ammutinamento – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 18 Aug 2025 21:55:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Caporetto tra rimozione, falsificazione storiografica e rivoluzione. https://www.carmillaonline.com/2017/11/29/caporetto-rimozione-falsificazione-storiografica-rivoluzione/ Wed, 29 Nov 2017 22:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41766 di Sandro Moiso

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, che si è celebrato nei giorni scorsi, è coinciso qui in Italia con l’anniversario di un altro avvenimento alla prima strettamente collegato, anche se a prima vista indirettamente. E in tal senso sembrano infatti essere indirizzate tutte le ricostruzioni storiche, celebrate sui giornali, sui media e nell’editoria di ogni tendenza, dell’ammutinamento e diserzione di massa dei soldati italiani avvenuta sul fronte di Caporetto il 24 ottobre 1917.

A un secolo di distanza sono risultate abbondanti le ricostruzioni militari e apparentemente oggettive della vicenda, riducendola [...]]]> di Sandro Moiso

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, che si è celebrato nei giorni scorsi, è coinciso qui in Italia con l’anniversario di un altro avvenimento alla prima strettamente collegato, anche se a prima vista indirettamente. E in tal senso sembrano infatti essere indirizzate tutte le ricostruzioni storiche, celebrate sui giornali, sui media e nell’editoria di ogni tendenza, dell’ammutinamento e diserzione di massa dei soldati italiani avvenuta sul fronte di Caporetto il 24 ottobre 1917.

A un secolo di distanza sono risultate abbondanti le ricostruzioni militari e apparentemente oggettive della vicenda, riducendola quasi sempre ad una mera disfatta militare. Operando una scelta uguale e specularmente rovesciata rispetto a quella fatta per ricordare gli eventi russi dello stesso anno.
Nel caso della Rivoluzione tutti i commentatori hanno ormai data per scontata la tragedia pagata dal popolo russo a causa dell’azione bolscevica, mentre per Caporetto si è fatto finta di ristabilire democraticamente una verità rimossa, quella delle colpe delle gerarchie e delle insufficienti contromisure prese da queste nei confronti della controffensiva austriaca di quei giorni.Talvolta ricollegandola, nella peggior tradizione delle narrazioni tossiche, ad un armistizio di Brest Litovsk non ancora avvenuto all’epoca.

In entrambe, però, la vera menzogna è stata quella di rimuovere coscientemente l‘azione delle masse diseredate dalla scena della Storia. Soprattutto quando questa azione indica un colossale rifiuto delle condizioni stabilite dalle classi dominanti e dalle loro, apparentemente, immutabili leggi e regole di comportamento. E sostituendo, sul piano della ricerca e della ricostruzione, l’attenzione per il clima sociale e politico che si respira, spesso a livello sovranazionale, in un dato momento storico con ricerche specialistiche che, riducendo il campo di indagine, permettono agli storici, apparentemente così seri ed oggettivi, di selezionare le informazioni, i documenti e le testimonianze utilizzate al fine di falsificare completamente gli avvenimenti e le loro spiegazioni. Alla faccia della sempre presunta e mai raggiunta obiettività.

Affermando, come si è fatto in alcuni testi, che non si svolse alcuno sciopero dei soldati nei giorni di Caporetto si finge di ribaltare il discorso principalmente portato avanti da Cadorna, comandante delle forze armate italiane fino a quella data, e dal suo Stato Maggiore ristabilendo la verità storica e riscattare la memoria dei soldati caduti eroicamente per difendere la patria.

Ora, pur tralasciando il fatto che già all’epoca tale ribaltamento delle giustificazioni cadorniane servì per sostituire il passato comando con quello di un nuovo macellaio, Armando Diaz (il cui nome metaforicamente adornava la scuola di Genova che nel 2001 fu testimone di un altro macello operato dalle forze del disordine), che poco si distinse dal precedente in termini di umanità e di abilità tattica e che, anzi, si distinse per la mancata promessa fatta ai soldati contadini di ripagare la loro fedeltà alla Patria con la ridistribuzione delle terre demaniali ed ex-irredente, occorre considerare che nel corso del primo macello imperialista pochissimi furono i generali di qualsiasi schieramento a tenere in considerazione parametri tattici e strategici che non fossero quelli del massimo volume di fuoco ottenibile dal proprio retroterra economico e industriale e l’utilizzo delle fanterie e, in genere di tutte le truppe impegnate al fronte, come autentica carne da cannone. In una guerra imperialista che risolse il problema della disoccupazione maschile più che con l’aumento della produzione, che ricadde in gran parte sulle spalle di coloro che già erano impegnati nelle officine e a cui si affiancarono in maniera significativa le donne, ancor più con la macellazione diretta nelle trincee e nelle terre di nessuno di milioni di giovani impegnati nel conflitto.

Quel primo e immondo conflitto imperialista causò sui vari fronti tra i dieci e i quindici milioni di morti e dispersi e rispedì verso casa almeno venti milioni di feriti e mutilati.
Basterebbero questi semplici e drammatici numeri a far comprendere che non era forse necessario alcuno sciopero organizzato dei soldati a far sì che le truppe fossero stanche di combattere e che a casa le famiglie dei soldati non volessero altro che la fine della guerra e il loro ritorno a casa. Famiglie proletarie e ancor più spesso contadine che con i giovani figli e mariti avevano spesso perso non solo degli affetti, ma anche un contributo importante all’interno dell’economia, spesso di sopravvivenza, famigliare.

Donne e famiglie che già agli albori del conflitto si erano impegnate nella lotta contro la mobilitazione generale e la guerra e classi sociali che, soprattutto in Italia, avevano seguito una via ben diversa, e maggioritaria, rispetto a quella intrapresa dai nazionalisti e dagli interventisti di ogni colore.1 Una mobilitazione così vasta che aveva costretto il Partito Socialista Italiano, unico tra quelli aderenti alla Seconda Internazionale e grazie anche alle ambiguità e contraddizioni delle classi dirigenti italiane indecise tra Triplice Intesa e Triplice Alleanza di cui pure l’Italia faceva parte, ad accontentarsi di una parola d’ordine apparentemente poco militarista, ma sicuramente rappresentativa dei timori socialisti, come Né aderire, né sabotare. Parola d’ordine che sarà duramente pagata dai proletari, dai contadini e dalle donne italiane proprio quando, come a Caporetto, raggiungeranno il culmine della disperazione e dell’odio per le classi dirigenti.

Se è vero che nel solo 1916 più di un milione e mezzo di soldati russi avevano abbandonato le trincee occidentali e l’esercito zarista, iniziando quella rivoluzione fatta con i piedi ovvero con l’allontanamento dai luoghi degli scontri per fare ritorno a casa, è anche vero che proprio in quell’anno, sul fronte italiano e a poco più di due anni dall’inizio dell’intervento a fianco dell’Intesa, il testo di una canzone come Gorizia tu sei maledetta,2 poi ripresa anche in tedesco e in slavo, segnalava dal basso una stanchezza e una voglia di rivincita inedita nei confronti delle classi dominanti e dei vertici dell’esercito. Nel giro di pochi giorni, per la conquista della città, nel mese di agosto 1916 erano caduti almeno 21.000 soldati italiani e almeno 10.000 austriaci.

La canzone era figlia di quei giorni, prodotta dal momento come lo è tutta la musica autenticamente popolare o folk. Ma come tale non sembra ancora accettata come documento dell’immaginario collettivo prodotto dal basso. Tanto è vero che costituì a lungo motivo di scandalo e non solo negli anni più vicini al conflitto mondiale, ma anche più tardi come quando fu eseguita nel 1964 dal Nuovo Canzoniere Italiano in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto all’interno dello spettacolo “Bella ciao”:

suscitando l’ira dei benpensanti. Quando Michele L. Straniero e Fausto Amodei iniziarono a cantare “Gorizia” avvennero incidenti in sala; la destra cercò di impedire le rappresentazioni; Straniero, Leydi, Crivelli e Bosio furono denunciati per vilipendio delle forze armate.3

I versi della canzone sembrerebbero in sé già piuttosto espliciti:

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana,
schernitori di noi carne umana,
questa guerra ci insegna a punir.
Voi chiamate il campo d’onore
questa terra di là dei confini;
qui si muore gridando: assassini!
Maledetti sarete un dì.

Ma basterebbe dare un’occhiata più attenta a un altro tipo di documenti, le lettere inviate dai soldati a casa e censurate dagli organismi militari preposti, per comprendere ancora di più lo stato d’animo che serpeggiva nelle trincee dal 1916.
Ne propongo qui di seguito alcune scelte a caso tra le tante.

Porco Dio, fanno bene a dare il pane ammuffito così finirà presto la guerra! Ed io ho piacere, popolo cornuto e bastonato, vuoi continuare a fare la guerra? Ma ribellatevi, uccidete tutti gli ufficiali e che sia finita!

Oppure:

Io sono un ufficiale per forza, e non ho voluto la guerra e ho quasi fatto a cazzotti prima della guerra con gli studenti che facevano le manifestazioni interventiste. La guerra è stata voluta da due o tre gruppi di mascalzoni.4

Due tra le tante si diceva. Ma se ancora non bastassero le lettere proviamo a rivolgerci ad altre fonti, anche di testimoni non di parte come soldati o anarchici e socialisti contrari alla guerra.

Il fenomeno di Caporetto è un fenomeno schiettamente sociale.
E’ una rivoluzione.
E’ la rivolta di una classe, di una mentalità, di uno stato d’animo, contro un’altra classe. Un’altra meentalità, un altro stato d’animo.
E’ una forma di lotta di classe. I sintomi che l’hanno preceduto e accompagnato sono quelli di un perturbamento sociale: sono gli stessi che hanno preceduto e accompagnato tutti i perturbamenti sociali.

La fanteria, nell’annata 1917, era grandemente «demoralizzata». Non credeva più a nulla, non aveva più fiducia in nessuno. Voleva la pace, a qualunque costo.
Le Brigate che si rifiutavano di combattere, i soldati che prolungavano, motu proprio, le licenze, gli ufficiali che si lagnavano pubblicamente, tutto ciò era monito e minaccia. […]
L’offensiva di Maggio aveva fiaccato la resistenza dei fanti, quella di Agosto. Condotta brutalmente e a forza dai carabinieri, aveva messo a nudo le piaghe di cui soffriva il popolo delle trincee.
Gli atti di insubordinazione divenivano ogni giorno più gravi. La caccia ai carabinieri diventava sempre più feroce. L’odio dei soldati si manifestava in atti di natura prettamente sociale. […]
I casi di rivolta contro gli ufficiali erano rarissimi: i fanti apprezzavano e rispettavano i superiori diretti, quelli che dividevano con loro la paglia, il pane e la buca merdosa. E’ vero che, talvolta, li uccidevano a fucilate nella schiena: ma non per malvagità o per spirito d delinquenza. Per vendetta. La vendetta presuppone un torto. In ogni ufficiale ucciso dai propri soldati vi era un colpevole. […] Il fante non uccideva i carabinieri, non sparava contro le automobili dei generali, contro le colonne di camions, contro le baracche dei campi di aviazione, contro le finestre illuminate degli Alti Comandi, il fante non commetteva questi atti di indisciplina per «insofferenza della disciplina», o per istinti criminali, bensì per ragioni profondamente umane e sociali. […] In tutti coloro che soffiavano sul fuoco, predicavano la necessità del sacrificio, declamavano concioni patriottiche, sventolavano bandiere nelle comode vie delle comodissime città dell’interno, in tutti coloro che spingevano alla guerra senza farla e senza capirla, il fante vedeva un nemico.5

Un altro testimone di Caporetto fu l’americano Ernest Hemingway che proprio nel suo romanzo Addio alle armi, pubblicato nel1929, parzialmente basato su esperienze personali dello scrittore che negli ultimi mesi della grande guerra aveva prestato servizio come conducente di ambulanza, racconta una storia che si svolge in Italia prima, durante e dopo la battaglia di Caporetto.
Nel narrare le vicende l’autore ricorderà gli ufficiali fucilati dai soldati mentre cercavano di fermare la loro ritirata dal fronte e giungerà alla conclusione che i disertori non sono altro che soldati che hanno avuto il coraggio di firmare una pace separata con il nemico.

Poiché il clima sociale e politico non si era creato soltanto nelle trincee e soltanto in Italia occorre ricordare ancora alcuni altri fatti.
Nella primavera del 1917, tra aprile e giugno, migliaia di soldati francesi avevano abbandonato le trincee. La parola d’ordine era Facciamo come in Russia!, ma nessun partito la raccolse e la fece propria e così anche l’ammutinamento francese finì con fucilazioni esemplari e condanne dei militari ribelli.6

A Torino, nell’agosto dello stesso anno gli operai e le operaie dello stesso anno erano scesi in sciopero e avevano preso le armi, occupato i quartieri proletari e le fabbriche, costruito barricate e coinvolto e disarmato alcuni reparti inviati per sconfigger e la rivolta. Mentre gli anarchici si diedero da fare per organizzare le sparse, e alla fine sconfitte forze proletarie, i pochi militanti del Partito Socialista presenti in città (una trentina), dopo aver invitato le maestranze a tornare al lavoro, decisero di appoggiare la protesta ma senza dare, se non generiche, indicazioni politiche.7 Non fecero miglior figura i futuri fondatori del PCd’I, nemmeno i più intransigenti tra di loro, che nello stesso periodo non pubblicarono un rigo sull’argomento Torino o Caporetto.8

La rivoluzione però sembrava bussare alle porte e non solo in Russia dove il 7 novembre si sarebbe risolta con l’avvio del governo dei Soviet che avrebbero sostituito il governo provvisorio in carica ormai dai primi di marzo quando, grazie soprattutto all’Ordine numero 1 dettato direttamente dai rappresentanti dei soldati al Soviet di Pietrogrado, il vecchio regime zarista si era ritrovato con un esercito su cui non poteva più fare affidamento come in passato e lo zar Nicola aveva abdicato a favore del fratello che a sua volta non accettò l’incarico di reggere un paese in rivolta. Lo strumento classico della controrivoluzione nazionale e internazionale si era infatti trasformato nello strumento della rivoluzione.

Così, nonostante l’insipienza delle forze politiche italiane, soprattutto di quelle socialiste nelle loro diverse declinazioni, ma grazie alle ripetute iniziative dal basso, nelle trincee, nelle città e nelle campagne, il Governo decise di affidare al Direttore generale di pubblica sicurezza il compito di riferire con relazioni periodiche riassuntive le Condizioni dello spirito pubblico nel Regno.
La prima fu redatta in data in data 8 febbraio 1918 e portava come titolo il seguente: MOVIMENTO SOVVERSIVO ED ANTIBELLICO NEL REGNO DURANTE I MESI DI DICEMBRE 1917 E GENNAIO 1918.
Alla prima seguirono altre venti, attente relazioni, l’ultima in data 19 novembre 1918 a guerra sostanzialmente finita.9

L’iniziativa si deve collocare all’interno di quella ripresa di efficienza del potere centrale nel periodo successivo a Caporetto, che ebbe il suo fulcro nella riorganizzazione del ministero degli Interni e dei suoi organi periferici, e nel più stretto controllo del centro sulla periferia; ma essa riflette anche l’accresciuta preoccupazione delle sfere politiche nei confronti dei pericoli di moti insurrezionali, che dopo Caporetto si temeva potessero coinvolgere il paese.10

Il timore era forte e perfettamente giustificato, poiché la guerra imperialista aveva suscitato un’ira implacabile nei confronti delle classi dirigenti, dei governi, delle monarchie, della borghesia e del capitalismo tout court. Non solo il dopoguerra europeo, soprattutto nei paesi “sconfitti” sarebbe stato segnato dall’azione armata di operai e soldati che erano sopravvissuti alle trincee e che intendevano far pagare ai veri responsabili le proprie inumane sofferenze,11 la follia che ne era derivata per un numero di combattenti che non sarebbero mai più tornati alla normalità,12 e le leggi draconiane applicate per la diserzione e l’autolesionismo tra i soldati che avevano cercato di sfuggire all’infernale tritacarne del conflitto o che anche soltanto avevano criticato la guerra o gli alti comandi.13

Su quest’ultimo punto basti citare un singolo episodio. Durante una cena tra quattro giovani aspiranti ufficiali degli alpini, subito dopo Caporetto, uno dei quattro forse più loquace o più spregiudicato, afferma che la guerra è ingiusta, aggiungendo:

«Ho piacere che abbiano sfondato le linee (gli austriaci – NdR). Magari arrivassero a Milano, così sarebbe finita per tutti». I colleghi ammutoliscono. Si alzano e appena fuori vanno a denunciare il collega ai carabinieri. Cinque giorni dopo il Tribunale militare di guerra del XX corpo d’armata condanna per tradimento l’aspirante ufficiale alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena. La sentenza viene eseguita nella stessa giornata.14

L’Italia avrà il triste primato delle condanne a morte comminate dai tribunali militari in tempo di guerra:

Nel corso della Grande Guerra, davanti ai tribunali militari comparvero 323.527 imputati di cui 262.481 in divisa, 61.927 civili e 1.119 prigionieri di guerra. Le condanne interessarono il 60 per cento dei processi. 4.028 dibattimenti si conclusero con la pena capitale (2.967 con gli imputati contumaci). Le sentenze di morte eseguite furono 750.15

Cui forse dovrebbero essere aggiunti tutti quei soldati che furono abbattuti sul posto dagli ufficiali o dai carabinieri per impedirne l’ammutinamento o anche soltanto la fuga dalla trincea.

Soltanto tra il 1917 e il 1920 furono più di venti i rivolgimenti armati o i rovesciamenti violenti del potere costituito nell’area dell’Europa orientale e della Mitteleuropa,16 ma ciò che occorre qui sottolineare è che il grande macello ebbe fine proprio grazie alle rivolte dei soldati, dei marinai e degli operai delle industrie belliche tedesche che con la loro mobilitazione nel novembre del 1918 costrinsero il Kaiser ad abdicare, imposero la fine della guerra e la nascita della Repubblica.

Sarebbe qui troppo lungo narrare la storia di quei giorni, le contraddizioni, lo scontro tra Socialdemocrazia tedesca e forze rivoluzionarie, ma certo è che l’esempio russo di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile e rivoluzionaria aveva dato i suoi frutti in gran parte del continente coinvolto nella guerra.

Non solo. Anche la guerra civile russa, animata dalle potenze imperialiste contro la novella repubblica dei soviet e a fianco dei generali “bianchi”, fu in gran parte debellata grazie proprio all’ammutinamento delle truppe straniere inviate sul territorio sovietico per sconfiggere la rivoluzione. I soldati inglesi e di altre nazionalità si ammutinarono a Murmansk e ad Arkhangelsk, mentre i marinai francesi inviati con la flotta nel Mar Nero si ammutinarono ad Odessa. Così, mentre i venti di rivolta spiravano anche tra le truppe americane dislocate nell’oriente siberiano, alla fine del 1919 tutte le truppe straniere dislocate sul suolo sovietico erano state ritirate dal fronte, condannando di fatto alla definitiva disfatta le raffazzonate armate bianche, in cui la diserzione già dilagava, di Kolchak, Denikin e Wrangel.

Ancora una volta per una sintetica ricostruzione dello sciopero, indetto a partire dall’autunno del ’19, dai portuali americani di Seattle per impedire l’invio di armi al fronte controrivoluzionario e del vero e proprio rifiuto dei soldati di continuare a combattere per la causa dei Bianchi, ci assiste un romanzo, scritto non a caso negli anni dell’intervento americano in Vietnam.

Gli scaricatori di Seattle ficcarono le mani nelle tasche dei loro giacconi bagnati e abbandonarono il lavoro. I marinai francesi di Odessa, atterriti dalla loro stessa audacia, si ammutinarono piuttosto che continuare a combattere i Rossi. Le forze inglesi e gli americani che prestavano sotto gli ufficiali britannici a Arcangelo e Murmansk, avevano già avuto la prova delle renitenza dei soldati quando avevano ricevuto l’ordine di avanzare contro le forze dell’Armata Rossa.
Nell’aria c’era un terribile senso di resistenza.
I consulenti in materia di investimenti rabbrividirono e cominciarono a consigliare ai propri clienti di scaricare o vendere subito certe azioni che neanche tre mesi prima erano in rialzo […] Generali e statisti erano allibiti, perché il loro vocabolario tradizionale, i loro appelli al patriottismo, agli ideali, all’abnegazione e alla gloria si dimostravano inefficaci contro l’infezione della renitenza. Le truppe fresche che giungevano in linea erano non meno riluttanti di quelle che al fronte c’erano da mesi. Anzi lo erano di più.[…] Indifferenza, inerzia e riluttanza piovevano su tutti i fronti. Gli eserciti si muovevano qua e là con passo pesante e affaticato aspettando il caos che li liberasse.17

Molti di quei soldati, giovani, arrabbiati, delusi e disoccupati al loro ritorno in patria, furono anche quelli che diedero vita alle prime formazioni armate di autodifesa e offensiva proletaria. Come accadde in Italia dove furono proprio le formazioni volontarie di ex-combattenti, quelle che poi diventarono gli Arditi del popolo, a fronteggiare più volte vittoriosamente i fascisti.18 Con buona pace di chi, soprattutto nel PCd’I, metteva avanti l’idea di mantenere una netta separazione tra le squadre armate del Partito e, ancora una volta, le iniziative dal basso.

La guerra imperialista trasformata in guerra civile rivoluzionaria, questo è ciò che separò allora e separerà ancora e sempre l’antimilitarismo anti-imperialista dal pacifismo generico, sempre pronto ad ammettere la necessità di una guerra nazionale difensiva. Il rovesciamento dell’esercito da strumento di repressione ad arma della Rivoluzione, è ciò che caratterizzerà sempre l’antimilitarismo rivoluzionario da quello falsamente pacifista e democratico. La ricerca della verità nei fatti e nelle testimonianze dei ceti meno abbienti e nelle loro espressioni culturali e politiche, nell’immaginario che le ha accompagnate o che ne è conseguito è ciò che differenzia una storiografia realmente antagonista da quella perbenista e giustificazionista degli studiosi che, anche indirettamente, difendono l’attuale ordine di cose presente attraverso l’obiettività, sempre presunta e mai raggiunta, dell’utilizzo delle fonti ufficiali e delle testimonianze raccolta dalle commissioni di inchiesta governative. Dando così vita ad una ricostruzione dei fatti volta soltanto a giustificare l’ingiustificabile: la guerra imperialista, i partiti borghesi ed opportunisti, gli interessi economici e “nazionali”, la vigliaccheria dei rivoluzionari da operetta.

Dove, infine, tale scelta dei soldati e dei giovani richiamati diventò importante anche senza giungere ad una vera e propria rivoluzione, come nei casi degli Stati Uniti impegnati in Vietnam e del Portogallo degli anni settanta, la scelta di disertare, ammutinarsi o uccidere i propri ufficiali sul campo si dimostrò essere sempre, oltre che inevitabile, quella migliore per il destino e la coscienza della comunità umana nel suo complesso.
Così, anche là dove l’iniziativa resta individuale o casualmente collettiva come nel caso della diserzione, occorre aver ben chiaro che di fronte all’inciviltà dei macelli imperialisti la fuga, il rifiuto di combattere e la spontanea ritirata, come avvenne a Caporetto, rappresentano ancora una scelta migliore e più civile della cieca obbedienza agli ordini superiori.


  1. Si confronti : https://www.carmillaonline.com/2014/11/20/guerra-guerra/  

  2. cfr. https://www.carmillaonline.com/2016/08/06/gorizia-lattuale/  

  3. Cfr: https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=47&lang=it  

  4. Tratte da Quinto Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Donzelli 2014, pag.251  

  5. Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Vallecchi 1995 (secondo il testo della prima edizione 1921), pp.119-121  

  6. Pietro Caporilli, Francia 1917. Gli ammutinamenti nelle trincee, Genova 1989 (prima edizione italiana 1934)  

  7. cfr. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi 1958, pp.416-430  

  8. cfr: Amadeo Bordiga, Scritti 191-1926. La guerra, la rivoluzione russa e la nuova Internazionale 1914-1918, Graphos 1998  

  9. Giovanni Procacci, “Condizioni dello spirito pubblico nel Regno”: i rapporti del Direttore generale di Pubblica sicurezza nel 1918, in Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, DI FRONTE ALLA GRANDE GUERRA. Militari e civili tra coercizione e rivolta, il lavoro editoriale, Ancona 1997, pp.177-247  

  10. Procacci, op.cit. pag.177  

  11. Si consulti per il livello di sofferenza raggiunto nelle trincee europee del conflitto 1914-18: John Keegan, Il volto della battaglia, Mondadori 1978.  

  12. cfr: Antonio Gibelli, L’OFFICINA DELLA GUERRA. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringieri 1991 e, ancora, Antonio Gibelli, La guerra laboratorio: eserciti e igiene sociale verso la guerra totale in LA GUERRA VISSUTA. Fronte, fronte interno e società, MOVIMENTO OPERAIO E SOCIALISTA (nuova serie), anno 3 n° 5, 1982, pp.335-349  

  13. Cfr: Enzo Forcella e Alberto Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza 1968  

  14. Forcella – Monticone, op.cit. pag. VII  

  15. Dino Martirano, L’onore (perduto ma restituito) dei soldati italiani fucilati nella Grande Guerra, Corriere della sera, 21 maggio 2015  

  16. Cfr: Robert Gerwarth, La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923, Laterza 2017  

  17. Ric Hardman, Fifteen Flags, 1968 – traduzione italiana Quindici bandiere, Arnoldo Mondadori 1971, pp.456-458  

  18. Cfr: Valerio Gentili, Roma combattente. Dal Biennio Rosso agli arditi del popolo, la storia mai raccontata degli uomini e delle organizzazioni che inventarono la lotta armata in Italia, Castelvecchi 2010  

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L’Officina del macello: la “decimazione” nella Grande Guerra italiana raccontata da un graphic novel https://www.carmillaonline.com/2016/01/12/lofficina-del-macello-la-decimazione-nella-grande-guerra-italiana-raccontata-da-un-graphic-novel/ Tue, 12 Jan 2016 22:30:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27732 di Armando Lancellotti

officina del macellobluGianluca Costantini, Elettra Stamboulis, Officina del macello. 1917 la decimazione della Brigata Catanzaro, Eris, Torino, 2014, 127 pagine, € 15,00

Il graphic novel Officina del macello, di Gianluca Costantini, artista visivo e disegnatore e di Elettra Stamboulis, autrice del testo e i quattro brevi saggi che lo accompagnano riportano alla luce un episodio tanto tragico quanto poco conosciuto della storia italiana di un secolo fa: la decimazione, avvenuta nell’estate del 1917 a Santa Maria la Longa, nelle immediate retrovie del Carso, della Brigata Catanzaro, rea di rivolta [...]]]> di Armando Lancellotti

officina del macellobluGianluca Costantini, Elettra Stamboulis, Officina del macello. 1917 la decimazione della Brigata Catanzaro, Eris, Torino, 2014, 127 pagine, € 15,00

Il graphic novel Officina del macello, di Gianluca Costantini, artista visivo e disegnatore e di Elettra Stamboulis, autrice del testo e i quattro brevi saggi che lo accompagnano riportano alla luce un episodio tanto tragico quanto poco conosciuto della storia italiana di un secolo fa: la decimazione, avvenuta nell’estate del 1917 a Santa Maria la Longa, nelle immediate retrovie del Carso, della Brigata Catanzaro, rea di rivolta armata e ammutinamento.

Si tratta di vicende storiche al contempo note e sconosciute, come avviene per molte delle pagine più cupe e negative della storia italiana: si pensi alla brutale repressione militare “piemontese” del brigantaggio meridionale, alle campagne coloniali in Libia o nel Corno d’Africa, al razzismo d’oltremare e metropolitano, alle stragi efferate conseguenti alle operazioni di polizia coloniale, ai campi di concentramento del duce, ai crimini di guerra in Jugoslavia, ecc.
“Note e sconosciute”, si diceva e – si badi bene – l’incongruenza ossimorica è solo apparente, trattandosi di tracce mnestiche che giacciono semi-inconsce in un angolo buio della coscienza collettiva, che solo in rare occasioni vengono strappate alla latenza dell’oblio per riapparire all’orizzonte della consapevolezza.
E così è noto agli studiosi e si legge nei saggi specialistici come in quelli manualistici che il Regio Esercito italiano – unico tra gli eserciti belligeranti – ricorse più volte alla barbara pratica punitiva della decimazione dei suoi stessi soldati, ma poi questa primitiva concezione della disciplina militare, che meriterebbe studi ed analisi approfondite, passa in subordine a vantaggio di altri aspetti della Grande Guerra che maggiormente richiamano l’attenzione di studiosi ed opinione pubblica negli anni del centenario del primo conflitto mondiale ed altrettanto dicasi di questioni quali la diserzione, la renitenza alla leva o il destino dei prigionieri di guerra italiani, ecc.

officinamacello2La Brigata Catanzaro, ricordano Giulia Sattolo e Matteo Polo nelle pagine che aprono il volume, era formata dal 141^ e dal 142^ reggimento di fanteria, costituiti rispettivamente a Catanzaro e a Vibo Valentia nel gennaio e nel marzo del 1915. I fanti della Brigata erano prevalentemente calabresi e di seguito anche siciliani, pugliesi, lucani e molisani, insomma meridionali e contadini – estrazione sociale questa che accomunava le fanterie di tutti gli eserciti belligeranti – strappati dai campi e dalle loro povere case, arruolati e spediti al fronte dalla ferale decisione di un governo e di un sovrano interventisti in un paese in maggioranza neutralista e per combattere sul fronte del Carso, in una regione non meno lontana e sconosciuta dei paesi da cui provenivano i nemici a cui sparare e per ragioni non meno incomprensibili di quelle che portarono Cadorna a concepire ed ordinare le interminabili (ben dodici), inutili e sanguinosissime battaglie sull’Isonzo.
Insomma buona “carne da cannone”, mandata verso un macello quasi certo, evitabile solo con una consistente dose di fortuna e conseguenza di una guerra immaginata e propagandata come veloce ed immediata e trasformatasi invece in una gigantesca immobile fornace che inghiottiva vittime a milioni su tutti i fronti.

«La Brigata Catanzaro all’atto della mobilitazione del 24 maggio 1915 […] fu inviata in Friuli dove fu inquadrata nella Terza Armata, la famosa “Armata del Carso”, agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta. Infatti la Brigata fu impiegata per oltre due anni sul fronte del Carso, salvo due periodi, prima a Oslavia, nell’inverno del 1915, poi sull’Altopiano di Asiago, durante la Strafexpedition» (p. 12).
I fanti della Brigata Catanzaro combatterono quasi sempre in prima linea, rendendosi protagonisti di atti di grande coraggio e valore che portarono al conferimento della Medaglia d’oro e della Medaglia d’argento al valor militare rispettivamente al 141^ e al 142^ reggimento, ma quei medesimi soldati subirono ben due brutali decimazioni e furono i protagonisti del più importante episodio di rivolta armata nell’esercito italiano durante il primo conflitto mondiale.

La prima decimazione avvenne come conseguenza di uno “sbandamento” della 4^ compagnia del 141^ reggimento, durante la battaglia sul monte Mosciagh nel maggio del 1916 sul fronte degli Altipiani di Asiago e Folgaria, dove la Brigata era stata trasferita per rafforzare la difesa contro la Strafexpedition austriaca. Lo sbandamento avvenne a seguito di «una azione di guerra senza esiti positivi causata anche dalla confusione generata da un improvviso temporale che fece disperdere i soldati nel bosco nei pressi del monte Mosciagh» (p. 9). Ma il codice penale militare prevedeva la punizione esemplare ed inflessibile – come preteso da Cadorna – dello sbandamento delle truppe in battaglia e pertanto «il colonnello Attilio Thermes […] ordinò l’esecuzione sommaria senza processo per un 1 sottotenente, 3 sergenti e 8 militari di truppa da estrarre a sorte nella ragione di 1 a 10» (p. 13), esecuzione che avvenne il 29 maggio 1916.

officina del macello 4La seconda decimazione fu invece conseguenza della rivolta armata verificatasi il 15 luglio del 1917 a Santa Maria la Longa, dove la Brigata Catanzaro era stata trasferita il 25 giugno per un periodo di riposo. Sono soldati sfiniti da due anni di combattimenti e di vita indecente nelle trincee, stravolti dalla fatica e dall’incubo della morte sempre incipiente; sono uomini raggirati dalle retoriche parole dei superiori ormai rivelatesi vuote di senso e dalle promesse mai mantenute di politici e politicanti; sono contadini esasperati che decidono di sostituire alla rassegnazione l’insurrezione quando – ancora una volta al contrario di quanto a loro prospettato – arriva l’ordine di ritornare a combattere nelle trincee di prima linea.

L’episodio di Santa Maria la Longa può essere interpretato come paradigmatico epifenomeno di un malessere strisciante e crescente che non conosce frontiere o confini, che corre veloce di trincea in trincea, attraversando la “terra di nessuno” e scavalcando il filo spinato, che passa da un esercito all’altro in quel cruciale, epocale 1917. «In Europa c’erano focolai politici di ispirazione socialista. Che anche i fanti» della Brigata Catanzaro «potessero essere a conoscenza di quanto stesse accadendo non lo sappiamo. Sappiamo solo che la maggior parte di loro era analfabeta, che la politica sicuramente era l’ultimo dei loro pensieri, ma non per questo che fossero degli sciocchi, anzi» (p. 9).
Una situazione comune a molti fanti dei diversi eserciti stipati dentro alle trincee, che sempre più frequentemente andavano ribellandosi, ammutinandosi, rifiutando di eseguire gli ordini o, come nel caso della Brigata Catanzaro, rivolgendo le armi contro quegli stessi ordini. Questi atti, anche quando non dettati da precise e consapevoli scelte politiche – situazione in assoluto più frequente nelle trincee della Grande Guerra, se si ritiene che la spontanea ribellione di masse di soldati disperati ed esasperati per le promesse tradite da alti comandi e governi non possa ricevere patente di politicità – venivano brutalmente repressi dai codici penali militari di tutti i paesi belligeranti, nessuno escluso, anche da quelli dei nemici che si fronteggiavano sul fronte del Carso: italiani ed austriaci.

Come apprendiamo dagli studi sull’argomento – tra i più recenti segnaliamo Nicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014 ed in particolare i saggi di Christa Hämmerle e Federico Mazzini (capp. V, VI, pp. 141-183) [recensione su Carmilla] – il rigore inflessibile, la severità estrema e la violenza delle punizioni erano elementi comuni ai due schieramenti, ma fu proprio all’interno del Regio Esercito italiano che la ferocia punitiva fu esercitata nelle forme peggiori. In entrambi i casi la giustizia militare fu applicata in modo classista e si accanì principalmente sui soldati di estrazione sociale inferiore, contadini, operai e strati più bassi del ceto medio, ma se nel caso austriaco, scrive la Hämmerle, «tenuto conto delle possibilità offerte dal codice di procedura penale militare in tempo di guerra, i tribunali agirono con mano relativamente “leggera”, in molti casi anche differendo o sospendendo la pena» (Nicola Labanca, Oswald Überegger, op. cit, p.161), altrettanto non può dirsi della giustizia militare italiana. Le cifre riportate da Mazzini parlano da sole: 4 mila condanne a morte, 15 mila all’ergastolo, 40 mila le pene superiori a sette anni. «Il numero di fucilati dopo regolare processo durante l’intero conflitto ammonta a circa 750, in proporzione più del doppio di quelli francesi […]. Ma ancora di più colpisce il fenomeno delle decimazioni […] almeno 290 furono le vittime documentate di questa giustizia sommaria italiana, applicata con maggiore frequenza, e con piglio quasi vendicativo, negli anni 1916 (dopo la Strafexpedition) e 1917 (dopo Caporetto)» (Nicola Labanca, Oswald Überegger, op. cit, p.175).

Ricostruiamo sommariamente i fatti avvenuti tra la notte del 15 e il mattino del 16 luglio 1917 con le parole di un testimone degli stessi, Giuseppe Mimmi (1885-1966), sottotenente della 2^ compagnia del 142^ reggimento di fanteria della Brigata Catanzaro. [la testimonianza è tratta da La Grande Guerra. 1914-1918, gruppo editoriale L’Espresso]

«Come ho già detto, ci avevano promesso un lungo riposo, dopo gli ultimi eventi bellici, del quale avevamo assolutamente necessità, se non che improvvisamente, il 3 luglio venne l’ordine di ritornare in linea, durante la notte, per riparare ancora una volta, alle deficienze altrui. Il fante non apprese la comunicazione con il consueto rassegnato stoicismo e passò all’offensiva».

Risulta chiaro dalle parole del sottotenente quali siano le cause immediate della rivolta: la stanchezza, l’esaurimento delle forze e la delusione per l’ennesima promessa tradita. Si evince poi, dalle parole che seguono, che l’insurrezione avrebbe dovuto avere soprattutto un significato dimostrativo.

«La sera, eravamo ancora alla mensa, quando giunse trafelato un porta ordini del comando di reggimento, ad avvertire, che la truppa si era ammutinata nei baraccamenti del 141°. Accorremmo subito, mentre una nutrita sparatoria si udiva dalla parte dove era scoppiata la rivolta. Nella baracca della mia compagnia, trovai ancora un discreto numero di uomini, che al buio, radunai dietro un greppo, per evitare i colpi, che ininterrotti partivano dall’altro lato della strada, ma nella confusione del momento, non mi fu possibile procedere ad un appello, neppure sommario dei presenti. Molti ne mancavano e si erano uniti ai rivoltosi. Intanto la sparatoria aumentava di intensità ed alla fucileria, si erano aggiunti gli scoppi delle bombe a mano e degli spezzoni di gelatina, ma doveva trattarsi di una dimostrazione senza scopi più cruenti, perché non si udiva il sibilo radente delle pallottole, segno evidente, che sparavano in aria. […]
Nel frattempo la notizia era giunta ai comandi di divisione e di corpo d’armata e numerosi ufficiali si erano precipitati a S. Maria la Longa, per rendersi conto della situazione».

Da Udine il Comando d’Armata fece arrivare una compagnia di carabinieri, 4 mitragliatrici, 2 autocannoni ed iniziò una battaglia che causò una decina di morti e una trentina di feriti. Riportato l’ordine, prese il via la repressione punitiva.

officina del macello 99«Per tutta la notte la sparatoria continuò violenta, per diminuire verso l’alba, fino a cessare del tutto. Alla distribuzione del caffè, ognuno era tornato al suo posto, come se nulla fosse accaduto e nessuno dei militari della mia compagnia fu trovato negli accantonamenti del 141°.
L’increscioso episodio di indisciplina era così venuto a cessare, ma le ripercussioni troppo gravi, per la forma e per il luogo dove era avvenuto, perché non dovesse avere conseguenze severamente tragiche ed esemplari. Il Comando Supremo dispose infatti l’immediata decimazione. […] Quello che avvenne di poi, non posso descriverlo con esattezza nei macabri particolari, perché fortunatamente non fui obbligato ad assistervi, ma so che i designati vennero ammassati nel recinto del cimitero, con la faccia rivolta al muro e dietro di essi, ad una ventina di passi, i plotoni di esecuzione. Alle spalle di questi, sezioni di mitragliatrici dei carabinieri, pronti a far fuoco se i giustizieri non avessero seguito gli ordini perentori. Alle prime scariche, non tutti caddero e gli scampati cercarono di fuggire, tentando di scavalcare il muro; ne seguirono le scene più selvagge, poiché entrarono in azione le armi automatiche, che con le loro raffiche raggiunsero i fuggiaschi. Alla fine dell’autentico macello, un ufficiale dei carabinieri, diede con la rivoltella il colpo di grazia agli agonizzanti».

Ventotto furono le vittime della decimazione e conseguente fucilazione. Significative, infine, le riflessioni complessive dello stesso Mimmi sull’accaduto.

«Penso invece, che sarebbe stato necessario indagare sulle cause che hanno determinato le rivolte, avvenute tutte nelle unità dislocate nel basso Isonzo e sul Carso, le quali non hanno mai dato segno di pusillanimità e si sono battute sempre eroicamente. Se gli alti comandi non si fossero limitati a vedere le cose dal trincerone del caffè Dorta, ma avessero ascoltato le giuste lamentele dei combattenti, sarebbe stato facile impedire tanti deplorevoli eccessi».

Il saggio di Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato, Fucilazione e decimazione nel diritto italiano del 1915-1918, che nella parte conclusiva del volume (pp. 103-114) segue la “narrazione grafica” degli avvenimenti appena ricostruiti, chiarisce quali fossero (o non fossero) i presupposti giuridici delle feroci procedure punitive adottate dall’esercito italiano durante la Grande Guerra.
In un paese che col Codice Zanardelli del 1889 l’aveva cancellata dal codice penale ordinario, la pena di morte rimaneva nel codice penale militare, come avveniva in tutti gli altri paesi di inizio Novecento. Le tipologie e le procedure della pena capitale all’interno del Regio Esercito possono essere così articolate: «fucilazione per sentenze emanate da tribunali militari, in base a processi regolari secondo le norme del tempo; fucilazioni costituenti esecuzioni sommarie da parte direttamente di ufficiali o per ordine degli stessi nella flagranza di particolari reati; fucilazioni eseguite con il metodo della “decimazione”». (p. 104)

La fucilazione a seguito di un regolare processo avveniva poi con un colpo al petto nel caso di reati giudicati gravi, ma non infamanti o con un colpo alla schiena in caso di reati non solo gravi, ma anche disonorevoli, come il tradimento o lo spionaggio.
Decisamente più ardua è la legittimazione della fondatezza giuridica delle fucilazioni sommarie, per le quali l’inappellabile giudizio del superiore gerarchico, dell’ufficiale che reprimeva in loco e sul momento reati quali lo sbandamento, l’ammutinamento, la diserzione o simili valeva come verbo assoluto e «la morte discendeva dalla decisione insindacabile di un solo uomo, quasi come se un singolo fosse eretto a Dio, da solo assumendo la responsabilità di stabilire che un altro individuo meritava la morte». (p. 106)

officinamacello1Ma ciò che sfugge ad ogni possibilità di giustificazione o comprensione è la pratica della decimazione. «In forza dell’art. 251 del codice penale per l’esercito, al Comandante Supremo era conferita la facoltà di emanare circolari e bandi aventi forza di legge nella zona di guerra», facoltà di cui si servì Cadorna per introdurre surrettiziamente la decimazione all’interno del codice penale militare italiano. Si tratta di un palese caso di “militarizzazione” del potere legislativo, fenomeno, con accentuazioni diverse, avvenuto in tutti i paesi belligeranti.
Di decimazione ve ne erano poi di due diversi tipi, quella che per ragioni “economiche” – cioè per non “sprecare” un numero eccessivo di forza combattente – colpiva un soldato ogni dieci di un gruppo interamente considerato colpevole dell’atto grave di indisciplina e quella – non a caso definita “aberrante” – che, nell’impossibilità o difficoltà di individuare i colpevoli, decimava un’unità militare, con il rischio, pressoché certo, di colpire anche degli innocenti.
«La decimazione di questo tipo era perciò quanto di più lontano si potesse immaginare da un principio fondamentale della civiltà giuridica» (p. 109), quello che vuole che la responsabilità penale sia solo ed esclusivamente “personale”. «La pena cessava di costituire una reazione fondata sulla responsabilità propria e personale dell’autore del reato, mentre assumeva la ben diversa e aberrante veste della “sanzione esemplare”». (p. 109)
La Brigata Catanzaro, pertanto, subì entrambi i tipi di decimazione, quella “economica” a seguito dei fatti del luglio 1917, quella “aberrante” dopo gli eventi del maggio 1916.

Di queste tragiche vicende tratta con grande forza visiva ed efficacia narrativa il graphic novel di Gianluca Costantini ed Elettra Stamboulis, che scelgono il linguaggio della narrazione grafica, del fumetto di realtà e di ricostruzione storica per ricordare e riproporre pagine poco conosciute, ma importantissime, della nostra storia.


  •  I saggi presenti nel testo sono di: Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato, Giulia Sattolo, Massimo Vitale, Matteo Polo, a cui si aggiunge una bibliografia ragionata di Elettra Stramboulis.
  • I due autori del libro hanno collaborato anche alla realizzazione di altri graphic novels come Diario segreto di Pasolini, BeccoGiallo, Padova, 2015; Arrivederci, Berlinguer, BeccoGiallo, Padova, 2013; Cena con Gramsci, BeccoGiallo, Padova, 2012; L’ammaestratore di Istanbul, Giuda edizioni, Ravenna, 2013.


 

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