Anatole France – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ragionare camminando https://www.carmillaonline.com/2024/11/02/ragionare-camminando/ Sat, 02 Nov 2024 06:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84859 di Marco Sommariva

Ho letto su L’indiscreto un articolo di Alessia Dulbecco intitolato “È difficile camminare, se sei una donna” che, davanti a un video proiettato in una classe in cui si vede una ragazza camminare, sola, in pieno giorno, per le strade di New York, la stragrande maggioranza delle persone di genere femminile sapeva già, dopo i primi fotogrammi, cosa avrebbe subito la protagonista: molestie, abusi e commenti non richiesti. È il fenomeno che oggi viene definito catcalling: molestia sessuale prevalentemente verbale che, per esperienza personale, posso assicurare esser già presente a fine anni Sessanta.

Pur essendo un uomo, parlo [...]]]> di Marco Sommariva

Ho letto su L’indiscreto un articolo di Alessia Dulbecco intitolato “È difficile camminare, se sei una donna” che, davanti a un video proiettato in una classe in cui si vede una ragazza camminare, sola, in pieno giorno, per le strade di New York, la stragrande maggioranza delle persone di genere femminile sapeva già, dopo i primi fotogrammi, cosa avrebbe subito la protagonista: molestie, abusi e commenti non richiesti. È il fenomeno che oggi viene definito catcalling: molestia sessuale prevalentemente verbale che, per esperienza personale, posso assicurare esser già presente a fine anni Sessanta.

Pur essendo un uomo, parlo di esperienza personale per questo motivo: non avevo ancora compiuto sei anni quando, nell’estate del 1969, ogni pomeriggio d’estate passavo con mia madre – all’epoca trentanovenne – davanti a un’officina meccanica per recarci in casa di mia zia dove le due sorelle facevano venir sera cucendo abiti; eravamo costretti a passar di lì perché non c’erano strade alternative e visto che, per via del caldo, le saracinesche di quella carpenteria metallica erano sempre alzate, al nostro passaggio gli operai interrompevano il lavoro, fischiavano all’indirizzo di mia mamma e commentavano ad alta voce le sue curve. Ricordo che mia madre allungava il passo e mi diceva di fare altrettanto, così come ricordo la paura che provavo in quel tratto di strada perché, secondo me, quegli uomini volevano far del male a mia madre e, lasciatemi dire, non ero così tanto distante dalla realtà.

Scrive Atiq Rahimi in Pietra di pazienza: “Per gli uomini come lui scopare, violentare una puttana non è una grande impresa. Mettere il suo lurido affare in un buco che è già stato usato centinaia di volte prima di lui non gli procura alcun orgoglio virile. […] Lo sai bene, tu. Gli uomini come lui hanno paura delle puttane. E lo sai perché? […] perché, scopando una puttana, non dominate più il suo corpo. Siete in una dimensione di scambio. Voi le date del denaro, lei vi dà il piacere. E, posso dirtelo, spesso è lei a dominarvi. È lei a scoparvi. […] Quindi violentare una puttana non è uno stupro. Ma lo è rubare la verginità a una ragazza, violare l’onore di una donna! Ecco il vostro credo!”

Ho voluto raccontare quanto ho vissuto all’età di cinque anni, perché mi pare impossibile che, davanti al video proiettato in classe, i ragazzi non siano stati pronti a rispondere come le loro compagne: davvero c’è qualcuno che non si rende conto di ciò che accade per strada? E se questo accadesse perché, in qualche modo, si è riusciti a portare le menti di alcuni di noi in un mondo ideale che distrae da quello reale? Scriveva Anatole France ne L’isola dei pinguini, nel 1908: “Le testimonianze false valgono più di quelle vere, perché vengono create espressamente per le necessità della causa, su ordinazione e su misura, e quindi risultano esatte e particolareggiate. Sono preferibili perché trasportano le menti in un mondo ideale e le distraggono dalla realtà, che, in questo mondo, purtroppo, non è mai senza ombre.”

E non prenderei troppo sottogamba l’estratto sopra, visto che in 1984 George Orwell scriveva: “Tutto quel che succede, succede nella mente. Tutto ciò che succede in tutte le menti, succede davvero”.

Eppure, è indubbio che, ancora oggi, una donna che cammina da sola costituisce un’anomalia del Sistema: prima che si scoprisse l’assassino della povera Sharon Verzeni – la barista di Terno d’Isola uccisa a coltellate mentre passeggiava, di notte, vicino alla propria abitazione – abbiamo letto e ascoltato numerosi commenti circa l’abitudine della giovane di uscir da casa, da sola, a tarda sera: “forse si vedeva con qualcuno?” Avremmo letto e ascoltato identici commenti fosse stato un uomo? Ho grossi dubbi.

Comunque, se per le donne il pericolo di uscir da sole aumenta dopo il tramonto, non significa che prima possano muoversi a piedi serenamente: le donne sanno che, a prescindere da ciò che indossano e se è mattina o pomeriggio, il rischio di incorrere in commenti, sguardi e tentativi di approccio non richiesti è sempre presente.

Prima ho parlato degli anni Sessanta perché, per esperienza, non posso andare più indietro, ma leggo che, fin dai tempi antichi, strade e piazze sono i luoghi dove gli uomini hanno intrecciato scambi commerciali, concordato alleanze e definito rapporti di potere ma che, in quegli stessi spazi, alle donne è sempre stato consentito svolgere solo mansioni quotidiane, non sostarvi liberamente: “Non si può ottenere nulla di buono, con la paura” – I falsari di André Gide.

Aver timore di sostare per strada potrebbe indurre a frequentare luoghi ad hoc rischiando, però, di lasciare indietro donne o compagn* di genere appartenenti a minoranze etniche o a classi sociali disagiate.

Aver timore di passeggiare per strada potrebbe indurre a svolgere nella solitudine della propria abitazione ciò che si potrebbe fare all’aperto: col comprare un tapis roulant per replicare nel proprio salotto ciò che si potrebbe fare nei viali sotto casa, si corre il rischio di ridursi a dei criceti che sgambettano nella ruota di una gabbia – credere a una libertà illusoria, insomma.

Uscire per strada, camminare, è sempre stato e continua a essere un atto sovversivo.

Giorni fa ho confessato all’amico Pino Cacucci che, nel 1998, decisi d’imbracciar la penna dopo aver letto un suo libro edito per la prima volta nel ‘96, Camminando: “Spostarsi è facile, spesso lo impone il lavoro, o si vola in vacanza dall’altra parte dell’emisfero per spedire cartoline, scattare diapositive, comprare ricordini per amici e parenti, e tornare indietro identici a come si è partiti. Viaggiare con occhi sgranati sulle meraviglie altrui è inutile, quando l’anima resta chiusa nella cassaforte di casa”.

L’autore ha scritto che le testimonianze raccolte in questo libro, sono un piccolo contributo a non dimenticare che tutti i privilegi di questa fettina di mondo sono ottenuti in cambio di insostenibili ingiustizie imposte agli abitanti di almeno tre quarti del pianeta, che l’oblio è sempre una colpa perché la mancanza di memoria permette all’orrore di perpetuarsi e che un libro è certo poca cosa, ma può aiutare a sentirsi meno soli. E in effetti mi sentii meno solo quando mi trovai davanti questo suo passaggio: “in questo livido fine millennio […] non ci sono più guerre mosse da ideali di liberazione, ma solo da accaparramenti petroliferi, razzismi e pulizie etniche”. Mi sentii meno solo perché lo pensavo, ma non sentivo dirlo da altri, soprattutto dalla televisione: “con la Guerra del Golfo hanno definitivamente sancito il controllo ferreo sull’informazione: se non accetti la loro uniforme mimetica e i giri guidati, non ti puoi lamentare se poi ti sparano in faccia…”.

In un’intervista,  Nadine Gordimer ha affermato: “È vero che siamo bombardati dalle informazioni. Le informazioni, però, non sono la conoscenza; sono una collezione superficiale di fatti. Dobbiamo, invece, rivolgerci alla letteratura, agli scrittori per avere un’interpretazione dei fatti, per capire ciò che precede e segue i fatti. Solo lo scrittore fa diventare storia una serie di eventi”. Sono d’accordo. Non a caso non faccio altro che rivolgermi alla letteratura, agli scrittori, per analizzare gli avvenimenti; a proposito di questo, il senso del viaggio di Pino Cacucci sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare sulla propria vita e le passioni che l’hanno segnata, per poterla rinarrare e sottrarla, così, alla cloaca della dimenticanza.

Non permettere alle donne di camminare liberamente per strada significa pure questo, impedire l’ascolto di storie, e questo potrebbe significare perdersi anche episodi che riguardano loro molto da vicino: “Oggi molti inorridiscono per il trattamento che le milizie in Bosnia riservano alle donne catturate, dimenticando che il vero volto delle guerre d’aggressione è questo, e nulla di meno. I contras, però, non hanno mai lasciato donne incinte: la consuetudine era sgozzarle dopo averle fatte “passare” all’intera compagnia. Ma allora, il mondo sembrò non accorgersene neppure, e nessun telegiornale nostrano ha mai dimostrato orrore al riguardo”.

La parola contras è un accorciamento di contrarrevolucionarios; i contras furono un gruppo armato nicaraguense, appunto, nato per combattere il governo sandinista che, nel ’79, s’insediò al potere dopo aver rovesciato la dittatura di Somoza che durava da dodici anni.

Restando in quegli anni e in quella zona geografica, c’è un’altra storia raccontata da Cacucci in Camminando, che vale la pena non dimenticare: “La vigilia di Natale del 1981, nel villaggio di El Mozote irruppero le truppe scelte del Battaglione Atlacatl, corpo d’élite dell’esercito salvadoregno addestrato da istruttori statunitensi e i cui ufficiali si sono vantati di ispirarsi alle SS hitleriane. L’operazione faceva parte della strategia “togliere l’acqua intorno ai pesci”. I mille abitanti di El Mozote appoggiavano i guerriglieri e avevano offerto loro riparo e provviste. Furono sterminati tutti. Riempirono la chiesa di uomini, e la fecero saltare con la dinamite. Uccisero con un colpo alla nuca quelli che erano rimasti fuori, poi raggrupparono le donne: scelsero le giovani più belle, portandole tra i cespugli per stuprarle e poi sgozzarle. Le altre, furono falciate subito a raffiche di mitragliatrice. Alcuni militari presero dei neonati lanciandoli in aria per poi infilzarli al volo con le baionette, altri li gettarono vivi nei forni del pane ancora accesi. Il raccapricciante resoconto di tanto orrore è stato fatto da un bambino di undici anni scampato miracolosamente all’eccidio”.

Anche qui si parla di donne e pure in questo caso si riserva loro un trattamento particolare, specie se giovani e belle.

Ma come son cresciute tutte queste generazioni di uomini che stuprano, sgozzano, uccidono, molestano, importunano le donne e che, ancora oggi, pare siano incapaci d’immaginare cosa accadrà alla protagonista di un video ripresa mentre cammina, sola, in pieno giorno, per le strade di New York? Non so rispondere, ma credo varrebbe la pena tenere a mente un avvertimento di Voltairine de Cleyre, riportato nel libro Un’anarchica americana, sul crescere i figli maschi e le figlie femmine: “Guardate ora come crescono i vostri figli. Insegnate loro, sin dalla prima infanzia, a frenare la naturale indole ad amare, a trattenersi sempre di più! Le vostre incredibili bugie infangherebbero persino l’innocente bacio di un bambino. Alle ragazzine insegnate che non devono comportarsi come dei maschiacci: non devono camminare scalze, non devono arrampicarsi sugli alberi, non devono imparare a nuotare, non devono fare niente di ciò che desiderano se la morale lo ha bollato come «inappropriato». I ragazzini vengono invece derisi se hanno atteggiamenti effeminati, ad esempio se vogliono imparare a cucire o magari giocare con le bambole. E poi, quando saranno cresciuti, direte loro: «Ehi, agli uomini non importa della casa o dei bambini tanto quanto importa alle donne!». E perché gliene dovrebbe importare, se vi siete deliberatamente riproposti di distruggere quella loro natura? «Le donne non sanno cavarsela come gli uomini», direte loro. Ma se addestrate un qualunque animale, o persino una pianta, come addestrate le ragazze, neanche quello se la saprebbe cavare. Qualcuno mi potrebbe spiegare perché esistono sport adatti agli uomini e sport adatti alle donne? Perché un bambino non dovrebbe avere il libero uso del proprio corpo?”

E nel libero uso del proprio corpo va anche compreso il passeggiare dove si vuole, quando lo si desidera e come meglio aggrada a ognuno di noi, uomo o donna che esso sia.

Sempre riguardo il camminare, desidererei ricordare un passo tratto dal romanzo Sognando Maldini, di un’altra donna, Fatou Diome: “Con i piedi modellati, segnati dalla terra africana, calpesto il suolo europeo. […] Dappertutto si cammina, però mai verso lo stesso orizzonte. In Africa seguivo il solco del destino fatto d’imprevisti e di speranza infinita. In Europa cammino nel lungo tunnel dell’affermazione che conduce a obiettivi ben definiti. Qui, nessun imprevisto, ogni passo porta a un esito scontato; la speranza si misura dal grado di combattività. Ambiente in technicolor, camminiamo in altro modo, verso un destino interiorizzato che fissiamo controvoglia senza mai rendercene conto, perché ci troviamo arruolati nel branco moderno, ghermiti dal rullo compressore sociale pronto a schiacciare chiunque si azzardi a fermarsi nella corsia di emergenza”.

Evidenziando la differenza tra il destino africano fatto d’imprevisti e di speranza infinita e quello occidentale che porta a un esito scontato – forse perché, “da noi”, l’imprevisto è il nemico numero uno di un sistema che non deve subire alcuna battuta d’arresto perché possa produrre capitale ventiquattrore su ventiquattro? –, la scrittrice senegalese naturalizzata francese mi ha fatto venire in mente un episodio riportato sul settimanale Internazionale dello scorso 6 settembre che, per la portata della reazione a un evento inatteso, ci dà la misura di cosa siamo diventati: i controlli di sicurezza all’aeroporto di Hokkaido, in Giappone, hanno fatto chiudere il terminal nazionale dopo che un duty free dell’aeroporto ha segnalato la scomparsa di un paio di forbici. Il controllo a tutti i passeggeri è durato due ore, durante le quali sono stati cancellati trentasei voli e più di duecento hanno subito dei ritardi. Le forbici non sono state trovate e la sicurezza ha infine permesso ai voli di riprendere. Il giorno successivo ci si è accorti che erano nel negozio dov’erano state smarrite. L’autorità aeroportuale di Hokkaido ha affermato che “lavorerà per garantire una migliore attenzione da parte dei negozi”.

Non ci accorgiamo più di un mucchio di cose che abbiamo sotto il naso, dalle forbici che sono dove devono essere al fatto che per strada non tutti hanno la libertà di muoversi alla stessa maniera: chissà mai se un giorno il sistema bloccherà tutto per cercare una soluzione al catcalling.

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Che cosa sogna un gatto di biblioteca https://www.carmillaonline.com/2022/01/26/che-cosa-sogna-un-gatto-di-biblioteca/ Wed, 26 Jan 2022 22:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70188 di Luca Baiada

Amilcare è il gatto di casa, anzi il gatto della città dei libri, del professor Sylvestre Bonnard, accademico di Francia, uomo di immensa dottrina. E la città dei libri è la biblioteca del professore, il nido appartato di una virtù di carta che consola senza scaldare; il luogo dove Amilcare consuma di tanto in tanto il suo banchetto di topi. Amilcare è vero o finto? Questa domanda dimostrerebbe, oltre a una certa insolenza, scarsa dimestichezza col lavoro culturale. Il gatto Amilcare abita le pagine di un romanzo di [...]]]> di Luca Baiada

Amilcare è il gatto di casa, anzi il gatto della città dei libri, del professor Sylvestre Bonnard, accademico di Francia, uomo di immensa dottrina. E la città dei libri è la biblioteca del professore, il nido appartato di una virtù di carta che consola senza scaldare; il luogo dove Amilcare consuma di tanto in tanto il suo banchetto di topi. Amilcare è vero o finto? Questa domanda dimostrerebbe, oltre a una certa insolenza, scarsa dimestichezza col lavoro culturale. Il gatto Amilcare abita le pagine di un romanzo di Anatole France, scrittore vivace come pochi, difensore dei deboli e frequentatore di un nobile socialismo, di quelli che non impediscono le comodità.

Nel nome di questo curioso animale, anzi coi suoi occhi, chiediamoci che vita sia mai, quella delle lettere, del sapere, della memoria, e anche di cosa sappia la vita, in sé; la vita quella che chiamiamo, per brevità, vera. Naturalmente, avendo cura di considerare che Le crime de Sylvestre Bonnard, membre de l’Institut è il primo romanzo di France, e perciò che il nostro giudizio non deve eccedere in severità.

Per me, devo dar conto di come sono arrivato a questo volumetto tenero ma edificante. È complice una citazione di Marc Bloch nell’Apologia della storia, e si stenta a credere che il grande studioso ricordasse così bene la vicenda singolare del professor Bonnard, mentre durante la Seconda guerra mondiale metteva mano al suo saggio formidabile, che avrebbe visto la luce dopo l’assassinio dell’autore. Quando Bloch scriveva stava tramando con la Resistenza, braccato dai nazisti, e bisogna tener presente che proprio quelle condizioni gli ispiravano la migliore autocritica: chi è al massimo dell’intensità della vita, specialmente col rischio di perderla da un momento all’altro, si chiede cosa significhi rammemorare, organizzare le idee, trasmetterne la testimonianza.

Combattere: una condizione ben diversa, dallo zelo chiacchierino degli storici da spettacolo, da televisione, da convegno; come quelli italiani che hanno preso denaro dalla Germania, qualche anno fa, per raccontare le stragi naziste su cui le autorità tedesche non hanno mai permesso la giustizia, né penale né civile, e per confezionare un elenco catalogale di crimini. Gli storici che vogliono cambiare la storia non sono gli stessi che coltivano la memoria da posizioni di potere. Il gatto Amilcare, invece, custode della città dei libri, avrebbe apprezzato l’interesse di Bloch per il suo padrone e per il suo autore, e avrebbe parteggiato sicuramente per uno storico combattente come Bloch, il fondatore degli «Annales», contro i nazisti. Non fosse altro perché, si sa: non esistono gatti-poliziotto.

Diamo la parola all’anziano accademico, a Bonnard, perfettamente consapevole della sua erudizione, del suo talento contemplativo, della sua non vita:

«Che bella notte! Regna con nobile languore sugli uomini e sulle bestie che ha sciolto dal giogo quotidiano, e io gusto la sua benigna influenza benché, per un’abitudine di più di sessant’anni, sia sensibile alle cose solamente attraverso i segni che le rappresentano. Per me al mondo non ci sono che le parole, tanto sono filologo! Ognuno fa a suo modo il sogno della sua vita. Io ho fatto questo sogno nella mia biblioteca, e quando sarà venuta per me l’ora di lasciare il mondo, Dio voglia prendermi sulla mia scala, davanti agli scaffali carichi di libri!».

Non c’è forse tanta squisita eleganza da perdersi, in questa mise en abyme con promessa di salvezza? A parlare è Bonnard, ma in realtà è il giovane Anatole France, e a riconoscersi in queste debolezze sono tutti i gatti da poltrona, abituati a far le fusa ai libri inanellando le parole, terreno più confortevole dello scontro, della vita.
Attenzione, però, perché Bonnard non è un penitente né un asceta. Anzi, è nato ghiottone e tale è rimasto, e per le donne ha sempre avuto interesse. Ce lo dicono le parole in cui trasfigura Clémentine, la ragazza di cui è stato innamorato da giovane, quando la immerge in un ricordo soffuso di dolcezza:

«Il suo incarnato era leggermente rosato e la sua bocca socchiusa sorrideva con quel sorriso che fa pensare all’infinito, senza dubbio perché non tradisce alcun pensiero preciso e non esprime che la gioia di vivere e la felicità di esser bella. Il suo volto brillava sotto un cappellino rosa come un gioiello in uno scrigno aperto; portava una sciarpa di cachemire su un vestito di mussola bianca arricciato in vita e si intravedeva la punta di uno stivaletto mordoré».

Che delizia! La mussola, lo stivaletto – nella letteratura non c’è solo Il diario di una cameriera di Octave Mirbeau, trasfigurato da Bunuel grazie al musino corrucciato di Jeanne Moreau – e il cappellino rosa. Soprattutto scintilla, nei ricordi di un anziano vagheggino dalla testa gonfia di libri, quell’inconfessabile bisogno di sciogliersi che i malati di cultura conoscono troppo bene, al punto che talvolta cercano pace negli occhi di una giovinetta, che sia la Clémentine immaginata da France, o la Manon Lescaut. O persino la Lulu di Frank Wedekind, lei innamorata dell’amore restituito attraverso le lettere: «Si fece spiegare da me l’intreccio di Tristano e Isotta; e con quanta intelligenza l’ascoltava!». Così, ecco l’ammirazione per una leggerezza che vede tutto e non pensa niente, boccone goloso per chi invece ragiona troppo e ha consumato la vista.

Già, però – si chiede, secondo me, il gatto Amilcare – che cosa leggono i grandi mentre fanno cose grandi? Hanno anche loro, piccoli maestri da cui possiamo ancora imparare qualcosa? A me piace pensare Marc Bloch mentre assaggia qualche pagina di Anatole France, perché i pensieri leggeri non sono affatto quelli che scendono meno in profondità, anzi. Gli storici che vogliono mutare il corso della storia esistono, e anche Jean-Pierre Vernant partecipò alla Resistenza; proprio Vernant, in seguito, confidò al cognitivista Jerome Bruner: «Vivere nella clandestinità dava una chiara idea della fragilità di tutte le descrizioni degli eventi, fino a modificare il proprio senso di identità». Certo, Bruner, che durante il conflitto lavorava per gli Alleati alla Psychological Warfare Division e non viveva sotto occupazione tedesca, rischiava meno; questo ci conferma che la psicologia cognitiva non cerca gli imprevisti. Ma anche se è difficile, adesso, in piena società dello spettacolo, rimettere realtà e invenzione al loro posto, si può star certi che non esistono, in Europa, storici in grado di percepire così a fondo il loro senso di identità, come allora; a meno che, si capisce, diano all’identità esclusivamente il significato di appartenenza a una corporazione accademica.

Ma rientriamo fra le pagine del romanzo. Clémentine e la figlia sono morte, ormai. Però c’è la piccola nipote, e l’anziano Bonnard se ne prende cura con un amore commovente, tutto nobiltà e niente corpo, anche se potremmo immaginarlo mentre la sogna, la guarda, magari la spia addormentata. Bonnard incantato da Clémentine avrebbe lo sguardo di Salvo Randone in La parmigiana, quando vuol deporre un bacio sulla pelle di biscuit di Catherine Spaak, ma non sembrerebbe così avido.

Proprio l’amore per la nipote della sua amata di un tempo, fa conquistare a Bonnard la liberazione dalla dorata prigionia intellettuale. Eccolo, il professore, finalmente snebbiato, che pensa a un senso ultimo delle cose, del mondo, un senso che oggi gli storici accoccolati nella televisione, pasciuti ciambellani dell’ora digestiva, non vedono l’ora di cominciare a cercare; lui, Bonnard, riconsidera la sua vita di ricerche sugli scritti antichi:

«Che cosa speravo mai di trovarvi, allora? La data di una fondazione pia, il nome di qualche monaco miniatore o copista, il prezzo di un pane, di un bue, di un campo, una disposizione amministrativa o giudiziaria, questo e altro ancora, qualcosa di misterioso, di vago e di sublime che scaldasse il mio entusiasmo. Ma ho cercato sessant’anni senza trovare questo qualcosa. Anche quelli che valevano più di me, i maestri, i grandi, i Fauriel, i Thierry, a cui si devono tante scoperte, sono morti al lavoro senza aver trovato neanche loro quel qualcosa che, non avendo corpo, non ha nome, e senza il quale, tuttavia, nessun’opera dello spirito sarebbe intrapresa su questa terra. Adesso che non cerco se non quello che posso ragionevolmente trovare, non trovo più niente del tutto, ed è probabile che non terminerò mai la storia degli abati di Saint-Germain-des-Prés».

Vuol terminare la storia di Saint-Germain-des-Prés, povero Bonnard. L’illuso non sa che i percorsi sono sghembi. Fa venire in mente quel narratore che si riproponeva di sfiorare il segreto dei campanili di Martinville e si trovò fra le mani la Recherche, sino a che le ultime pagine gli scottarono le dita mentre si guardava nello specchio. Questi mnemonauti si avventurano senza bussola, e non sanno mai dove vanno a finire. Oppure la bussola ce l’hanno benissimo, ma la nascondono per fare i finti tonti, per civetteria.

A meditare su quel qualcosa che non ha corpo è Bonnard, ma a scrivere è sempre Anatole France, che non si sta ancora battendo per Dreyfus, anche se presto la Belle Époque consumerà la sua lenta agonia e fra una generazione si prepareranno i bagni di sangue del Novecento. France, in fondo, farà qualcosa per mettere mano alla storia, come alle storie, e per cercare di contribuire al nuovo corso dell’umanità. Sapere i fatti o cambiarli? Cioè cambiare quelli futuri, o metter mano a quelli trascorsi, col gusto dell’antiquario che accarezza una statua? Chi si illudesse di far tornare i conti della storia avrebbe meno senno di un membro dell’Accademia innamorato di una ragazzina, ma uno storico che accetta i fatti così come sono, costui vale meno del suo gatto.

La giustizia non è compresa nei programmi dei professori di storia. Ma perché – si chiede il gatto Amilcare – l’accademia ignora il seguito dei fatti, quelli stessi che studia con zelo instancabile? Nel 2021 un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire i danni alle schiave sessuali delle forze armate nipponiche, e in Brasile si è deciso che si può condannare la Germania per l’affondamento di navigli civili da parte dei sommergibili tedeschi. Comfort women in Asia, marinai inermi silurati dai nazisti nelle acque brasiliane: cose che succedevano mentre Bloch, nei ritagli di tempo del maquis, ricordava un gatto di carta, una biblioteca sulle rive della Senna, un vecchio professore che si strugge d’amore. Gli scherzi della memoria sanno spesso di agrodolce e di gioco di specchi.

Chi studia e basta, consacra il suo tempo alla vita degli altri, porge un dono che non sarà ricambiato. Chissà, se con tanto sforzo ha il dovere di consegnare solo la verità – la verità, nient’altro che la verità, come chi può diventare imputato di falsa testimonianza – , o invece gli spetta il diritto di prendersi una libertà inventiva, che volentieri può travestire da scienza. Bell’inganno, se lo storico fosse, sotto sotto, un letterato crocifisso alla manipolazione delle fonti, e per questo più manigoldo, più dispettoso di un cameriere che intorbida il piatto prima di servire la pietanza.

La questione di fondo – decentrata, appartata come la biblioteca, sorniona come il gatto Amilcare – si coglie nel conflitto fra Bonnard e il giovane Gélis (il fidanzato della sua pupilla, quasi un genero), e riguarda proprio la storia: è scienza o arte? Bonnard: «La storia, che era un’arte e che comprendeva tutte le fantasie dell’immaginazione, è diventata ai nostri tempi una scienza in cui bisogna procedere con metodo rigoroso». Gélis obietta: «In realtà lo storico non dà la sua fiducia a questo o a quel testimone che per delle ragioni sentimentali. La storia non è una scienza, è un’arte e non vi si arriva se non con l’immaginazione». Fa riflettere, che Bloch abbia pensato a questo libro mentre era ricercato dalla Gestapo: la posizione di intellettuale combattente, di uomo che nella storia mette le mani, di sapiente a mano armata, dà alla sua riflessione tutto un altro pregio.

Già, cambiare la storia. Non si fa a colpi di carte bollate, ma le vittime di stragi e deportazioni – erano armi di oppressione di massa, erano le armi che contrastavano quella battaglia epocale in cui combattevano Bloch e Italo Calvino, Antoine de Saint-Exupéry e Franco Fortini – chiedono giustizia da oltre mezzo secolo, e da qualche tempo riescono almeno a intervenire all’inaugurazione dell’anno giudiziario, trovando un ascolto che gli storici non offrono.

Eppure non ha avuto frutto, per ora, la ricerca di verità sull’attivazione dell’Avvocatura dello Stato italiana, nei processi sui crimini di guerra, contro le vittime e in difesa della Germania. Ci sono soglie che il sapere non deve attraversare, neppure il silenzio di una biblioteca basta a nascondere segreti inconfessabili. Il potere preferisce angiporti oscuri, cunicoli, anfratti ombrosi come la cattiva coscienza della narrazione accomodata e della falsa giustizia. Sono i luoghi dove al gatto Amilcare piace appartarsi, ottima riserva di caccia. Naturalmente chi tramava contro i nazisti, con le armi ma anche scrivendo di storia e frequentando buona letteratura, non poteva prevedere che l’Italia postfascista avrebbe nascosto i crimini nazisti; non poteva immaginare che l’Armadio della vergogna sarebbe rimasto a Palazzo Cesi, a Roma, taciuto per mezzo secolo.

Ancora Bloch, nell’Apologia della storia, non ricorda solo Bonnard e la sua città dei libri. Se la prende con la Compagnia di Gesù, che non consente di consultare le sue carte, «in mancanza delle quali tanti problemi della storia moderna resteranno sempre, e senza speranza, insoluti»; e anche con la Banca di Francia che si comporta allo stesso modo, «tanto la mentalità dell’iniziato è insita in tutte le corporazioni».

E il misfatto di Bonnard? È scegliere la vita, donarsi e donarla agli altri. Il dotto vende la biblioteca per far la dote alla fanciulla che ama e permettere che sposi un altro. C’è da dubitare che gli storici italiani, specialmente quelli che hanno partecipato all’operazione riparazionista, abbiano la vocazione del dono, e ancor più che siano pronti al gesto di Bonnard, questa specie di san Nicola che dà all’amore un corpo non suo per sottrarre una ragazza a un misero destino.

Qui devo fermarmi, perché i ricordi di Bonnard comprendono una poltrona appartenuta a un bisnonno. Il professore, parlando col suo medico, si paragona a quella. Come ha ragione! Man mano che la poltrona invecchiava, che negli anni si deformava e si disfaceva, veniva sempre più lodata, al punto che quando venne fatta a pezzi per la legnaia si dissero su di lei grandi cose. Bloch, invece, scrive: «Abbiamo tutti notato che i piccoli piaceri delle anticaglie costituiscono l’origine di orientamenti di studi, divenuti poi, a poco a poco, sempre più seri». Mi piace pensare che la scuola degli «Annales» abbia un debito con Anatole France, e persino coi rivenduglioli, col bric-à-brac. È possibile che l’autore dell’Apologia della storia, mentre stendeva queste righe, abbia ricordato l’ombra della poltrona immaginaria di casa Bonnard, che potrebbe essere il riflesso della poltrona di un bisavolo di Anatole France, oppure del suo bastone da passeggio o chissà, del suo tirabaffi. E visto che io siedo sul divano di nonno Pietro, il mio bisnonno, il mio stesso coinvolgimento in questo tessuto di pensieri parla meglio di me. Non posso, non voglio risolvere questo enigma. Davvero, nessuno terminerà mai la storia degli abati di Saint-Germain-des-Prés.

Meglio lasciarla aperta, la storia. Oppure, meglio ricordare Resurrezione di Tolstoj, un romanzo che era fra le letture formative dei partigiani, intessuto di urgenza di giustizia, di orrore per il potere e l’ipocrisia, e anche di assurdità del vivere e insieme di certezza nella possibilità di un riscatto, nel segno della fede e del coraggio. Il principe Nehljudov, sconvolto ma riscattato dalla verità e dall’amore, anche quello per la povera ragazza che lui stesso ha precipitato nella prostituzione e nella rovina: «Sono pazzo io, che vedo ciò che gli altri non vedono, o sono pazzi quelli che fanno quel che io vedo?».

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