interposta Ucraina.

Potrebbe sembrare frivolo, di fronte alle tragedie della guerra, chiamare in causa Hollywood, ma la guerra si combatte anche sul piano dell’immaginario. Continuiamo perciò ad approfondire gli elementi che la metafora del nemico come lato oscuro ci consente di cogliere. A questo proposito un’obiezione sorge immediata: cosa c’entra un sistema statalista, oligarchico, autoritario con l’Occidente caratterizzato da mercato, concorrenza e democrazia? Se parliamo di regime politico, bisogna notare che da molto tempo il problema per i paesi capitalisticamente sviluppati non è quello di approfondire la democrazia, ma di limitarla. Già nel 1975 il rapporto della famigerata Trilateral Commision1 parla di un “eccesso di democrazia” che comporta una “carenza di governabilità”. Il problema, in sostanza nasce dal fatto che “Le richieste al governo democratico si fanno più pressanti, mentre le sue possibilità ristagnano”. Il linguaggio è ancora prudente, ma il messaggio è chiaro: lo stato eccessivamente democratico è in difficoltà “in relazione alla sua capacità di mobilitare i cittadini per il raggiungimento di fini sociali e politici e di imporre loro i sacrifici che ciò comporta”. Insomma, le esigenze dello sviluppo economico capitalistico richiedono che la rappresentatività democratica sia sacrificata sull’altare della governabilità. La logica dell’evoluzione delle istituzioni politiche occidentali non è molto diversa da quella che, come abbiamo visto nella prima parte di questo articolo, ha indirizzato lo sviluppo della “democrazia gestita” russa. Una logica “postdemocratica” che, per fare l’esempio forse più drammaticamente evidente, abbiamo visto all’opera quando il governo greco è stato costretto dall’Eurogruppo ad accettare draconiane misure di austerità pochi giorni dopo un referendum che a netta maggioranza le aveva respinte.

Va bene, si potrà ancora obiettare, la nostra democrazia non è più quella di una volta, ma in occidente c’è il libero mercato mentre la Russia è un paese dominato da un pugno di oligarchi che detengono il potere economico e che sono direttamente conniventi con il potere politico. La realtà però suggerisce altro:

oltre l’80 per cento del capitale azionario globale è oggi controllato da meno del 2 per cento degli azionisti, un ristretto manipolo di grandi capitalisti che tende a ridursi ulteriormente a cavallo delle crisi. La tendenza è generale, trova conferma in tutte le aree geopolitiche: negli Stati Uniti, in Europa, persino in Cina. Ed è interessante notare che il nucleo di giganti situati al comando della rete del capitale non muta granché nel tempo.2

La natura sostanzialmente oligarchica del capitalismo contemporaneo non può che influenzare l’intera architettura del potere. Tony Woods, descrivendo il profondo intreccio tra i membri del potere politico e di quello economico in Russia, commenta:

Questo traffico a doppio senso tra il mondo dello stato e quello dell’impresa privata sarà senza dubbio del tutto familiare a molti lettori: lo stesso tipo di porta girevole sostiene notoriamente le élite in gran parte del mondo, consentendo loro di muoversi di qua e di là senza sforzo tra le sale del consiglio di Goldman Sachs e i corridoi del potere a Washington, Londra, Roma e altrove.3

Ci possiamo forse dimenticare che Mario Draghi, prima di diventare Presidente del Consiglio italiano è stato Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, Direttore Generale del ministero del Tesoro, membro del Comitato esecutivo di Goldman Sachs, Governatore della Banca d’Italia e Governatore della Banca Centrale Europea? Di esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a bizzeffe, ma andiamo al cuore del problema. Nel “mondo libero” l’azienda si è fatta modello istituzionale e in questo modo i suoi valori, strumenti e obiettivi sono stati introiettati dal mondo politico. Il neoliberismo condivide con il liberalismo classico l’idea che il pubblico sia inefficiente al contrario del privato, ma da ciò non discende necessariamente il ritorno allo stato minimo. Una cosa, infatti, è sostenere che lo stato non debba occuparsi di questioni economiche e che i titolari di incarichi pubblici debbano mantenersi separati dagli uomini d’affari, altro è affermare, come fa per esempio la scuola del New public management, che una serie di servizi e produzioni debbano essere finanziati dallo stato e gestiti dai privati, e che le imprese devono poter influenzare il governo, ma non viceversa. Un’influenza che tende ad autorafforzarsi perché, con il depauperamento delle competenze statali conseguenza delle esternalizzazioni, il regolatore deve fare sempre più affidamento sul sapere specialistico del regolato: è il fenomeno noto come regulatory capture.4
Questa dinamica in Occidente si è imposta con la forza di una sorta di processo naturale, una volta che i nemici storici, interni ed esterni, del capitalismo sono stati sconfitti. Gli analoghi processi in Russia, dato il minor radicamento del modo di produzione capitalistico, sono avvenuti attraverso un ruolo più manifesto del potere statale. Di conseguenza in Occidente si è potuta mantenere una distinzione formale più marcata tra istituzioni politiche ed economiche rispetto a quanto accade nelle cosiddette democrature, anche se si tratta di una membrana sempre più sottile e permeabile. Il fatto che la commistione tra oligarchia economica e ceto politico rimanga più opaca produce un indubbio vantaggio: l’élite economico finanziaria capitalistica non appare direttamente responsabile del benessere dei cittadini. Può sempre scaricare sulla classe politica di turno le responsabilità della macelleria sociale che essa stessa sostiene e promuovere alla bisogna un ricambio del ceto politico: cambiare tutto (politicamente), per non cambiare nulla (socio-economicamente). L’estrema personalizzazione della politica accomuna l’Occidente democratico e la Russia autocratica, ma le leadership carismatiche da noi sono più facilmente sostituibili. Morto un pupazzo se ne fa un altro! Quello che è stato definito “capitalismo politico” è più vulnerabile nei confronti del conflitto economico-sociale perché quest’ultimo diventa immediatamente politico, nel senso che si scontra direttamente con le istituzioni statali.
Ma c’è il rovescio della medaglia. Le istituzioni del “mondo libero” sono costrette a mantenere un livello minimo di mediazione con le istanze che si esprimono attraverso la rappresentanza politica, per quanto essa sia estremamente depotenziata. In Italia, prima di arrivare al Governo Draghi si è dovuti passare per l’apparente autocombustione delle esperienze di governo gialloverde e giallorossa. Formalmente si è costretti a riconoscere anche la legittimità delle istanze provenienti dalla cosiddetta “società civile”, anche se queste possono trasformarsi in movimento reale e antagonista (in quest’ultimo caso, però, la carota si rimpicciolisce fino quasi a scomparire mentre il bastone si ingrandisce a dismisura). Quando la crisi morde i polpacci, la classe capitalistica diviene sempre più insofferente rispetto a ogni forma, per quanto tenue, di mediazione e agogna al potere diretto che le democrature sembrerebbero assicurare. Per quanto depotenziata, la democrazia è sempre in eccesso. È questo il punto in cui siamo. È questo il punto in cui il mostro che l’Occidente nasconde dentro di sé si rivela essere l’oggetto oscuro del suo desiderio.

Non bisogna mai dimenticare che il sistema capitalistico esprime strutturalmente un doppio standard. Nel segreto laboratorio della produzione “il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro”.5 Il rapporto tra capitale e lavoro non però è rilevante soltanto per le relazioni economiche, ma assume un significato politico perché “È sempre il rapporto diretto tra proprietari delle condizioni di produzione e produttori diretti … in cui troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento”.6 È vero che, secondo Marx, per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle “leggi naturali della produzione” cioè alla sua dipendenza materiale dal capitale, senza utilizzare la coercizione extraeconomica. Ma ci troviamo oggi in tempi “ordinari”?
Sembrerebbe proprio di no se è vero, come sostiene Raffaele Sciortino che “la crisi ucraina è la precipitazione di un grumo di contraddizioni che sono ormai sistemiche”.7 I due principali attori sull’agone mondiale hanno infatti interessi opposti: la Cina, che ha nella Russia un partner strategico, vuole risalire le catene del valore, mentre gli Stati Uniti perseguono un decoupling selettivo della Cina stessa, cioè un suo parziale sganciamento dall’accesso a capitali e tecnologie elevate occidentali. Tutto ciò favorisce tentativi di dedollarizzazione dell’economia mondiale, crisi della globalizzazione americana e possibili processi di deglobalizzazione. Senza considerare che il modello attuale della produzione del valore è energivoro come non mai e si sta scontrando con la tendenza storica dell’aumento del costo della materia prima energetica. Per questo il capitale occidentale avrebbe bisogno di una Russia sottomessa alla sua necessità di aumentare il volume della produzione di gas e petrolio.8

Oggi, insomma, non assistiamo ad uno scontro di civiltà tra autoritarismo oligarchico e democrazia di mercato. Siamo di fronte ad uno scontro fra potenze, molto più simili di quanto entrambe siano disposte ad ammettere. Un’oligarchia capitalistica internazionalizzata con base negli USA, espressione autentica della “forza”, si sta scontrando con un’oligarchia semiperiferica, anch’essa capitalistica ma concentrata nel territorio russo, lato oscuro della medesima “forza”. Uno scontro che oggi si gioca sulla pelle della popolazione ucraina, vera carne da cannone cinicamente mandata allo sbaraglio dagli USA e massacrata senza pietà dalla Russia. Con buona pace di Star Wars, la luce non è destinata a sconfiggere l’oscurità. Per quanto possa aiutarci a capire alcuni importanti elementi di realtà, l’espressione artistica si presenta spesso, se non sempre, come una soluzione immaginaria a contraddizioni reali (per dirla con Frederic Jameson). Nella realtà la Russia potrà pure rappresentare l’oscurantismo, ma i lumi dell’Occidente sono sempre più fiochi.

(3 – continua – le precedenti puntate qui e qui)


  1. Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli. Milano 1977. 

  2. Emiliano Brancaccio, Democrazia sotto assedio, Piemme, Milano 2022, p. 22. 

  3. Tony Wood. Russia Without Putin: Money, Power and the Myths of the New Cold War, Verso Books, London 2020, edizione Kindle, p. 51 (traduzione nostra). 

  4. Cfr, Colin Crouch, Combattere la postdemocrazia, Laterza, Bari-Roma 2020, edizione kindle, p. 62. 

  5. K. Marx, Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1980, pp. 468-69. 

  6. K. Marx, Il capitale, Libro III, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 903. 

  7. Raffaele Sciortino, La temperatura del sistema. Guerra e scongelamento della crisi globale, pubblicato in www.infoaut.org

  8. Cfr. La verità in tempo di guerra, pubblicato in https://noinonabbiamopatria.blog/.  

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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente /1: il nemico esterno https://www.carmillaonline.com/2022/06/12/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-1-il-nemico-esterno/ Sat, 11 Jun 2022 22:10:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72287 di Fabio Ciabatti

E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere [...]]]> di Fabio Ciabatti

E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere considerata come il lato oscuro della postdemocrazia occidentale (quest’ultima intesa, sulla scia di Colin Crouch,1 come un sistema che è svuotato progressivamente da ogni reale possibilità di partecipazione collettiva alle decisioni politiche, lasciando in vita le sole procedure formali della democrazia). Per questo il rapporto con il nemico oggi dà luogo ad una dinamica differente per quanto riguarda la costituzione della soggettività occidentale. Se in passato il confronto con nemico venuto dall’Est aveva avuto degli esiti per certi versi positivi nei paesi a capitalismo avanzato, oggi assistiamo ad una dinamica sostanzialmente regressiva. Partendo da questo punto di vista, la riflessione che segue non ha come obiettivo quello di stabilire chi ha torto e chi ha ragione nell’attuale guerra o come andrà a finire il conflitto. Vuole essere soprattutto un ragionamento sugli effetti della guerra sull’immaginario occidentale.

Ciò nonostante, dovendo parlare del rapporto con il nemico bisognerà per prima cosa fare alcune considerazioni sulla sua natura che, senza pretesa di esaustività, saranno utili per approfondire successivamente il filo principale del nostro ragionamento e che, al tempo stesso, serviranno a sgomberare il campo da alcuni dei più diffusi luoghi comuni della propaganda bellicista dell’Occidente. Il primo pregiudizio implicito nella narrazione occidentale è che la Russia post-sovietica si era incamminata verso l’economia di mercato e la democrazia durante gli anni di Yeltsin, ma che questo processo è stato invertito a causa di Putin. Insomma, l’unico russo buono è un russo ubriaco! In realtà gli anni di Yeltsin furono un disastro completo: tra il 1991 e il 1995 il PIL crollò di poco più di un terzo, mentre tra il 1991 e il 1994 l’aspettativa di vita tra gli uomini precipitò di 5 anni, solo per citare alcuni dati clamorosi. Per quanto riguarda la democrazia basterà ricordare il bombardamento del parlamento russo che si opponeva ai voleri di Yeltsin nel 1993.
Considerando questi antefatti, Tony Woods nel suo testo Russia Without Putin, da cui prenderemo molti spunti nelle righe che seguono, sostiene che “L’autoritarismo per il quale Putin è ampiamente criticato non è il prodotto di una sinistra preferenza personale, ma piuttosto una caratteristica integrante del sistema che ha ereditato e ha continuato”.2 Gli anni Novanta e gli anni Duemila devono dunque essere visti come due fasi nell’evoluzione dello stesso sistema: nel prima turbolento periodo si assiste alla distruzione del sistema sovietico e all’installazione di un nuovo ordine capitalistico, nel secondo si verifica processo di stabilizzazione e consolidamento in cui il nuovo modello si radica in profondità nel tessuto socioeconomico del Paese. La priorità, però, è sempre rimasta la difesa del capitalismo, come dimostra il fatto che Putin, nel corso dei suoi mandati, ha introdotto molti provvedimenti di stampo neoliberale: flat tax sul reddito al 13%, tagli di tasse per il capitale privato, codice del lavoro con il ridimensionamento dei diritti dei salariati, accrescimento del ruolo dei privati nell’educazione, nella sanità e nel settore immobiliare, trasformazione di servizi sociali in pagamenti in denaro.
In altri termini il sistema politico russo si è sviluppato dalla contraddizione tra i suoi dichiarati obiettivi democratici e la mancanza di un supporto popolare per il suo programma di trasformazione verso il libero mercato. Anche Putin non ha mai negato il principio democratico in sé, ma ha sostenuto che va declinato sulla base della specificità russa. Di fatto, la sovranità popolare è stata sacrificata ogni volta che è entrata in contraddizione con le necessità della transizione capitalistica. Se tra democrazia e capitalismo si sviluppa un rapporto contraddittorio non altrettanto si può dire a proposito della relazione tra i principi dell’economia neoliberale e la logica statalista. In questo caso si può parlare di due impulsi paralleli che ispirano la gestione putiniana del potere. È fuori di dubbio che lo stato sotto Putin abbia riguadagnato il controllo sulle leve fondamentali dell’economia nazionale, a cominciare dal controllo sulle risorse naturali, in particolare petrolio e gas. Ma questo significa che abbiamo assistito ad un ribaltamento della dinamica che vedeva il capitale privato utilizzare lo stato per il suo profitto a favore di un processo in cui lo stato si serve del capitale privato per perseguire le sue politiche di potenza? Probabilmente le cose sono un po’ più complesse. Il rapporto tra potere e ricchezza nella Russia post-sovietica è stato sempre molto stretto, quantomeno perché il capitalismo è iniziato con la vendita a prezzi di saldo da parte dello stato di pezzi dell’economia pianificata. Se all’inizio i principali beneficiari sono stati i cosiddetti outsider (persone prive di significativi rapporti con l’élite economico-politica sovietica) che hanno prosperato principalmente nei settori della finanza, dei media e dell’industria leggera, con l’inizio del nuovo millennio, complici la crisi finanziaria del 1998, la crescita dei prezzi delle commodities e il consolidamento dello stato, a emergere come vincitori sono stati gli insider che controllavano l’industria delle materie prime.
Insomma, ciò che è cambiato con Putin sono state le fonti della ricchezza, l’identità dei suoi possessori individuali e i metodi per mantenerla e estenderla. “Dopo il 2000, i termini del rapporto tra stato e ricchezza privata hanno cominciato a cambiare, ma l’impegno dello stato nei confronti del principio del guadagno privato – e delle enormi disuguaglianze che ha generato – no”.3 C’è stata una sempre maggiore convergenza nelle logiche e nelle pratiche dello stato e del settore privato dell’economia. Molte persone provenienti dal settore del business entravano nella sfera del governo mentre il settore privato reclutava i suoi dirigenti tra le fila dei funzionari governativi. È dunque emersa una élite ibrida capace di attraversare facilmente due domini formalmente separati, quello della politica e quello dell’economia privata. La promiscuità tra un capitale privato sempre più centralizzato e un potere statale che ha ristabilito la “verticale del potere” ha dato luogo a un sistema fortemente oligarchico in cui la democrazia diventa una forma sempre più svuotata di contenuto: democrazia gestita, democrazia sovrana, democrazia per imitazione, democratura sono le varie definizioni che se ne sono date (le prime due dagli stessi ideologi del Cremlino).

Sottolineare i momenti di continuità tra gli anni Novanta e i Duemila non significa però ignorare che la Russia di Putin sia stata protagonista di un progressivo slittamento ideologico che ha incentrato la sua rinnovata identità nazionale su alcuni princìpi di stampo conservatore, se non propriamente reazionari: Stato, sovranità, autocrazia, ortodossia, patriottismo, militarismo, famiglia tradizionale e status di grande potenza.  In particolare, la difesa dei valori cristiani e tradizionali, è nato in opposizione a quello che viene considerato il declino morale dell’Occidente e al relativismo culturale dell’Europa. Per certi versi il nemico non è tanto l’Occidente in quanto tale ma la sua degenerazione postmoderna, come testimonia la crociata anti LGBT.
Questa dinamica non è una novità nella storia russa, sostiene Luca Gori nel suo saggio La Russia eterna,4 perché il conservatorismo ha sempre accompagnato il percorso di sviluppo della Russia, offrendole un “rifugio” ogni qual volta si è sentita minacciata dall’esterno o messa sotto pressione da spinte riformiste interne di segno “eccessivamente” liberale. La “svolta conservatrice” della Russia andrebbe dunque letta come un riflesso ricorrente e difensivo, come la ricerca di una risposta tranquillizzante alla sensazione di una minaccia esistenziale o al rischio di un cambiamento troppo radicale.
Questa natura difensiva della identità ideologica della nuova Russia è confermata dal rapporto particolare che la lega al suo nemico. La ricerca post-sovietica di una nuova identità nazionale, nota Gori, ha individuato negli Stati Uniti l’”altro” dalla Russia: gli USA, più che l’Europa, sono stati il termine di paragone per valutare la bontà del proprio percorso e l’interlocutore privilegiato per vedersi riconosciuto lo status di grande potenza. Per molto tempo l’élite post-sovietica, Putin compreso, ha aspirato ad un’alleanza o anche a un’integrazione con l’Occidente. Il confronto, però, è diventato scontro perché le reciproche aspettative si sono dimostrate irrealistiche.

Da un lato, quella russa di vedersi riconosciuta – in cambio dell’adesione alle regole del gioco occidentale – una “partnership egualitaria” con Washington e una sorta di “sfera di influenza” nello spazio ex sovietico. Dall’altro, quella di Stati Uniti ed Europa per cui la Russia, sconfitta dalla Storia, fosse ormai pronta a svestire gli abiti imperiali per diventare un Paese “normale”, una democrazia liberale secondo i canoni del paradigma impostosi nel post Guerra fredda.5

Il risultato è stata l’impossibilità di conciliare due forme diverse di “eccezionalismo”: da una parte, l’aspirazione universalistica americana a sostegno della diffusione universale di libertà e democrazia e, dall’altra, l’ispirazione conservatrice a difesa di ordine, stabilità, equilibrio multipolare e di una missione speciale della Russia ortodossa.
Da un punto di vista ideologico, il richiamo all’ortodossia può però costituire una debolezza perché condanna la Russia a oscillare tra “particolarismo” e “universalismo”, tra il riconoscimento del diritto di ciascun popolo alla propria specificità in un mondo multipolare e l’attribuzione a Mosca di una missione unica, rivolta a tutti i Paesi. Una seconda possibile mancanza è costituita dal fatto che Mosca si è proposta come una potenza a difesa dello status quo che enfatizza i principi di sovranità e di non ingerenza negli affari interni in opposizione alla freedom agenda statunitense.
Queste debolezze, insieme ad una sproporzione di mezzi materiali rispetto ai suoi competitor, hanno determinato il fatto che la Russia post-sovietica difficilmente sia riuscita a presentarsi come una potenza in grado di esercitare un ruolo egemonico. Putin non è in grado di offrire un progetto di sviluppo attrattivo per le classi e le nazioni subalterne. Priva di soft power ha deciso alla fine di fare ricorso all’hard power della sua potenza militare. I successi degli anni passati della politica internazionale di Mosca sono non a caso il frutto di una maggiore prontezza e spregiudicatezza che la forte concentrazione del potere politico consente, anche in campo militare, alla Russia. Ma si può sostenere che questi successi, più che essere frutto di una strategia compiuta, siano dovuti a reazioni estemporanee a situazioni critiche che, in ultima istanza, hanno creato effetti opposti a quelli desiderati. Di qui la spericolata fuga in avanti rappresentata dall’invasione dell’Ucraina che si sta trasformando in una guerra di lunga durata rischiosissima per le sorti della Russia.

In estrema sintesi, “il capitale e lo stato della Federazione Russa sono predatori (come tutti i capitali e tutti gli stati capitalistici), ma predatori di ‘secondo rango’” perché sono incapaci, a differenza degli Stati Uniti, di manipolare gli altri attori del processo economico e politico mondiale imponendo le proprie “regole del gioco” a livello globale.6
Da un punto di vista strutturale, seguendo gli autori appena citati, si può definire la Russia un capitalismo semi-periferico nato da un’incompleta trasformazione dell’economia pianificata sovietica che ha dato luogo a un sistema di transizione estremamente contraddittorio, non organico, ma al tempo stesso relativamente stabile. Un sistema caratterizzato dal dualismo tra una sfera integrata nel sistema capitalistico mondiale e una contraddistinta da un’ampia gamma di forme pre-borghesi o da rimanenze di ordinamenti sovietici. Nonostante il consolidamento dei rapporti di produzione capitalistici, l’economia russa è ancora  deindustrializzata rispetto all’epoca sovietica e per questo  fortemente dipendente dall’esportazione di materie prime ed energetiche, ha istituzioni finanziarie sottodimensionate rispetto ai competitor internazionali, non esporta capitali in misura significativa se non nella forma di ricchezze private alla ricerca di paradisi fiscali, è piagato da una corruzione e una burocratizzazione endemiche.

In conclusione, la Russia non può essere considerata una potenza imperialistica, almeno non nel significato che a questo termine viene attribuito da una classica analisi marxiana. Ciò, come risulta ovvio dall’invasione dell’Ucraina, non esclude che possa perseguire progetti di restaurazione della sua passata grandezza imperiale e praticare politiche di aggressione nei confronti di stati e capitali più deboli. Ma, aggiungiamo, proprio per il suo carattere di predatore di secondo rango, sembra davvero eccessivo considerare la Russia “la minaccia più diretta all’ordine mondiale con la guerra barbara contro l’Ucraina”, come ha sostenuto Ursula von der Leyen. Ingigantire il pericolo rappresentato dal nemico può essere una mera mossa propagandistica, ma può anche essere una spia di debolezza. E se l’“aggressione barbara” più che una minaccia all’“ordine internazionale” fosse un sintomo della sua crisi già in atto?

(1 – continua)


  1. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2005. 

  2. Tony Wood. Russia Without Putin: Money, Power and the Myths of the New Cold War, Verso Books, London 2020, edizione Kindle, p. 5 (traduzione nostra). Dello stesso autore si veda anche Matrix of war, in New Left Review, n. 133/134, January/April 2022. 

  3. Ivi. p. 5. 

  4. Luca Gori, la Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica, Luiss University Press, Roma 2021. 

  5. vi, p. 52-53, edizione Kindle. 

  6. Aleksandr Buzgalin, Andrey Kolganov, Olga Barashkova, “Russia: A New Imperialist Power?” in Boris Kagarlitsky, Radhika Desai, Alan Freeman (a cura di), Russia, Ukraine and Contemporary Imperialism, Routldge, London-New York. p. 169, edizione Kindle. 

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L’antagonista, il lato oscuro del soggetto https://www.carmillaonline.com/2022/03/22/lantagonista-il-lato-oscuro-del-soggetto/ Mon, 21 Mar 2022 23:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71063 di Luca Cangianti

In Guerre stellari, Luke Skywalker è strappato alla quotidiana vita rurale dall’assassinio dei propri zii e intraprende un’impresa disperata per sconfiggere il malvagio Dart Fener. Il protagonista costituisce la propria soggettività nel corso viaggio: supera ostacoli, rischia la morte, scopre nuove porzioni di realtà e di se stesso, ma contemporaneamente condivide qualcosa di sostanziale con chi si oppone alla sua azione, l’antagonista.

La parola greca antagonistís è composta dalla proposizione «contro» (antí) e dal sostantivo derivato dalla parola «lotta» (agón). In questa figura s’incarna l’altro che [...]]]> di Luca Cangianti

In Guerre stellari, Luke Skywalker è strappato alla quotidiana vita rurale dall’assassinio dei propri zii e intraprende un’impresa disperata per sconfiggere il malvagio Dart Fener. Il protagonista costituisce la propria soggettività nel corso viaggio: supera ostacoli, rischia la morte, scopre nuove porzioni di realtà e di se stesso, ma contemporaneamente condivide qualcosa di sostanziale con chi si oppone alla sua azione, l’antagonista.

La parola greca antagonistís è composta dalla proposizione «contro» (antí) e dal sostantivo derivato dalla parola «lotta» (agón). In questa figura s’incarna l’altro che si oppone all’eroe e al suo desire. Con questo termine in narratologia si indica l’obiettivo perseguito dal protagonista, ciò che fa leva sulle sue ferite, sui suoi punti deboli, su quanto rende l’eroe una persona incompleta, instabile e quindi incline al mutamento, all’avventura, al viaggio.1
A un primo e parziale sguardo, l’antagonista sembra agire sull’io eroico come una realtà materiale assolutamente altra: ne vince l’inerzia, lo spinge a cambiare, ne tempra la soggettività. Dart Fener costringe Luke ad abbandonare il suo pianeta natale, tiene prigioniera la principessa Leila che il giovane vorrebbe liberare, uccide il suo mentore Obi-Wan Kenobi, insegue l’eroe e i suoi alleati ribelli.
Tuttavia, a ben vedere, la relazione tra eroe e antagonista non è meramente oppositiva ed estrinseca, ma incorpora un che di familiare, di intimo: Luke scopre nel secondo film della saga, L’Impero colpisce ancora (1980), di esser figlio dell’antagonista, sangue del suo sangue; i due hanno qualcosa in comune, sono facce della stessa medaglia. Federico Greco inoltre ricorda che «il protagonista della trilogia prequel, Anakin Skywalker, diventa l’antagonista… della trilogia originale della quale il nuovo protagonista è Luke Skywalker. Nella trilogia sequel Luke finisce a sua volta in secondo piano divenendo il coprotagonista, mentre è Rey ad assurgere a ruolo di protagonista. Quest’ultima, il cui cognome reale è Palpatine (Rey è la nipote “abiatica” dell’Imperatore, che è suo nonno), nel finale – rispondendo alla domanda di una donna che le chiede chi sia – si dichiara essere una Skywalker.»2 John Truby sostiene che l’avversario debba possedere alcuni aspetti in comune con il protagonista fino a rappresentarne una sorta di doppio.3

Un altro esempio esplicito di questa struttura è il film Face off (1997). Castor Troy è un terrorista che ha ucciso involontariamente il figlio dell’agente Sean Archer e nascosto una bomba batteriologica prima di finire in coma. Archer si sottopone a un intervento di trapianto del volto per assumere le fattezze del nemico al fine d’introdursi in carcere e sottrarre ai membri della banda di Troy informazioni utili a localizzare e disinnescare l’ordigno. Il terrorista però si risveglia inaspettatamente, riesce a sua volta a farsi trapiantare il volto dell’agente, elimina i testimoni dell’operazione segreta in corso nel carcere e inizia a condurre la vita familiare e professionale di Archer.
Qui la relazione tra eroe e antagonista eccede il mero cozzare esterno perché i poli oppositivi si scambiano i ruoli e apprendono reciprocamente qualcosa l’uno dall’altro. Siamo in un contesto dalle sfumature hegeliane: dopo lo scontro finale e la morte di Troy, l’eroe ne adotta il figlio. La progenie del Male è dialetticamente accolta come negativo nell’ambito del Bene e l’eroe può finalmente superare la ferita della morte accidentale del figlio.

Una struttura dialettica analoga è riscontrabile anche nella serie Van Helsing (2016-2021). In questa narrazione ambientata in un mondo post-apocalittico nel quale dilagano i vampiri, il sangue di Vanessa Van Helsing è in grado di riportarli allo stato umano. Nel nono episodio della quinta stagione la protagonista assorbe la propria parte oscura e riesce a evadere dal mondo parallelo nel quale è stata intrappolata dalla sovrana della specie vampirica, Olivia von Dracula, la Dark One. Questa esperienza dona a Vanessa poteri simili a quelli della sua avversaria e nell’ultimo episodio le permettono di sconfiggerla imprigionandone l’essenza nel proprio corpo.
Il legame tra eroe e antagonista può essere così stretto da situarsi perfino nel corpo della stessa persona, come nel caso del dottor Jekyll e del suo doppio malvagio, il signor Hyde: «quell’orrore insorgente – scrive Robert Louis Stevenson – era legato a lui più intimamente di una moglie, più intimamente di un occhio; se ne stava chiuso nella sua carne, dove lo udiva borbottare e lo sentiva dibattersi per nascere ad ogni ora di debolezza e nell’abbandono del sonno prevaleva contro di lui e lo cacciava dall’esistenza.»4 Hyde è la personificazione del Male che si nasconde (to hide in inglese significa per l’appunto nascondersi) nella sfera domestica dell’eroe. Di notte striscia fuori attraverso una porta secondaria e commette i crimini più efferati.
In Batman Begins (2005) il desire dell’eroe e quello del suo antagonista (Henrie Ducards/Ra’s al Ghul) sono identici, debellare la criminalità e l’ingiustizia, mentre i mezzi differiscono.5 Nel secondo film della stessa saga, Il cavaliere oscuro (2008), i valori di Batman e quelli di Joker sono opposti: la legge per il primo, il caos per il secondo. Tuttavia il nuovo antagonista si rivolge all’eroe affermando: «Tu mi completi»; e poi ancora più esplicitamente: «Tu non mi uccidi per un malriposto senso di superiorità e io non ti uccido perché sei troppo divertente. Noi due siamo destinati a combatterci in eterno.»6

In Spider-Man 2 (2004) la dialettica tra eroe e antagonista coinvolge anche la comunicazione cromatica. Secondo Mauro Antonini «Tutto ciò che racchiude Peter Parker, dai vestiti agli sfondi, è rosso e blu, mentre il mondo intorno a Norman Osborn è prevalentemente virato a toni di verde… Ma al momento in cui Goblin scopre l’identità del suo nemico, quando i due si trovano a tavola nelle loro identità civili per festeggiare il giorno del Ringraziamento, è Peter Parker a indossare una camicia verde con cravatta viola, i colori del costume di Goblin, e Norman Osborn una camicia blu con cravatta rossa, i colori dell’Uomo Ragno… Come in un rito totemico il nemico si cinge dei colori dell’avversario per comprenderlo, sia psicologicamente che fisiologicamente. Ognuno ingloba l’avversario in un bilanciamento che rende esplicito il bisogno, innegabile, l’uno dell’altro».7
Come nota Giulia Cavazza, in mancanza di questa compenetrazione dialettica e dinamica tra opposti, avremmo a che fare solo con un villain, un cattivo che ostacola l’eroe in modo puramente esteriore. In Toy Story (1995) è il caso di Sid, il bambino seviziatore di giocattoli, che, pur contrastando l’azione del pupazzo cowboy Woody, non incarna la figura dell’antagonista, impersonata di contro dal giocattolo spaziale Buzz Lightyear.8 Il ruolo adialettico del villain, infatti, come avviene in molti disaster movie, può essere ricoperto da un fenomeno naturale che mette a repentaglio la vita della comunità o del mondo intero. In Armageddon (1998) è il caso di un meteorite. Questo si oppone agli umani e al protagonista che vi si scaglierà contro per distruggerlo, senza tuttavia generare alcuna unità di opposti.

Richiamandosi esplicitamente al concetto junghiano di ombra, Christopher Vogler considera l’antagonista come insieme di paure, qualità disprezzate e rifiutate dall’eroe, come «dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi.»9 Si tratta principalmente di nostre parti infantili represse, istinti animali primitivi e nevrosi10 che emergono dall’archetipo del nemico, del predatore e dello straniero malvagio.11 Per difendersi da questi contenuti indesiderati, l’ego cosciente non solo reprime l’ombra, ma la nega e la proietta su altri soggetti, spiegando così la presenza ubiqua della figura antropologica del capro espiatorio e delle logiche discriminatorie tra soggetti ingroup e outgroup.

A differenza dell’inconscio freudiano, l’ombra contiene tutto ciò che si trova al di fuori del cono di luce proiettato dall’ego. Pur rimanendo principalmente impregnata di negatività, l’ombra può quindi nascondere anche le capacità inespresse della coscienza: è il caso dei nuovi poteri acquisiti da Vanessa Van Helsing dopo il soggiorno nella dimensione parallela.
Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde12 è un’altra delle più note e potenti esemplificazioni della dialettica proiettiva tra ego e ombra. Il protagonista, per preservare il suo aspetto avvenente e giovanile, così come rappresentato in un quadro donato da un amico pittore, vende la propria anima. I segni dell’età e del suo declino morale vengono assorbiti dalla pittura che l’eroe nasconde in una stanza polverosa, lontano dagli sguardi. Pur rimanendo di bell’aspetto, Dorian rimane ossessionato dalla sua immagine rappresentata nel quadro. Essa diventa sempre più orribile fino a quando il protagonista decide di distruggerla. Verrà ritrovato morto, invecchiato e imbruttito, a differenza del suo doppio pittorico che riprenderà le belle fattezze originali.

L’ombra è parte di noi, non possiamo eliminarla con un colpo di pugnale. Nel percorso analitico, in quello narrativo e perfino in quello politico, sconfiggerla significa diventare coscienti della sua non estraneità. Ciò implica che il Male è eterno: Frodo distrugge l’anello e sconfigge Sauron, ma non riesce a ucciderlo. Egli perde la propria corporeità, ma nulla esclude che possa riacquistarla, come già accaduto in passato nel Bosco Atro.13 Vanessa dorme nascondendo il suo tesoro oscuro, ma può risvegliarsi.


  1. Cfr. Antongiulio Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe, Mimesis, 2020. 

  2. Federico Greco, Star Wars. La poetica di George Lucas, La nave di Teseo, 2021, p. 520. 

  3. Cfr. John Truby, Anatomia di una storia, Audino, 2009, pp. 62-3. 

  4. Robert Louis Stevenson, Il dottor Jekyll e il signor Hyde, Bompiani, 1995, pp. 96-97. 

  5. Cfr. Paolo Braga-Giulia Cavazza-Armando Fumagalli, The dark side. Bad guys, antagonisti e antieroi del cinema e della serialità contemporanei, Audino, 2016, p. 31. 

  6. Ivi, p. 35. 

  7. Mauro Antonini, Cinema e fumetti, Audino, 2008, p 158. 

  8. Cfr. Paolo Braga-Giulia Cavazza-Armando Fumagalli, op. cit.., p. 80. 

  9. Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 1999, p. 115; cfr. anche p. 51. 

  10. Cfr. Liliane Frey-Rohn, “How to Deal with Evil” in Connie Zweig-Jeremiah Abrams Zweig (a cura di), Meeting the Shadow. The Hidden Power of the Dark Side of Human Nature, Tarcher/Penguin, 1991. 

  11. Cfr. Anthony Stevens, Jung. A Very Short Introduction, OUP, 1994, p.64. 

  12. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Feltrinelli, 2013. 

  13. Cfr. Luca Cangianti, Il viaggio di Frodo non finisce, «Carmilla», 15.8.2020. 

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Repressione al lavoro https://www.carmillaonline.com/2020/01/19/repressione-al-lavoro/ Sat, 18 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57359 di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del [...]]]> di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del conflitto – I.G.].

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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta

La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.

Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.

Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.

A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.

Il decreto Salvini- Uno

Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.

Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.

Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.

Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.

Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!

Il fatto che l’orda reazionaria  rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).

Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.

All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…

Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?

Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.

Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.

E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).

Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…

Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.

Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.

Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.

E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.

Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…

Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due

Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.

Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).

E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.

Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.

E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.

Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!

Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.

Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.

Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.

E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.

Il DL Minniti-Orlando

Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.

I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.

In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…

In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.

L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).

Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.

Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.

L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas

Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.

Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.

La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.

Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.

Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).

Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.

A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.

Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.

A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.

Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.

E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.

L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.

Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.

Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.

Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.

L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.

Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.

Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.


  1. Claudio Novaro: “Il decreto Salvini e il reato di blocco stradale”, pubblicato il 6/11/2018 su www.notav.info  

  2. “Il decreto Salvini a piedi uniti sulla logistica”, pubblicato su http://www.ship2shore.it il 26/09/2018 (qua). 

  3. Le principali lotte portate avanti da SI Cobas, dapprima nella logistica e poi nella filiera agroalimentare negli anni antecedenti ai Decreto- Salvini, e gli eventi che hanno portato all’arresto di Aldo Milani sono narrati e analizzati esaustivamente in Carne da Macello 

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