Angela Merkel – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La pace è finita, l’Unione Europea anche https://www.carmillaonline.com/2023/01/05/la-pace-e-finita-lunione-europea-come-la-si-e-immaginata-anche/ Thu, 05 Jan 2023 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75302 di Sandro Moiso

Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 144, euro 16,00.

E’ un agile libricino, ma c’è da augurarsi che la Befana in persona oppure qualche amico premuroso o caro parente l’abbia fatto pervenire nella tradizionale calza appesa al camino (o dove diavolo si voglia) dei lettori. Soprattutto di coloro che, ancora infatuati di filo-sovietismo e vetero-stalinismo d’antan, credono e affermano, senza mai averne letto una parola o un rigo, lo scarso interesse che rivestirebbero i saggi e gli [...]]]> di Sandro Moiso

Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 144, euro 16,00.

E’ un agile libricino, ma c’è da augurarsi che la Befana in persona oppure qualche amico premuroso o caro parente l’abbia fatto pervenire nella tradizionale calza appesa al camino (o dove diavolo si voglia) dei lettori. Soprattutto di coloro che, ancora infatuati di filo-sovietismo e vetero-stalinismo d’antan, credono e affermano, senza mai averne letto una parola o un rigo, lo scarso interesse che rivestirebbero i saggi e gli studi di Caracciolo per i “compagni”. Spesso accusandolo di un filo-atlantismo ad oltranza che stride in maniera evidente con tutto ciò che l’autore va dicendo e scrivendo da anni.

Anche quelli che si ostinano a ritenere che la geopolitica sia “roba di destra” farebbero meglio a leggere il libretto oppure richiedere la consegna dello stesso da parte del drone con la scopa caratteristico del 6 gennaio. Poiché se è vero che acquistare «Limes», la rivista di cui Caracciolo è direttore, tutti i mesi può rivelarsi impegnativo e costoso, la lettura e l’acquisto di questo ultimo suo lavoro potrebbe occupare poco tempo e pesare non molto sulle tasche dei singoli (parlando comunque di tempo e soldi ben spesi).
Ma allora cosa conterrà di così importante il testo di cui si sta qui parlando, chiederà qualche lettore storcendo già il naso. La risposta è già nella prima riga, e in quelle seguenti, senza ombra di dubbio.

Il 24 febbraio 2022 è definitivamente finita la fine della storia. Trent’anni dopo la pubblicazione del saggio di Francis Fukuyama sopra La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), l’invasione russa dell’Ucraina impone sigillo all’illusione di emanciparci dalla prigionia del tempo, stigma di ogni progressismo occidentale. Fukuyama scriveva all’indomani del miracoloso biennio avviato dal crollo del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e chiusa dal suicidio dell’Unione Sovietica (25 dicembre 1991), con i decisivi passaggi dell’unificazione tedesca (3 ottobre 1990) e dello scioglimento del Patto di Varsavia (1° luglio 1991) […] Il presidente George H. Bush preconizzava un Nuovo Ordine Mondiale (ancora!), fondato sull’incontestata, pacifica, benevolente egemonia a stelle e strisce. I cantori della vittoria americana nella Guerra fredda annunciavano il trionfo della Nuova Roma. Pax americana, dunque?
Non proprio. Prima il lungo decennio della Guerra del Golfo e dei conflitti di successione jugoslavi, poi il vetennio della “guerra al terrorismo” con le fallimentari invasioni di Afghanistan e Iraq, infine la contestazione russa dell’ordine americano […] parallela all’analoga sfida cinese al primato di Washington […] Finita era la pace, non la storia. A Bush padre come a quasi tutti i contemporanei sfuggiva che la fine dell’impero sovietico e la scomposizione dell’URSS in quindici repubbliche che dalla sera alla mattina vedevano i loro pseudoconfini amministrativi eretti a frontiere di improbabili Stati, segnavano il tramonto del vecchio ordine, non l’alba del nuovo. Le rovine dell’edificio crollato. Costruito dopo il 1945 sulla spartizione dell’Europa per mano dei suoi conquistatori – base della doppia egemoonia americano-sovietica sul pianeta – ostruivano qualsiasi velleità di impiantarvi il Sistema-Mondo definitivo, già battezzato “Washington Consensus”. Stiamo ancora spalando tra le macerie del vecchio ordine, mentre i residui muri portanti su cui americani e altri occidentali imperniavano l’ideale dell’umanità metastorica si rivelano perfettamente inadatti allo scopo. Viviamo il rovesciamento della fine della storia: le storie della fine1.

Dovrebbero bastare queste poche righe a contestare le convinzioni di coloro che ritengono l’autore un ferreo sostenitore degli Stati Uniti e dell’atlantismo a ogni costo, ma poiché non è intento di questa recensione difendere o salvare una personalità pubblica dalle critiche di carattere ideologico, è invece importante sottolineare che, in fin dei conti, ciò che anima il pensiero di fondo di Caracciolo è un europeismo costretto oggi a fare i conti con la Storia. Proprio questo aspetto sembra infatti costituire il cuore del saggio: analizzare le prospettive dell’Europa e della sua presunta unità di fronte alle sfide poste dalla crisi, indubitabile, dell’Occidente americano e dall’insorgenza, più che dal sorgere, di potenze economico-militari e dalle ancor ampie risorse energetiche tradizionali a loro disposizione.

I soliti critici ideologici, con le menti tradizionalmente avvolte nelle fette di salame tardo marxista-leninista e per questo motivo scarsamente attenti alla realtà dei fatti, spesso dipingono l’Occidente come un tutt’uno, in cui gli attori nazionali sono tutti fedelmente legati all’obbedienza al canone e al volere degli Stati Uniti d’America e mai in contrasto al loro interno se non per quisquilie di carattere etico e giuridico. Finendo col costituire soltanto l’altra faccia della medaglia del pensiero embedded di pennivendoli “inconsapevoli e felici” come Massimo Giannini2, mentre la realtà, fotografata anche nelle pagine del testo qui proposto, appare ben diversa.

Realtà che, al di là degli evidenti contrasti tra Europa del Nord ed Europa mediterranea, tra stati dei confini orientali e stati occidentali all’interno del continente oppure se vogliamo delle immarcescibili polemiche e rivalità mediterranee tra Italia e Francia, travestite amabilmente da “questione migratoria”, e della Francia con gli Stati Uniti sulla necessità di una Difesa comune europea (possibilmente a guida francese) che si distacchi in parte o del tutto dalla Nato (a cui, però, Macron intende vietare l’accesso all’Ucraina guerriera e filo-americana di Zelensky), risalente ancora ai tempi della grandeur sognata da Charles De Gaulle, vede il centro di ogni turbolenza economica, politica militare accentrarsi al suo vero cuore: la Germania, riunificata nel 1990 e ancora una volta a caccia del suo ruolo di comando sul continente.

Prima dell’Ottantanove le due Germanie avevano cautamente stabilito rapporti piuttosto intensi, spesso segreti. Molto più di quanto lo schematismo della Guerra Fredda prevedesse. E di quanto la grande maggioranza degli stessi tedeschi, su entrambe le sponde, immaginasse. All’ombra di ideologie e narrazioni storiche specularmente opposte – doppia negazione, dunque affermazione – l’una conferma e dimostrazione dell’altra, si dipanava un filo rosso percebile a chi non mettesse la testa nella sabbia o non fosse stordito dalle rispettive propagande. Filo che negli ultimi trent’anni, almeno fino alla svolta del 24 febbraio, ha riportato la Germania al rango di protagonista economico ma anche geopolitico su scala mondiale. Ma sempre a rischio di rompersi il collo, proprio quando il ritorno della Potenza del Centro – Zentralmacht Europas […] – sembra scolpito nella pietra3.

Nel delineare i “due blocchi” tedeschi riunificatisi nel 1990, l’autore ci ricorda che:

La più piccola delle due Germanie (quella ex-orientale – NdR) è stata e rimane la più tedesca. Così come, a suo modo, la Bundesrepublik preunitaria non può essere ridotta a base avanzata dell’impero americano in Europa occidentale, l’altra Germania non è mai stata un mero satellite dell’URSS. Il graduale ritorno della Germania unita nella storia avviene attingendo al patrimonio identitario custodito dalla DDR molto più che dalla Bubdesrepublik delle origini. Se l’Ovest annette l’Est, l’Est inietta nell’Ovest quelle dosi di codice nazionale, non necessariamente democratico, preservato nei quarant’anni di controllo sovietico. Trovando a occidente dell’Elba un terreno più fertile di quanto apparisse in superficie4.

La storia ha il respiro lungo. E ci ricorda come quel decisivo spazio nel cuore dell’Europa sia culturalmente autocentrato. L’identità tedesca, dal romanticismo in poi, verte su valori orgogliosamente specifici […] E’ l’architrave sul quale si è costruito il Secondo impero e la cui versione aggiornata sta riportando i tedeschi di oggi al senso di appartenere, malgrado tutto, a un soggetto storico dotato di un proprio codice culturale. Di una specifica missione […].
Nell’Europa eterodiretta dai due poli esterni (USA e URSS – NdR), la risultante politica di questo sentimento collettivo era latente neutralismo. Rifiuto di ridursi a meri strumento delle superpotenze. Ben sapendo come queste divergendo su quasi tutto convergessero nel considerare lo spazio tedesco intrinsecamente pericoloso, da mantenere sotto stretta sorveglianza. Tale neutralismo era fondato su un nazionalismo segreto, per certi versi passivo e persino inconsapevole. Nella Germania Federale prendeva la forma dell’Europa, maschera e insieme confortevole vestito dei propri interessi di Stato. Di fatto nazional-statali5.

L’europeismo tedesco-occidentale era il nazionalismo possibile nel mondo della Guerra fredda. Almeno quanto lo era il francese. Ma senza la gloria, il messianismo universalista della Grande Nation […] Allo stesso modo, sulla riva destra dell’Elba il tardo prussianesimo dai colori socialisti coltivato dalla DDR era il seminazionalismo possibile nel blocco imperiale sovietico. Dal 1990 in poi le due correnti carsiche sono emerse, mescolandosi. Il neonazionalismo tedesco risorto a partire dai “nuovi Länder”, anche ma non solo sotto specie del partito Alternative für Deutschland, conferma il diverso tono cultural-politico fra le due Germanie, socialmente e culturalmente distinte quanto istituzionalmente riunite. Soprattutto annuncia la rilegittimazione del discorso nazionale anche all’Ovest. L’europeismo germanico ha sempre meno remore a mostrare il suo scopo nazionale, anche se il mantello giallo-stellato resta irrinunciabile6.

Nel tanto parlare che si fa, a Sinistra come a Destra, in maniera negativa oppure positiva, di sovranismo sempre questo si dimentica ovvero il fatto che si tratta soltanto di un nazionalismo diversamente travestito, che ha potuto sopravvivere, come ben dimostra il caso tedesco, sia sotto il tallone democratico-liberale americano che sotto quello socialista-autoritario dell’URSS e del Patto di Varsavia. Sono riflessioni necessarie che proprio il testo di Caracciolo, anche indirettamente, invita e obbliga a fare.

Oggi la Germania, sempre meno vestita da Europa, vuole iniziare a riprendere in mano il proprio destino, stando all’ormai famosa formula di Angela Merkel7. I successori della cancelliera, a cominciare dal non spettacolare Olaf Scholz, inclineranno ad allargare lo spazio di autonomia della Bundesrepublik anche rispetto ai soci europei e alla superpotenza americana8. La traiettoria imboccata dopo il 1990 porta la Germania a trattare l’Europa sempre meno da foglia di fico e sempre più da area di influenza. Selezionando al suo interno, a partire dal classico spazio mitteleuropeo (Nord Italia incluso), i partner da associare più strettamente facendo leva sul vincolo monetario e sull’integrazione economica, da volgere per quanto utile in leva geopolitica9.

La guerra in Ucraina ha contemporaneamente sia rallentato che accelerato tale processo, che vedrà come centrale una ristrutturazione della presunta unità europea, destinata a finire sia per effetto delle pressioni americane che di quelle russe e tedesche. Un nuovo, importantissimo, elemento del nuovo disordine mondiale che il testo di Caracciolo, borghese intelligente e pacato non certo uno pseudo-comunista da operetta o da social assetato di fake, ci aiuta a prevedere.

Prima dell’invasione russa dell’Ucraina la Germania pareva avviata nel medio periodo verso la piena affermazione come potenza regionale dotata di una sfera d’influenza più o meno travestita da “Europa” […] La guerra in corso colpisce i pilasti della Bundesrepublik: il vincolo strategico con l’America, il vincolo energetico con la Russia, affossato dalle sanzioni; la speciale relazione economica con la Cina, mercato di primario interesse; e la stabilità economico-monetaria dell’Eurozona. Vedremo quanto questo influirà sulla traiettoria geopolitica della Germania, che non intende certo rinunciare a nessuno dei fondamenti del suo benessere e della sua potenza10.

La guerra ha coinvolto la Germania e i suoi interessi e deciderà della sorte dell’Europa che, ancora una volta come nel corso delle guerre napoleoniche, prima, e della Prima e della Seconda Guerra mondiale, poi, in assenza di significativi rivolgimenti classisti, sarà nuovamente spartita, suddivisa e riunificata soltanto per mezzo del rombo dei cannoni e il clangore delle armi. Lo sappiano gli amanti dei discorsi fintamente antimperialisti in bianco e nero. Noiosissimi, scontati e totalmente inutili.


  1. L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 7-8  

  2. Cfr. M. Giannini, Le democrazie “resilienti” e l’anno zero delle autocrazie, “La Stampa”, 31 dicembre 2022 

  3. L. Caracciolo, op. cit., pp. 93-94  

  4. Caracciolo, cit, p. 93  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ibid., p.95  

  7. Che, non va mai dimenticato, anche se nata ad Amburgo nel 1954, ha trascorso gran parte della sua gioventù nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR), fino a diventare, dopo le elezioni del 18 marzo 1990, portavoce dell’ultimo governo della stessa prima della riunificazione, avvenuta nell’ottobre di quello stesso anno – NdR  

  8. Come dimostrano gli investimenti militari programmati nei mesi scorsi, già sottolineati su «Carmillaonline», che hanno portato la Germania ad essere la terza potenza per investimenti nel settore militare a livello planetario – NdR  

  9. Caracciolo, cit., pp. 95-96  

  10. Ibidem, p. 96  

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Questi vigliacchi non so’ a scorda’ https://www.carmillaonline.com/2021/08/22/questi-vigliacchi-non-so-a-scorda/ Sun, 22 Aug 2021 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67588 di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla [...]]]> di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla condizione di modesti contadini a quella di lavoratori ancora più sfruttati, scaraventati in difficoltà ignote al loro mondo arcaico, lacerati da traumi che nel linguaggio dei loro giorni fuori del tempo non avevano neanche un nome.

Malgrado la vastità del crimine, il suo tratto particolarmente vigliacco (gli assassini girano intorno alla palude uccidendo nella zona di gronda, abitata da agricoltori e sfollati, ed evitando i partigiani), e il fatto che furono colpiti vari Comuni, ancora adesso pochi associano il nome di Fucecchio a questo fatto. Parlando di Fucecchio è più comodo pensare a Indro Montanelli, giornalista abile a sopravvivere in tutti i regimi, che nel ’47 seguì uno dei processi per il «Corriere d’informazione» e scrisse cose vaghe, per poi trascurare una vicenda che invece era rimasta impressa nelle carni di un’intera comunità.

Diceva bene Walter Benjamin, neanche i morti stanno al sicuro. La memoria è un arnese politico così ambiguo che è difficile ricordarsi quando sia arrivata, anche se è certo che non è sempre stata fra i numi tutelari, come oggi. Quei morti di Fucecchio, quasi tutti poveri (però c’erano la figlia di un gioielliere fiorentino di Ponte Vecchio, un paio di aristocratici e qualche possidente), negli ultimi anni sono diventati ombre cinesi manovrabili, protagonisti non interpellati di iniziative culturali, per lo più di dubbio gusto; sono finanziate con poca spesa dalla Germania, che si guarda bene dal risarcire i sopravvissuti e i familiari. Costa molto meno restaurare monumenti, fare discorsi, stampare libri come quello distribuito alla commemorazione due anni fa, con l’Ambasciata tedesca già in copertina, tanto per essere chiari.

Eppure ce ne sono ancora, di familiari: vivi e dolenti come allora, più di allora, perché un bambino conta su energie e aspettative che un anziano ha consumato. Un anziano ha visto prosperare gli eredi politici del fascismo, ha notato l’arricchimento dei collaborazionisti di allora, ha ascoltato le retoriche di circostanza di personaggi pubblici in cerca di un po’ di visibilità. Titolo felice, La tregua di Primo Levi; ma per le vittime delle stragi non è mai neanche cominciata, e i racconti dei più vecchi trascorrono ininterrotti dagli stenti della guerra alla strage e al peso di una vita, passando per le prepotenze dei fascisti da subito dopo la Liberazione.

Nel 2019 i familiari hanno creduto al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Proprio alla commemorazione di questa strage aveva ricordato la mancata giustizia da parte della Germania, e poi su un giornale: «L’Armadio della vergogna c’è. E il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione. Lo dobbiamo alle vittime, ai superstiti e ai loro familiari». Ancora a fine 2019, su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale». Bene per essersi accorto che l’Armadio della vergogna, l’archivio coi fascicoli sulle stragi rifrequentato a partire dagli anni Novanta, esiste; bene per la giustizia ancora possibile, quella economica. E quest’anno anche il nuovo presidente, Eugenio Giani, ha preso posizione.

Sempre nel 2019 un convegno in Senato, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, aveva offerto qualcosa di inedito, in Italia: nel Palazzo un incontro per mettere sulla graticola le conseguenze di crimini sprofondati nel Novecento, per giudicare la storia. Le vittime erano venute in torpedone da lontano, col vestito buono, la cravatta che senza non ti fanno entrare. Il viaggio a Roma, tutto per loro. Lì, nella sala Koch che è di tutti, un presidente emerito della Corte costituzionale aveva parlato con una franchezza lontana dal linguaggio curiale dei pochi: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose». Quel giorno, l’ex presidente della Consulta aveva messo il dito nell’occhio all’ipocrisia, alla condiscendenza nei confronti degli interessi di Berlino, indicando un’evoluzione necessaria in Italia e nel mondo: «Di fatto c’è il riconoscimento, nella coscienza della comunità internazionale, del valore dei diritti fondamentali della persona in quanto tale, senza divisa, senza conto in banca. […] I diritti fondamentali sono cresciuti, nella coscienza civile della comunità internazionale complessivamente considerata».

Quel giurista senza peli sulla lingua, Giuseppe Tesauro, da qualche settimana non è più con noi. L’impegno continua anche nel suo nome, la strada che ha indicato è in salita ma percorribile. Passa da dove meno te l’aspetti. Quest’anno un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire le comfort women, le schiave sessuali dei militari nipponici durante la guerra mondiale. Donne che hanno fatto causa personalmente, anni fa, raccontando storie spaventose; nel frattempo sono morte e i crediti sono passati agli eredi. Certi argomenti del Giappone per non pagare somigliano, pensa un po’, a quelli della Germania; esecrazione, propositi, accademia: «Ribadiamo la nostra ferma determinazione a non ripetere mai più lo stesso errore, scolpendo per sempre questi temi nella nostra memoria mediante lo studio e l’insegnamento della storia», dice Tokyo. Siamo alle solite. Ma la sentenza coreana cita proprio quella della Corte costituzionale italiana del 2014, l’ultima scritta da Tesauro. Possibile che il buon lavoro fatto a Roma lo intendano meglio a Seoul che qui? In Corea si è capito che il diritto può cambiare: «La dottrina dell’immunità statale non è permanente né statica. Si evolve continuamente secondo i cambiamenti dell’ordine internazionale».

Se non si fa giustizia sui crimini nazisti, come si può chiederla per altri delitti di Stato? Non è diatriba sul passato. Riguarda il presente: Andrea Rocchelli, Giulio Regeni, Daphne Caruana Galizia, Jamal Khashoggi. E riguarda il futuro: il mai più che fa scattare gli applausi alle commemorazioni – suono beffardo, mentre si sa che le democrazie sbiadiscono e il potere è sempre più irresponsabile – ha il sottinteso di un salvacondotto a ripetere, magari in dosi limitate, studiate per il delitto esemplare, per la pedagogia del sangue. Rocchelli non documenti, Regeni non studi, Caruana Galizia stia zitta e Khashoggi si faccia i fatti suoi.

Un’altra attesa ha un sapore toscano. A febbraio 2020, a Montecitorio, c’è la cerimonia conclusiva del premio Giustolisi «Giustizia e verità» edizione 2019. Franco Giustolisi era il giornalista che si batteva per far conoscere l’Armadio della vergogna, era una penna battagliera che cercava di spezzare il silenzio. Alla cerimonia di nuovo Enrico Rossi, ancora presidente, annuncia il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze a cura della Regione; si tratta di renderlo accessibile, riordinarlo e trasformarlo in un centro studi. Rossi indica la sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio. La cosa è importante, e Giustolisi è mancato nel 2014.

Chissà se l’anniversario 2021 della strage del Padule si lascerà dietro qualche altra amarezza. Forse discorsi come la memoria attiva, la memoria proattiva, il lenimento. Magari parole come quelle che Ursula von der Leyen, ex ministra della difesa di Berlino e oggi presidente della Commissione europea, ha detto lo scorso luglio a Fossoli, per l’anniversario di un’altra strage, quella di Cibeno, 67 morti. Niente sulla giustizia ma toni a effetto: gli accadimenti insondabili, il sacrificio, l’abisso del male, linguaggio vertiginoso che non costa nulla. E anche qualcosa di imbarazzante: «Invece di combatterci, come abbiamo fatto per secoli, ora ci sosteniamo a vicenda di fronte alle avversità. Il governo italiano ha dato vita a un solido piano di recupero con investimenti e riforme, e l’Europa lo finanzia con oltre duecento miliardi di euro. I primi fondi, raccolti dall’UE, sono arrivati in Italia all’inizio del mese».

Combatterci per secoli? Se la presidente si riferisce ai tanti conflitti europei, non si capisce cosa c’entri il debito tedesco verso le vittime di strage in Italia. Se si tratta dei rapporti fra Italia e Germania, sembra di sentire certe dottrine correnti nel Risorgimento. Per esempio Cesare Balbo, nel Sommario della storia d’Italia che piaceva a Giuseppe Giusti e Massimo D’Azeglio, poneva l’inizio delle guerre d’indipendenza nella vittoria di Teodorico su Odoacre. Forzature, ma spiegabili, al tempo in cui si costruiva una base politico-culturale per l’unità italiana. Adesso quella lettura della storia diventa pazzesca: avvicina la Seconda guerra mondiale (con la Resistenza, un fatto che divide nettamente i due paesi) a una serie plurisecolare di guerre qualsiasi, com’è tipico del revisionismo. Un atteggiamento coerente, in fondo: nel suo documento alla vigilia dell’incarico continentale, Un’Unione più ambiziosa: Il mio programma per l’Europa – dove la parola ambizioso insiste come un tic –, von der Leyen aveva prefigurato una visione del mondo rigida ma rassicurante come il salottino di Barbie. Sullo sfondo c’era il sapere formattato offerto dalla risoluzione del Parlamento europeo Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, uno scritto antistorico e insidioso dove facevano capolino la riconciliazione, la memoria, il mai più.

E poi, a Fossoli c’era proprio bisogno di far frusciare del denaro, commemorando una strage? Denaro, sì, ma non per gli aventi diritto, i familiari delle vittime; per l’economia italiana, da sostenere anche per il bene di quella europea, perché questo sta per quello, allo stragismo si rimedia con lo sviluppismo, e che si vuole di più. Denaro che non è tedesco, ma dell’Unione. Neanche David Sassoli, che accompagnava questa signora abile a mostrare una scarsella gonfia e non sua, ha fatto cenno ai risarcimenti; ha preferito un europeismo irenico, un compitino convenzionale. Sono un inizio esemplare del nuovo corso, un assaggio della Repubblica fondata sulla resilienza, von der Leyen e Sassoli alla loro prima visita insieme in Italia, proprio dove si commemora una strage di persone prelevate da un campo di concentramento; e fra loro c’erano antifascisti, partigiani, eroi.

Sentiamo ancora Tesauro nel 2019. Antefatto: a Trieste nel 2008 si svolse un incontro bilaterale Italia-Germania; c’era quella Merkel che adesso conclude un lungo periodo di brillante cancellierato, e c’era quel Berlusconi che ora vivacchia su glorie opache e che già nel 2008, arrivata la crisi, si affannava per restare in sella (dei due, i fatti dissero chi aveva più furbizia). Tesauro riassume: «Erano tutti a Trieste, a parlare di che cosa? Non si sa bene, però una cosa è certa: che hanno parlato anche di soldi, dati dalla Germania anche all’Italia». Il riparazionismo, cioè il finanziamento della memoria senza giustizia, lo smaschera senza riguardi: «Non dovete risarcire i danni alle singole vittime o ai loro eredi. Potete fare tutti i musei che volete, tutte le feste di paese e della memoria che volete, ma non dovete risarcire i danni alle vittime». Per lui è chiaro che questo non deve compromettere i risarcimenti e che qualcuno ha sbagliato: «Il governo italiano accettò in ginocchio e con entusiasmo questa soluzione, ma per le vittime non era una soluzione».

Aveva ragione Theodore Fenstermacher, uno dei pubblici ministeri a Norimberga, quando in una requisitoria sulla strage di Cefalonia, nel 1949 (The Hostages Trial), denunciò l’emotional fatalism. Fenstermacher, sui nazisti: « È questa filosofia del fatalismo emotivo che ha reso così vili e spregevoli le loro offerte di scuse della colpa individuale e collettiva». C’è chi ha espresso il concetto più alla svelta, e in musica. Dopo la guerra, in Valdinievole c’era un omino, faceva il barrocciaio. Non era istruito come Fenstermacher, girava col cavallo per i paesi e cantava una ballata trasmessa a memoria, Popolo se m’ascolti. Raccontava la strage: «Questi vigliacchi non so’ a scorda’…».

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Underworld https://www.carmillaonline.com/2019/07/07/underworld/ Sun, 07 Jul 2019 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53393 di Alessandra Daniele

L’attuale contrapposizione fra europeisti e populisti ci viene raccontata come una versione semplificata della saga di Underworld, con gli europeisti nel ruolo dei vampiri, e i populisti in quello dei lycan, i licantropi. La similitudine è calzante: i vampiri sono aristocratici crudeli e corrotti, i lycan, a lungo asserviti ai vampiri e sfruttati come cani da guardia, hanno ragione di ribellarsi, ma sono comunque lupi, belve, che pure nella loro forma umanoide continuano a seguire le brutali e ferine logiche del branco. Nella realtà però, e nella stessa saga di Underworld, le [...]]]> di Alessandra Daniele

L’attuale contrapposizione fra europeisti e populisti ci viene raccontata come una versione semplificata della saga di Underworld, con gli europeisti nel ruolo dei vampiri, e i populisti in quello dei lycan, i licantropi.
La similitudine è calzante: i vampiri sono aristocratici crudeli e corrotti, i lycan, a lungo asserviti ai vampiri e sfruttati come cani da guardia, hanno ragione di ribellarsi, ma sono comunque lupi, belve, che pure nella loro forma umanoide continuano a seguire le brutali e ferine logiche del branco.
Nella realtà però, e nella stessa saga di Underworld, le cose sono più complicate, ci sono ibridi vamp-lycan, doppiogiochisti e voltagabbana d’ogni specie.
Inoltre, nel mondo reale il vero capobranco dei populisti mannari è indubbiamente un vampiro, Vladimir Putin, che li adopera come truppe di terra contro la rivale casata vampira di Aquisgrana, presieduta da Merkel e Macron, che però ha comunque vinto 4 a zero la partita delle nomine europee anche con la complicità del governo Grilloverde, che in cambio ha temporaneamente evitato la procedura d’infrazione. Perché i populisti mannari nostrani hanno tutto dei canidi, tranne la fedeltà.
Rispetto alla saga, nel nostro mondo non ci sono nobili ribelli alla Selene, né tanto meno eroi messianici alla Lucian, ma i doppiogiochisti abbondano sempre più aggrovigliati negli inciuci come un Laocoonte, non di marmo, ma di merda.
C’è però una verità semplice e lineare che la saga e la realtà condividono in pieno: per entrambe le specie di predatori bipedi, gli umani come noi sono soltanto cibo.
Invece di dividersi nella scelta fra le due, una dicotomia falsa quanto la democrazia che sostiene, tutti gli umani dovrebbero organizzarsi per combatterli entrambi.
Non sono certo invincibili come vogliono sembrare.
I vampiri sono accecati dalla superbia, i licantropi dalla fame.
Il vantaggio evolutivo della specie umana, anche sui predatori più feroci, è sempre stato l’intelligenza. Adoperiamola, prima che sia troppo tardi.

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L’anno del maiale https://www.carmillaonline.com/2019/02/03/lanno-del-maiale/ Sun, 03 Feb 2019 18:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50929 di Alessandra Daniele

Una notte di metà dicembre, nella fattoria il maiale si diverte a prendere in giro l’asino: “Il padrone ti bastona, ti affama, ti costringe ai lavori più faticosi e umilianti. Guarda me invece: non devo far altro che mangiare, dormire, e rotolarmi nel fango!” L’asino gli dà un’occhiata, e poi gli chiede: “Tu non sei quello dell’anno scorso, vero?” (Antica barzelletta)

Oggi Matteo Salvini è apparentemente il politico più popolare d’Italia. Sembra che non debba far altro che mangiare, ghignare, e rotolarsi sui social, per continuare a guadagnare consensi a spese [...]]]> di Alessandra Daniele

Una notte di metà dicembre, nella fattoria il maiale si diverte a prendere in giro l’asino: “Il padrone ti bastona, ti affama, ti costringe ai lavori più faticosi e umilianti. Guarda me invece: non devo far altro che mangiare, dormire, e rotolarmi nel fango!”
L’asino gli dà un’occhiata, e poi gli chiede: “Tu non sei quello dell’anno scorso, vero?” (Antica barzelletta)

Oggi Matteo Salvini è apparentemente il politico più popolare d’Italia. Sembra che non debba far altro che mangiare, ghignare, e rotolarsi sui social, per continuare a guadagnare consensi a spese di tutti. La cosa spaventa molto i suoi soci a cinque stelle, ormai pronti a rimangiarsi persino la loro Prima Direttiva legalitaria, pur dì garantire al pingue leghista l’impunità che pretende.
Giuseppe Conte l’ha spiegato molto bene ad Angela Merkel: i grillini sono nel panico per il calo nei sondaggi del Movimento a favore della Lega, perciò si sono buttati alla disperata rincorsa di Salvini sul terreno – anzi nelle acque – della peggiore propaganda razzista, mentre contemporaneamente fanno mostra di sfidarlo sul no al TAV.
Un gioco delle parti sempre più spericolato.
“Lo so” ha commentato la Merkel, serafica. “Salvini è contro Francia e Germania?” Ha chiesto.
“Salvini è contro tutti” ha risposto Conte.
La Merkel ha sorriso, divertita.
Questo grottesco esecutivo Grilloverde è esattamente il “Nemico” del quale lei e l’Europa carolingia del Patto di Aquisgrana hanno bisogno.
Proprio come il maiale della barzelletta, oggi Matteo Salvini è all’ingrasso. Mediaticamente, politicamente (e fisicamente). L’Unione Europea lo adopera come spauracchio, allo stesso modo in cui lui strumentalizza i migranti. Salvini è l‘Uomo Nero d’Europa.
L’intenzione delle élite europee è lasciare che questo governo di arroganti babbei scaraventi l’Italia nel burrone, per poi usarlo come esempio e monito.
Esporre l’Italia pentita in gabbia sulle mura esterne della Fortezza Europa, e citare il Grilloverde per dare del coglione fascista a chiunque oserà in futuro mettere in discussione il liberismo.
Così che tutte le feroci stronzate di Salvini e Toninelli vengano rinfacciate anche a chi a sinistra le avrà combattute. Come oggi gli si rinfaccia Pol Pot.
E l’inevitabile fallimento Grilloverde trascini alla rovina tutte le forze antagoniste – sia vere, che false come il M5S – mentre alla fine la Lega di Giorgetti e Zaia torna al governo coi Moderati, dopo aver voltato per l’ennesima volta la verde gabbana.
Se Salvini è il metaforico maiale della barzelletta, l’asino siamo noi. La nostra condanna è quella di Sisifo al contrario: ogni volta che riusciamo a buttare giù il maiale seduto in cima alla collina, ce ne viene issato sopra un altro.
E nessuno butta giù il padrone.

[Secondo l’oroscopo cinese, il 2019 è l’anno del maiale] 

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L’alba dei morti viventi https://www.carmillaonline.com/2018/05/30/lalba-dei-morti-viventi/ Wed, 30 May 2018 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46038 di Sandro Moiso

Il grottesco e ridicolo dramma in corso sulla scena politica italiana mi ha ricordato, in un primo tempo e a cent’anni esatti di distanza (ahi, potenza del teatro e dell’immaginario!), il pirandelliano “Giuoco delle parti”, scritto dall’autore siciliano nel 1918, in cui un marito cinico (Leone Gala) lascia correre la moglie Silia, volubile e capricciosa, tra le braccia dell’amante, il debole Guido Venanzi, completamente dominato dagli altri due. Lascia correre però soltanto per stringere poi un cappio mortale intorno al collo del più debole, con un colpo di scena [...]]]> di Sandro Moiso

Il grottesco e ridicolo dramma in corso sulla scena politica italiana mi ha ricordato, in un primo tempo e a cent’anni esatti di distanza (ahi, potenza del teatro e dell’immaginario!), il pirandelliano “Giuoco delle parti”, scritto dall’autore siciliano nel 1918, in cui un marito cinico (Leone Gala) lascia correre la moglie Silia, volubile e capricciosa, tra le braccia dell’amante, il debole Guido Venanzi, completamente dominato dagli altri due. Lascia correre però soltanto per stringere poi un cappio mortale intorno al collo del più debole, con un colpo di scena destinato a troncare in maniera irrefutabile la corrispondenza di amorosi sensi tra i due illusi. Rimediando però, allo stesso tempo, un marchio di infamia destinato ad accompagnarlo fino alla fine dei suoi giorni.
Mettete Sergio al posto di Leone, Matteo al posto di Silia e Luigi al posto di Guido e otterrete lo stesso risultato (che appunto non cambia col mutare dei fattori).

Ma il tormentone degli ultimi novanta giorni mi ha fatto anche ricordare che Amadeo Bordiga scrisse sul quindicinale “Il programma comunista” n. 14 del 1956 un compianto per Stalin: Plaidoyer pour Staline.
In tale articolo, proprio colui che fin dagli anni Venti si era erto ad intransigente avversario delle politiche che avrebbero portato l’Internazionale Comunista e l’URSS a diventare uno dei baluardi della controrivoluzione mondiale, si sarebbe trovato da solo a ripercorrere il percorso politico del suo avversario per dimostrare come ben poco, nel corso della Storia, sia dovuto alla volontà o alla personalità del singolo individuo. Proprio nel momento in cui, a tre anni di distanza dalla morte del “piccolo padre”, tutti i rappresentanti del perbenismo di destra e di sinistra si erano avventati come iene sulle spoglie di colui che, in occasione del XX congresso del PCUS svoltosi tra il 14 e il 26 febbraio di quello stesso anno, era stato accusato di tutti i “crimini” veri o presunti messi in atto dal regime e individuato come l’artefice di ogni errore seguito alla morte di Lenin.

Così fino a ieri, sarebbe stato possibile “compiangere” un governo ancora mai nato, contro cui erano stati indirizzati, fin dai primi giorni successivi alle elezioni del 4 marzo, gli strali della Sinistra, della Destra, del perbenismo, del filo-europeismo, dell’Europa germanica e di quella delle banche e della finanza, del berlusconismo, dell’anti-berlusconismo più scontato, dell’antifascismo più trito e di un antagonismo che di tale appellativo non riesce più nemmeno a salvare la facciata.

Un governo non nato, non solo per il possibile bluff di qualcuno dei suoi artefici, ma anche a causa di una rigida volontà di mantenimento dell’immutabilità sociale ed economica che si è mostrata dal 2011 in avanti e che è, sostanzialmente, conseguenza di un sistema di governo PD-Forza Italia che ha costruito il proprio potere finanziario e politico appoggiandosi sulle scelte più scellerate messe in atto dalla BCE, dai governi di Berlino e Parigi e dall’inconsistente parlamento europeo. Così, come aveva previsto Lucio Caracciolo, direttore della rivista mensile “Limes” e uno dei pochi, forse l’unico, commentatori politici italiani degni di essere ascoltati, affermando qualche settimana prima delle elezioni del 4 marzo che PD e FI avrebbero fatto di tutto per impedire un governo con i 5 Stelle, salvo poi tornare ad elezioni (nel corso dello stesso anno) in cui i populisti avrebbero trionfato.

Possibile governo che, dalla sua, avrebbe un risultato elettorale ottenuto attraverso la simultanea distruzione, avvenuta nelle urne da Nord a Sud, dei due feticci che insieme hanno governato l’Italia nel corso degli ultimi 25 anni: Berlusconi e il PD, in tutte le loro differenti formule elettorali. Uno scossone elettorale che ha rivelato, e pochi l’hanno colto, come gli italiani con tale voto abbiano cercato di togliere di torno i due falsi avversari che hanno inquinato la politica italiana; in cui berlusconismo e anti-berlusconismo hanno costituito l’esercizio di una fasulla opposizione sia di “Destra” che di “Sinistra”. Gioco in cui sono cascati quasi tutti, anche negli ultimi mesi e comprese alcune delle migliori penne di ciò che rimane di più vivace nel circo mediatico italiano.

Ma, in realtà, le ultime giravolte avvenute intorno al Quirinale con un frenetico via vai inconcludente ed inconsistente di un rappresentante del Fondo Monetario Internazionale come Carlo Cottarelli, la sua fuga dal retro del Palazzo, il disordine in sala stampa e negli studi televisivi, le affermazioni affrettate del giovane partenopeo, tutto avvolto nel tricolore e pentito dello sgarbo nei confronti del Presidente Mattarella, la paura degli economisti e dei commentatori di fronte alla salita dello spread e alla caduta dei titoli di borsa italiani oltre agli ondeggiamenti dell’uomo “con le palle” fascio-leghista, hanno infine ricordato al sottoscritto, ancora a quarant’anni di distanza, le prime, magnifiche immagini di disordine e caos mediatico fuori controllo di Dawn of the Dead (in Italia Zombi) di George Romero. E sinceramente a tutt’ora sembra, e si spera anche con soddisfazione dell’ esperto in tale settore Gioacchino Toni, l’impressione più corretta ed efficace da trasmetter ai lettori di Carmilla.

Il sottoscritto, poi, non ha mai nutrito simpatie per i 5 Stelle, fin dalla loro prima comparsata politica nel 2012 (qui), e tanto meno per il leghismo, ma quanto è accaduto in questi giorni (sostanzialmente la manovra di Mattarella per respingere il governo proposto originariamente dalle due forze politiche) più che rappresentare una vittoria del costituzionalismo contro l’avventurismo e il fascismo, ha rappresentato, definitivamente, la perdita di autonomia dei parlamenti nazionali, dei sistemi elettorali e della volontà dei cittadini rispetto alle regole stabilite degli interessi della finanza internazionale, dalle attuali classi dirigenti e del capitalismo tedesco.
L’affermazione di un autentico fascismo europeo che è, nonostante tutto, tutt’altro e, per ora, ben più autoritario e armato del fascismo verde-giallo nostrano della cui presunta sconfitta si nutrono con soddisfazione gli ancor troppi sinistrati mentali.1

Ma qui occorre aprire una parentesi per capire di cosa si parla quando si parla di Europa e di capitalismo finanziario. Se si pensa infatti a un blocco unico (modello SIM, Stato Imperialista delle Multinazionali) si è fuori strada tanto quanto chi alla fine degli anni Settanta produsse quel tipo di analisi politico-economica.2 Come ho affermato più volte il capitale è unitario soltanto nei confronti degli oppressi e degli sfruttati di ogni razza, genere e nazionalità, ma non nella sua intima essenza imperialistica ed espansionistica. Come le ultimissime decisioni sui dazi sull’acciaio e l’alluminio europei volute dal presidente americano confermano pienamente (qui).

Anche se, spesso, gli stessi suoi rappresentanti, proprio come è successo ieri, tranquillizzati da periodi troppo lunghi di funzionamento in modalità pilota automatico, perdono completamente la capacità di affrontare e rimettere nelle giuste bottiglie i demoni scatenati, indipendentemente dal fatto che questi siano costituiti dalla speculazione finanziaria, da un voto andato male oppure dal trambusto istituzionale, politico ed economico causato da un rappresentante dello Stato, forse, non all’altezza della situazione. Rivelando così che non solo valore e denaro sono meri feticci che, se male agitati, possono causare improvvise cadute e malattie peggio degli spilloni dei riti voodoo, ma anche che lo stesso pilota automatico, più volte evocato, potrebbe alla fine rivelarsi soltanto come una delle tante leggende metropolitane. Così anche come il termine Europa, di volta in volta sbandierato come un feticcio di irrinunciabile salvezza o come un mostro tentacolare dominato da una volontà maligna e da un’intelligenza onnicomprensiva.

L’Europa di cui si parla oggi è un’Europa a trazione tedesca, certo non più quella sperata dai suoi ideatori sotto il fascismo, quali Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il Manifesto di Ventotene.
E’ un‘Europa “unificata” dal trattato di Maastricht nel febbraio del 1992, un passo previsto all’interno del percorso di unificazione europea successivo all’avvio del Mercato Comune Europeo (MEC), ma avvenuto sostanzialmente poco dopo la riunificazione tedesca del 3 ottobre 1990. Una riunificazione che aveva avuto un immediato e pesante riflesso nell’esplodere delle guerre balcaniche, causate dal tentativo di alcune repubbliche (prima quella slovena, poi quella croata ) di correre al riparo di una Mitteleuropa tedesca e protetta dal marco (che già come moneta dominava gli scambi anche in Serbia).

Guerra che si basava sì anche sulle mai definitivamente risolte divisioni inter-etniche che soltanto il carisma di Tito era riuscito a sopire (e reprimere), ma che, in primo luogo, vide Francia e Regno Unito cercare di limitare immediatamente la novella espansione economica e politica della Germania riunificata verso l’Europa dell’Est che, proprio in quegli anni, sembrava essersi liberata dall’ipoteca ex-sovietica. Mentre Stati Uniti, attraverso la NATO, e Russia intervennero soprattutto per lasciare l’Europa cuocere nel proprio brodo di conflitti mai sopiti fin dal primo macello mondiale e non perdere la possibilità di interferire reciprocamente in un’area non secondaria dello scacchiere internazionale.

Maastricht doveva quindi servire anche ad ingabbiare Germania e marco in una rete di relazioni economico-politiche destinate, lasciando allo stesso tempo libertà di espansione al dinamismo economico tedesco, a portare beneficio anche agli altri rappresentanti dell’Unione Europea, magari trasformando il marco (che all’epoca era uno delle tre grandi monete di scambio a livello internazionale, dopo dollaro e yen) in una moneta unica (l’euro) in grado di rivaleggiare soprattutto con il dollaro.

Se non si capisce questo si continua a parlare inutilmente di aria fritta. Infatti Maastricht doveva servire a frenare l’evidente capacità espansiva del capitalismo e della moneta tedesca, sfruttandone allo stesso tempo le potenzialità di produzione e di assorbimento di merci (all’epoca soprattutto italiane), senza ripercorrere le strade assassine, che si stavano nuovamente affacciando ai confini d’Europa, che erano già state percorse due volte nel corso del XX secolo. Che poi all’interno dei promotori ci fossero paesi filo-tedeschi (come l’Italia) e anti-tedeschi (Francia e Gran Bretagna in particolare) non modificava affatto il profilo che l’Europa, unita da una moneta unica, avrebbe dovuto mantenere approfittando comunque della potenza economica tedesca come fattore di centralizzazione economico-politica. Fatta salva la possibilità per la Gran Bretagna di aderire a tale principi comunitari senza rinunciare alla propria moneta, la sterlina. Ancor importante sul mercato dei cambi.

Il trattato, entrato in vigore nel 1993, vide però, a partire dagli anni a cavallo tra i due secoli, i veri padroni della moneta unica, sostanzialmente i tedeschi, farsi rapidamente detentori del codice comportamentale di tale unione e sfruttare a loro vantaggio le norme monetarie, finanziarie e commerciali messe in atto. Anche senza una nuova guerra la Germania tornava, ed è effettivamente tornata, ai suoi vecchi, irrinunciabili obiettivi di controllo sul continente europeo e, in particolare sulla sua manodopera e il suo costo (in casa e fuori) (qui).

Il modello cui si fa quindi riferimento, quando si parla di europeismo e di adesione all’euro è dunque sostanzialmente quello fin qui delineato. Un accordo tra fratelli-coltelli in cui il cosiddetto asse franco-tedesco non è mai davvero decollato, come le frizioni tra Macron e Merkel hanno dimostrato ancora nelle ultime settimane (qui e qui)), mentre altri paesi, come l’Italia e la Spagna, hanno dovuto accodarsi in nome di un maggior vantaggio finanziario (usufruire di una moneta forte) destinato nel tempo a strangolare il tenore di vita dei lavoratori e dei propri cittadini, dopo un primo illusorio balzo in avanti.

Sostanzialmente, da qualche anno (diciamo dal 2011) la Germania di Merkel è passata all’incasso del prestito di benessere fasullo concesso a paesi come l’Italia con l’introduzione dell’euro. Spinta a questo anche dai rischi che la sua banca più importante, Deutsche Bank, sta correndo, dopo aver incamerato per anni titoli spazzatura e derivati sul debito italiano di cui sta cercando di incrementare la reddività (qui, qui e qui ). Motivo ulteriore di spinta per un rialzo del rendimento dei titoli di paesi come l’Italia (aumento del differenziale di redditività o spread) per poter guadagnare sui propri investimenti esteri mantenendo basso o addirittura negativo quello dei titoli emessi in Germania.
Così, con la macelleria sociale che ne è conseguita, è stato annunciato pubblicamente che la festa era finita, perché lo era anche su scala mondiale, altrimenti non si capirebbe l’irrigidimento delle politiche autarchiche statunitensi nei confronti soprattutto dei prodotti europei e tedeschi, visto che con la Cina Trump dovrà per ora, e per forza di cose, trovare ancora una quadra.

Qualcuno, proprio oggi (qui), ha affermato che la caduta delle borse di New York (-1,58%), di Parigi (-1,29%) e Francoforte (-1,53%) registrato ieri, sia dovuto alle affermazioni di Di Maio, Salvini e Savona (chissà poi perché non Mattarella) attribuendo così a dei semplici battilocchi la responsabilità di eventi che affondano le loro radici in un modo di produzione socialmente obsoleto e in un sistema finanziario destinati, ormai da parecchio tempo, ad un irreversibile e drammatico tramonto.Così come la crisi europea, cui tutti si stanno preparando facendo finta che non possa avvenire, è ormai all’ordine del giorno e non certo soltanto per colpa dei nostri miseri omuncoli. Miseri omuncoli impauriti e convinti allo stesso tempo di essere così determinanti sul piano delle relazioni politiche ed economiche internazionali. Ci vorrebbe il Principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio in arte Totò a dir loro, con maggiore autorevolezza: Ma mi faccia il piacere…

Intanto, negli ultimi anni, i nuovi paesi produttori (Cina e India), le nuove potenze locali (Turchia, Iran, Arabia Saudita) e vecchi avversari sono tornati in gran spolvero di attività diplomatica e militare (Russia) reclamando un nuovo posto al sole e gli Stati Uniti devono concederglielo oppure sostenere guerre locali destinate a ridurre il numero dei pretendenti alla ricchezza mondiale (magari cercando di eliminare i più scomodi, come l’Iran, e contenendo i più pericolosi dal punto di vista militare, come la Russia di Putin). Che poi questo si intrecci alle mille vie del petroli e del gas non è certo né secondario né, tanto meno, casuale.

L’Europa, da questo punto di vista è tagliata fuori e l’unificazione del comando e dell’azione diplomatica e militare resta soltanto un bel, e oramai sorpassato, sogno. La parola d’ordine continua ad essere quella del secolo appena passato: ognuno per sé e la Germania contro tutti o sopra tutti. Deutschland, Deutschland Über Alles! Prendere o lasciare, non c’è altra scelta. Il pilota automatico di cui si parla spesso, a proposito delle varie crisi economiche e politiche nazionali è essenzialmente un pilota di lingua tedesca, anche se poi tutti i centri e gli organismi finanziari cercano comunque ogni volta di speculare ed ingrassare a spese dei lavoratori e dei cittadini sempre meno garantiti di ogni paese reso più debole. Un gioco per il quale potenzialmente non può esserci, al momento fine (qui). Se non con il nuovo scatenarsi di un altro conflitto mondiale destinato a ristabilire un nuovo ordine dei vincitori. Preceduto magari anche da un’uscita proprio della Germania dal sistema dell’euro o, perlomeno, dalla creazione di due diverse euro-aree. Ipotesi tutt’altro che peregrina secondo numerosi osservatori finanziari e politici (qui).

In attesa di ciò, la maggioranza dei governi europei, talvolta a malincuore, ha scelto lo status quo, poiché diversi sistemi di governo oppure differenti gruppi di potere potrebbero rappresentare un salto nel buio, pericoloso sia per gli interessi tedeschi che per quelli dei suoi competitor (come la Francia). Da qui la risposta univoca e negativa che i rappresentanti dell’Unione hanno dato e continuano a dare ogni volta ad istanze di cambiamento dei rapporti e delle regole già stabilite. E da qui, dunque, un primo motivo dell’aborto, tutt’altro che spontaneo, intervenuto in occasione della mancata formazione del governo giallo-verde in Italia.

Forse perché la regola più condivisa è costituita dal fatto che non essendo l’Italia un paese qualsiasi, poiché è ancora il secondo paese industriale del continente europeo dopo la Germania, la realizzazione di un governo populista in loco potrebbe avere una deriva politica decisiva nei maggiori paesi (Francia e Germania) le cui elite, pur già potenzialmente avversarie, preferiscono ancora mantenere un ruolo direttivo all’interno dei propri confini. Per ora meglio cercare di ridimensionare gli obiettivi e i risultati dei cosiddetti populismi (ovunque sia possibile) e prender tempo, in attesa che qualcosa cambi. Tenuto conto, come ha sottolineato il quotidiano spagnolo El País del 24 maggio, che mentre i partiti populisti anti-europeisti erano 10 in Europa nel 2017, oggi sono saliti a 43. Mentre anche il fedelissimo governo di Mariano Rajoy sembra oggi traballare pericolosamente. Un autentico scenario da brivido per le prossime elezioni del parlamento di Strasburgo.

Paventato oggi con grande preoccupazione dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker alla plenaria a Strasburgo: «Entro un anno gli europei avranno votato per un nuovo parlamento europeo di cui nessuno conoscerà la composizione e che sarà differente da quella attuale, cosa che mi fa nutrire qualche inquietudine. – ha precisato Juncker – E vorrei che tutti noi ci impegnassimo in una sorta di contratto contro il populismo galoppante che possiamo vedere in Europa e in tutti i Paesi, compreso il mio» (qui).

Questo è il significato dell’autentico coup d’etat/coup de theatre realizzato da Sergio Mattarella che però, nella sua foga di zelante servitore, non ha realizzato di essere egli stesso expendable, al contrario di Re Giorgio che lo aveva preceduto. Gli errori si pagano, soprattutto quelli madornali, quelli che suscitano, invece di placarli, i demoni sopra citati. Prova ne sia la scarsa fiducia suscitata, anche nei possibili ministri, dall’uomo del Fondo Monetari Internazionale che, probabilmente non intascherebbe neanche il voto di fiducia da parte del PD (qui). E il ritorno alla proposta di un governo “politico” con i due giovani galletti (dalle creste però un po’ abbassate) sembra riproporre un gioco dell’oca politico in cui ogni volta che arrivano alla casella Savona i concorrenti devono tornare sui propri passi.

Certo è il fatto che se il governo SalviMaioConte non è ancora nato, non è dovuto soltanto all’intervento di forze esterne. Anche le contraddizioni al suo interno, non solo tra 5 Stelle e Lega, ma anche interne alle due stesse forze politiche (qui) hanno contribuito a paralizzarne l’azione. Cosa però che potrebbe essere superata nel corso dei prossimi giorni, con un più deciso schieramento a destra dei 5 Stelle. Le comparsate pubbliche negli ultimi giorni di un risorto Di Battista segnalano infatti un cambio di marcia e di argomentazione in vista della prossima campagna elettorale, in cui probabilmente il pallido e moderato Di Maio potrebbe essere messo da parte e sostituito da argomenti e personaggi più muscolari.

Mentre potrebbe farsi sempre più difficile la via di un’alleanza del centro destra in cui Berlusconi, pur precocemente liberato dai carichi pendenti, potrebbe non più avere lo stesso potere di attrazione fatale sugli elettori di destra e sulla Lega, considerato che quest’ultima avrebbe forse più da guadagnare elettoralmente da una sua autonomizzazione dal Cavaliere che non da un ulteriore rinsaldamento dei legami con lo stesso; debolezza segnalata anche dal brusco calo dei titoli azionari della società del Cavaliere che, nel giorno del calo del 2,3% della borsa milanese, sono scesi del 5% ovvero più del doppio, vuoi per ricatto finanziario e politico nei confronti di colui che stringe ancora i cordoni della borsa di Forza Italia e Lega, vuoi per sfiducia nella sua tenuta politica, unica garanzia per le aziende Mediaset. Dubbio che assale anche i fratelli minori dello stesso schieramento, la cui leader ha già deciso che piuttosto che perdere ulteriori voti della destra cosiddetta sociale a favore del programma fascio-leghista, sparendo dal quadro elettorale, sarà meglio piegarsi a Salvini e continuare a vivere nelle pieghe di un sovranismo meglio espresso a Varese che non a Roma.

Sovranismo che, una volta giunto al governo, potrebbe liberare tutte le proprie potenzialità repressive e autoritarie approfittando, come modello politico, proprio dell’azione esercitata da Mattarella, così come l’azione di Minniti ha favorito l’affermazione del dettato leghista sulla questione migranti e sicurezza, come si è accorto, sebbene in ritardo ed opportunisticamente, anche il presidente del PD Matteo Orfini (qui e qui).

L’ultimo dato “istituzionale” da segnalare è che la promessa del Presidente della Repubblica di voler salvare con il suo veto i risparmi degli italiani si è rivelata inconsistente fin da subito, considerato il fatto che nei due giorni successivi lo spread è salito fino a 320 punti e in Borsa il valore dei titoli italiani, prevalentemente bancari, ha continuato allegramente a scendere. Mentre il capo zombi di un governo nato già morto continuava a promettere aumenti dell’IVA e peggioramenti economici vari se il suo governo non avesse ricevuto la fiducia delle camere. Alla faccia del bon ton e del garbo che così tanti hanno rimpianto nelle trasmissioni televisive precedenti alla mancata realizzazione del governo giallo-verde.3 Il tutto contornato da un minaccioso clima da colpo di stato bianco in cui il Comitato per l’Ordine e la Sicurezza dichiarava, dal 29 maggio e in previsione delle manifestazioni del 2 giugno, la necessità di blindare e proteggere le sedi delle istituzioni non solo a Roma ma in tutta Italia.

Tralasciando di completare adesso un quadro che potrebbe complicarsi ancora nei giorni e nelle ore a venire, occorre ora provare a delineare quali potrebbero essere le possibili strategie e tattiche che un movimento antagonista allo stato di cose presente dovrebbe sperimentare se davvero volesse opporsi autonomamente a tali trasformazioni e duelli in atto su scala nazionale ed europea.

Prima cosa da dire sarebbe che la partecipazione elettorale non ha, al momento, più ragione d’esistere, soprattutto se tale partecipazione invece di voler solo rappresentare una cassa di risonanza parlamentare per le lotte, volesse, come hanno immaginato alcune vecchie mummie sindacali e politiche annesse a Potere al Popolo, proporsi come parte di possibili alleanze di governo.
Se due forze, sostanzialmente conservatrici e nazionaliste come 5 Stelle e Lega, che pur a breve potrebbero essere pienamente riconosciute per un rilancio politico di un’unità nazionale destinata a far fronte all’inevitabile crisi dell’Europa di Maastricht, sono state bloccate in ogni modo nel loro tentativo di sostituirsi all’ancien regime di PD e FI, c’è da immaginarsi quale possibilità di affermazione parlamentare potrebbe avere una forza caratterizzantesi come di estrema sinistra (tenuto conto che oggi i media tendono a definire come tali le mummie di LeU, di Rifondazione o di Sinista Italiana).

Come seconda cosa non si parli più di democrazia parlamentare: non esiste. È stata definitivamente stracciata davanti agli occhi di milioni di cittadini in diretta televisiva.
Dalla Catalunya a Parigi fino a Roma la risposta del potere è una sola: lasciate ogni speranza voi che entrate nell’arengario politico, non avrete più ascolto e possibilità di soddisfazione delle vostre speranze, per quanto misere. E’ già di sabato 26 maggio la risposta di Macron, a nome di tutti gli oligarchi europei: Non saranno le manifestazioni oceaniche a poter modificare il nostro programma di riforme.

Nemmeno se i cittadini si rivolgono ancora a forze sostanzialmente conservatrici quali Lega, Movimento 5 Stelle o il Partito Democratico Europeo Catalano di Carles Puidgemont.
Per il capitale la riposta è per ora soltanto: guerra senza quartiere! Come dimostra, ad esempio, l’insegna elaborata dal comandante della gendarmerie francese operante sul territorio della ZAD, trattando tale operazione di polizia come un autentica operazione di guerra. E rivelando perciò definitivamente come, ormai da anni, qualsiasi operazione di polizia sia in realtà un’operazione di guerra, esterna o interna ai confini nazionali che sia.

Gli antagonisti, gli oppressi, i lavoratori, gli sfruttati, i migranti da oggi avranno davanti soltanto il Moloch del capitale e i suoi irreprensibili funzionari. I movimenti reali già lo sanno di non aver e di non poter avere governi amici, ma ora lo sapranno anche tutti coloro che, pur illudendosi e molto spesso tappandosi il naso, hanno riposto le loro speranze in partiti populisti che, ricordiamolo sempre, hanno raggiunto e raggiungerebbero ancora, la maggioranza dei seggi in Parlamento

Proprio per questo motivo sarà sempre più inutile inseguire quegli stessi partiti sul loro stesso terreno. Lo fanno meglio loro, liberi da considerazioni di classe poiché interclassisti, mentre la scelta dell’inseguimento costringerebbe il movimento antagonista a spingersi sempre di più sul terreno della Destra, non dal punto di vista sociale (milieu piccolo borghese deluso, sottoproletariato e proletariato privo di qualsiasi garanzia), ma proprio su quello ideologico.
Ricordiamoci sempre che molti membri delle S.A. (Squadre d’assalto) hitleriane, poi eliminate dalle S.S. nella Notte dei Lunghi Coltelli tra il 30 giugno e il 1° luglio 1934, provenivano da un’estrema sinistra delusa dai continui ondeggiamenti della politica della Terza Internazionale stalinizzata.

Dovremmo forse difendere ancora i confini nazionali, la democrazia parlamentare, una Costituzione buona per tutti gli usi e chiedere ancora il diritto di espressione a chi usa qualsiasi strumento politico, mediatico, economico e militare per negarcelo? Oppure quel fetido antifascismo, come quello oggi rappresentato da Renzi in qualità di mediano (qui), che si presenta solo, sempre e soltanto quando serve a compattare, in chiave elettorale, una sinistra divisa con i peggiori rappresentanti del vero fascismo istituzionale e del capitalismo finanziario? E, infine, dovremmo forse rimpiangere la vecchia moneta nazionale, così come sembrano fare le orrende pubblicità televisive sulle sue riedizioni in oro zecchino da parte del Gruppo poligrafico e della zecca di Stato (qui)?

No, se il capitale finanziario ha necessità, nel suo sviluppo di abbattere i confini nazionali e le istituzioni giuridiche sacre per la borghesia faccia pure. Se, come ha fatto il 29 maggio il commissario tedesco al bilancio europeo Oettinger. minaccerà ancora gli italiani o gli altri cittadini europei affermando che «i mercati insegneranno agli italiani come si vota» (qui), ci aiuterà soltanto nell’opera di distruzione dei feticci di una società ipocrita ed autoritaria, che sventola unità di intenti ma prepara immani conflitti imperialistici e di classe. Una società che parla di umanità, ma che sa offrire soltanto sofferenza, distruzione e sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’ambiente.

Non abbiamo nulla da salvare di questo Stato, non abbiamo interessi nazionali, non abbiamo territori vitali da difendere ad ogni costo e non accetteremo nessun appello alla loro difesa, sia che provengano da Destra come da Sinistra. Siamo tutti migranti e i confini ci sono soltanto di ostacolo, e lo sono ancora di più per le lotte. Il capitale ha lavorato per noi, non nei termini banali del progresso sbandierato per decenni dai rappresentanti di partiti liberali o di sinistra asserviti agli interessi di un indistinto sviluppo economico, ma rivelando il suo vero e autoritario volto.

Chi lo rappresenta evidentemente ha oggi tutto da perdere, tanto da doversi preoccupare anche soltanto per un banalissimo scossone elettorale, e poiché ce lo ha rivelato in maniera così meschina possiamo essere certi, al contrario, che noi avremo tutto da guadagnare e soltanto delle vecchie catene da perdere o da rivolgere come armi contro i nostri oppressori.
Il Re è nudo e il Kapitale anche e così i loro fasulli avversari istituzionali.
Affogheranno insieme nella tempesta che hanno scelto di scatenare.
Il tempo delle briciole cadute dal tavolo e dei piatti di lenticchie offerti in occasione delle promesse elettorali sta per finire perché noi vogliamo tutto.


  1. Devo qui ringraziare Nico Maccentelli per l’efficace definizione  

  2. Si veda L’ape e il comunista, (a cura del Collettivo Prigionieri Politici delle Brigate Rosse), “Corrispondenza Internazionale” N° 16/17, ottobre-dicembre 1980 poi ripubblicato per Pgreco, 2013  

  3. Si vedano le ridicole affermazioni di Lilli Gruber e Evelina Christillin nella trasmissione 8 e mezzo dell’8 maggio, in cui la prima rimpiangeva il bon ton chiedendo più garbo in politica, mentre la seconda paragonava lo sgarbo istituzionale di 5 stelle e Lega nei confronti di Mattarella al bullismo scolastico.  

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Yankee Doodle Goes to War https://www.carmillaonline.com/2017/04/07/yankee-doodle-goes-to-war/ Fri, 07 Apr 2017 15:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37474 di Sandro Moiso

yankee 2 Mentre Half-Nano, il ministro degli esteri dell’eterna Terra di Mezzo, ancora ieri era impegnato nel gioco delle poltrone e nei valzer delle leggi elettorali, il pragmatismo di uno dei suoi “più sicuri” alleati preparava il conto alla rovescia finale per l’ormai prossima deflagrazione bellica su scala planetaria. Infatti alle 2:30 (ora italiana) di oggi 7 aprile, da due portaerei americane al largo del Mediterraneo, sono stati lanciati 59 missili Tomahawk (quelli che abbiamo iniziato a conoscere fin dalle guerre del Golfo) sulla base aerea siriana di Al Shayrat da cui, secondo le prime informazioni, sarebbero partiti, [...]]]> di Sandro Moiso

yankee 2 Mentre Half-Nano, il ministro degli esteri dell’eterna Terra di Mezzo, ancora ieri era impegnato nel gioco delle poltrone e nei valzer delle leggi elettorali, il pragmatismo di uno dei suoi “più sicuri” alleati preparava il conto alla rovescia finale per l’ormai prossima deflagrazione bellica su scala planetaria. Infatti alle 2:30 (ora italiana) di oggi 7 aprile, da due portaerei americane al largo del Mediterraneo, sono stati lanciati 59 missili Tomahawk (quelli che abbiamo iniziato a conoscere fin dalle guerre del Golfo) sulla base aerea siriana di Al Shayrat da cui, secondo le prime informazioni, sarebbero partiti, nei giorni scorsi, gli aerei con le armi chimiche destinate a colpire la città di Khan Sheikhoun.

Questa la narrazione ufficiale. Narrazione preparata e pianificata fin dai giorni scorsi dal bombardamento mediatico che ha accompagnato la notizia secondo la quale nella città siriana più di ottanta persone, tra le quali 28 bambini, sarebbero rimaste uccise dalle armi chimiche usate dall’aviazione di Assad.

Ora, tralasciando i dubbi manifestati non soltanto dalla Russia di Putin sull’effettivo svolgimento degli eventi dei giorni scorsi e sui reali motivi del can can mediatico che ne è seguito,1 quello che occorre qui immediatamente sottolineare è il fatto che la lancetta del barometro politico e militare internazionale si è ormai decisamente stabilizzata sulla guerra. Con buona pace anche di coloro che nella vittoria di Donald Trump e nel riavvicinamento tra USA e Russia avevano visto un fattore determinante di cambiamento di orientamento della politica estera americana.

Che, invece, non è cambiata affatto dal punto di vista programmatico. Ciò che è cambiato, come ho già detto in altra sede, è piuttosto il fatto che gli Stati Uniti non hanno più né tempo né voglia di mascherarsi dietro ad ambigue ed altalenanti operazioni di “polizia internazionale” o “missioni di pace”. Trump è il presidente della guerra americana, anche se la farà seguendo le impronte dei suoi predecessori.

Facciamo un passo indietro di pochi giorni. Torniamo alla fine di marzo, quando Trump ha annunciato di voler applicare dazi del 100% su almeno 90 prodotti provenienti dall’Unione Europea, parlando apertamente di guerra commerciale dovuta agli ostacoli frapposti dalla stessa UE all’importazione di carni americane. Tutti i media hanno colto in quell’affermazione un’iniziativa tipicamente trumpiana per far vedere i muscoli e accontentare l’elettorato del Midwest e della Rust Belt che aveva contribuito ad eleggerlo.

Peccato, però, che tale provvedimento non costituisse altro che l’applicazione dell’ultimo decreto firmato dal Presidente uscente, Barack Obama il 26 dicembre 2016. 2 Questo semplice fatto rivela come la narrazione fatta dell’amicizia tra la passata amministrazione statunitense e l’Unione Europea fosse tutt’altro che veritiera3 e come la conflittualità “ideologica” sui muri sollevati contro i migranti (in Europa e in America) non facesse altro che nascondere le ragioni reali del conflitto a venire,4 ovvero la guerra commerciale, ultimo passo prima della guerra guerreggiata.

Naturalmente tra guerra commerciale minacciata e missili lanciati corre ancora una certa differenza. Ma solo apparentemente, poiché i missili di oggi, indipendentemente dal fatto che ad essi segua o meno un’ulteriore escalation militare, anticipano soltanto quelli che domani, e in quantità ben maggiore, potranno essere lanciati sui competitor, imperialisti o meno, che non volessero adeguarsi alla weltanschauung americana che vede ormai svilupparsi nel mondo intero il suo spazio vitale.

Un lebensraum planetario in cui poco importa quali siano gli alleati tradizionali o fedeli, ma dove conta la fedeltà e l’ubbidienza al “capo”. Un autentico fuhrerprinzip che già il vice di Trump, Mike Pence, aveva ricordato agli alleati, parlando alla Conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco di Baviera il 18 febbraio di quest’anno, affermando che l’impegno “incrollabile” degli Usa nell’Alleanza atlantica dipende pur sempre dall’attesa enunciata da Trump di un maggior impegno finanziario dei partner. Asserzione avvalorata dallo stesso Trump che durante e subito dopo il colloquio diretto con la cancelliera Angela Merkel aveva affermato che “la Germania è in debito con gli Stati Uniti per l’impegno che gli americani forniscono in termini di difesa e sicurezza nell’ambito dell’Alleanza Atlantica. Un dato di fatto suffragato da numeri e bilanci, come quello pubblicato lunedì dalla Nato e che dimostra come la Germania sia ben lungi dalla soglia obiettivo del 2% del bilancio destinato alle spese militari chiesto da Washington. Sebbene uno sforzo maggiore potrebbe permetterselo visto che dell’Europa è la regina con un surplus commerciale da capogiro.5

Insomma il capo decide e gli altri devono adattarsi, pena l’esclusione (e le inevitabili conseguenze economiche e militari). Anche se, per una volta, è evidente la debolezza intrinseca dell’azione americana. Non soltanto per la posizione traballante di Trump alla Casa Bianca che deve dimostrare, in questa occasione, una sorta di presa di distanza dall’”amico” Putin, ma anche perché gli Stati Uniti si trovano costretti ad accelerare i tempi del conflitto prima che altri schieramenti vadano formandosi tra i suoi stessi alleati o ex-alleati.

Come è successo disastrosamente questa estate, col fallito colpo di stato in Turchia che ha contribuito a riavvicinare Erdogan alla Russia.6 Si tratta, è vero, di un panorama di alleanze incerto, in cui i voltafaccia possono essere ancora numerosi e repentini, ma che spinge comunque quella che i media si ostinano a definire ancora come la prima potenza mondiale ad imprimere svolte drastiche, continue e pericolose ad una politica estera che sembra poter maneggiare soltanto più il big stick, il grande bastone, minacciato dal presidente Teddy Roosvelt fin dalla guerra ispano-americana del 1898. Senz’altro in cambio, viste le difficoltà in cui versa la sua economia. Un’economia che al termine del secondo conflitto mondiale rappresentava il 50% dell’economia-mondo mentre ora ne controlla il 16% e le proiezioni la vedono ridursi ancora al 12% entro il 2025. Mentre, solo per fare un esempio, la Cina, dal 1945 ad oggi, è passata dal 2% al 18%.

Così, paradossalmente, molti altri, inclusi russi, cinesi ed arabi, potrebbero ancora aspettare prima di rivelare le proprie carte, ma la diplomazia americana non è mai stata molto abile nel gioco del poker internazionale, se non giocando con il morto ovvero con qualcuno già predestinato ad essere sconfitto. Ruolo a cui sembra essere oggi destinato Assad con il suo regime che, però, a differenza di Saddam custodisce sul suo territorio alcune delle basi militari (aeree e navali) più importanti per la Russia, essendo dislocate sul Mar Mediterraneo.

Potrà trattare Trump una caduta di Assad senza toccare le basi russe e i “diritti acquisiti” da Putin sulle stesse? Potrà Putin accettare un’ingerenza americana tale da sminuire il suo ruolo, recentemente acquistato, nel Vicino Oriente? Iran e hezbollah libanesi potranno lasciar cadere tranquillamente Assad aprendo la strada alla Grande Israele sognata dai sionisti? E la Grande Israele fino a quando potrà andare d’accordo con il modesto, ma attivo, imperialismo arabo e non solo saudita?7

Qui, nell’eterna Terra di Mezzo, dove pur risiedono le basi Nato di riferimento per le portaerei già impegnate, per i media asserviti e benpensanti, insieme a presidenti del consiglio e ministri di facciata, la narrazione può continuare a escludere dal discorso pubblico la guerra commerciale e/o guerreggiata, in nome della qualità (“che non ha frontiere” secondo Paolo Gentiloni) e del negoziato (“tra tutte le parti in causa” sempre secondo lo stesso), ma Sauron si è risvegliato dal suo sonno caotico e sta già marciando con i suoi eserciti di troll e di morti presenti, passati e futuri.

yankee 1 Mentre gli imperialismi e i nazionalismi di ogni angolo d’Europa e del mondo sono già pronti a servirlo. Gli anti-americani filo-russi sono pronti a servirlo. I sionisti, anche quelli travestiti da progressisti, sono pronti a servirlo. Gli europeisti in preda al panico per la possibile perdita di centralità politica ed economica sono pronti a seguirlo. I razzisti e i fanatici religiosi sono pronti a seguirlo. I moralisti, i benpensanti, i pacifisti e i populisti sono pronti a seguirlo. I lavoratori immiseriti e ridotti a puro capitale variabile, in attesa di un rilancio produttivo che li reintegri al loro posto e in cambio di qualche perduto privilegio, sono pronti a seguirlo. In nome, comunque, sempre e soltanto della permanenza dell’attuale modo di produzione. Così lo yankee bonaccione della tradizione popolare americana è andato in guerra e l’oscurità ha iniziato ad avvolgere il mondo.

Chi potrà, dunque, distruggere definitivamente il suo malefico anello del potere, lanciandolo all’interno della voragine del Monte Fato e del fuoco della lotta di classe? Soltanto chi agirà in nome della comunità umana a venire, ammesso che sappia resistergli.


  1. Si vedano ad esempio: http://www.huffingtonpost.it/2017/04/06/tutto-quello-che-non-torna-sulluso-del-gas-da-parte-di-assad_a_22028433/ e le recenti osservazioni fatte da Fulvio Grimaldi sul fatto che: “Il riassetto generale del Medioriente-mondo arabo risale almeno al 1982, 35 anni fa, quando il consigliere del governo israeliano, Oded Yinon, formulò il famoso piano per la politica estera di Israele nei successivi vent’anni, che prevedeva la frantumazione degli stati-nazione arabi lungo linee etniche e confessionali. Piano diventato linea politica ufficiale del governo. Piano, però, che riassume la strategia imperialista israelo-anglosassone contro la Siria già elaborata alla fine degli anni ‘50.” (Comitato NoNato)  

  2. http://www.ilfoglio.it/list/2017/03/31/news/dazi-trump-obama-128047/  

  3. Come già si era potuto sottolineare a proposito dell’affaire dei dati ambientali truccati delle auto tedesche prodotte da Volkswagen: https://www.carmillaonline.com/2015/09/29/vae-victis-germania-2-car-wars/  

  4. https://www.carmillaonline.com/2015/09/16/vae-victis-germania-1-sulla-loro-pelle/  

  5. http://www.lastampa.it/2017/03/19/esteri/trump-la-germania-deve-molti-soldi-alla-nato-A7vqv0uKCCczHQazU79y8K/pagina.html  

  6. In proposito si veda il mio https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/  

  7. Come recita il titolo della rivista Limes disponibile in libreria ed edicola proprio in questi giorni: Arabia (non solo) saudita, Limes n° 2 / 2017, Lorenzo Declich, Un imperialismo minore: la paradossale parabola dell’Arabia Saudita, pp. 9 – 17  

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Vae Victis Germania / 2: Car Wars https://www.carmillaonline.com/2015/09/29/vae-victis-germania-2-car-wars/ Tue, 29 Sep 2015 20:00:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25636 di Sandro Moiso

car wars 2 Quando l’unica nazione occidentale a non aver ratificato il protocollo di Kyoto sul riscaldamento ambientale denuncia con tanta veemenza i danni per la salute e l’ambiente derivanti dal mancato (e truffaldino) rispetto dei regolamenti USA sull’emissione di gas da parte dei veicoli circolanti c’è da porsi più di una domanda. Si sta parlando, evidentemente, dell’enorme tegola caduta sulla testa di una delle più importanti industrie automobilistiche mondiali, la Volkswagen, dopo la scoperta del raffinatissimo trucco messo in atto da quella azienda per beffare i controlli sugli scarichi delle auto diesel negli Stati Uniti e [...]]]> di Sandro Moiso

car wars 2 Quando l’unica nazione occidentale a non aver ratificato il protocollo di Kyoto sul riscaldamento ambientale denuncia con tanta veemenza i danni per la salute e l’ambiente derivanti dal mancato (e truffaldino) rispetto dei regolamenti USA sull’emissione di gas da parte dei veicoli circolanti c’è da porsi più di una domanda. Si sta parlando, evidentemente, dell’enorme tegola caduta sulla testa di una delle più importanti industrie automobilistiche mondiali, la Volkswagen, dopo la scoperta del raffinatissimo trucco messo in atto da quella azienda per beffare i controlli sugli scarichi delle auto diesel negli Stati Uniti e in Europa.

Lo scandalo si è rapidamente propagato nei paesi dell’Unione Europea e tocca, attualmente, la bellezza di 11 milioni di veicoli circolanti. La ditta tedesca ha reagito sostituendo l’AD e scaricando le colpe su un ristretto gruppo (“un piccolo gruppo” come è stato definito) di responsabili tecnici ed amministrativi, mentre Angela Merkel, per allontanare da sé e dal proprio governo qualsiasi ombra di sospetto o connivenza, ha promesso un’inchiesta rigorosa .

Film già visti ed ampiamente prevedibili, soprattutto da parte di chi sa che i motori che ci vengono presentati, quasi quotidianamente, come innovativi, non inquinanti e a basso consumo non sono altro che una continua riproduzione del vecchio motore a scoppio messo a punto, sul finire dell’Ottocento tra il 1876 e il 1892, da tre tecnici tedeschi (guarda caso la continuità): Otto, Benz e Diesel. Motori che sono cambiati da allora ben poco, mantenendo quasi intatte le loro caratteristiche di alto spreco energetico, elevati consumi, scarso rendimento ed elevate capacità di inquinamento.benz

Ciò che è cambiato fra gli anni ’80 del XIX secolo ed oggi, migliorando rendimento e prestazioni degli autoveicoli, sono le linee aerodinamiche, l’alleggerimento dei materiali e delle strutture portanti, freni, sospensioni e, conseguente, tenuta su strada. Il resto affonda le sue radici negli albori del mezzo di trasporto meno conveniente (e più diffuso) che sia mai stato messo a punto dalla tecnica umana. Si tratta di autentiche carrette, i cui attuali ed “evolutissimi” software non servono ad altro che a truccare i dati e a rendere schiavi dei concessionari gli acquirenti.

Questo ci può far immaginare che ciò che viene attualmente denunciato a carico della Volkswagen e di altre sue consociate (Audi e Skoda) potrebbe tranquillamente ricadere sulle spalle dell’intero comparto automobilistico mondiale (così come le paurose discese in borsa dei titoli automobilistici, anche non tedeschi, e il rifiuto inglese di varare nuovi tipi di controllo sui motori diesel farebbero pensare)1. Allora, perché tutto questo baccano? Tutte queste “pelose” denunce?

Forse il “green capitalism” ha deciso di puntare su un rinnovamento, su scala mondiale, del parco macchine destinato alle classi medio/alte? Forse che i prototipi attualmente circolanti e, guarda caso spesso di origine teutonica, di auto ibride (in a carburanti, in parte elettriche) diverranno il trend dominante nella produzione automobilistica planetaria, così come anche i cinesi cominciano a promettere? O si tratta, più prosaicamente ancora, di qualcosa d’altro?

Follow the money!” è la formula che funziona sempre e particolarmente in questo caso.
Nel 2014 a livello globale sono state prodotti 89,75 milioni di veicoli, il 2,6% in più rispetto al 2013. Di questi, 67,53 milioni erano automobili. La produzione di veicoli a motore nell’ultimo decennio è cresciuta del 34%. Ma, nel 2014, le vendite sono state inferiori alla produzione: sia complessiva (88,16 milioni) sia delle sole auto (64,96 milioni, comunque sempre quasi due milioni in più rispetto all’anno precedente).

La Cina si è confermata come il primo produttore al mondo a quota 19,9 milioni, mentre l’Asia da sola vale oltre la metà della produzione con più di 39 milioni di auto. Il Giappone supera gli 8,27 milioni, la Corea del Sud i 4,12, l’India i 3,16, l’Indonesia il milione e l’Iran, con un balzo del 46,8%, arriva a 926.000.2 La Germania è il terzo produttore globale dopo Cina e Giappone e naturalmente di gran lunga il primo del Vecchio Continente con 5,6 milioni di autoveicoli.

L’Italia, con 401.317 vetture, è ormai tra i piccoli produttori. Sfornano più auto non solo Regno Unito e Francia, ma anche nazioni come Repubblica Ceca (trascinata dalla crescita di Skoda, altra industria indagata poiché appartenente al gruppo Volkswagen), Slovacchia, Polonia e Belgio. Mentre negli Stati Uniti la produzione copre appena il 55% della domanda, cioè 4,2 milioni a fronte di quasi 7,7 milioni di immatricolazioni. E a tutto ciò va aggiunto che nello stesso anno Toyota (10.230.000 veicoli venduti) è risultata essere al primo posto nella classifica delle vendite, mentre il gruppo Volkswagen (10.140.000) si è aggiudicato il secondo posto.

Vogliamo allora parlare di guerra, più ancora che di concorrenza commerciale ed industriale, su scala planetaria? “Guerra” perché, soprattutto nel caso della Germania, attaccare frontalmente, come si è fatto in questi giorni sui mercati e sui media internazionali, un settore fondamentale dell’industria tedesca significa non solo “fare concorrenza” ad un avversario commerciale, ma cercare di ridimensionare il ruolo politico ed economico della Germania in Europa e nel mondo. Il PIL della prima economia industriale d’Europa è il quarto al mondo dopo USA, Cina e Giappone e, nel 2011, l’export tedesco equivaleva al 50% dello stesso e al 7,7% dell’intero export mondiale.

Potenza economica, industriale e scientifica troppo forte e grande per i suoi confini geografici e troppo piccola per il mondo, la Germania si trova ancora una volta a fare i conti con un potenziale produttivo ed economico (il suo) che spaventa, intimorisce ed incanaglisce i suoi più diretti concorrenti in Europa e su scala planetaria. Ai tempi del primo conflitto mondiale la produzione siderurgica tedesca superava quella di Francia e Gran Bretagna messe insieme, oggi quella dell’auto (prodotto di punta, ci piaccia o meno, dell’industria mondiale) domina la produzione occidentale di autoveicoli.

volkswagen 1Chiusa tra le grandi pianure centro-europee ed asiatiche ad Oriente, il Mar Baltico e del Nord, le Alpi a sud e l’area renana ad ovest, sembra sempre costituire una sorta di nuovo Heartland3 europeo, sempre alla ricerca di espansione politica ed economica, sempre alla ricerca di un mai sopito lebensraum, di cui le esportazioni restano l’anima, la motivazione e il motore che la spingono a superare i propri limiti geografici, economici e politici.

In quest’area, compresa grosso modo tra l’asse renano ad ovest (il territorio industriale che si sviluppa dalle Alpi svizzere fino al porto di Rotterdam) e l’asse padano a sud (la pianura padana nella sua interezza), vi era all’inizio degli anni ’90 del XX secolo, una delle più grandi concentrazioni di aree urbane e di investimenti capitalistici del mondo. Si fa riferimento agli anni ’90 poiché in quel momento avviene la riunificazione della Germani dell’Ovest con la Germania dell’Est (ottobre 1990) che spingerà, da un lato, verso un maggiore accentramento in chiave tedesca del capitalismo europeo e, dall’altro, ad un risorgere della conflittualità e dello scontro militare sul territorio europeo (le guerre balcaniche che avranno inizio nella primavera-estate del 1991).

Le sei regioni urbane di Londra, Parigi, Anversa-Bruxelles, Ramstadt-Holland, Colonia-Ruhr e Milano costituivano allora i vertici dell’organizzazione territoriale europea con 51 milioni di abitanti e una estensione di 53.000 chilometri quadrati (quasi 1000 abitanti per kmq). Il resto di quell’area forte era costituito da un tessuto connettivo di metropoli minori, regioni di industria diffusa, zone di agricoltura intensiva e zone turistiche con 135 milioni di abitanti.

Nelle regioni urbane d’Europa si arrivava ad una concentrazione, dal punto di vista della densità economica,4 di 21 milioni e 200mila dollari per chilometro quadrato, mentre nelle regioni di area a forte tessuto connettivo (meno densamente popolate) si arrivava a 3 milioni e 200mila dollari per kmq. In quello stesso periodo nell’area corrispondente degli Stati Uniti 5 si arrivava nelle grandi regioni urbane ad una densità economica media di 11 milioni e 600mila dollari per kmq e nelle aree forti a tessuto connettivo a 1 milione e 700mila dollari, sempre per kmq.

In quegli stessi anni l’Europa si classificava al primo posto per la ricchezza prodotta con una media di 6818 miliardi di dollari annui contro i 5900 del Nord America e i 4136 dell’Asia Orientale. Nello stesso tempo l’Europa rappresentava il massimo polo commerciale con ii 28% delle esportazioni mondiali, contro il 20% dell’Area del Pacifico (Giappone, Asia del Sud-Est e Australia) e il 15,5% del Nord America.6

Ora, anche se la crisi degli ultimi anni e lo sviluppo cinese hanno fatto sì che rimanessero molti “morti” sul campo di battaglia e che una parte di quel “tesoro” andasse al macero,7 certo è che ci si trovava e, probabilmente, ci si trova tutt’ora, dal punto di vista della ricchezza concentrata, in uno dei cuori del capitalismo mondiale. L’unica area che all’epoca superava la densità economica europea era quella di Tokio-Osaka, dove si arrivava a 39 milioni per chilometro quadrato. Ma questa è un area molto più ridotta, un po’ come se per gli Stati Uniti si prendesse in considerazione la sola New York dove la densità raggiungeva, sempre all’epoca, i 100 milioni di dollari per kmq. Mentre l’attuale “crisi” cinese dimostra, forse, che l’Area del Pacifico o i Brics non sono ancora riusciti a sostituire l’Europa nella capacità di assorbimento delle merci.

Una certa parte di quella ricchezza, negli ultimi 7 – 8 anni è sicuramente transitata di mano e, in particolare, in Europa una parte è passata dalle mani dei privati cittadini alle banche attraverso le politiche di taglio e riduzione della spesa pubblica e del debito oppure grazie all’esplodere dell’autentica bolla speculativa rappresentata dal mercato (gonfiato precedentemente a dismisura) immobiliare, ma certo decidere chi debba organizzare, ristrutturare e re-indirizzare quella ricchezza non è mai stata, tanto meno ora, cosa da poco. Soprattutto, come affermo da tempo proprio qui su Carmilla,8 nella competizione tra imperialismi finanziari e non.

Dovrebbe risultare chiaro quindi, anche al lettore distratto, che lo scontro in atto da tempo in Europa riguarda proprio due differenti concezioni dell’utilizzo del capitale della manodopera, unite soltanto dalla comune volontà di soffocare e ridurre al silenzio qualsiasi tentativo di migliorare o anche solo salvaguardare i diritti dei lavoratori e le loro rappresentanze politiche o sindacali (ammesso e non concesso che esistano ancora) oppure di recuperare violentemente i risparmi di milioni di cittadini non “adeguatamente” messi a profitto.

Due modalità cui si è accennato già nella prima puntata di questa serie di articoli: una più disinibita, per così dire, e più avvoltoiesca nel colpire, spostare, re-indirizzare e reinvestire anche con grandi rischi i capitali presenti nelle banche, nelle tasche dei cittadini oppure investiti precedentemente nella spesa pubblica e nello Stato sociale, per affrettare i tempi di rotazione degli stessi cercando di passare sempre meno attraverso l’investimento industriale diretto. Il modello finanziario anglo-americano per intenderci.

L’altra, più ferrea e determinata nel sua volontà di controllo, ma più “vecchia” nella forma (la sostanza non cambia poiché si tratta di incrementare convenientemente il capitale investito o riutilizzato) che attraverso il controllo delle banche, del mercato del lavoro e delle leggi che lo regolamentano e della spesa pubblica cerca di rilanciare costantemente la produzione e il consumo delle merci, impadronendosi di aziende,9 occupando spazi di mercato e, talvolta, giocando sui prestiti come strumento per incrementare le esportazioni verso paesi “debitori”.

E questo potrebbe spiegare anche la diversità di strategie tra Germania e Fondo Monetario Internazionale, per esempio nei confronti della Grecia: mentre il secondo gioca essnzialmente sul debito pubblico e sui titoli pubblici come fonte di rendita-capestro di carattere finaziario e può transigere su un allungamento dei tempi di rientro dei prestiti (semplificando: più a lungo i debitori pagano gli interessi sul prestito, anche se bassi , meglio è), la prima tende a voler recuperare un prestito che se non è utilizzato per finanziare produzione e commercio è ai suoi occhi sostanzialmente inutile e pernicioso.

papa car warsDa qui lo scontro con Draghi della Banca centrale tedesco e l’autoritarismo di Wolfang Schäuble, il Ministro delle finanze di questo secondo governo Merkel. Ma da qui anche l’attacco alle esportazioni tedesche, vera anima del capitalismo prussiano, attraverso l’attacco al gruppo Volkswagen. Di cui si è fatto simbolicamente protagonista anche Papa Francesco attraverso l’uso, tutt’altro che umile e dimesso, di una 500L prodotta dal gruppo Fiat – Chrysler, durante il recente viaggio negli Stati Uniti. Quel FCA Group che sembra essere un po’ il capofila dell’attacco alla Germania, mentre la crisi dei trattati di Maastricht, dell’euro e dell’Unione Europea stanno aprendo le porte a nuovi conflitti su chi debba comandare in questa parte del mondo.

(puntata 2 – continua)


  1. Si veda a tal proposito l’articolo comparso su Repubblica in data 29 settembre 2015 href=”http://www.repubblica.it/economia/2015/09/29/news/european_federation_for_transport_and_environment_aisbl-123861973/?ref=HRER1-1″  

  2. Dati tratti da Mattia Eccheli, Produzione auto 2014, il nuovo record. Ecco come cambia il mappamondo industriale, il Fatto Quotidiano 15 aprile 2015  

  3. Si veda la prima puntata di Vae Victis Germania, Sulla loro pelle, Carmillaonline del 16 settembre 2015  

  4. Il gradiente di intensità economica mette in relazione il reddito pro-capite per abitante con la densità di popolazione di una certa area e le aree non sono costituite da “nazioni”, ma da regioni particolari di un continente o di un singolo stato. Possiamo così andare da meno di 100 dollari per kmq nelle regioni più povere o meno popolate (1 abitante per kmq) fino a più di 100 milioni di dollari per kmq nelle grandi regioni urbane egemoni  

  5. Costa Atlantica, Valle dell’Ohio, Grandi Laghi e Florida: il 13% del territori statunitense sul quale si addensava il 58% della popolazione ei 2/3 delle attività industriali e terziarie  

  6. Tutti i dati economico-geografici fin qui esposti sono stati tratti o dedotti, nel corso di ricerche condotte negli anni ’90, dalle opere di Roberto Mainardi, allora docente di Geografia umana presso la Facoltà di Lettere dell’Università Statale di Milano e Geografia economica all’Istituto per la formazione al giornalismo della Regione Lombardia: L’Europa germanica. Una prospettiva geopolitica, La Nuova Italia Scientifica 1992; Geografia regionale, La Nuova Italia Scientifica 1994; Geografia generale, la Nuova Italia Scientifica 1995; L’Italia delle regioni. Il Nord e la Padania, Bruno Mondadori 1998  

  7. Come ben dimostrano le ”macerie“ ambientali, ideologiche, architettoniche ed industriali di una larga parte della Pianura Padana, così come è ben documentato nel magnifico Atlante dei classici padani di Filippo Minelli e Emanuele Galesi, Krisis Publishing, Brescia 2015 ( di prossima recensione su Carmillaonline)  

  8. Ad esempio in Bollicine, Carmillaonline del 21 novembre 2011  

  9. Non è certo un caso che sia stato proprio il capitale tedesco ad impadronirsi di una parte significativa di “gioielli” dismessi dell’industria italiana. Non a caso dal 2010 a oggi il 55% delle circa 50 operazioni “Germania su Italia” ha riguardato il settore industriale.  

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Vae Victis Germania / 1: Sulla loro pelle https://www.carmillaonline.com/2015/09/16/vae-victis-germania-1-sulla-loro-pelle/ Wed, 16 Sep 2015 20:00:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25242 di Sandro Moiso

fotografo-foto-migrante-bambino-morto-turchia-043-body-image-1441382933Per diversi giorni i mass media, completamente disumanizzati e privi di qualsiasi autonomia di giudizio o di un’identità che non sia quella fornita loro dalle veline dei governi o dagli uffici stampa delle zaibatsu industriali e finanziarie internazionali, hanno cercato di convincerci che le recenti prese di posizione di Angela Merkel in tema di immigrazione fossero principalmente dovute alle foto del bimbo siriano affogato nel braccio di mare tra Turchia e Grecia mentre, con la sua famiglia cercava di raggiungere la salvezza da una guerra spietata e [...]]]> di Sandro Moiso

fotografo-foto-migrante-bambino-morto-turchia-043-body-image-1441382933Per diversi giorni i mass media, completamente disumanizzati e privi di qualsiasi autonomia di giudizio o di un’identità che non sia quella fornita loro dalle veline dei governi o dagli uffici stampa delle zaibatsu industriali e finanziarie internazionali, hanno cercato di convincerci che le recenti prese di posizione di Angela Merkel in tema di immigrazione fossero principalmente dovute alle foto del bimbo siriano affogato nel braccio di mare tra Turchia e Grecia mentre, con la sua famiglia cercava di raggiungere la salvezza da una guerra spietata e devastante che sta radendo al suolo ogni possibilità di convivenza civile in vaste regioni del Vicino Oriente.

Naturalmente nulla è più falso di questa “benevola” rappresentazione della cancelliera tedesca e degli altri capi di Stato europei che hanno versato lacrime di coccodrillo su una situazione politica, militare ed umanitaria che hanno ampiamente contribuito a creare, anche solo tacendo per viltà e/o convenienza sulle ragioni reali del conflitto in atto. Infatti quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.

La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.

Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.

Il disciplinamento della forza lavoro europea era già stato al centro dell’azione germanica sul continente, soprattutto negli anni del secondo conflitto mondiale; così come ben dimostrarono i campi di concentramento tedeschi sparsi sul suolo del III Reich e della Europa Orientale occupata militarmente. E lo dimostrò altrettanto bene anche l’uso dei lavoratori “volontari” giunti dall’Italia alleata, così come ha testimoniato il lavoro storiografico di Brunello Mantelli e di Cesare Bermani,1 così come le illuminanti riflessioni, mai portate a compimento, di Karl Heinz Roth “sulla politica nazista nell’area sud-orientale europea, nel tentativo di leggere l’espansione nei Balcani anche come la costruzione di un mercato del lavoro europeo, e di interpretare la resistenza in paesi come l’ex-Jugoslavia o la Grecia come risposta anche a questa strategia”.2

Non a caso, nella fase attuale, dopo la riorganizzazzione e la ristrutturazione del lavoro e delle leggi che lo regolamentano, che ha visto sostanzialmente abolite le certezze e i diritti conquistati dal lavoratori nel corso delle lotte della seconda metà del secolo appena trascorso, si sta assistendo ad una sorta di ricollocazione internazionale della forza lavoro migrante sia dal Vicino Oriente che dal Nord Africa e dall’Africa Subsahariana.

Anche se negli ultimi giorni l’”accogliente” terra dei Lander sembra aver già ridotto gli accessi alle proprie città e ai propri territori, non vi è dubbio che l’accoglienza dei profughi siriani inaugurata dalla Merkel rivesta, ancor prima che quello di una risposta umanitaria ad una catastrofe di portata storica, un ruolo di riorganizzazione dei flussi di forza lavoro a basso costo verso il continente e il capitalismo europeo.

Così, come aveva già profetizzato sulle pagine dell'”Aspen Review” l’ex-ministro Giulio Tremonti a metà degli anni ’90, se “la povertà dell’Est dovrà entrare nelle buste paga dell’Ovest“, oggi è la povertà del mondo a dover contribuire a rendere “competitivi” i salari della classe operaia occidentale. La guerra produce miseria per una parte della società e fa accumulare profitti ad un’altra. Come sempre nel corso degli ultimi cento anni.

Si è parlato disordinatamente del fatto che i profughi provenienti dal Vicino Oriente insanguinato e, in particolare, dalla Siria appartengano alla piccola e media borghesia locale poiché, anche solo per affrontare i costi del trasporto clandestino, le spese affrontate per il viaggio non sono assolutamente sostenibili dalla manovalanza industriale e agricola di quei paesi. Una manodopera migrante, quindi, a diffuso tasso di scolarizzazione, ma che nel corso del viaggio, e a seguito dello spostamento, si lascia alle spalle uno stato di relativo benessere per essere sempre più sottoposta ad un processo di proletarizzazione. Non solo intellettuale.

Per una buona parte di loro la Germania non è la destinazione finale. Forse molti non intendono nemmeno fermarsi nell’Europa continentale, ma è indubbio che il controllo dei flussi costituisce una sorta di prova generale non di sopravvivenza o meno dell’unità europea, ormai messa seriamente in discussione dalla possibile sospensione del trattato di Schenghen e dagli effetti della crisi, bensì del ruolo predominante che la Germania ha avuto in questa, soprattutto a partire dall’istituzione della moneta unica.

Il controllo di questi flussi migratori diventa per la politica e l’economia tedesca determinante ai fini del comando sul lavoro e sull’economia su scala europea poiché, è inutile tentare di interpretare ciò che sta avvenendo sotto un’altra luce, per il capitalismo germanico la scala su cui muoversi non è mai stata quella meramente nazionale. Si potrebbe dire che è un capitalismo sì racchiuso entro confini territoriali molto più definiti di quelli inaugurati dalle super-potenze marittime (Gran Bretagna per il XIX secolo e Stati Uniti per il XX), ma che non hanno mai coinciso con quelli della pura e semplice “nazione”.

Si scontrano infatti, oggi come ieri, due concezioni economiche e geo-politiche, estremamente diverse tra di loro e conflittuali fin dalla loro ideazione tra il XIX e il XX secolo.
Da un lato il liberismo finanziario ed economico di Adam Smith, nato in una nazione che del mare aveva fatto la sua via di controllo dei commerci, della produzione e delle attività politico-militari su scala planetaria. Un capitale libero di agire in ogni angolo del globo e in grado di approfittare di qualsiasi occasione gli si parasse davanti e per il quale lo stato non deve essere che una complessa macchina diplomatico-militare in grado di garantirne interessi, proprietà e contratti senza mai, però, determinarne flussi, scelte e strategie di diffusione. Nato con i self-made men della guerra di corsa e della pirateria ai danni dei regni di Spagna e Portogallo e del prodotto dei loro imperi. Un capitalismo più interessato a scompigliare e destabilizzare gli assetti statuali e imperiali (altrui), più che a mantenerne le forme e le funzioni.

Per i capitali formatisi al di fuori della società inglese e che cercavano di opporsi alla superiorità economica della Gran Bretagna, il libero commercio di Smith risultava meno attraente. Fu, già nel 1789,, a onor del vero, un americano, Alexander Hamilton, a istituire uno stretto legame tra nazione, Stato ed economia, prevedendo la fondazione di una banca nazionale, la protezione delle manifatture nazionali mediante alte tariffe e notevoli imposte indirette.

Fu però un economista tedesco, Friedrich List, a riprenderne e svilupparne le idee nella prima metà dell’Ottocento. “Secondo List il compito della scienza economica, che già allora i tedeschi tendevano a chiamare «economia nazionale» (Nationaloekonomie) o «economia popolare» (Volkswirtschaft), invece di «economia politica», era di «realizzare compiutamente lo sviluppo economico della nazione» […] Non c’è bisogno di aggiungere che tale sviluppo doveva assumere la forma dell’industrializzazione capitalistica realizzata da una borghesia forte […] – e che – in sostanza , la nazione doveva possedere sufficiente estensione territoriale da formare un’unità in grado di svilupparsi. Nel caso in cui non raggiungesse questa estensione non avrebbe giustificazione storica3

Un’idea economica in cui Stato, territorio e controllo dei confini svolgevano una funzione centrale ai fini dello sviluppo. Una teoria della stabilità e della progressiva espansione geopolitica a partire da una ferma difesa degli interessi nazionali (si noti la vicinanza, precedentemente sottolineata, tra nazionale e popolare nella suddetta concezione). Lo “spazio vitale” di cui si parlava all’inizio insomma.

Anche se, a onor del vero, i due modelli economici non sono riscontrabili in forma pura in nessun dei processi di formazione delle potenze capitalistiche. La proposta di Hamilton, ad esempio, pose le basi per l’espansionismo statunitense sul continente nordamericano permettondogli di giungere al controllo di quei due oceani da cui sarebbe poi partito per un autentico “assalto al mondo”, mentre il cosiddetto “ordoliberismo” teutonico non può fare a meno di predicare una certa dose di “liberalizzazione”. Ma è chiaro che due così diverse concezioni del ruolo economico dello Stato nazionale e dello sviluppo capitalistico non avrebbero potuto far altro che produrre due concezioni geopolitiche estremamente diverse e in conflitto tra di loro. Che sembrano entrambe avere, però, proprio l’Eurasia al centro del loro interesse. Possiamo definirle come teorie dell’ Heartland (letteralmente: il Cuore della Terra) e del Rimland (la fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia e che si divide in 3 zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica).

rimlan heartL’ideatore del concetto di Heartland fu un generale e geopolitologo britannico, Sir Halford Mackinder, che la sottopose alla Royal Geographical Society nel 1904. Il termine derivava dal fatto che tale vastissimo territorio era delimitato ad ovest dal Volga, ad est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime più occidentali dell’Himalaya.
Per Mackinder, che basava la sua teoria sulla contrapposizione tra mare e terra, l’Heartland costituiva il “cuore” di tutte le civiltà di terra, in quanto logisticamente inavvicinabile da qualunque talassocrazia. Teoria che egli condensava in una singola frase: «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland; chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo; chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo».

A “coglierne” il significato politico per la Germania e l’Europa fu il generale, geografo e politologo tedesco Karl Haushofer che sottolineò, a partire dagli anni ’20 nella rivista “Zeitschrift für Geopolitik”, come le potenze marittime (la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) avessero costruito una sorta di “anello” per soffocare le potenze continentali. A suo avviso le potenze marittime si ergevano come custodi dello status quo non solo attraverso il colonialismo inglese e francese, ma anche tramite l’ideologia wilsoniana che, attraverso il diritto all’autodeterminazione dei popoli, aveva contribuito allo smantellamento dell’impero austro-ungarico e del reich guglielmino e alla creazione di una serie di stati cuscinetto destinati a contenere il risorgere della potenza tedesca e l’espansione bolscevica in Europa, compromettendo seriamente “il diritto classico dei popoli”. Entrambi i temi, quello dell’inevitabile scontro tra potenze marittime e terrestri e quello del soffocamento dello jus publicum europeo, saranno poi ripresi da Carl Schmitt, giurista e filosofo tedesco vicino al regime hitleriano, negli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale.4

Il concetto di Rimland invece è frutto delle teorie elaborate da Alfred Thayer Mahan (1840 – 1914), che nel 1890, con il suo studio “The Influence of Sea Power in History”, definì la dottrina marittima degli Stati Uniti andando oltre la Dottrina di Monroe che, nel 1823, aveva già delineato una prima area di interesse statunitense su tutto il continente americano dal Canada alla Terra del Fuoco. Tale teoria sarà poi ripresa ed impugnata con forza da Nicholas Spykman che, pur essendo di origini olandesi, sarà di fatto il padre della geopolitica statunitense.

Spykman negli anni trenta rivisitò la geopolitica così come era stata concepita da Mackinder.
Contrariamente al geografo britannico, Spykman non credeva che il “cuore”, il perno geografica del mondo, come un focus economico e territoriale, dovesse essere situato nell’Europa Centrale o in Russia, ma sulle coste. Secondo lui, il centro del mondo è composto di terra costiera, che egli chiama “terra di confine” o “terre anello”, il Rimland per l’appunto. Spykman pensa che gli USA, in un modo o nell’altro, debbano controllare questo Rimland, al fine di imporsi come una superpotenza, e quindi dominare il mondo.

La teoria di Spykman fu adottata dagli strateghi americani sia nel corso del secondo conflitto mondiale che durante la Guerra Fredda e fu alla base della politica di contenimento messa in atto nei confronti dell’Unione Sovietica. Nulla ci impedisce di cogliere come tale teoria sia tutt’ora attiva per gli Stati Uniti , dal mar della Cina e dal Pacifico orientale fino al Medio Oriente attuale. Sia in chiave anti-russa e anti-cinese che anti- europea o, meglio, anti-germanica.

Un’ultima osservazione: il termine “geopolitica” fu creato dal geografo svedese Rudolf Kjellen nel 1904, che era stato preceduto in questo campo di studi dal tedesco Friedrich Ratzel, morto proprio in quell’anno. La geopolitica, che come scienza si occupa dello studio degli incessanti mutamenti territoriali per effetto del soggiorno dell’uomo, della sua azione e delle rivalità di potere che ne derivano, nasce quindi con il moderno imperialismo, quello che il britannico John Atkinson Hobson giunse a definire nel 1902 e sul lavoro del quale si basò poi il successivo “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” scritto da Vladimir Ulianov detto Lenin nel 1916. Si potrebbe anzi dire che ne costituisce la vera scienza politica ed è per questo motivo che, apparentemente, ho condotto il lettore così lontano dall’argomento iniziale.

Eppure per affrontare i problemi che si pongono all’ordine del giorno, dalla crisi greca a quella ucraina e dalle guerre del Medio Oriente e del Nord Africa fino alle bibliche migrazioni che ne conseguono, occorre andar oltre le banali affermazioni di carattere umanitario, alle letture e agli interventi ispirati dalla carità cristiana o, ancor peggio, di stampo nazionalistico e/o populista, per quanto ammantate di sinistrismo spicciolo.
Quello che avviene ormai quotidianamente sotto i nostri occhi, sicuramente, non è stato pianificato in precedenza, ma le scelte anche contraddittorie e talvolta disordinate che vengono fatte dai governanti europei e non, sono il frutto di contraddizioni e tensioni che non derivano solo dal momento. Per affrontarle con lucidità, non affidandosi soltanto all’emozione del momento, occorre indagarle in profondità.

muroAnche perché l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione.

(1 – continua)


  1. Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938 – 1943, La Nuova Italia 1992 e Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937 – 1945, Bollati Boringhieri 1998  

  2. Cesare Bermani, op. cit. pag. XI  

  3. Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi 1991 e 2002, pag. 35  

  4. Carl Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi 2002 e Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi 1991  

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La minaccia https://www.carmillaonline.com/2015/09/06/la-minaccia-2/ Sun, 06 Sep 2015 18:42:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24995 di Alessandra Daniele

Flag of european unionÈ ormai quasi un quarto di secolo che il cosiddetto Scontro di Civiltà ha sostituito nella narrazione globale la Guerra Fredda. Proprio mentre si sgretolava la Cortina di Ferro, partiva la prima Guerra del Golfo, con l’operazione Desert Storm. Dal punto di vista strettamente narrativo, la semplificazione è stata subito evidente: la Guerra Fredda era uno scenario articolato e complesso. Lo Scontro di Civiltà è molto più schematico e bidimensionale perché ogni sfumatura viene brutalmente cancellata dall’immagine. Non a caso, mentre i combattenti delle prime linee sul terreno  mediatico della Guerra Fredda avevano spesso una doppia identità, [...]]]>
di Alessandra Daniele

Flag of european unionÈ ormai quasi un quarto di secolo che il cosiddetto Scontro di Civiltà ha sostituito nella narrazione globale la Guerra Fredda. Proprio mentre si sgretolava la Cortina di Ferro, partiva la prima Guerra del Golfo, con l’operazione Desert Storm.
Dal punto di vista strettamente narrativo, la semplificazione è stata subito evidente: la Guerra Fredda era uno scenario articolato e complesso. Lo Scontro di Civiltà è molto più schematico e bidimensionale perché ogni sfumatura viene brutalmente cancellata dall’immagine.
Non a caso, mentre i combattenti delle prime linee sul terreno  mediatico della Guerra Fredda avevano spesso una doppia identità, quelli dello Scontro di Civiltà sono da entrambe le parti letteralmente senza volto: tagliagole incappucciati e droni bombardieri telecomandati.
Una narrazione binaria ed elementare, che ha per questo bisogno di essere costantemente alimentata da shock: attentati sanguinosi, kamikaze minorenni, decapitazioni collettive, distruzione di monumenti e siti archeologici millenari.
Nonostante tutto questo però, in Europa il pericolo continuava perlopiù ad essere percepito come distante.
Serviva una minaccia che sembrasse realmente incombente sulla vita quotidiana di tutti: gli sbarchi dei migranti, amplificati e moltiplicati dai media, stanno servendo perfettamente allo scopo. Una popolazione che non si senta abbastanza minacciata diventa più difficile da controllare, e le classi dirigenti non possono permetterselo, specialmente durante una crisi strutturale del sistema come quella che stiamo attraversando, e che, nonostante le promesse dei cazzari, potrà soltanto peggiorare.
Se gli europei non hanno abbastanza paura di un attentato dell’ISIS, ne avranno d’una rapina in villa.
L’importante è che continuino a cedere libertà e sovranità ai governi centrali, ad approvare i bombardamenti umanitari, e ad incolpare di tutti i loro problemi lo Straniero.
Questa settimana, la Merkel recita il ruolo del poliziotto buono.
Fra qualche anno, anche lo Scontro di Civiltà avrà esaurito la sua spinta propulsiva, e sarà sostituito da un’altra Contrapposizione Epocale che molto probabilmente comprenderà la Cina fra i due principali contendenti.
La parte della barricata dalla quale si troverà l’Italia dipenderà dal maggiore offerente.
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Estetiche del potere. Blu contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/06/08/estetiche-del-potere-blu-contemporaneo/ Mon, 08 Jun 2015 21:00:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22922 di Gioacchino Toni

red_pill_blue_pillcopy1“You take the blue pill, the story ends. You wake up in your bed and believe whatever you want to believe” (Morpheus, Matrix, 1999)

Digitando su di un motore di ricerca immagini il nome di personaggi come Jean-Claude Juncker, Mario Draghi, Christine Lagarde, Angela Merkel, Barack Obama, David Cameron, Mariano Rajoy Brey, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Nicolas Sarkozy, Francois Hollande, Marine Le Pen ecc., si nota che, indipendentemente dal “colore politico”, il blu predomina ampiamente sia nell’abbigliamento che nei fondali dei convegni e degli studi televisivi. Il medesimo risultato [...]]]> di Gioacchino Toni

red_pill_blue_pillcopy1“You take the blue pill, the story ends. You wake up in your bed and believe whatever you want to believe” (Morpheus, Matrix, 1999)

Digitando su di un motore di ricerca immagini il nome di personaggi come Jean-Claude Juncker, Mario Draghi, Christine Lagarde, Angela Merkel, Barack Obama, David Cameron, Mariano Rajoy Brey, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Nicolas Sarkozy, Francois Hollande, Marine Le Pen ecc., si nota che, indipendentemente dal “colore politico”, il blu predomina ampiamente sia nell’abbigliamento che nei fondali dei convegni e degli studi televisivi. Il medesimo risultato si ottiene anche inserendo i nominativi di vecchie glorie vicine, come Tony Blair e George Bush (junior o senior), e lontane, come Margaret Thatcher e François Mitterrand. Anche digitando i nomi dei più influenti organismi economici o politici, ammesso siano distinguibili, come International Monetary Fund, World Bank, Goldman Sachs, European Union, United Nations, European Central Bank ecc., nuovamente trionfa il blu, in tutte le sue tonalità.

Il blu è rassicurante e viene percepito come colore poco connotato politicamente, è il colore del “buon senso”, che non spaventa, che lascia andare a letto tranquilli sapendo che per adeguarsi a quel colore non ci si deve esporre troppo. Nel mondo occidentale il blu, nelle sue varianti, pare essere di gran lunga il colore preferito da buona parte della popolazione, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza. L’abbigliamento, che è forse l’indicatore più efficace, se indagato sul lungo periodo, testimonia tale preferenza, indipendentemente dalle mode effimere che durano una stagione. Anche quando nei sondaggi il blu non viene indicato come colore preferito, facilmente risulta citato tra quelli “meno sgraditi”, ciò risulta importante perché la mancata ostilità è una carta decisiva in mano a chi intende esercitare il potere.
Matteo Renzi ospite a ''Porta a Porta''Il blu predomina anche negli studi televisivi di trasmissioni come Porta a porta e Domenica in, oppure risulta una presenza importante in Che tempo che fa e Servizio Pubblico. Domina in notiziari come Tg1, Tg3, Tg5, Studio Aperto, CNN Breaking News, Fox News, o coabita con il rosso od il verde in telegiornali come SkyTg24 o Tg La7. Se è pur vero che, in alcuni casi, come negli studi di BBC News e del Tg2, tende a lasciare la scena ad una gamma cromatica orientata al rosso, in generale si può comunque dire che il blu è il colore dominante dell’infotainment televisivo.

Michel Pastoureau, tra i massimi studiosi di storia dei colori, sostiene che, ai nostri giorni, “questo gusto pronunciato per il blu non è l’espressione di pulsioni o di motivazioni simboliche particolarmente forti. Si ha persino l’impressione che sia perché è simbolicamente meno ‘connotato’ di tanti altri colori (…) che il blu ottiene il consenso generale”. Che il successo del blu sembri derivare anche dalla sua scarsa connotazione simbolica è emblematico di come la società contemporanea risulti apatica, sempre più omologata, e di come anche quel residuo di volontà dell’individuo che mira ad essere riconosciuto come tale necessiti di una diffusa rassicurazione. Servono tante, rassicuranti, amicizie nei social network e quando si usufruisce dei dieci minuti di celebrità, le regole del gioco impongono la ricerca del consenso diffuso. Si tratta di un gioco perverso in cui l’individualità si cerca nell’omologazione. I creatori/venditori di moda conoscono bene i propri clienti, sanno perfettamente quanto questi siano sostanzialmente timorosi ed equilibristi, dunque ricorrono spesso a “veltronismi”: i “ma anche”. Per la donna elegante ma anche, al tempo stesso, sportiva… o viceversa, come preferite. Il frasario d’ordinanza è composto, probabilmente, da non più di dieci termini shakerati come nemmeno al vecchio Cabaret Voltaire zurighese…

m1Il blu, non è sempre stato fruito allo stesso modo, Pastoureau, nel suo Blu. Storia di un colore*, uscito in Francia nel 2002, ripercorre la sua storia in occidente dall’antichità fino ai giorni nostri, indicando come questo ha mutato più volte significato e modalità di percezione. “Considerato un fatto sociale, il blu e le sue alterne fortune rappresentano pertanto il ritratto in continuo divenire di una società, quella umana, costantemente impegnata a fissare e ridefinire la propria scala di valori”.

In ambito greco-romano il blu viene considerato un colore negativo, associato ai “barbari”. Il blu conosce una sorta di oblio per diversi secoli e, secondo lo studioso, diviene un colore di primo piano in Europa soltanto attorno al XII-XIII secolo associato, in ambito religioso, al mantello della Madonna, sino ad allora di colore scuro, grigio o nero. Da questo momento, per diversi secoli, blu e rosso rappresentano una vera e propria coppia di contrari (femminile/maschile; morale/festante ecc.). A partire dal Settecento le cose cambiano drasticamente, il regresso del colore rosso lascia spazio al definitivo trionfo del blu che si impone come colore preferito a livello europeo. In parte, il successo è determinato da questioni “pratiche” che hanno a che fare, a livello materiale, con i coloranti utilizzati nella tintura delle stoffe (dal naturale indaco all’artificiale blu di Prussia) ed, a livello simbolico, con l’associare il blu al progresso, all’illuminismo. Se un ruolo prioritario per il successo del blu si deve alle rivoluzioni americana e francese, non di meno vale il contributo dato sia dalla letteratura illuminista che da quella del primo romanticismo. In ambito romantico, ad esempio, il colore blu viene celebrato tanto dall’abito del protagonista del romanzo di Goethe, I dolori del giovane Werther, quanto dal fiorellino blu al centro dell’opera incompiuta di Novalis, Enrico di Ofterdingen. Il blu, già colore di moda nell’abbigliamento tedesco nella seconda metà del Settecento, viene ulteriormente rafforzato proprio dall’abito del protagonista del romanzo di Goethe, tanto che determina il diffondersi della moda dell’abito blu “alla Werther”. Il “blu romantico e malinconico” viene così “aureolato di tutte le virtù poetiche”.

Flag of european unionÈ in ambito francese, sottolinea Pastoureau, che il blu diviene il “blu nazionale, militare e politico”. Il blu, in Francia, appare negli stemmi reali già tra il XII-XIII sec. ma, alla vigilia della Rivoluzione, il colore della monarchia è il bianco. È con la Rivoluzione che il blu diviene il colore della Nazione. Il blu si trasforma, via via, da colore dei difensori della Repubblica, a colore dei repubblicani moderati fino a divenire emblema dei liberali o dei conservatori. Nella storia militare francese il blu viene già utilizzato dalle Guardie francesi, corpo di élite nato verso la metà del XVI sec., che fraternizza con gli insorti nel luglio del 1789, tanto che molti suoi uomini passano poi tra le fila della Guardia nazionale parigina mantenendo le vecchie uniformi ed aprendo la strada alla proclamazione del blu come colore nazionale in contrapposizione al bianco monarchico ed al nero clericale e della casa d’Austria. Con le guerre in Vandea il blu dei soldati della Repubblica assume una “dimensione ideologica”: blu repubblicano vs. bianco cattolico e reale. Successivamente al blu repubblicano si affianca il rosso dei socialisti. Dalla rivolta del ’48 il blu perde ogni connotazione rivoluzionaria fino a divenire il colore dei repubblicani moderati, poi dei centristi e, con la Terza Repubblica, della destra repubblicana.
In generale, buona parte dell’Europa, tra Otto e Novecento, finisce con l’adottare una simbologia cromatica analoga: il blu diviene prima emblema dei partiti repubblicani progressisti, poi moderati, infine conservatori. Alla sua sinistra spetta il rosso, alla sua destra il nero, il bruno o il bianco, colori di clericali, fascisti o monarchici. Balzato prepotentemente al centro della scena con la stagione della Rivoluzione francese, nell’abbigliamento, il blu, per qualche decennio, nel corso dell’Ottocento, viene soppiantato dal nero. Già ad inizio Novecento, però, il nero inizia ad essere affiancato da altri colori e, dopo la Prima guerra mondiale, il nero degli abiti maschili inizia a cedere il posto al blu marin a partire dalle colorazioni delle uniformi di vari corpi. Negli abiti civili il blazer rappresenta l’esempio più evidente del passaggio dal nero al blu.

Se il significato del colore blu è mutevole nel tempo, non di meno, allo stesso colore possono essere dati significati differenti, se non antitetici. In epoca recente, si pensi, ad esempio, a quel che hanno significato nell’immaginario novecentesco le “tute blu”; simbolo di un possibile riscatto proletario da una parte, e simbolo di un’irrazionale, quanto ingeneroso, tentativo di annullare l’ordine costituito dall’altro. In ambito diacronico, è curioso come sia mutato il portato simbolico nel corso di qualche decennio dell’indumento blu per eccellenza: i blue jeans. Passati di volta in volta da indumento da lavoro a pantalone contestatario, a prodotto di consumo, a capo recuperato e trasformato dal marketing della moda.

Matteo Renzi a Leopolda 13In epoca contemporanea, il blu sembrerebbe proporsi come risposta tranquillizzante ad uno stato d’animo emergenziale indotto quotidianamente dal mondo dell’economia e dai suoi portavoce (politici e mass media). Si crea il malessere nell’individuo per poi presentarsi come risposta sensata ed equilibrata, come a dire che si creano i presupposti per le guerre, poi si mandano i caschi blu.
Grazie al blu si ha un’umanità serena, liberata dai travagli emotivi e dalle incertezze materiali. Il blu è il colore più efficace per chi si presenta come fautore del buon governo, per chi dichiara l’intenzione di governare avendo a cuore la serenità diffusa e che richiede allo spettatore/elettore un sostegno che non lo costringe ad esporsi troppo: è un sostegno dato a distanza di sicurezza. Il blu è rassicurante, gli si possono dare in gestione i risparmi di una vita. Il blu è competente, sotto al pullover blu, il nuovo vate del progresso industriale indossa pur sempre la camicia d’ordinanza. Blu è pur anche il colore della pillolina miracolosa quanto una Duracel alcalina ma, dopotutto, rappresenta pur sempre un tranquillante per ansie da prestazione. Il blu è un colore rasserenante, è il colore di chi, con sobrietà, magari attraverso il telecomando, ti prende per mano e ti fa addormentare e “domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai”. Dalle nostre parti, più prosaicamente e con la sintesi comunicativa di cui Jerry Levis de noantri è maestro, si potrebbe semplicemente dire che il blu è il colore dello “staiserenismo”.

 

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blu*
Edizione economica: M. Pastoureau, Blu. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Milano 2008, 237 pagine, € 13,00

Edizione con apparato iconografico: M. Pastoureau, Blu. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Milano 2002, 216 pagine, €25,00

 

 

 

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