Andrea Facchetti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una nuova elettricità https://www.carmillaonline.com/2021/04/28/una-nuova-elettricita/ Wed, 28 Apr 2021 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65907 Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, pp. 224, 20 euro

Ancora una volta la piccola, ma sempre interessante, Krisis Publishing di Brescia coglie nel segno con un testo sugli sviluppi attuali dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nei settori della comunicazione, dell’economia, della conoscenza e dell’arte. Lo fa non accontentandosi però dei soliti luoghi comuni a favore o contro lo sviluppo dei sistemi relazionali o di controllo resi possibili dalla stessa, ma sottolineando in maniera particolare il conflitto o i conflitti che derivano dal [...]]]> Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, pp. 224, 20 euro

Ancora una volta la piccola, ma sempre interessante, Krisis Publishing di Brescia coglie nel segno con un testo sugli sviluppi attuali dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nei settori della comunicazione, dell’economia, della conoscenza e dell’arte. Lo fa non accontentandosi però dei soliti luoghi comuni a favore o contro lo sviluppo dei sistemi relazionali o di controllo resi possibili dalla stessa, ma sottolineando in maniera particolare il conflitto o i conflitti che derivano dal suo uso.

Scrivono i due curatori nell’introduzione:

L’intelligenza artificiale (AI) occupa una posizione chiave nell’ecosistema culturale contemporaneo. È una risorsa fondamentale per interpretare il mondo e per interagire con le grandi architetture di dati che lo popolano.
Nel 2016, un’era geologica fa in questo ambito, Andrew NG, professore a Stanford ed ex direttore di Google Brain, ne celebrava l’imminente avvento: “Come l’elettricità ha trasformato quasi tutto cento anni fa, fatico ad immaginare un settore che non verrà trasformato dall’AI nei prossimi anni”. Ebbene, il cambio di paradigma previsto da NG sembra oggi essere già in atto. L’AI non riguarda più il nostro futuro, ed è impiegata negli ambiti più disparati dell’attività umana, dalla medicina all’industria, dalla finanza alla domotica, dal marketing alla guerra. Non solo: essa modella il modo in cui sperimentiamo il mondo. Reti neurali e algoritmi “intelligenti” sono ampiamente utilizzati per rilevare, classificare e mappare il nostro comportamento, riconoscere le nostre emozioni, e influenzare le nostre scelte. Lavorano come “curatori invisibili” 1, prescrivendo ciò che dovremmo vedere, ascoltare, leggere e comprare. Ci sorvegliano, plasmano la nostra comprensione della realtà sociale e politica, e contribuiscono in definitiva a costruire il nostro quadro cognitivo. Essi intervengono inoltre nella creazione, nella manipolazione e nella disseminazione dei media e dei dispositivi di interazione sociale.
Un simile cambiamento non è certo passato inosservato alle attenzioni della critica. Negli ultimi anni, un’intera generazione di artisti, ricercatori e professionisti ha indagato la natura dei sistemi AI e delle loro relazioni con i contesti in cui opera2.

Proprio per questo motivo, in questo primo volume, i due curatori si sono avvalsi dei testi prodotti da FINN BRUNTON che insegna Media, Culture and Communication alla NYU Steinhardt dove si occupa di storia e teoria dei media digitali; KATE CRAWFORD, ricercatrice presso il Microsoft Research Lab e co-fondatrice dell’AI Now Institute della New York University, il primo istituto universi­tario dedicato alla ricerca sulle implicazioni sociali dell’intelligenza artificiale; SOFIA CRESPO, un’importante artista nel campo dell’arte AI; VLADAN JOLER insegnante presso il dipartimento di New Media (Università di Novi Sad), è a capo di SHARE Lab, un laboratorio di ricerca che esplora gli aspetti tecnici e sociali dello sfruttamento del lavoro digitale, delle infrastrutture invisibili e delle black box; LEV MANOVICH, uno dei più importanti teorici dei media studies; FEILEACAN MCCORMICK, un artista e ricercatore norvegese; HELEN NISSENBAUM, insegnante presso il Dipartimento di Scienze dell’Informazione della Cornell University; TREVOR PAGLEN, artista e ricercatore statunitense il cui lavoro si muove tra i confini di scienza, arte, giornalismo e tecnologia; MATTEO PASQUINELLI docente di Filosofia dei media all’Università di Arte e Design di Karlsruhe; SALVATORE IACONESI e ORIANA PERSICO che sono autori di diverse performance, pubblicazioni e opere esposte in tutto il mondo e lavorano insieme dal 2006; EYAL WEIZMAN che insegna Spatial and Visual Cultures presso la Goldsmiths University of London.

Come suggerisce il titolo, è il conflitto a dominare il discorso, nelle varie forme che è destinato ad assumere con l’applicazione dell’AI nel contesto di un capitalismo globalizzato che, più che tardo come qualcuno si ostina a chiamarlo oppure neo-liberale, si rivela semplicemente ancora una volta capace di trasformare, sempre più in profondità, le relazioni tra individuo e società, società e ambiente, conoscenza e controllo sociale, in funzione di un’accumulazione che sembra non potersi mai fermare. Una ricerca esasperata di nuove forme di estrazione di plusvalore e plusvalenze che stravolge tutti gli assetti economico-sociali e cognitivi, dal rapporto sempre più distruttivo con l’ambiente alle forme di conoscenza che ne derivano.

L’immagine dell’AI come un’ingombrante scatola nera che si inserisce nel tessuto ambientale e sociale globale introduce il terzo termine che dà titolo a questo volume. All’interno dei dispositivi e delle infrastrutture AI si nascondono infatti innumerevoli conflitti che, come abbiamo detto, investono l’intero ecosistema contemporaneo. La dimensione politica dell’AI va intesa come un campo di forze attraversato da vettori umani e non umani che, spesso in contrasto tra loro, generano frizioni, tensioni e conflitti: “l’intera
Realtà (proprio come la Storia) è un campo di battaglia, in cui miriadi di agency sono perennemente in lotta per affermare nuovi sistemi di interdipendenza”.
[…] Il primo conflitto ad emergere dal tentativo sopra descritto riguarda le condizioni, materiali e non, che abilitano l’ecosistema dell’AI. La comunità scientifica ha ricondotto l’emergere prepotente dell’intelligenza artificiale negli ultimi 20 anni ad almeno due recenti eventi significativi: l’aumento esponenziale della capacità di calcolo, grazie soprattutto allo sviluppo di schede video di nuova generazione, e l’enorme disponibilità di informazioni verso cui la computazione viene rivolta. Entrambi questi accadimenti affondano le proprie radici nello sviluppo industriale del XIX secolo e si sono consolidati nel corso del XX in due forme diverse, ma affini, di estrattivismo.
L’industria dell’hardware, necessaria ad alimentare i processi di apprendimento, è il prodotto dell’estrattivismo materiale, analizzato soprattutto nel saggio di Crawford e Joler. Come dimostra il caso del palaquium gutta riportato nel loro Anatomia di un sistema AI, lo sfruttamento delle risorse materiali — con conseguente distruzione di interi ecosistemi e interruzione di processi geologici millenari — non è solo un prodotto dell’infrastruttura AI: è condizione imprescindibile per la sua stessa esistenza. Visualizzare l’anatomia di un assistente vocale domestico e le storie di sfruttamento che vi si annidano diventa dunque un atto insieme linguistico e politico, che coinvolge cioè la sua narrazione e la nostra possibilità di comprenderlo e metterlo in discussione. È un gesto, questo, che si pone in aperta opposizione con “la metafora eterea del ‘cloud’” e che cerca invece di far emergere “la realtà fisica delle estrazioni minerarie e dell’espropriazione di intere popolazioni che la rendono possibile” (p.61).
L’industria che gravita intorno alla produzione, alla raccolta e alla distribuzione dei dati si rifà invece ad un altra forma di estrattivismo. Un estrattivismo cognitivo si sovrappone a quello materiale. Anche se il primo data center venne costruito nel 1965, è con la nascita e l’esplosione di massa del World Wide Web che vengono creati i presupposti per la società dei big data. Da allora, in pochi decenni la produzione di dati è diventata un’attività parassita, che si annida in qualsiasi ambito dell’agire umano: dalla tessera fedeltà del supermercato all’abbonamento alla metropolitana, dall’account su un social network al navigatore GPS. Ciascuna di queste attività genera dei dati che “possono essere impacchettati, venduti, raccolti, organizzati e acquisiti in molti modi, e infine riutilizzati per ragioni di cui noi, i sorvegliati, non siamo a conoscenza e a cui non abbiamo dato approvazione” (p.117). Nel loro saggio, Brunton e Nissenbaum ci mettono in guardia di fronte alle condizioni di profondo disequilibrio che sempre accompagnano questo tipo di attività: una asimmetria sia epistemica (“non sappiamo cosa ne sarà delle informazioni prodotte attraverso questo processo, né dove andranno o quale sarà il loro utilizzo”) che di potere (“raramente possiamo decidere se essere monitorati o no, cosa succede alle informazioni che ci riguardano e cosa accade a causa di queste informazioni”, p.118).
Appare dunque chiaro come l’emergere delle tecnologie AI sia già inscritto all’interno di un campo di forze che si articola secondo il modello dell’estrattivismo. Secondo Sandro Mezzadra e Brett Nielson3 esso costituisce il paradigma dello sviluppo capitalista e neoliberista del XXI secolo, e ci costringe a estendere il concetto stesso di estrazione per considerare “non solo l’appropriazione delle risorse naturali, ma anche, e per certi versi soprattutto, i processi che sfruttano la cooperazione umana e l’attività sociale”4.


  1. “The invisible curation of content. Facebook’s news feed and our information diets”, World Wide Web Foundation (aprile 2018), https:// webfoundation.org/research/ the-invisible-curation-of-con­tent-facebooks-news-fe­ed-and-our-information-diets/  

  2. Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Una nuova elettricità, introduzione a F. D’Abbraccio, A. Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, p. 13  

  3. Sandro Mezzadra e Brett Nielson, On the multiple frontiers of extraction: excavating contemporary capitalism, Cultural Studies 31 (2017), pp.185-204  

  4. F. D’Abbraccio, A. Facchetti, op. cit., pp. 20-23  

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“Tutti gli esseri umani sono imprenditori” https://www.carmillaonline.com/2019/02/28/tutti-gli-esseri-umani-sono-imprenditori/ Wed, 27 Feb 2019 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51115 di Sandro Moiso

Silvio Lorusso, ENTREPRECARIAT. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro. Prefazione di Geert Lovink. Postfazione di Raffaele Alberto Ventura. Progetto grafico e layout di Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, Krisis Publishing, Brescia 2018, pp. 228, euro 18,00

Ancora una volta Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, con la loro Krisis Publishing, centrano l’obiettivo pubblicando un testo che è allo stesso tempo interessante, provocatorio, bello e graficamente elegante. Entreprecariat nasce dall’omonimo blog lanciato da Silvio Lorusso nel 2016. Da allora il termine imprendicariato e il suo corrispettivo inglese si sono man [...]]]> di Sandro Moiso

Silvio Lorusso, ENTREPRECARIAT. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro. Prefazione di Geert Lovink. Postfazione di Raffaele Alberto Ventura. Progetto grafico e layout di Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, Krisis Publishing, Brescia 2018, pp. 228, euro 18,00

Ancora una volta Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, con la loro Krisis Publishing, centrano l’obiettivo pubblicando un testo che è allo stesso tempo interessante, provocatorio, bello e graficamente elegante. Entreprecariat nasce dall’omonimo blog lanciato da Silvio Lorusso nel 2016. Da allora il termine imprendicariato e il suo corrispettivo inglese si sono man mano diffusi in Italia e all’estero tra giornalisti, teorici e artisti. Oggi si parla di imprendicariato a proposito del disagio dei Millennials, dello sfruttamento creativo del popolo degli Hackathon, del logorio prodotto da una socialità ormai convertita in investimento.

Come il precedente Atlante dei classici padani, edito anch’esso dalla Krisis Publishing (qui), aveva contribuito a destrutturare l’immaginario leghista delle eccellenze padane, così l’attuale testo contribuisce alla demolizione di un immaginario lavorativo-imprenditoriale in cui, ancora una volta, il capitalismo e le sue regole sembrano costituire l’unico orizzonte possibile per il futuro, oltre che per il presente, della specie umana.

Imprenditore o precario? Sono questi i termini di una dissonanza cognitiva che fa apparire tutto come una mastodontica startup. Silvio Lorusso ci guida alla scoperta dell’“imprendicariato”, un universo fatto di strumenti per la produttività, di poster motivazionali e di tecniche di auto-aiuto per risultare ottimisti. Un mix di ideologia imprenditoriale e precarietà diffusa che regola social media, mercati online per il lavoro autonomo e piattaforme di crowdfunding.

La figura dell’imprenditore precario, autentico ossimoro fattosi carne attraverso una spericolata e sfacciata operazione di restyling dell’ideologia capitalista basata sull’esaltazione del lavoro, è posta al centro di un’analisi acuta che, suddivisa in tre parti ben distinte (Core Values, Assets e Platforms), affronta nella prima la definizione di cosa è un imprenditore e cosa significa l’esser precario.
Nella seconda la trasformazione antropologica e culturale che nel corso degli ultimi decenni, e in particolare dopo la crisi del 2008, ha portato il lavoratore, specialmente quello che un tempo si sarebbe detto “intellettuale”, ad essere più che occupato in un lavoro regolare ad essere busy (indaffarato) per la maggior parte del suo tempo di vita.
E, infine, nella terza lo sviluppo di alcune piattaforme molto diffuse nell’uso dei social network (come LinkedIn e Fiverr), destinate a costituire, in forme diverse, un’autentica “piazza” mondiale su cui porre in vendita, a costi sempre più ridotti, servizi e competenze prodotti da una forza lavoro disgregata e costantemente posta in competizione con tutti gli altri membri della stessa categoria.
Spesso riferibile a quella dei cosiddetti “creativi”, ma non solo.

Un’autentica corsa al ribasso e alla svalutazione di ogni competenza cognitiva e lavorativa travestita da concorrenza imprenditoriale che scarica sull’individuo solo, isolato e privo di “alleati”, il costo economico e psicologico di una crisi di valorizzazione dl capitale che soltanto dall’intensificazione dello sfruttamento del lavoro svolto dagli esseri umani e dalla sua contemporanea svalutazione economica (sempre più lavoro da svolger in tempi sempre più ridotti per retribuzioni sempre più contenute) può trarre momentaneo sollievo.

Entreprecariat parla quindi di imprenditorialità, ma non è un manuale di auto-aiuto per «farcela». E anche se sullo sfondo rimangono le immagini degli imprenditori di successo, oggi divenute autentiche icone anche della cultura di massa attraverso la diffusione di produzioni cinematografiche e televisive che ne esaltano le “imprese” e l’individuale capacità di affrontare le difficoltà, non si tratta nemmeno della solita agiografia di “visionari” del business come Steve Jobs o self-made man come Flavio Briatore. Al contrario, il libro descrive la realtà che circonda i cosiddetti «imprenditori di se stessi»: freelancer, disoccupati spinti o costretti a sviluppare una mentalità imprenditoriale per non soccombere alla precarietà crescente che coinvolge l’ambito professionale, quello economico nonché quello esistenziale.

Anche se la prima parte del testo sviscera completamente la problematica di cosa significa essere precari oggi, attraverso le analisi di autori e studiosi quali Guy Standing, Richard Sennett, Raffaele Alberto Ventura e Alex Foti, sono le due parti successive ad aprire, davanti agli occhi del lettore, un autentico oceano di manipolazioni del reale, delle coscienze e dell’idea di vita e di lavoro che lo costringono a riflettere su quali siano le autentiche e profonde trasformazioni in atto nella società a livello mondiale. Non solo sul piano economico ma anche, e forse soprattutto, antropologico.

Se infatti già il lavoratore salariato del tardo Ottocento e del Novecento era stato spinto a confondere l’esser salariato e sfruttato con una forma di orgoglio professionale che lo legava alla sue autentiche catene, rappresentando forse uno dei maggiori ostacoli ideologici all’affermazione della classe per sé in opposizione ai rapporti di produzione capitalistici1 , oggi lavoratori privi di qualsiasi certezza di continuità lavorativa sono spinti a vivere avvinghiati al lavoro anche quando questo, per periodi più o meno lunghi, non c’è oppure non è certo sufficiente per il loro sostentamento economico.

Costretti a lavorare in spazi e con strumenti che non sono forniti loro dal datore di lavoro, ma che devono procurarsi essi stessi nell’illusione di essere liberi.
Nomadi come spesso si sente dire. Ma questo nomadismo precario, caratterizzato spesso da uno zainetto in cui contenere tutti gli strumenti di lavoro trasportabili (PC, tablet, smartphone, cellulari di ultima o ultimissima generazione) spinge quegli stessi ad essere spesso i primi a sperare nel precariato altrui, sia per sfruttarlo come servizio a basso costo, sia come opportunità per una propria, e quasi sempre impossibile, affermazione individual-imprenditoriale. Ecco l’autentica magia, l’autentica fake fattasi verità incontestabile che si muove come un fantasma nella mentalità diffusa e devastante, soprattutto a causa dello stress psicologico che ne consegue, di milioni di giovani aspiranti a un lavoro sempre più proteiforme ed inafferrabile. Rovesciando la famosa affermazione di Warhol in cui si diceva che un giorno tutti sarebbero stati famosi per pochi minuti, oggi si potrebbe dire che tutti potranno essere prima o poi lavoratori creativi, oppure più drammaticamente semplicemente lavoratori, per poche ore.

Come è però possibile che tale drammatica realtà possa reggere su gambe così fragili come quella costituita dal possibile successo imprenditoriale futuro in cambio di una vita di stenti e quasi priva di pause dall’ossessione lavorativa?
Uno strumento importante e determinante è stato forse quello della diffusione di una generale visione positiva della vita, in cui ogni negatività deve essere rimossa perché potrebbe essere sinonimo dell’insuccesso personale e in cui ogni delusione e sconfitta dell’individuo è vista sostanzialmente come attribuibile ad errori pregressi del soggetto stesso.

Ecco allora, anche se Lorusso non ne parla, che si comincia a comprender l’importanza della diffusione fin dagli anni ’80 del secolo scorso delle ideologie New Age, di una visione positiva dell’esistente ispirata da fasulle meditazioni trascendentali tratte da filosofie asiatiche ricucinate in salsa occidentale, di canzoni con versi quali “penso positivo perché son vivo, perché son vivo”, oppure a collane editoriali come quella offerta in questo periodo dal Corriere della sera dedicate alla Mindfulness ovvero alla capacità di controllare e “sfruttare” appieno la propria mente.

Una gigantesca rimozione della teoria critica, e quindi negativa, dell’esistente e del capitalismo che oggi giunge a sfiorare i movimenti sedicenti antagonisti, oltre che aver impregnato le mentalità precarie, là dove si afferma che non si può sempre dire No, ma occorre saper essere propositivi. Dimenticando così che, ormai, qualsiasi proposta in positivo ma di segno contrario a quello dell’organizzazione sociale ed economica dominante non può che passare attraverso la negazione e/o la distruzione dell’esistente. Compresi i social di cui oggi si blatera tanto senza capire l’intrinseca funzione ultima di raccolta dati e profili individuali al fine dello sfruttamento commerciale e lavorativo degli utenti.

Come esempi imprenditoriali e filosofici estremi di tale fasulla positività l’autore cita una frase di Ayn Rand, teorica dell’Oggettivismo molto apprezzata in ambito imprenditoriale ma spesso sbeffeggiata in ambito filosofico, che in età avanzata, a proposito del la morte, dichiarò: “Io non morirò. Sarà il mondo a finire”.
E in seconda battuta, e forse ancora più significativa, la testimonianza di Jody Sherman, energico fondatore di una startup dedicata alla vendita di prodotti per l’infanzia, la cui ricetta per risollevare le sorti dell’economia era costituita dall’impedire ai media di dare notizie negative in modo da produrre un’iniezione di fiducia nei cittadini.

“« Devi in un certo senso alterare la tua realtà per far sì che alla fine diventi realtà», spiegava l’imprenditore. Certe volte però le cose si mettono davvero male e l’ottimismo diventa crudele, per usare il titolo di un fortunato libro di Lauren Berlant. Dopo qualche mese dall’intervista la startup di Jody è fallita a causa di un grosso buco finanziario. E quando il peso della realtà si è fatto schiacciante, questo imprenditore di mezza età si è tolto la vita.”2

Che si tratti di autentica fuffa ideologica, come tutto ciò che oggi circonda il mito delle startup oppure dei doers (coloro che fanno o che si danno da fare comunque), non vi è e non può esistere alcun dubbio, eppure tali visioni e dichiarazioni esercitano ancora sicuramente un peso determinante su tutti coloro che, più o meno fiduciosi e non sempre soltanto giovani come si potrebbe credere, si affidano a piattaforme come LinkedIn o Fiverr per individuare o reinventarsi, soprattutto tra i più anziani, un percorso lavorativo.

Piattaforme le cui modalità d’uso sottintendono, come sostiene Lorusso, una specifica visione del mondo di cui le interfacce vanno a comporre la superficie.
Una delle quali interfacce è proprio quella del diluire anche le specificità del lavoro creativo in lavoro in generale. Così mentre il lavoro di qualsiasi tipo si trasforma realmente nel marxiano lavoro astratto, perdendo definitivamente qualsiasi caratteristica e competenza specifica per affidarsi unicamente al basso costo oppure alla cifra più bassa per la quale si è disposti a fare o prestare qualsiasi servizio (ad esempio i 5 dollari minimi, di cui uno alla piattaforma, su cui si basava inizialmente la proposta della israeliana Fiverr), l’illusione che l’imprenditorialità sia il modo di esistere della specie, come ha affermato Muhammad Yunus, fin dalle sue origini trionfa, nascondendo il fatto che nella generale diffusione del lavoro astratto si afferma, per il capitale e suoi funzionari e/o detentori, la possibilità infinita di trarre profitto da qualsiasi tipo di skill, abilità, sia essa innata o acquisita, fisica o mentale.

Moltissimi sarebbero ancora i temi e le riflessioni da sottolineare e segnalare in un dei libri più interessanti e utili usciti negli ultimi anni, soprattutto qui in Italia, sui temi del lavoro, del precariato, dell’imprenditorialità, senza mai dimenticare però come un Marx già avanti negli anni, nel 1875, affermasse che :

“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è tanto la fonte dei valori d’uso quanto il lavoro, che è esso stesso solo l’espressione di una forza naturale, della forza-lavoro umana.[…] Il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, solo nella misura in cui l’uomo si comporta fin dal principio come proprietario nei confronti della natura, la fonte prima di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e la tratta come cosa di sua proprietà. I borghesi hanno i loro buoni motivi per affibbiare al lavoro una forza creativa soprannaturale, perché […] ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della propria forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni oggettive di lavoro. Egli può lavorare solo con il loro permesso e solo con il loro permesso può quindi vivere […] Questa è la legge di tutta la storia che si è avuta fino ad ora, Quindi, invece di offrire delle frasi fatte generiche su “il lavoro” e “la società”, si doveva dimostrare concretamente come si sono finalmente costituite, nell’attuale società capitalistica, le condizioni materiali ecc. che rendono capaci e costringono i lavoratori a spezzare quella maledizione storica.”3

N.B.
Tutte le immagini che accompagnano la presente recensione sono tratte dal libro di Silvio Lorusso edito da Krisis.


  1. Si veda S. Moiso, Dall’estremo occidente. Da John Henry a Trump passando per Mirafiori: il capitalismo e il suo riflesso nel Mito americano, in L. Cangianti, A. Daniele, S. Moiso, F. Pezzini, G. Toni, Immaginai alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2018  

  2. S. Lorusso, Entreprecariat, p. 135  

  3. K. Marx, Critica del Programma di Gotha, Massari editore, Bolsena 2008, pp. 33-39, cit. in S. Moiso, op. cit., pp. 37-38  

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