Anic – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I pesi e le misure (parte terza) https://www.carmillaonline.com/2013/07/30/i-pesi-e-le-misure-parte-terza/ Mon, 29 Jul 2013 23:43:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8008 di Alexik

aragostaConcludiamo oggi il nostro viaggio fra le nocività industriali di questo strano paese. Un paese bislacco, dove gli operai vengono uccisi dai gamberoni, la legna dei camini inquina più delle centrali a carbone e i Tarantini muoiono perché fumano più dell’Ilva. Uno strano paese, dove la devastazione ambientale si compie per legge, e dove combatterla diventa “eversione dell’ordine democratico”. Per ripercorrere la prima e seconda parte di questo viaggio, clikkate qui e qui.

Anic/Enichem di Manfredonia

Da poco più di un anno l’ex operaio insaccatore Nicola Lovecchio [...]]]> di Alexik

aragostaConcludiamo oggi il nostro viaggio fra le nocività industriali di questo strano paese. Un paese bislacco, dove gli operai vengono uccisi dai gamberoni, la legna dei camini inquina più delle centrali a carbone e i Tarantini muoiono perché fumano più dell’Ilva. Uno strano paese, dove la devastazione ambientale si compie per legge, e dove combatterla diventa “eversione dell’ordine democratico”. Per ripercorrere la prima e seconda parte di questo viaggio, clikkate qui e qui.

Anic/Enichem di Manfredonia

Da poco più di un anno l’ex operaio insaccatore Nicola Lovecchio non sussiste. Lo stabilisce la Cassazione con sentenza definitiva.  Non sussiste la sua morte per adenocarcinoma polmonare, nè quelle dei suoi colleghi dell’ANIC/Enichem di Manfredonia. In realtà non sussiste più neanche l’Enichem di Manfredonia, che è stata chiusa negli anni novanta.  L’arsenico sussiste, ma solo all’interno delle aragoste, alimento di cui gli operai Enichem andavano ghiotti e che costituiva, grazie ai loro lauti salari, la loro dieta base. Ergo, se avvelenamento c’è stato, è colpa dell’abuso di crostacei, non certo dell’esplosione del 26 settembre 1976, quando saltò in aria una colonna di decarbonatazione riversando 32 tonnellate di sali di arsenico sullo stabilimento e sulla città.  Quel giorno gli operai dell’Anic andarono al lavoro come sempre, e anche nei giorni seguenti perché “non era successo nulla di preoccupante”. Intorno ingiallivano le foglie, morivano animali.  Nelle urine i livelli di arsenico variavano dai 500 a 3000 µg/L. Ogni tanto, quando le analisi “spallavano” troppo, l’azienda rimandava le maestranze a casa per un po’.   Anni dopo la difesa dei dieci ex dirigenti ANIC chiamati in giudizio per disastro ambientale, omicidio colposo di 17 operai e lesioni gravissime per altri 5, spiegò così i risultati di quelle analisi: “Siamo in una città di mare, e l’alto tasso di arsenicure è riconducibile ad un elevato consumo di crostacei (che bioaccumulano l’arsenico – ndr), in particolare di gamberi. Elevato, costante ed in quantità esorbitante. Circa un chilo al giorno”.  I giudici di primo e secondo grado sposarono questa tesi, fino alla Cassazione che nel marzo 2012 confermò l’assoluzione per tutti gli imputati sentenziando che “il fatto non sussiste”.

Solvay di Ferrara

Il 2012 è stato l’anno della “non sussistenza” anche per Cyryll Van Lierde, August Arthur Gosselin, Michael Gerard Davis, William Arthur Banes, Pierre Vigneron e Claude Yves Marcel Loutrel, componenti e presidente del CdA della Solvay dal 1969 al 1974, assolti dal Tribunale di Ferrara. Dirigevano la multinazionale belga, ma a quanto pare le scelte in materia di igiene ambientale e sicurezza sul lavoro venivano prese a loro insaputa. E poi, in ogni caso erano scelte giuste, tutte rivolte “ad ovviare agli inconvenienti che volta per volta venivano evidenziati, a prevenire situazioni di pericolo, in definitiva a rendere più sicuro l’ambiente di lavoro”. La sentenza non dice se fra gli “inconvenienti” ci fossero anche i 78 operai esposti al cloruro di vinile monomero, morti per tumori al fegato e all’apparato respiratorio. Degli operai al processo arrivarono solo due superstiti del reparto autoclavi. Superstiti perché solo le loro posizioni, su 67 ricorrenti, non furono stralciate per decorrenza termini. Superstiti perché erano gli unici ancora vivi.

Rompere il silenzio, creare coscienza, denudare il re

Che considerazioni trarre una volta giunti alla fine di questa triste panoramica sulla morte operaia in Italia e sulla relativa impunità ?

Sicuramente dubbi sulla “via giudiziaria alla giustizia”. I padroni hanno dalla loro la legge e le corti, possono permettersi i migliori avvocati e le perizie compiacenti di luminari e baroni universitari. Hanno dalla loro il tempo: il tempo di latenza fra l’esposizione alle nocività e l’insorgere della malattia, i tempi di istruzione e svolgimento dei processi. In pratica possono avvelenare la gente negli anni ’70/’80 e veder concludere il giudizio a riguardo nel secondo decennio del secolo successivo. C’è tutto il tempo di porre la grana al riparo dalle eventuali pretese delle parti civili, di cambiare aria, oppure, per gli imputati più anziani, di concludere serenamente la propria agiata esistenza al suo termine naturale.

Nel corso del processo fanno in tempo a morire anche gli operai ammalati o le loro vedove, oppure fanno in tempo a cedere al ricatto economico (perché la malattia professionale ti rovina anche da quel punto di vista), ad accettare quattro soldi per ritirarsi.

I lavoratori o i loro cari che resistono fino alla fine dell’iter giudiziario – dopo aver dovuto subire dalle controparti lo scherno e la menzogna – troppe volte impattano contro la prescrizione, o i fatti che non sussistono, o comunque pene ridicole, inutili come deterrenti. Questa è stata fino ad ora la regola, tranne poche recenti eccezioni che riguardano proprietà e dirigenze straniere (Thyssenkrupp, Eternit). Ad oggi, il capitalismo italiano non si processa.

Sono stati dunque inutili gli sforzi di questi anni per portare i padroni in giudizio ? Se l’obiettivo è la giustizia, in buona parte si. Sono serviti ad altro: a rompere il silenzio, ad intrecciare relazioni solidali, a creare coscienza, a denudare il re.

Gli atti dei processi, nel loro insieme, costituiscono un immenso libro di storia di classe, grazie a centinaia di testimonianze di lavoratori da ogni luogo della penisola, da Marghera a Praia a Mare,  che affrontano non solo la questione delle nocività, ma anche dei rapporti di potere in fabbrica, delle collusioni istituzionali e sindacali. Descrivono la preminenza del profitto sulla vita, sulla salute e la dignità delle persone, le intimidazioni e l’arroganza dei capi, la supponenza dei medici di fabbrica, la noncuranza con cui si mandava (e si manda) la gente a morire. Scenari dove i discorsi sulla democrazia nei luoghi di lavoro fanno scappar da ridere.

Ricominciare a raccontare la fabbrica dopo anni di silenzio, è questo il primo risultato del lavoro di Gabriele Bortolozzo, di Nicola Lovecchio, e di tutti quelli che da operai si sono fatti storici della propria gente, epidemiologi dal basso, promotori di inchiesta. Nostro compito è raccogliere e diffondere questo patrimonio di conoscenza, fare in modo che non venga richiuso negli archivi dei tribunali al termine di processi dagli esiti deludenti, che esca fuori dalle aule per sedimentare coscienza e nuove resistenze.

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I pesi e le misure (parte seconda) https://www.carmillaonline.com/2013/07/13/i-pesi-e-le-misure-parte-seconda/ Fri, 12 Jul 2013 23:57:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7607 di Alexik

giustizia_ciecaLa prima parte è stata pubblicata  qui.

“Io ero il legale delle ferrovie “Q” e della Indemnity Company che assicurava i proprietari della miniera. Ho influenzato giudici e giurie, e le alte corti, per sconfiggere le rivendicazioni degli infortunati, delle vedove e degli orfani, e così mi sono fatto una fortuna. L’associazione degli avvocati cantò le mie lodi in un’altisonante delibera. E numerose furono le corone funebri – Ma i topi hanno divorato il mio cuore e un serpente ha fatto il nido  dentro il mio cranio !” 

Edgar Lee [...]]]> di Alexik

giustizia_ciecaLa prima parte è stata pubblicata  qui.

“Io ero il legale delle ferrovie “Q”
e della Indemnity Company che assicurava
i proprietari della miniera.
Ho influenzato giudici e giurie,
e le alte corti, per sconfiggere le rivendicazioni
degli infortunati, delle vedove e degli orfani,
e così mi sono fatto una fortuna.
L’associazione degli avvocati cantò le mie lodi
in un’altisonante delibera.
E numerose furono le corone funebri –
Ma i topi hanno divorato il mio cuore
e un serpente ha fatto il nido  dentro il mio cranio !” 

Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River.

Nei processi per disastri ambientali o stragi di fabbrica le dirigenze e le proprietà dell’industria italiana sfoggiano avvocati di grido, costosi “principi del foro” pagati coi denari risparmiati sulle misure di sicurezza.

Sicuramente da questo punto di vista non bada a spese il conte Marzotto, attualmente imputato per le morti operaie della Marlane, che affida la sua difesa a Nicolò Ghedini – parlamentare PDL e storico legale di Berlusconi –  oltre che a Massimo Dinoia e a Guido Calvi, membro non togato del CSM, docente universitario e senatore PD.  Pisapia, per decenza, dopo la nomina ha rinunciato all’incarico.

Il nome dell’avvocato Dinoia riappare a fianco della Solvay di Spinetta Marengo nel processo in corso contro il polo chimico alessandrino. Il suo è, in ordine di tempo,  l’ultimo incarico di un lungo curriculum forense che parte dalla difesa di più di 200 imputati di tangentopoli, continua con Antonio Di Pietro e con l’ex capo della security di Telecom Giuliano Tavaroli, fino ad approdare a Ruby Rubacuori.  Dinoia è affiancato nel collegio difensivo da Domenico Pulitanò, ordinario di diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Nello stesso processo la Montedison si è avvalsa di Tullio Padovani, già difensore di Mussari per il caso MPS.

A Torino, per il rogo alla Thyssenkrupp, l’amministratore delegato Harald Espenhahn ha scelto Franco Coppi, altro legale di Berlusconi che ha annoverato nella sua clientela anche Giulio Andreotti e Gianni De Gennaro (per il massacro alla Diaz).

L’ex presidente di Italcantieri Giorgio Tupini, imputato per i morti dei cantieri navali di Monfalcone, si è invece rivolto ad Alessandro Cassiani, che fino a pochi anni fa presiedeva a Roma  l’ordine degli avvocati.

Insomma, l’intero gotha dell’avvocatura italiana viene schierato contro lavoratori e cittadini ammalati, contro le associazioni che li sostengono, contro le vedove degli operai.

Un’avvocatura che ha avuto modo di sperimentarsi, nel corso di un ventennio di berlusconismo, all’interno di una particolare “cultura” giuridica che fa della prescrizione l’obiettivo principale della difesa, da raggiungere allungando i tempi del processo con gli artifizi più fantasiosi e pazzeschi.

Per quanto molto meno mediatizzati (anzi, per meglio dire, sepolti nel silenzio) rispetto ai processi che vedono come imputato il nostro patetico ex premier, vari  procedimenti per inquinamento e omicidi sul lavoro sembrano seguire un copione molto simile. Consideriamone alcuni:

Solvay/Ausimont/Montedison di Spinetta Marengo

E’ il caso più eclatante fra i tentativi maldestri di approdo alla prescrizione. Nel procedimento 38 ex amministratori delegati, direttori di stabilimento, dirigenti e tecnici del polo chimico, sono inquisiti per avvelenamento doloso delle falde acquifere e mancata bonifica. Sotto lo stabilimento giacciono ancora almeno 500 mila metri cubi di veleni, quali cromo esavalente, cloro, arsenico, titanio, nichel, cobalto, mercurio, selenio, vanadio, piombo, cadmio, solventi aromatici e clorurati. Percolano in falda, inquinano pozzi. Settantadue i cittadini con pesanti danni alla salute costituitisi parte civile. Lo scorso marzo l’avvocato della Solvay Massimo Dinoia ha sollevato  l’eccezione di incompetenza territoriale della Corte d’Assise di Alessandria, per ottenere il  trasferimento del processo a Milano e far ricominciare tutto da capo.  Motivo ? I magistrati alessandrini – in qualità di potenziali consumatori di quell’acqua inquinata – potevano considerarsi parte offesa e non essere – pertanto –  sufficientemente equilibrati nel giudizio (!!!!). A Dinoia è stato già suggerito di richiedere il trasferimento del processo a Filicudi, visto che la falda inquinata va a finire nel Bormida, e di conseguenza nel Tanaro, nel Po e infine in Adriatico, escludendo dalla competenza qualsiasi giudice della pianura padana e della costa est della penisola. Peccato per lui (e per la Solvay) che il suo tentativo sia stato respinto. In giugno l’epidemiologo Ennio Cadum ha riportato il dibattito processuale su argomenti più seri: la sua indagine sull’intera popolazione di Spinetta (720 persone), confrontata con quella di Alessandria, ha dimostrato un eccesso del 70-80 % di malformazioni congenite, oltre a percentuali rilevanti di tumori alla laringe ed al 30/50% in più di malattie del cavo orale ed esofagee potenzialmente ricollegabili all’acqua inquinata.

Cantieri navali di Monfalcone

Di cosa avranno paura i dirigenti Italcantieri alla sbarra al tribunale di Gorizia ? Degli sguardi dei famigliari di quegli 87 operai ed operaie morti d’amianto in seguito al lavoro nei cantieri navali ? Paura del loro dolore, o della loro dignità ? Italcantieri, che ha ucciso i loro cari, ora accusa le vedove di essere “minacciose”, di non garantire ai giudici la giusta serenità. Perché la violenza non è condurre le persone a morire sputando sangue dai polmoni. Violenza è pretendere giustizia. Per questo l’avvocato Cassiani ha avanzato l‘istanza di trasferimento del processo per legittima suspicione. Lo ha fatto il 25 giugno, proprio nel giorno in cui era attesa la sentenza, lasciando attonite le parti civili. Se la Cassazione gli darà ragione bisognerà ricominciare il processo da zero, rendendo più accessibili agli imputati i termini per la prescrizione.

Sarebbe un precedente pericoloso, potrebbe essere usato per inibire le dimostrazioni di solidarietà agli operai e alle loro famiglie (presenza in aula, sit in fuori dal tribunale) anche in altri contesti processuali, e fornire un utile pretesto per l’annullamento di interi procedimenti. Sarebbe un pessimo segnale anche per il territorio goriziano, tenendo conto che il processo in corso è solo un primo atto, visto che quegli 87 operai e operaie fanno parte di una strage molto più vasta.  Nella sola sede Inail di Monfalcone dal 1980 al 2000 sono state riconosciute circa 2000 patologie asbesto-correlate. Dal 2004 al 2013 nel territorio di competenza della Procura di Gorizia ne sono state registrate 1921. Nella provincia l’incidenza di tumori da amianto è di 11,59 ogni 100.000 abitanti – il tasso più alto d’Italia – e il picco deve ancora arrivare. Si prevede che soltanto a partire dal 2020 potremo assistere ad un calo significativo dei casi di mesotelioma nel territorio.

Marlane di Praia a Mare

Si sta svolgendo a Paola il processo alla Marlane di Praia a Mare che vede imputati per disastro ambientale doloso, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose il conte Pietro Marzotto, il presidente del gruppo Marzotto (ex vicepresidente di Confindustria Veneto) Antonio Favrin, l’ex sindaco di Praia Carlo Lo Monaco oltre ad altri 10 dirigenti della fabbrica. Centosette gli operai morti o malati per esposizione al cromo, all’amianto e alle amine aromatiche.

Oggi a Praia la Marlane non c’è più, è stata delocalizzata ad est  assieme ai suoi veleni (si dice che sia a Brno, in Cechia). Lascia dietro di se le vedove degli operai, i capannoni diroccati e tonnellate di scorie tossiche sepolte dentro e fuori i terreni dell’azienda, contaminati da nichel, vanadio, cromo, mercurio, zinco, arsenico, piombo e Pcb. Una bomba a tempo per chi, a differenza dei capitali, non può (e non vuole) andarsene via.

Nel corso del processo il collegio difensivo ha puntato da subito sulla prescrizione, contestando la competenza territoriale del Tribunale di Paola e ottenendo continui rinvii (ben 6 fra il 2011 e 2012). Forse in parte ce l’ha fatta: alla fine di febbraio la Procura di Paola ha chiesto di archiviare le posizioni di 41 lavoratori morti per tumore più di 15 anni fa. Il tempo trascorso, infatti, ha mandato in prescrizione per gli imputati il reato di omicidio colposo. Ora l’unica strada percorribile e quella proposta dalle parti civili  di riformulare i capi di imputazione in omicidio volontario. La decisione, che era attesa per giugno, è ancora in sospeso.

Anic – Enichem di Ravenna

Non andrà in prescrizione il processo per 33 morti di amianto e 40 ammalati gravi al petrolchimico di Ravenna. Non ci andrà perché Loris Cimatti, manutentore all’Anic – Enichem per 30 anni, li ha fottuti tutti, resistendo fino al 2011 prima di morire di mesotelioma pleurico. L’inserimento del suo caso ha ampliato il tempo disponibile per lo svolgimento delle udienze, ma è terribile che le speranze di concludere il giudizio siano dipese dalla morte di un uomo.

C’è il rischio però che il processo si estingua per l’estinzione degli imputati: i 25 dirigenti incriminati per disastro colposo, omicidio colposo e lesioni colpose hanno tutti tra i 72 e i 92 anni. Altri 51 non figurano perché stramorti da tempo (da Enrico Mattei a Eugenio Cefis, da Raffaele Girotti e Gabriele Cagliari). (Continua)

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