AMLO – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il Messico sfida la morte: Vergine di Guadalupe, tempra nazionale, o necessaria illusione? https://www.carmillaonline.com/2020/05/31/il-messico-sfida-la-morte-vergine-di-guadalupe-tempra-nazionale-o-necessaria-illusione/ Sat, 30 May 2020 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60556 di Stefano Bigliardi

[Intervista* con Fabrizio Lorusso, dal Messico, pubblicata su L’Atea. Rivista di cultura atea, agnostica e razionalista, Numero unico maggio 2020]

La conoscenza che in Italia si ha del Messico è scarsa. A livello popolare, sono diffusi stereotipi veicolati da film vecchi e nuovi, che ne creano una percezione superficiale e frammentaria, il che porta a ignorare come la repubblica federale messicana, con il suo vastissimo territorio (che comprende 32 Stati più la capitale), la sua diversità culturale, e la sua storia complessa, sia in realtà, nel [...]]]> di Stefano Bigliardi

[Intervista* con Fabrizio Lorusso, dal Messico, pubblicata su L’Atea. Rivista di cultura atea, agnostica e razionalista, Numero unico maggio 2020]

La conoscenza che in Italia si ha del Messico è scarsa. A livello popolare, sono diffusi stereotipi veicolati da film vecchi e nuovi, che ne creano una percezione superficiale e frammentaria, il che porta a ignorare come la repubblica federale messicana, con il suo vastissimo territorio (che comprende 32 Stati più la capitale), la sua diversità culturale, e la sua storia complessa, sia in realtà, nel bene e nel male, un enorme laboratorio politico e sociale. Un laboratorio in cui, al netto di elementi tipicamente e irripetibilmente e messicani, si sono tentati esperimenti, e si sono osservati fenomeni destinati a ritrovarsi anche in forma dilagante nel resto del mondo. Tanto per citarne alcuni: l’opposizione tra una dimensione indigena e rurale e quella globalizzata e urbana, la contraddizione tra rivendicazione culturale autoctona e anelito alla way of life statunitense, il neoliberismo portato alle estreme conseguenze, l’affermazione delle chiese evangeliche, la migrazione di massa e clandestina verso il vicino più ricco, la militarizzazione del Paese in risposta alla criminalità organizzata. Ci è sembrato dunque importante rivolgere lo sguardo al Messico, e per farlo ci siamo affidati alla competenza di Fabrizio Lorusso. In Messico da vent’anni, di cui una quindicina trascorsi nella capitale, attualmente professore-ricercatore presso l’Università Iberoamericana di León, giornalista freelance, Lorusso annovera tra le sue numerosissime pubblicazioni il libro Santa Muerte. Patrona dell’umanità (Stampa Alternativa, 2013), e Narcoguerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga (Odoya, 2015). 

Stefano Bigliardi (SB). “Cominciamo, Fabrizio, con qualche dato. Com’è la situazione attuale in Messico? Quali sono le previsioni?”

Fabrizio Lorusso (FL). “I numeri ovviamente cambieranno e i lettori potranno trovarli facilmente, ma nel momento in cui ti parlo ci sono 174 morti accertati e oltre 3500 contagi. Ma c’è una stima che va dai 26.000 ai 30.000 possibili casi, che il Ministero della Salute ha divulgato proprio ieri [7 aprile, NdR]. Occorre tenere conto che, in proporzione al territorio nazionale, il numero dei test effettuati è scarso. Morti e contagi sono concentrati a Città del Messico [8,85 milioni di abitanti, NdR] e nel suo hinterland, che è lo Stato del Messico [16,20 milioni di abitanti, NdR]. Per ora sembra che la ‘curva’ proceda abbastanza lentamente rispetto ad altri Paesi, e che il picco sia previsto verso la fine del periodo di quarantena attualmente decretato, il 30 aprile, anche se la stima dei contagi è basata su cifre imprecise, quindi ci si aspetta che le misure di distanziamento sociale siano prolungate oltre la fine del mese”.

(SB). “Che decisioni sono state prese dalla politica, e sulla base di quali idee (o ideologie)? Hanno interferito motivi religiosi? Si sono registrati slittamenti di posizione nel tempo?”

(FL). “Nelle decisioni prese dalla politica abbiamo riscontrato un pragmatismo caratterizzato anche da un certo anticipo rispetto ad altri Paesi. La cosiddetta ‘Fase 1’ è durata fino a fine/metà marzo e però già durante quella, quando ancora i decessi erano pochissimi, si erano prese misure da ‘Fase 2’; in altre parole, tra il 17 e il 20 del mese sono state chiuse le scuole e sono stati proibiti gli assembramenti. Per contestualizzare ulteriormente bisogna ricordare che il sistema sanitario messicano è carente, a causa di trent’anni di crisi e di tagli. C’è un settore pubblico, frammentato e corporativo, che non ha copertura universale; la spesa sanitaria è circa il 3% del PIL, dato da paragonare al 6-8% dell’Italia, e a spese superiori all’8% in altri Paesi dell’OCSE. Il settore privato è analogamente frammentato, con sotto-settori che servono gli strati medio-bassi della società, e altri per i ricchi o comunque per chi ha un lavoro fisso e un’assicurazione privata. In questo quadro sono state prese misure anche prima che lo facesse il Ministero, e pare che abbiano rallentato la ‘curva’, grazie all’esperienza maturata durante l’epidemia di H1N1 del 2009. Alla fine di marzo si sono prese le decisioni più dolorose per l’economia, vale a dire, la dichiarazione di emergenza sanitaria e la chiusura di tutte le attività non essenziali, quindi anche i piccoli negozi, fabbriche, servizi. Misure peraltro non del tutto rispettate, anzi. Ricordiamo che quasi il 58% dell’economia messicana è informale, il 45% della popolazione è considerata sotto la soglia della povertà e quindi vive alla giornata. Comunque è da circa un mese che la popolazione è bombardata dagli spot pedagogici sulla sana distancia, una misura che non rappresenta uno stato d’eccezione, come in altri paesi latinoamericani, e che sta risultando più o meno efficace a seconda delle diverse zone del Paese. In tutto questo, ripeto, si vede un pragmatismo da parte del governo, che ha seguito un percorso tecnico, se non proprio tecnocratico, e che d’altro canto scontenta le imprese, per le quali si prevede un altissimo numero di fallimenti che poi avranno costi a carico dello Stato.

Ma attenzione, come sempre in Messico, la situazione è complessa e non sempre coerente. Ci sono attualmente due piani della politica, rappresentati da due diverse istituzioni che comunicano al pubblico con modalità diverse e che sono sfasate temporalmente nell’arco di una stessa giornata. Uno è appunto il Ministero della Salute. L’altro piano è rappresentato dal presidente Andrés Manuel López Obrador, noto con l’acronimo AMLO, classe 1953, in carica dal 1° dicembre 2018, e alla guida del Movimiento Regeneración Nacional. Si tratta di una figura carismatica dalle notevoli doti oratorie. Tiene una conferenza stampa tutte le mattine (peraltro divagando anche su altri temi rispetto al virus), mentre il Ministero della Salute si fa sentire alla sera attraverso il sottosegretario ed epidemiologo Hugo López-Gatell.

Il presidente ha suscitato polemiche, non solo con le dichiarazioni, ma anche con il comportamento, Specialmente in marzo, all’inizio della crisi. I discorsi di López Obrador hanno incluso elementi folkloristici e messianici, per esempio quando si è presentato con un’immaginetta della Vergine di Guadalupe asserendo che fosse la sua protezione [sarebbe apparsa nel 1531 ed è una vera e propria icona nazionale, NdR]. Anche prima della crisi AMLO non ha mai nascosto le sue credenze religiose nei discorsi ufficiali e ha sempre usato un linguaggio vicino a una parte del popolo e basato sulla superstizione. Ricordiamo anche che aveva stretto un’alleanza elettorale con il PES, Partido Encuentro Social, legato alle chiese evangeliche. Il presidente si è quindi sempre mosso tra cattolicesimo tradizionale e ‘nuovo cristianesimo’, che rappresenta un certo potere, in crescita. Certo, non parliamo di un messianismo ai livelli di Trump o di Bolsonaro, ma per esserci c’è, ed è mescolato alla volontà di non far cadere a picco l’economia. A questo, in tempi di COVID-9, il presidente ha aggiunto un altro elemento, il richiamo alla resistenza stoica e storica del popolo messicano.

La ‘sfida’ del presidente non si è limitata alle parole, ma si è notata anche nelle azioni: infatti ha tenuto comizi, ha inaugurato autostrade, si è trovato in mezzo ad assembramenti, e fino a qualche giorno fa toccava e baciava le persone. È persino sceso dalla pur austera macchina presidenziale per salutare la madre del Chapo Guzmán, donna di novantadue anni che gli aveva scritto esprimendo il desiderio di visitare il figlio in carcere negli USA prima di morire. Il presidente, il mattino dopo, si è dovuto giustificare in conferenza stampa, ed è ricorso a dei giri di parole sulla figura della madre, che culturalmente fa presa, anche se in questo caso si tratta della madre di uno dei più grandi trafficanti della storia, con decine e decine di omicidi a suo carico. Con quell’atto si è determinata, in piena crisi da COVID-19, una doppia crisi di legittimità. Ricordo poi che in altre conferenze ha sostituito i santini con dei quadrifogli portafortuna come elemento di protezione, ma la sostanza, ecco, è quella”.

(SB). “Al di là della politica, che reazioni popolari si notano? Le religioni hanno giocato un ruolo degno di nota?”

Foto: a San Miguel de Allende, statunitense con mascherina della Madonna di Guadalupe (Notimex, Paola Hidalgo)

(FL). “Per quanto riguarda la popolazione, che è parte del mio vissuto oltre che di quello che leggo, ci sono da registrare altre reazioni, con sicuramente delle intersezioni rispetto a religione e religiosità. Ancora in marzo, dei preti anche molto in vista, per esempio nello Stato di Guerrero, hanno dichiarato che a loro il virus non interessava e che avrebbero continuato a celebrare cerimonie e messe. Questa ‘sfida’ si è poi ridimensionata in aprile. Tuttavia, nonostante le proibizioni, le chiese, come del resto certi negozi e certe imprese, sono sempre aperte. Non ho visto manifestazioni di massa, ma piccoli assembramenti di persone sì: e pensiamo che ne è delle misure sanitarie quando si usa l’acqua santa, quando ci si siede sulle panche e c’è un viavai di fedeli senza mascherina. Tanto nella religione quanto nella piccola economia si riscontra quindi una volontà piuttosto ‘tiepida’ di mettere in atto le misure, e spero non costi contagi e vite. Dipende poi molto dalle regioni messicane e dallo zelo dei governi locali nell’implementare le misure di sana distancia, per cui in alcuni casi, compresa la capitale, ci sono state riduzioni nei trasporti e movimenti del 70-80%, mentre in altre zone solo del 30%.

Io vivo a León, nello Stato del Guanajuato, profondamente conservatore e cattolico, e ho notato altri fenomeni degni di nota. Il discorso del presidente sulle protezioni divine, anche legate a veri e propri amuleti (López Obrador ha mostrato lo scapolare in TV), che pure nel corso del tempo è andato diminuendo, è in accordo con reazioni popolari, o le suscita. Si vedono tutto d’un tratto effigi di Cristo attaccate alle porte, le persone fanno discorsi sulla protezione divina (peraltro sta per arrivare la Semana Santa della Pasqua), il tutto in una zona grigia tra superstizione e fede. Da aprile, comunque, non si registrano dichiarazioni di sacerdoti volte a sminuire la pericolosità del contagio o, al contrario, a creare una ‘comunità del dolore’. Ho visto però delle piccole processioni, non legate alla Semana Santa ma all’epidemia, con fedeli muniti di megafono che andavano per le strade invocando protezione dalla malattia e richiamando alla fede”.

(SB). “Qual è la concezione della morte in Messico?”

(FL). “Sulla concezione della morte in Messico sono state scritte biblioteche, perché è parte del patrimonio tradizionale nazionale, ed è stata anche esportata, commercialmente e culturalmente. In realtà questa concezione è formata da diversi ingredienti che possono mescolarsi, ma non sempre lo fanno, e che non hanno necessariamente un’origine comune. Ci sono le celebrazioni dell’1 e 2 novembre, per il Día de muertos, che sono patrimonio dell’UNESCO e sono molto apprezzate tanto dai messicani quanto dai turisti. In quei giorni si crea una “vicinanza” tra vivi e morti, si costruiscono altari multicolori con tutte le cose che piacevano ai defunti, e la celebrazione collettiva crea un legame tra ambiente domestico, piazze pubbliche e cimiteri. C’è il culto per la Santa Muerte, devozione popolare nata decenni fa, in clandestinità, che in seguito è stata trasposta in film e serie TV che la associano, con una certa semplificazione, ai narcos. Ci sono le Catrinas, statue e illustrazioni che rappresentano scheletri vestiti in abiti da dama dei primi anni del XX secolo, creati come satira dell’incisore José Guadalupe Posada [1851-1913] che si burlava con la sue opere dell’élite filo-francese all’epoca del presidente-generale Porfirio Díaz [1830-1915]. La morte, in particolare quella di Cristo, è rappresentata all’interno dell’iconografia cattolica popolare, e a tinte forti, sottolineando la sofferenza fisica; sempre la chiesa cattolica, però, respinge ufficialmente la devozione per la Santa Muerte. In parte, tutto questo ha risonanze culturali con una tradizione indigena antichissima, il culto per Mictecacíhuatl e Mictlantecuhtli, coppia di divinità mesoamericane della morte, e la credenza negli inferi. Queste risalgono all’epoca precolombiana e ai culti delle popolazioni autoctone mesoamericane, annichilite dalla conquista e da tre secoli di dominio coloniale iberico, e ricostituitesi in seguito intorno a certi nuclei linguistico-culturali, rifluendo infine nella cultura nazionale messicana del secolo XX. Questo accadde dopo la Rivoluzione [1910-1917] quando nella nazione furono incorporati i popoli originari, o comunque una versione ricostruita della loro eredità culturale, e gli antichi messicani furono oggetto di una “re-invenzione romantica”. In tutte queste forme la morte, nella società attuale, è onnipresente. A questo si aggiunge la morte violenta, truculenta, riflessa nei media, e sistematicamente causata dalla cosiddetta guerra al narcotraffico, che altro non è se non un conflitto armato interno, per una serie di risorse, tra attori statali, parastatali e delinquenziali, spesso confusi tra loro. Anche questa morte è stata esportata, sia dai canali dell’informazione che dell’intrattenimento, specie attraverso la mediazione statunitense, suggerendo superficialmente che l’intero fenomeno narcos fosse caratterizzato da un ‘culto deviante’ della morte”.

(SB).  “Tutto questo come si amalgama, e come potrebbe portare i messicani a filtrare gli eventi attuali e a scegliere un corso di azione rispetto ad un altro?”

(FL). “In generale, l’atteggiamento popolare messicano rispetto alla morte si potrebbe chiamare, semplificando un po’, ‘nichilista’, ‘fatalista’, o forse persino ‘menefreghista’, e potrebbe indurre a ignorare i rischi. Questo atteggiamento si fonde con la religiosità popolare, della quale ho già detto, e che potrebbe avere gli stessi effetti. In altre parole, si potrebbe essere portati o a minimizzare il rischio di morte con atteggiamento di ‘sfida’, o a pensare di godere di una protezione divina, andando in ogni caso contro le misure igieniche. Questa è una congettura, e potrebbe anche rivelarsi infondata. In giro, però, come dicevo in precedenza, ci sono segni di un comportamento di questo tipo.

Un’altra idea diffusa è che la morte sia ‘democratica’ (infatti tocca a tutti, e i fedeli della Santa Muerte la vedono come icona di giustizia proprio per questo). Sempre a livello popolare, allora, si potrebbe essere tentati di estendere questa concezione anche al virus, con il risultato di ignorare il fatto che, se è vero che nessuno è completamente al riparo dal contagio, il COVID-19 può falcidiare e far soffrire soprattutto le comunità più deboli (come già si è notato negli Stati Uniti), attuando una vera e propria pulizia etnica e sociale. C’è da temere per le comunità indigene, anche tenendo conto che i materiali informativi sulle pratiche di prevenzione non sono stati tradotti nelle lingue locali, per non parlare degli strumenti sanitari concreti, che scarseggiano persino negli ospedali di Città del Messico, quindi figuriamoci in Chiapas, nel Guerrero o nelle comunità rurali in cui gli ospedali nemmeno ci sono.

Tornando al presidente, López Obrador [nella foto, cortesia di Gob.Mx] conosce il ‘Messico profondo’: non solo quello indigeno ma soprattutto quello delle comunità rurali, che lui ha sempre visitato, e ha saputo captare tutti gli elementi che ho discusso. Se si tiene conto di tutto il contesto, si chiarisce senza giustificarlo, cioè si comprende in tutta la sua ambiguità, il discorso del presidente. Il richiamo al ‘resistere uniti’, se da un lato può suonare come un invito ragionevole, dall’altro, a uno sguardo approfondito, risulta essere una mistificazione della realtà, che è quella di un Paese non omogeneamente preparato e protetto rispetto al contagio e alle sue conseguenze, specie in considerazione del fatto che si è pragmaticamente scelto di non bloccare totalmente l’economia o tollerare la violazione delle misure d’isolamento, anche per non annullare l’economia popolare e “di strada”. C’è almeno un 50% di popolazione, su circa 125 milioni totali, in povertà. Chiudere tutto anche solo per una settimana significa rischiare di ridurre alla fame quell’immenso numero di messicani che lavorano senza contratti e garanzie, guadagnandosi il pane letteralmente giorno dopo giorno. Inoltre il 66% dei messicani, quindi anche chi non si trova in condizioni di povertà, presenta una qualche vulnerabilità sociale rilevante. Mancano, in particolare, di copertura assicurativa e il sistema sanitario è come l’ho descritto in precedenza. Se anche non si chiude tutto pur di salvare l’economia, nel caso in cui il virus dovesse infuriare, soffrirà molto chi è vulnerabile in termini di copertura sanitaria, o chi ha sì accesso a strutture ospedaliere, ma mal equipaggiate. Si capisce allora che tutti i discorsi sulla ‘protezione speciale’, sulla ‘sfida alla morte’, evangelici, cattolici o anche laici che siano, altro non rappresentano che un ‘far di necessità virtù’, che li si ritrovi in bocca al presidente o a un comune cittadino. Le famiglie svantaggiate non hanno scelta rispetto al resistere con pochi mezzi o al non prendere misure straordinarie, e, da qualunque parte la si guardi, la situazione è inquietante.

Tanto per farti un esempio aneddotico, la signora da cui compro abitualmente le verdure mi ha chiesto, un paio di settimane fa, se il virus è reale. Chissà se la domanda era spontanea, o se era influenzata da qualche discorso negazionista, veicolato da radio e TV. Il linguaggio del corpo, devo dire, non era quello di chi nega la malattia. Questo riesce difficile, ai messicani, vista la presenza di gravi malattie stagionali e tropicali su cui, a ogni ondata, si concentrano i discorsi. Eppure, paradossalmente, anche alla luce di questo fatto molto concreto (l’ortolana di cui ti parlo e suo marito novantenne, l’anno scorso, hanno avuto il dengue) può scattare un meccanismo volto a esorcizzare il COVID-19, se si arriva cioè a sostenere che malattie come il dengue e lo zika sono appunto reali e tipiche del Paese, mentre il coronavirus sarebbe proprio dei Paesi più freddi e quindi tutto sommato meno preoccupante. Questo è un discorso ‘eccezionalista’ che, non a caso, sempre López Obrador ha fatto suo e diffuso, almeno in una prima fase, peraltro senza precisare alcun dato scientifico sulla temperatura esatta che avrebbe fatto la differenza. Certo, nei deserti messicani c’è una notevolissima escursione termica, ma non ci sono le persone, il che rende ogni discorso al proposito, quand’anche fosse scientifico, non applicabile alle città, in cui al momento c’è un clima simile a quello del mese di maggio in Italia.

La signora ortolana, insomma, cerca di afferrarsi a questo o a quell’altro motivo come meccanismo di auto-rassicurazione per poter andare avanti. È vero che vende un bene essenziale, ma è anche vero che la natura del suo commercio, le condizioni igieniche dello stesso, e la sua età, la espongono al contagio, e comunque, finanziariamente, lei non può permettersi di chiudere così come non potrebbe permettersi cure adeguate. Purtroppo, in quella signora, si ritrova rappresentato, se non tutto il Messico, una sua grande parte”.

* L’intervista si è svolta attraverso WhatsApp tra il 7 e l’8 aprile 2020. Il presente adattamento è stato approvato da Fabrizio Lorusso, che ringrazio per la pazienza e la disponibilità.

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Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo https://www.carmillaonline.com/2019/07/12/por-la-vida-y-la-libertad-il-messico-di-amlo-tra-resistenze-e-capitalismo/ Thu, 11 Jul 2019 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53572 di Fabrizio Lorusso

[Pubblichiamo come segnalazione un estratto di Fabrizio Lorusso dal libro, a cura di Andrea Cegna*, Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo, Agenzia X, Milano, 2019. Il libro, illustrato, contiene un’interessante introduzione sulla storia recente del Messico di Andrea Cegna, un prologo di Pino Cacucci e interviste con Juan Villoro, Paco Ignacio Taibo II, Raúl Zibechi, Fernanda Navarro, Gilberto López y Rivas, Fabrizio Lorusso, Oswaldo Zavala, Pablo Romo, Araceli Olivos, Gustavo Esteva, Amaranta Cornejo, Federico Mastrogiovanni, Claudio Albertani, Carlos Fazio, Guillermo Briseño].

Nota di contesto. Alla guida di una coalizione di centrosinistra [...]]]> di Fabrizio Lorusso

[Pubblichiamo come segnalazione un estratto di Fabrizio Lorusso dal libro, a cura di Andrea Cegna*, Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo, Agenzia X, Milano, 2019. Il libro, illustrato, contiene un’interessante introduzione sulla storia recente del Messico di Andrea Cegna, un prologo di Pino Cacucci e interviste con Juan Villoro, Paco Ignacio Taibo II, Raúl Zibechi, Fernanda Navarro, Gilberto López y Rivas, Fabrizio Lorusso, Oswaldo Zavala, Pablo Romo, Araceli Olivos, Gustavo Esteva, Amaranta Cornejo, Federico Mastrogiovanni, Claudio Albertani, Carlos Fazio, Guillermo Briseño].

Nota di contesto. Alla guida di una coalizione di centrosinistra e supportata da alcuni movimenti sociali, Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, è il vincitore delle ultime presidenziali in Messico, un’elezione che ha suscitato molte speranze, anche se le riforme proposte non sono molto diverse da quelle di chi lo ha preceduto.
Por la vida y la libertad è una visione caleidoscopica del Messico di oggi e una tesi, ovvero che nulla come l’insurrezione zapatista e la firma del Nafta, entrambi nel 1994, hanno determinato una radicale trasformazione del paese. Due fronti opposti per un conflitto che ha molto da insegnare anche a noi. Il 2019 è un anno cruciale per capire i nuovi rapporti di forza che si stanno sviluppando tra il potere costituito e l’Ezln, tra Obrador e tutte quelle voci fuori dal coro che non hanno alcuna intenzione di illudersi. In questi anni l’autore ha collezionato numerosi viaggi nel paese centroamericano, le opinioni qui raccolte rappresentano alcuni punti di vista critici, un insieme di riflessioni da diversi profili intellettuali, artistici e militanti che garantiscono al lettore una straordinaria immersione nella contemporaneità messicana.

Intervista di Andrea Cegna con Fabrizio Lorusso

A.C.: Immaginando due linee, la prima che rappresenta il potere, le leggi, lo stato, l’economia e la repressione; la seconda le resi- stenze, le ribellioni, i movimenti Possiamo immaginarle che si muovano con direzioni differenti per lunghi tratti dello spaziotempo che va dalla fine della rivoluzione messicana al luglio 2018. In questo loro movimento indipendente, però, ci sono stati dei momenti in cui le due linee si sono incrociate. Nel 1968, nel 1988, nel 2012 e sicuramente il 1° gennaio del 1994 con l’entrata in vigore del Nafta da una parte e l’inizio dell’insurrezione zapatista dall’altra. Cosa è diventato il Messico venticinque anni dopo quel primo gennaio del 1994?

FL: L’incontro-scontro tra la linea dei movimenti e quella politica istituzionale è sicuramente una costante della storia messicana. Anche nel 1985, l’anno in cui il terremoto del 19 settembre fece circa 10.000 morti e decine di migliaia di persone si riversarono per le strade in preda al panico ma altre invece erano lì con la voglia di aiutare e organizzarsi. Così facendo, però, segnalarono l’inerzia e le menzogne del governo del presidente Miguel de la Madrid che voleva far credere alla comunità internazionale che tutto andava per il meglio, che i morti erano relativamente pochi e che lo stato aveva mantenuto il controllo e l’ordine. 

Era l’epoca del vecchio Pri, il partito egemonico e quasi unico della “dittatura perfetta” del Novecento e della transizione al neoliberalismo. Oggi le famiglie dei desaparecidos hanno creato un imponente movimento di “cercatori di tesori”, di resti dei loro familiari scomparsi, e hanno trovato migliaia di ossa nelle fosse clandestine. Oggi, come nel 1985, la società è sottoposta a vessazioni e repressioni che evidenziano l’incapacità, la mala fede e la collusione narco-politica delle autorità. Per mesi e mesi anche Enrique Peña Nieto, presidente del Messico rappresentante del cosiddetto nuovo Pri neoliberista dal 2012 al 2018, il quale dopo la sparizione forzata dei quarantatré studenti e l’uccisione di tre di loro e di altre tre persone a Iguala, il 26 e 27 settembre 2014, ha provato in tutti i modi, senza riuscirci peraltro, a ricostruire un’immagine del Messico da cartolina a uso e consumo della platea internazionale dei turisti e degli investitori stranieri. Ha cercato anche di nascondere le responsabilità statali, federali e governative specialmente dei depistaggi nelle indagini condotte dalla procura, anche mediante l’uso di tortura e manipolazione delle prove.

Il 1985 credo sia stato un punto di svolta importante in cui la società civile è potuta riemergere come un attore decisivo, almeno nella capitale, e ha portato alla vittoria delle sinistre guidate da Cuauhtémoc Cárdenas alle elezioni del 1988. Sappiamo però che la storia andò diversamente. Durante i giganteschi brogli del sistema, Salinas de Gortari, del Pri, si insediò alla presidenza e spinse il Messico sempre più nella direzione della globalizzazione neoliberale. Il suo modo di condurre il paese fu sregolato, selvaggio, incomparabile rispetto alle realtà europee. Il mercato e la concorrenza cominciarono ad applicarsi sfrenatamente in ogni campo, erodendo il tessuto sociale e la solidarietà in ampi settori della popolazione, distruggendo le comunità indigene e rurali perché, secondo il dogma, sarebbero stati “ostacoli per la modernizzazione del paese”. Nel 1994 le promesse di Salinas relative all’ingresso del Messico nel “primo mondo” si infransero contro il muro della degna rabbia dell’insurrezione zapatista, di certo uno dei momenti più importanti nella storia dei movimenti sociali a livello globale contro il capitalismo, specialmente nella sua versione neoliberale e la globalizzazione, non quella delle culture, dei popoli e dei saperi ma quella della finanza, del gran capitale e dell’accumulazione per spoliazione. Forse a Seattle nel 1999, a Porto Alegre nel gennaio 2001 e a Genova nel luglio dello stesso anno si vissero momenti più alti e intensi, ma anche i più duri dei movimenti globali che lottavano per un altro mondo possibile e contro la globalizzazione neoliberale, del quale gli zapatisti del Chiapas erano un riferimento importantissimo.

Il Nafta non nasce il 1° gennaio del 1994, quella è la data simbolica che norma una legge che permette a Peña Nieto, durante il suo mandato, di applicare le cosiddette cinque riforme strutturali che erano già state progettate da Salinas de Gortari negli anni Come e perché il Nafta è stato deflagrante per il Messico e come si inserisce dentro le logiche del potere messicano?

Quando il Messico entra nel Gatt, nel 1986, inizia ad applicare le politiche di aggiustamento strutturale dell’economia secondo le ricette standardizzate dell’Fmi. Salinas promulga la legge mineraria e apre la possibilità di vendere le terre comuni delle campagne messicane. Intanto si privatizza e liberalizza l’economia a marce forzate. Questi provvedimenti, potenziati e ampliati dai governi successivi, aprono la strada al land grabbing, cioè all’espropriazione di terre e all’incremento drammatico delle concessioni per lo sfruttamento del sottosuolo e delle risorse naturali. Il Nafta diventa quindi il suggello di una strategia più ampia e articolata ed è questa la condizione che influenzerà gli eventi futuri, tanto dal lato dell’espansione capitalista accelerata, quanto da quello delle resistenze, delle assimilazioni, delle pratiche e delle socialità che emergono come conseguenza. Dal 2000 in poi le imprese minerarie, in gran parte statunitensi e canadesi in associazione con poche poderose famiglie appartenenti al Consiglio messicano degli affari (Cmn, Consejo mexicano de negocios), vedranno moltiplicarsi le concessioni e saranno al centro di conflitti sociali a causa degli avvelenamenti e della distruzione del territorio. Soprattutto con il fracking e le mine a cielo aperto, ma anche perché non pagano praticamente le tasse e operano in combutta con il crimine organizzato e le autorità pubbliche per reprimere la dissidenza sociale, far sparire o ammazzare persone, oppure corrompere le autorità locali e statali. Solo una misera parte dei loro guadagni finisce alle comunità, che vedranno compromessi per sempre il tessuto sociale e la loro salute, vedendo invece una quantità di soldi considerevole confluire nelle casse di politici locali, in quelle delle forze armate nazionali e in quelle di gruppi criminali difficili da descrivere come narcotrafficanti che assomigliano sempre più ai paramilitari colombiani.

Nel 1994 Salinas lascia il governo a Ernesto Zedillo e il sogno “da primo mondo” si trasforma in un incubo quando all’inizio del 1995 esplode una delle più gravi crisi finanziarie e del debito nota come El efecto tequila: svalutazione e nuove misure draconiane fanno sprofondare il paese nella morsa delle istituzioni creditizie internazionali e delle agenzie di rating. La povertà torna ad aumentare, arriva a oltre il 60% e, come negli anni ottanta, si parla di un altro decennio perduto. Gli economisti dicono che la medicina neoliberale va rinforzata e che la crisi è dovuta alla poca risolutezza nell’applicazione della formuletta magica.

Il Nafta era entrato in vigore nel gennaio del 1994, e proprio il primo giorno di quel mese l’Ezln ricordava al mondo e al governo messicano che esisteva un “Messico altro” che era stato abbandonato e che ora esplodeva, rivendicando autonomia e riconoscimento. Curiosamente, anzi in modo calcolato, il trattato di libero commercio che avrebbe dovuto sancire il take off del Messico, entrava in vigore mutilato: piena libertà commerciale in Nord America, anche se gli Usa si riservavano la protezione a oltranza del settore agricolo e della proprietà intellettuale, con libera circolazione dei capitali, ma nessuna libera circolazione delle persone. Anzi, Clinton si dedica alla costruzione del muro alla frontiera e la militarizza pesantemente, una politica seguita praticamente da tutti i suoi successori. Trump non ha inventato nulla, solo qualche tweet in più e una retorica razzista palese, ma di fatto la frontiera è stata blindata giusto quando entrava in vigore il trattato per evitare i flussi di persone. La frontiera è diventata dunque una risorsa strategica per la creazione di valore e di consensi politici. La migrazione si è trasformata in una questione di sicurezza. Questo ha provocato il Nafta. I principi classici del libero commercio in economia sono stati violentati perché, direbbe Smith, senza la libera circolazione di tutti i fattori produttivi non c’è libero commercio ed equilibrio. Ma va meglio così, anzi il modello è pensato apposta per lo sfruttamento della frontiera e per i territori che si estendono a sud di essa.

Dunque il Messico di oggi è la conseguenza di decisioni politiche che invece vengono spesso presentate come scelte tecniche, economiche e neutrali, come se l’economia non fosse parte delle scienze sociali e della politica. Però il Messico che lotta e resiste è senza dubbio debitore dell’insurrezione zapatista e di tutta la storia dei ribelli chiapanecos. La costruzione dell’autonomia nei caracoles e di altre comunità messicane come Cherán o Ostula serve da esempio per le nuove e le vecchie generazioni, anche se l’élite preferisce cancellarla o occultarla dietro al miraggio del consumismo e al mito della meritocrazia e le pari opportunità. Una linea contestataria dal basso ha continuato a creare immaginari e rinnovare repertori a favore della trasformazione con i movimenti dei genitori dei quarantatré studenti di Ayotzinapa, con il femminismo, il movimento per la pace Giustizia e dignità, il #YoSoy132 e le proteste dei docenti democratici della Cnte (Coordinadora nacional trabajadores de la educación) contro la riforma educativa, che in realtà punta solo a precarizzare il lavoro. Ricordo che la Cnte rappresenta l’ala dissidente dei docenti, nata negli anni settanta e molto forte a Oaxaca, Guerrero, Michoacán, Chiapas e Città del Messico, un’organizzazione che lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori, non per la loro cooptazione governativa, e per la democratizzazione del sindacato più grande dell’America Latina, il Snte (Sindicato nacional trabajadores de la educación) che per anni è stato legato a livello corporativo ai governi del Pri e del Pan. Dall’altra parte il neoliberalismo, nonostante il suo discredito dopo la crisi del 2007 e 2009, è incarnato nella politica dei tecnici che con Peña Nieto hanno approvato le riforme strutturali, tra cui spicca quella energetica, e resta un sistema di pensiero egemonico che deve essere sconfitto attraverso un lavoro fino di accompagnamento delle grandi lotte nazionali o regionali a livello locale.

Il Nafta entra nella logica del potere messicano da due punti di vista: esterno e interno. Da una parte è un trattato geopolitico con il Messico che si separa idealmente dal resto dell’America Latina e dalla solidarietà subcontinentale per abbracciare Washington. In Sud America il caso più simile è forse quello della Colombia. La politica statunitense passa da questi fedeli alleati che, guarda caso, sono anche quelli più coinvolti e penalizzati, in termini di vittime e di economia, dalla cosiddetta guerra alle droghe: sangue e armi a sud, droghe e denari a nord. Ma c’è dell’altro. Questo posizionamento, forse più stringente nel caso messicano per motivi geografici e storici, implica una sovranità limitata e il pagamento di un costo umano enorme: oltre 250.000 morti in Messico e 36.000 desaparecidos dal 2007 a oggi per una guerra al narcotraffico che, in realtà, si traduce in una politica di sicurezza interna militarizzata. E qui arrivo agli affari interni. La guerra alle droghe giustificata e rilanciata dagli Usa, dopo che si è spenta la guerra al “pericolo comunista” con la caduta dell’Urss, è la versione latinoamericana della guerra al terrore o al terrorismo post attentato alle Torri gemelle del 2001 e in qualche modo la completa, la rinforza.

Andiamo al 2006, alla guerra alla droga di Calderón. Possiamo responsabilizzare il Nafta o i taciti accordi congiunturali se il Messico è diventato un paese di transito di droghe e migranti?

Internamente Messico e Colombia usano questa guerra e i finanziamenti generosi del governo americano per fini di controllo sociale della popolazione, non delle droghe. I due paesi vivono in uno stato di eccezione permanente, come descritto da Walter Benjamin, che è diventato la regola: i militari s’incaricano della sicurezza pubblica, che sarebbe appannaggio delle polizie, con la scusa che un presunto nemico dello stato (i narcos) sta prendendo il sopravvento, lo stato in parte è colluso e corrotto, ma apparentemente sta combattendo dal lato dei buoni contro i cattivi trafficanti. Con questa retorica ufficiale il governo può militarizzare intere regioni e violare costantemente i diritti umani (sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziarie, spostamenti di popolazione, tortura), la lotte ai narcos, che vengono mitizzati ed esaltati oltremodo mediante narrazioni propagate dalle autorità e dai mass media, è solo una scusa mentre il vero obiettivo è l’espropriazione dei territori e l’implementazione di politiche neoliberiste che favoriscono una minoranza rapace di investitori stranieri e nazionali.

Queste politiche distruttive del tessuto sociale hanno suscitato nel 2017 circa 1200 conflitti sociali legati all’attività delle compagnie minerarie. La repressione, specialmente per quanto riguarda quella armata interna, viene delegata alle forze armate con uno stato d’eccezione, sostenuto da training e finanziamenti degli Usa. Certamente esistono gruppi criminali più o meno potenti e più o meno organizzati, ma ormai la maggior parte lucrano tanto con il traffico di droga quanto con quello di persone e armi, con l’estorsione e la tratta, con il furto di combustibile e il riciclaggio. I business criminali si sono moltiplicati, ma va detto che quelli che sono stati ampliati o legalizzati con le riforme strutturali degli ultimi sei anni, per esempio quelli relazionati alle concessioni minerarie, alla privatizzazione dell’acqua, allo sfruttamento dei boschi e all’estrazione di idrocarburi, sono diventati preda dei poteri de facto sul territorio, cioè delle compagnie straniere o nazionali, comunque private, e dei gruppi armati organizzati che lavorano per queste e cogestiscono l’estrazione di risorse, oltre che delle autorità stesse. L’esercito in molte zone si dedica a controllare gli affari leciti e illeciti e a partecipare come azionista nella ripartizione delle prebende del narcotraffico, utilizzando come braccio armato le polizie locali colluse con gli stessi gruppi criminali. Si può parlare tranquillamente di paramilitarismo in ampie zone del paese. Lo stato e la politica, nell’ambito del modello socioeconomico adottato, sono da intendersi come precondizioni per lo sviluppo dei business illeciti: paramilitarizzazione, vendita di protezione e traffico di armi e persone, droghe, espropriazioni, land grabbing, furto e contrabbando di combustibili, compravendita di permessi, appalti e concessioni, estorsioni ecc. E si occupano anche di creare mercati attraverso la regolazione selettiva dell’economia per favorire i settori più potenti delle élite. Il potere dei gruppi armati e dei narcotrafficanti, a volte notevole, è spesso sovrastimato dall’opinione pubblica e dalla mitologia del narco come se si trattasse di entità onnipotenti. Questo deriva da una serie di affari legali, nel limbo della legislazione oppure totalmente illegali, i quali non sarebbero possibili senza la partecipazione di alcuni apparati statali, funzionari pubblici e imprese regolarmente operanti nel mercato. La situazione è dunque molto più articolata e complessa, frammentata e diversa a seconda delle regioni e delle autorità coinvolte, rispetto a quella dipinta dai media in questi anni.

Anche l’insurrezione zapatista non nasce il 1° gennaio del 1994. Si forma in almeno dieci anni di preparazione clandestina e ha le sue radici a Monterrey con le Fln. In che maniera lo zapatismo ha influenzato i movimenti messicani e in generale tutta la società?

I movimenti messicani, almeno dal 1968 in poi e di nuovo dal 1994, hanno vissuto fasi alterne, ondulatorie con esplosioni entusiasmanti e riflussi, senza riuscire del tutto a vincolarsi a livello nazionale, internazionale o nelle singole lotte. Spesso quando nasce un movimento, i resti dei suoi predecessori tendono a unirvisi e a sommare le domande sociali, con il rischio però di diluire l’essenza del nuovo movimento e creare contraddizioni. Si percepisce quindi una certa discontinuità, determinata anche dalla vigorosa repressione e dagli strumenti di cooptazione che lo stato messicano ha dispiegato dall’epoca del partito egemonico (Pri al governo dal 1929 al 2000) fino a quella attuale in cui la violenza di stato viene giustificata e legittimata dalla permanente “narcoguerra” militarizzata. Il Chiapas e il Guerrero, da sempre in povertà estrema, sfruttati e militarizzati per le loro immense ricchezze naturali, esprimono alti potenziali di ribellione dovuti alle disuguaglianze e grazie alla tradizione storica di lotta indigena e dissidenza sociale. Queste regioni sono state dagli anni sessanta dei laboratori della repressione e delle sue legittimazioni ideologiche in voga attualmente. Ciudad Juárez e la frontiera settentrionale lo sono stati dalla metà degli anni novanta con l’entrata in vigore del Nafta, il boom delle maquiladoras e il fenomeno criminale dei femminicidi. Juárez inquadrata mediaticamente dal governo come “il centro del male”, è stata un laboratorio dove sperimentare la militarizzazione in modo diverso perché si trattava di una metropoli di frontiera, non di una regione montagnosa o tropicale come il Guerrero e il Chiapas. In realtà però i centri del dolore e della violenza sono stati e sono molti di più, al di là delle costruzioni mediatiche e politiche di alcuni luoghi ben delimitati ed emblematici. È provato inoltre che, come è successo a Juárez, la strategia d’invasione militare del governo ha portato a maggiori indici d’omicidio, femminicidio e violenza in generale, mostrando apertamente come l’obiettivo non era risolvere un problema (il narcotraffico, i business illeciti, le pandillas, l’insicurezza ecc.) ma mantenerlo e magari riportarlo sotto il controllo delle forze federali e della sovranità centrale. A ogni modo le diverse grida di ribellione e ondate dei movimenti messicani degli ultimi anni, almeno dal 1994 zapatista in avanti, hanno sempre lasciato boccioli d’insurrezione, repertori, esperienze condivise, narrazioni e immaginari che sono passati e si sono riprodotti nel tempo grazie al lavoro incessante di mantenimento e rielaborazione della memoria, individuale e collettiva, di militanti e attivisti, dei loro movimenti, delle loro azioni, delle loro vittorie e dei loro errori.

Non credo che il Nafta sia il solo responsabile del fatto che il Messico sia diventato lo snodo di flussi migratori ed economici, tra cui anche il trasporto di droga. Tuttavia il Nafta e la globalizzazione, non controllabile del tutto, hanno anticipato e accelerato processi e problematiche in atto, anche perché il contesto era quello di un paese in forte crisi, con un sistema politico in disfacimento alla fine del periodo egemonico del Pri e con una democrazia in transizione, una struttura sociale ed economica sempre più esposta e lasciata alle forze del mercato e anche al capitalismo de compadres. C’è anche da tenere da conto la democratizzazione lenta e deludente dei paesi del Centroamerica dopo la fine delle guerre civili negli anni ottanta e novanta. In realtà la regione non ha recuperato la pace e i problemi che segnalavano los de abajo si sono esacerbate con il neoliberalismo. La migrazione è di certo un fatto prevedibile e strutturale in una situazione del genere. Inoltre il Messico è diventato un paese di transito di droghe e, in parte, di consumo, soprattutto dagli anni 2000. È tra i primi al mondo in quanto a produzione di oppiacei e marijuana. La coca colombiana e peruviana, così come i precursori chimici per produrre metanfentamine, hanno nel Messico un grande hub, uno snodo di elaborazione e redistribuzione, per cui le organizzazioni criminali messicane hanno guadagnato importanza da una parte, ma dall’altra la loro supremazia e le loro attività dipendono dalla presenza e dalla partecipazione degli apparati di stato agli affari criminali. Storicamente buona parte del business del narcotraffico è stato gestito dal potere politico. Quando l’alternanza al potere in vari stati e a livello federale si è rotta, il sistema si è spezzettato in tanti centri di potere, legittimati dalla legge e non, ma comunque in rapporto dialettico tra loro. La guerra al narcotraffico può anche essere intesa come una forma di riconquista di equilibri di sovranità in parte perduti dalle autorità federali rispetto a quelle locali e ai gruppi armati, siano essi criminali o legali, come alcune polizie comunitarie e autodefensas. Ma non penso si possa prescindere dal fatto che il narcotraffico è stato nella storia un affare di stato, cogestito da bande paramilitari di poliziotti e militari di vari livelli gerarchici che, in momenti diversi della loro “carriera”, si unirono alle file della delinquenza organizzata o furono da questa stipendiati e fondarono nuovi gruppi armati per proteggere interessi del capitale privato.

Nel nord del Messico la storia racconta che sono stati proprio i governatori, per esempio nel Sinaloa, a cominciare i traffici di morfina e marijuana nella prima metà del XX secolo. Gli Stati Uniti in questa partita sembrano uscirne vincitori, i soldi che si muovono beneficiano il sistema finanziario, sempre meno regolamentato e controllato. Per anni le droghe sono state usate negli Usa anche come strumento di controllo sociale. Si pensi al crack, sottoprodotto dannosissimo della coca, spacciato o spinto dalla Cia nei ghetti neri di Los Angeles, in accordo con i narcotrafficanti messicani che cogestivano il business con la Dfs (Direzione federale di sicurezza, la Fbi messicana negli anni ottanta). I guadagni venivano reinvestiti dalla stessa Cia, illegalmente e a insaputa del Congresso, per armare i paramilitari-contras che facevano la guerra sporca al regime rivoluzionario sandinista in Nicaragua. Infine gli americani muovono anche la loro industria bellica con la scusa della guerra alle droghe attraverso la Iniziativa Mérida (Messico) e il Piano Colombia, oltre a mantenere il controllo più o meno diretto delle risorse naturali in territori strategici. Dire che il Messico è governato dai narcos o altri gruppi criminali fa parte di una narrativa che giustifica la lotta a quel poco che resta di buono dello stato contro le sue parti viziate e i delinquenti trafficanti. In realtà mi pare che ci sia maggiore complessità e anche zone oscure che ancora non riusciamo a decifrare. Non è che non esista la violenza tra bande o cartelli, nel senso di criminalità organizzata, ma il ruolo principale della violenza che vive il Messico, ai massimi storici nel 2017 e nel primo semestre 2018, con oltre centotrenta candidati e politici ammazzati nei nove mesi di campagna elettorale del 2018, deve essere spostato dalle organizzazioni criminali alle forze di sicurezza, specialmente i militari e i federali. Prima della “guerra” lanciata nel 2006-2007 da Calderón, il Messico viveva gli anni più pacifici della sua storia, ma da allora la militarizzazione dei territori e il tentativo di stabilire uno stato di eccezione ha reso le masse, i militanti, gli indigeni, i cittadini comuni, i giornalisti e più o meno tutto il popolo, il bersaglio casuale di una violenza senza controllo in una situazione che alcuni esperti, come Andreas Schedler, definiscono come una guerra civile non ideologica o politica, ma economica.

Seguendo la pista indicata qualche anno fa dalla giornalista Dawn Marie Paley con il suo libro Capitalismo antidroga. Una guerra contro il popolo (disponibile on line gratis in spagnolo), non possiamo eliminare la dimensione politico-ideologica del conflitto messicano ma dovremmo invece considerarlo come una guerra di tipo antinsurrezionale per l’imposizione del neoliberalismo mediante il saccheggio e la combinazione di interessi, poteri e violenze di tipo simbolico, territoriale, economico-strutturale, sociale e politico, tanto legali (statali o sanciti dalla legge) quanto illegali, tanto nazionali quanto transnazionali.

Siamo come l’homo sacer di Agamben, umani sacrificabili, immersi nella precarietà della vita stabilita dal controllo biopolitico che si manifesta con le sparizioni forzate, con l’amministrazione del dolore, con gli omicidi, con le incarcerazioni ingiuste e le esecuzioni extragiudiziarie. In media, nel 2018, sono state assassinate ottantanove persone al giorno. Ci vuole un cambio di vedute e di rotta, a partire dalla revisione profonda del modello economico e dalla gestione della sicurezza.

In Messico la violenza di genere e le disparità uomo/ donna, oltre che quelle legate a differenti scelte e orientamenti sessuali, è un un grosso Le donne zapatiste già nel 1994 hanno mostrato una via diversa. Si può pensare che il femminismo in Messico sia una chiave di volta per trasformare il paese andando oltre al paradigma capitalista, machista che si replica da anni. In questo che ruolo ha avuto e ha lo zapatismo?

Non sono un esperto del movimento femminista in Messico anche se ho vissuto qui molte manifestazioni di piazza e dibattiti. Mi pare sia un movimento vitale e attivo, anche se forse più frammentato e magari meno visibile rispetto all’Argentina o alla Spagna o il resto d’Europa, più concentrato in alcune città del paese, in primis la capitale. Il tema del femminicidio è un problema strutturale, si contano almeno sette donne uccise al giorno nel paese, la violenza di genere è molto presente, ma c’è da dire che Città del Messico e Guadalajara sono avanti una generazione rispetto alle altre città. Di fatto la capitale è un’isola rispetto al resto del Messico perché è riconosciuto il diritto ad abortire e al matrimonio egualitario. Vivo a León, nel Guanajuato, da un paio di anni. È lo stato più cattolico e conservatore del Messico, un feudo del destrorso Partido acción nacional e delle manifestazioni per la famiglia, antiabortisti detti pro-vida e contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso. La ferocia del conservatorismo qui è proverbiale e terrificante, i cortei per la Madonna di Guadalupe sono i più folti e partecipati del paese e le donne che interrompono la gravidanza sono incarcerate. Il Messico è molto eterogeneo e la lotta per l’uguaglianza (di opportunità e nei risultati) è condotta in un contesto di repressione e violenza estrema. Lo zapatismo in questo senso ha vissuto i suoi processi evolutivi, infatti inizialmente lo si tacciava di essere un movimento patriarcale dominato da figure maschili. In effetti il mondo rurale messicano e in parte le comunità indigene mantengono molti tratti di questo tipo. Con il tempo però le donne zapatiste, anche se non propriamente come parte di un movimento femminista di tipo occidentale, hanno saputo collocare il tema dell’uguaglianza e dei diritti nelle comunità proponendo cambiamenti nelle relazioni di genere. Nel marzo 2018 c’è stato un importante incontro in Chiapas in cui la Comandancia Generale dell’Ezln ha convocato 8000 femministe del mondo per il primo incontro internazionale, politico, artistico, sportivo e culturale delle donne che lottano. Un’iniziativa inedita per un internazionalismo femminista in cui le zapatiste hanno dato un messaggio di speranza e resistenza: “Non ti arrendere, non ti vendere, non rinunciare” per continuare “in vita e nella lotta”. Da quando è nato il movimento, le indigene zapatiste hanno lottato dentro e fuori le comunità per conquistare diritti negati mediante un femminismo sui generis, determinato soprattutto dalle differenze del patriarcato nei contesti urbani e rurali, per via dell’ambiente in cui si sviluppa e della situazione di subalternità dei popoli di cui fanno parte, come afferma per esempio l’antropologa femminista messicana Sylvia Marcos. Nel senso che si muovono su più fronti e in modo più collettivo in quanto comunità originarie che agiscono idealmente come uno stormo per tutti e tutte nel quadro di limiti strutturali e locali, specialmente evidenti nel mondo rurale. Il processo di autonomia e empoderamiento politico dello zapatismo sicuramente può favorire nello specifico l’organizzazione delle donne.

Il Messico è un paese di rivoluzioni e rivolte in cui l’assenza di strutture nazionali conflittuali è sempre stato un elemento asimmetrico rispetto al potere dello stato, soprattutto del partito-stato L’Ezln dalla sua nascita ha provato a colmare questo buco. Ti chiedo una valutazione sui risultati ottenuti dalle zapatiste e dagli zapatisti anche in relazione al tentativo di raccogliere le firme per candidare Marichuy alle elezioni presidenziali del 2018.

La candidatura di Marichuy è stata una sfida enorme, come direbbe Boaventura, “anticoloniale, antipatriarcale e anticapitalista”, dunque diversa dalle altre e di rottura. È stata osteggiata dal sistema elettorale, pensato per le classi medie e le città. L’app che si usava per raccogliere le firme dei candidati indipendenti era disfunzionale, inaccessibile ai più, soprattutto dove il Congresso nazionale indigeno ha le sue basi. I due candidati che sono riusciti a raccogliere le oltre 860.000 firme necessarie, Margarita Zavala (moglie ed erede politica dell’ex presidente guerrafondaio Calderón) e Jaime Rodríguez “El Bronco” Calderón (governatore del Nuevo León legato al Pri), l’hanno fatto in modo evidentemente fraudolento, sostenuti dal tribunale elettorale in modo irregolare. Marichuy ha raccolto decine di migliaia di firme vere e soprattutto ha portato le tematiche care a poveri, indigeni, comunità rurali in resistenza in giro per il paese, collocandole nell’agenda nazionale e suscitando non pochi consensi ed entusiasmi. In questo senso la campagna dal basso che ha condotto con scarse risorse è stata coraggiosa ed efficace, visti anche i vari incidenti e attentati che ha subito, un vero esempio di candidatura indipendente. Quest’iniziativa non cercava il potere, ma ha comunque riportato l’Ezln e il Consiglio nazionale indigeno al centro della scena e nella tessitura di nuove reti fuori dal Chiapas. Dopo le escuelitas e l’ideale passaggio generazionale, annunciato da Marcos dopo l’assassinio paramilitare del maestro Galeano e la marcia dei quarantamila, gli incontri di questi ultimi anni nei caracoles e San Cristóbal, anche con scienziati e femministe per un altro mondo possibile, e la campagna di Marichuy hanno rappresentato un nuovo impulso costruttivo e dialogante, al di là dell’arena politica tradizionale dei partiti e oltre i confini del Chiapas e del Messico.

Cosa pensi succederà con la nuova amministrazione di Amlo?

Con la vittoria schiacciante di Andrés Manuel López Obrador, candidato di parte delle sinistre messicane alle presidenziali del 1° luglio 2018, ci saranno sicuramente dei cambiamenti anche se la profondità della tanto sbandierata “IV trasformazione del Messico” sarà tutta da vedere. Obrador e il suo partito, Morena (Movimiento de regeneración nacional), non rappresentano forze anticapitaliste, ma promettono una certa discontinuità per lo meno con il neoliberalismo. Le maggioranze nel parlamento e le correnti non sono sempre stabili e Morena si è alleato con un partitino della destra evangelica e conservatrice (Partido encuentro social) che potrebbe influire sugli alleati e bloccare alcune riforme specialmente nell’ambito sociale. Sul fronte dei diritti c’è poco da sperare nei primi anni, anche se si potrebbero indire dei referendum. Non è la via migliore, certo, però anche in molti altri paesi aborto e matrimonio tra persone dello stesso sesso, o la legalizzazione delle droghe, sono passati grazie al voto diretto popolare.

Almeno nel campo economico, nella lotta alle disuguaglianze e nei modi per affrontare la guerra e la crisi umanitaria e dei diritti umani, ci sono speranze e aspettative. Già dai primi giorni dopo il voto tante forze sociali e popolari si sono unite al dibattito sui grandi problemi nazionali, una situazione inedita dopo le elezioni in Messico dato che normalmente si viveva un periodo refrattario e quasi di addormentamento. Invece si è vissuto un momento di fervore, lettere pubbliche, proposte e dibattiti. Il programma del nuovo governo contiene proposte per contrastare vari aspetti del neoliberalismo, non il capitalismo tout court. E per farlo si propongono ricette economiche in gran parte keynesiane e, diremmo in Europa, socialdemocratiche che, sebbene abbiano molti limiti, rappresentano comunque un orizzonte migliore per un paese come il Messico che ha vissuto un neoliberalismo selvaggio e prolungato, disuguaglianze estreme e processi brutali di accumulazione per espropriazione. Sarà da vedere se il modello estrattivista, come successe nel Brasile di Lula, seguirà il suo corso senza limiti come succede oggi o se verrà profondamente ripensato, visto che causa centinaia di conflitti sociali, repressioni, paramilitarizzazione e violenze. La speranza è che si favoriscano nuovi canali di dialogo per l’emersione e la risoluzione concertata dei conflitti, tenendo da conto la diagnosi generale critica e riformista del sistema attuale. Il problema è che le politiche redistributive che sono state promesse, seppur senza incrementi delle tasse, prima o poi potrebbero generare una rivolta o un boicottaggio dell’élite, specialmente dei gruppi imprenditoriali e quelli corporativi legati ai partiti Pan e Pri, e la caduta prematura del presidente che, già lo ha annunciato, cercherà di introdurre l’istituto della revoca del mandato a metà sessennio. Un’operazione delicata in un Messico in cui i poteri forti si sono consolidati per oltre trent’anni e in soli tre o sei anni potranno essere scalfiti, non cancellati. Insomma, un governo solido, con una maggioranza parlamentare storica come quella ottenuta il 1° luglio da Amlo, non significa “potere” o “cambio strutturale”. Comunque percepisco un ottimismo inedito e la sensazione che si tratti di una fase storica. Non ho visto in campagna da parte delle sinistre grossa attenzione per lo zapatismo o per la questione indigena, anche se esistono voci sicuramente sensibili all’interno del partito Morena. Sarebbe già un passo avanti se un nuovo governo antineoliberale e progressista riuscisse a rimandare l’esercito nelle caserme, specialmente in Chiapas, nel Oaxaca e Guerrero, stati colpiti duramente dalla repressione sin dagli anni settanta. Andrebbe anche sospesa immediatamente la Iniziativa Mérida, il Piano Colombia alla messicana che ha significato l’aumento dell’ingerenza americana e della militarizzazione con il fine reale di implementare politiche a favore degli investimenti stranieri. Il 1° gennaio 1994 resta un emblema del passato e del presente allo stesso tempo, ma è anche un’utopia, una guida che ha saputo costruire immaginari e autonomie che vanno oltre i caracoles, i territori del Chiapas e le sue comunità autonome, per spingersi globalmente a creare immaginari e rinnovare repertori di lotta.

 

*Andrea Cegna agitatore sociale, giornalista e organizzatore di concerti, è redattore di Radio Onda d’Urto, collaboratore di Radio Popolare e “il manifesto”. Ha pubblicato 20zln. Vent’anni di zapatismo e liberazione ,  Strade strappate. Storia rappata dell’hip hop italianoElogio alle tag. Arte, writing, decoro e spazio pubblico e Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo.

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Z come Zapatismo. Il colore della terra https://www.carmillaonline.com/2017/09/20/z-zapatismo-colore-della-terra/ Tue, 19 Sep 2017 22:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40638 di Fabrizio Lorusso

[Racconto estratto da Nuova Rivista Letteraria (Semestrale di Letteratura Sociale fondato da Stefano Tassinari) n. 15 (n. 5 Nuova Serie) del maggio 2017. Il numero della rivista ha 21 testi letterari, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ai vari tentativi rivoluzionari e di trasformazione sociale della storia]

Sono il primo di tanti passi degli zapatisti a Città del Messico

e in tutti i luoghi del Messico. Speriamo che tutti voi camminiate insieme a noi.

Comandanta Ramona (1959-2006), EZLN, 1996

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di Fabrizio Lorusso

[Racconto estratto da Nuova Rivista Letteraria (Semestrale di Letteratura Sociale fondato da Stefano Tassinari) n. 15 (n. 5 Nuova Serie) del maggio 2017. Il numero della rivista ha 21 testi letterari, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ai vari tentativi rivoluzionari e di trasformazione sociale della storia]

Sono il primo di tanti passi degli zapatisti a Città del Messico

e in tutti i luoghi del Messico. Speriamo che tutti voi camminiate insieme a noi.

Comandanta Ramona (1959-2006), EZLN, 1996

Città del Messico, 30 giugno 2018

A ventiquattr’ore dal voto di domenica primo luglio nel quartier generale del candidato AMLO, acronimo che distilla il suo lungo nome completo, Andrés Manuel López Obrador, si respira già aria di vittoria. Sarebbe la prima volta nella storia per un partito di sinistra a livello nazionale. Le bandiere del Movimento di Rigenerazione Nazionale o MoReNa, il partito creatura del leader, sventolano un po’ ovunque nella capitale messicana che, da sempre, è la roccaforte delle varie anime del centrosinistra.

Nei sorrisi compiaciuti dei militanti s’incarna l’allegria, la catarsi dopo quasi vent’anni di sconfitte elettorali e frustrazioni. Nelle pupille brillanti di alcuni stretti collaboratori del probabile futuro presidente, dato in testa da tutti i sondaggi e sostenuto dalle grosse catene televisive nazionali e persino da un discreto numero di magnati, progressisti dell’ultimo minuto, s’intravvedono, tra lacrime di gioia e di tensione, le prefigurazioni archetipiche di poltrone ministeriali e seggi parlamentari. C’è voglia di cambiamento.

Finalmente, come più volte ha ripetuto AMLO nei comizi della campagna elettorale, “la terza è quella buona”, per cui dopo essere stato sconfitto prima nel 2006 dal catto-conservatore Felipe Calderón e dai brogli elettorali del suo partito, Acción Nazional (PAN), e poi nel 2012 dal tele-candidato idiotizzato Enrique Peña Nieto, è arrivato il momento del riscatto.

Rifondare il Paese, sconfiggere la corruzione e invertire la rotta intrapresa nel 1982 con l’inizio delle selvagge riforme neoliberiste e lo smantellamento dello Stato: questo, in un tweet, il riassunto del programma, o meglio degli slogan, della sinistra che fa riferimento a MoReNa.

L’altra sinistra parlamentare, cioè una ex sinistra che secondo alcuni sondaggi diventerà anche ex parlamentare, visto che rischia di sparire dalla mappa elettorale, è quella del PRD, il Partido de la Revolución Democrática. Nel 1997 riuscì nell’impresa di espugnare Città del Messico, bastione del PRI (Partido Revolucionario Institucional), egemonico in tutto il Messico e nella capitale per 70 anni nel secolo XX, e da allora l’amministra. Andrés Manuel è stato sindaco della megalopoli dal 2000 al 2005 e poi è stato il candidato del PRD alle presidenziali per due botte consecutive, entrambe perse. Questa volta, però, le cose vanno diversamente, il leader fa da sé ed è certo di vincere.

 

 

Siamo riflessione e grida

Subcomandante Marcos, Città del Messico, 11 marzo 2001

Marzo 2001, Colore della Terra e Autonomia

“Comincia questa marcia oggi, che la luna è nuova, affinché la terra dia infine i frutti della giustizia per coloro che sono il colore della terra. Comincia la marcia della dignità indigena, la marcia del colore della terra”. Il comunicato, inviato dalle montagne del Sudest messicano il 24 febbraio, è firmato dal Comando Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e annuncia una marcia in partenza dal meridionale stato del Chiapas. “Che il mondo sia finalmente il luogo di tutti e non la proprietà privata di chi possiede del denaro il colore e l’immondizia. Un mondo con il colore dell’umanità”, prosegue.

(foto: La Jornada-Heriberto Rodríguez)

L’EZLN arriva dal Sud per parlare alla gente nelle piazze e ai parlamentari che stanno discutendo la Ley Cocopa, inviata dal presidente alle Camere. La norma dovrebbe recepire in Costituzione gli Accordi di San Andrés del 1996, che danno personalità giuridica ai popoli indigeni, e aprire uno spiraglio per la risoluzione del conflitto cominciato nel 1994, quando gli zapatisti in armi occuparono cinque città, facendo risuonare globalmente il loro grido di degna rabbia e ribellione: “¡Ya Basta!”, adesso basta.

La povertà in terra azteca esplode ciclicamente e persiste. E anche le disuguaglianze aumentano, il Messico negli anni ’90 s’era “globalizzato” ma era stato assimilato al cinquantunesimo stato dell’Unione Americana. Il presidente neoliberista Carlos Salinas parlava invece di una Paese che stava entrando al “primo mondo”. “Vale la pena, compatrioti, per il bene della nostra grande nazione; è per il Messico”, aveva detto celebrando l’entrata in vigore, il 1 gennaio 1994, del NAFTA, trattato di libero commercio dell’America del Nord. Ma non tutti e tutte la pensavano come lui.

Nonostante la militarizzazione, le aggressioni paramilitari e la guerra di bassa intensità del governo, sette anni dopo l’insurrezione, gli zapatisti continuano a lottare. L’11 marzo 2001 la più grande piazza e cuore politico del Paese, lo zocalo, li riceve, stipata di gente come mai prima per accompagnare da vicino le loro richieste di riconoscimento dei diritti e della cultura indigeni al governo Fox.

“Fratello, sorella indigena. Fratello, sorella non indigena. Qui siamo per dire che qui siamo. E quando diciamo ‘qui siamo’, anche il diverso nominiamo. Fratello, sorella che sei messicano e che non lo sei. Con te diciamo ‘siamo qui’ e con te siamo. Fratello, sorella indigena e non indigena. Uno specchio siamo”, le parole di Marcos hanno rotto il silenzio e il sole inclemente preannuncia l’eterna primavera dell’altopiano. “Non siamo quelli che, ingenui, aspettano che dall’alto arrivi la giustizia che cresce solo dal basso, la libertà che si conquista solo con tutti, la democrazia che viene combattuta sempre e a tutti i livelli. Non lo saremo”. Una folla attenta e silenziosa ascolta le parole dei ribelli.

Avenida Universidad, la grande arteria viale che collega il centro della capitale alla città universitaria, sede dell’ateneo più grande d’America, è trafficata e in ebollizione. Gli zapatisti pernottano nelle islas, cioè le isole di prati e piazzali dell’Università Nazionale Autonoma che sono chiuse esternamente dagli edifici delle facoltà, dal palazzo del rettorato e dalla biblioteca centrale, imponente coi suoi dodici piani d’altezza e la facciata esterna decorata da un mosaico del muralista O’Gorman. Anche qui, un giorno dopo la manifestazione del zocalo, gli zapatisti raccolgono intorno a sé migliaia di sostenitori.

Uno studente francese, in Messico per uno scambio e per provare a fare una tesi, legge il comunicato della marcia su un volantino distribuito dai compagni dell’università. Ne copia alcuni estratti e li trasferisce a caratteri cubitali su un foglio di cartone. Lo fissa a un tavolo piazzato nel mezzo del cortile condominiale e comincia a distribuirne delle copie ai passanti. Appiccica anche un invito scritto su un rettangolo di stoffa ricavato da un lenzuolo: “Raccolta viveri in solidarietà con gli zapatisti: vestiti, riso e fagioli sono benvenuti”.

Gli indigeni in lotta hanno percorso il Paese, facendo più di seimila chilometri, e sono giunti a Città del Messico dopo tre settimane di viaggio. Hanno bisogno di cibo e indumenti.

Un’anziana signora s’avvicina al giovane studente, lo squadra e lo increpa: “Ci mancava solo gente da fuori che viene qui a immischiarsi nelle questioni politiche del Paese, ricorda che possiamo chiedere l’espulsione per quelli come voi, lo dice la Costituzione!”.

“Perché non si toglie il chip xenofobo dalla testa?”, risponde il giovane che, alterato ma non spaventato, non viene nemmeno capito e riceve in cambio una smorfia. Fino a pochi minuti prima era in compagnia di due compas messicani che, in qualche modo, coprivano la sua presenza, ma poi era rimasto solo in balia degli sguardi scocciati di alcuni condomini destrorsi e degli anatemi di una vecchia antizapatista.

Intanto gli zapatisti, mentre il parlamento litigava sul da farsi, erano tornati in Chiapas. Il 28 marzo una delegazione di ventitré comandanti torna nella capitale. Una donna prende la parola di fronte all’intero Paese, nel palazzo del potere legislativo: “Soffriamo tre volte perché siamo donne, siamo indigene e siamo povere”, incalza. “Veniamo qui per essere ascoltati e ad ascoltare e dialogare”, ribadisce. E’ la comandanta Esther. Marcos non entra, parlano gli altri. La sua assenza è strategica, intelligente. Lo spazio della poesia e dei comunicati viene occupato dalle ragioni della lotta e della marcia e il Sub solo spiega che “oggi la guerra è un po’ più lontana e la pace con giustizia e dignità un po’ più vicina”.

Un mese dopo i partiti che hanno la maggioranza dei due terzi in parlamento, con la quale è possibile modificare la Costituzione, sono il dinosauro PRI e il PAN, arrivato a vincere la presidenza con Vicente Fox l’anno prima, e votano una controriforma che tradisce la lettera e le intenzioni degli accordi. Un PRD diviso e schizofrenico vota contro alla Camera e a favore al Senato, ma la riforma passa comunque. Allora gli zapatisti chiudono con la politica dei palazzi, le loro Basi di Appoggio si stringono intorno alla Comandancia per concretizzare nei fatti, non più nelle leggi, l’autonomia e fondare le comunità dei caracoles.

Passano gli anni, nel 2006 il presidente Calderón lancia una suicida strategia di “guerra al narcotraffico” che lascia sul campo, in un decennio, 200mila morti e 31mila desaparecidos. Ma in Chiapas una nuova generazione zapatista è pronta. Il subcomandante Marcos decide di uscire di scena, dichiara la sua morte e si trasforma in Galeano nel maggio 2014, pochi giorni dopo il brutale assassinio, perpetrato da paramilitari, del maestro e compagno José Solís López, noto appunto come Galeano. “Pensiamo che sia necessario che uno dei nostri muoia affinché Galeano viva”, è la spiegazione che dà Marcos. Il subcomandante Moisés diventa il nuovo portavoce. Marcos annuncia la sua “destituzione” e, parlando delle origini della sua figura pubblica, scrive: “Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione. Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”. Adesso non c’è più, largo alle nuove generazioni.

 

 

Facciamo un appello a tutti e tutte a non sognare, ma a fare qualcosa di più semplice e definitivo: vi chiediamo di risvegliarvi.

Subcomandante Marcos, gennaio 1999

San Cristóbal de las Casas, Universidad de la Tierra, 14 ottobre 2016

“Che tremi nei suoi centri la Terra”, il comunicato viaggia intergalatticamente dalla selva lacandona del Chiapas allo spazio. “Ci dichiariamo in assemblea permanente e consulteremo in ognuna delle nostre geografie, territori e direzioni l’accordo di questo Quinto CNI, per nominare un consiglio indigeno di governo la cui parola sia incarnata da una donna indigena”. Il Congresso Nazionale Indigeno (CNI), spazio d’incontro e di organizzazione del movimento indigeno a livello nazionale fondato nel 1996 e alleato dell’EZLN, spiazza tutti con la proposta di una candidata donna e indigena per la presidenza. “Ratifichiamo che la nostra lotta non è per il potere, non lo cerchiamo, bensì che chiameremo i popoli originari e la società civile a organizzarsi per bloccare questa distruzione, rafforzarci nelle nostre resistenze e ribellioni, ovvero nella difesa della vita di ogni persona, ogni famiglia, collettivo, comunità o quartiere. Costruire la pace e la giustizia rifinendoci dal basso, da dove siamo ciò che siamo”.

“Ciao, ma hai sentito? Hai letto? Il CNI ci prova per combattere la spoliazione dei territori e delle comunità, la ‘questione indigena’ torna al centro”, il tono della voce è concitato. Lo studente, che intanto ha finito la tesi di laurea e frequenta un dottorato, ascolta e chiude gli occhi per concentrarsi. Fa appena in tempo a capire chi è l’amico dall’altra parte dell’apparecchio che viene subito incalzato: “Adesso c’è un’alternativa al sistema politico dominante!”. Dopo la rottura degli zapatisti col sistema politico e le istituzioni il francese, che è rimasto in Messico a vivere, non sa bene cosa pensare ed il suo pessimismo è quasi cosmico: “Sì, ok, ma a te come va? Ho visto un po’ le notizie, infatti, per la prima volta nella storia qua possono presentarsi candidati indipendenti fuori dei partiti, ma devono tirar su 800mila firme, ma poi con chi governano senza gente in parlamento?”. “Va beh, ma è comunque una cosa storica, mai vista, dai”, insiste l’amico al telefono. “Lo so, stiamo a vedere, c’è già chi pensa che vogliano fare un governo ombra o simili, non ho capito”, vagheggia lo studente. “Ne parliamo bene dopo, facciamo un’assemblea, qualcosa…”, conclude il chiamante. “Claro, claro, un abrazo a presto!”, si svincola lo studente. Stenta a credere alla notizia, è sorpreso, pure felice, ma confuso. La politica messicana fa perdere facilmente la bussola anche a chi la mastica da tanto.

Da subito sono feroci le reazioni dell’intellighenzia progressista e di partiti come il PRD e MoReNa che hanno paura di perdere voti a sinistra e già incitano “il popolo” al “voto utile” per bloccare le destre. D’altra parte c’è invece chi rivendica il diritto di chiunque a candidarsi, specialmente se si tratta di organizzazioni storicamente escluse. Il loro obiettivo è comandare obbedendo tramite un consiglio indigeno di governo e una presidente-portavoce scelta dalle basi. I giornali di regime accusano gli zapatisti e il CNI di essere dei provocatori e di non avere speranze. Il dibattito s’accende, ed è un primo importante risultato per i popoli originari organizzati.

Io lotto per ideali e cerco la trasformazione del Messico per via pacifica

Il voto è l’unica arma che ha il popolo per far sì che le cose cambino

Andrés Manuel López Obrador

Città del Messico, 2 luglio 2018

E’ notte, quasi la mezza. Piove a volontà. Il leader è solo. Rivede le schermate coi risultati. Ride, ha gli occhi lucidi e pensa al da farsi. Gli hanno detto di stare tranquillo, dopo l’infarto di cinque anni fa il suo cuore ha bisogno di meditazione. Sedici ore di lavoro, tre comizi al giorno, emozioni a raffica e una campagna elettorale permanente che dura da più di dieci anni stenderebbero chiunque. AMLO ha fatto quattro volte il tour completo di tutti i comuni del Messico, la sua esperienza sul territorio è preziosa e il suo team ha molti talenti, soprattutto nel campo della cultura e delle politiche sociali.

Il leader ha chiesto a tutti d’uscire dalla stanza. Ancora non ci crede. Convoca i suoi collaboratori a una reunión urgente per gestire al meglio le prime dichiarazioni alla stampa. Su 89 milioni di aventi diritto, ieri hanno votato i due terzi, è stata l’elezione più partecipata della storia. Ma Andrés Manuel non ha vinto. Nessun partito ha vinto.

L’istituto elettorale ha comunicato i dati del conteggio preliminare: AMLO ha preso il 25%, Margarita Zavala, moglie del guerrafondaio Calderón, il 17%, Osorio Chong, del PRI, il 13%, gli indipendenti l’1% e Mancera, del PRD, il 9%. La candidata dell’EZLN e del CNI ha sconfitto i contendenti e blinda la presidenza col 35% dei voti. Il consiglio di governo indigeno l’accompagna, s’insedierà il primo dicembre. Nessun pronostico, nessun indovino, l’aveva financo immaginato. In parlamento, solo MoReNa ha raggiunto una maggioranza che, sebbene risicata, può decidere se sostenere la presidenta o affogare il Paese nel caos.

La stampa viene fatta entrare. AMLO è stanco ma tranquillo. “Che intende fare?”, un reporter de La Jornada lo interroga. Il politico aveva promesso che si sarebbe ritirato a vita privata in caso di sconfitta. “Abbiamo vinto – spiega – ma abbiamo soprattutto perso, perché ero solo io il centro, il partito, ma adesso per MoReNa è giunta l’ora di comandare obbedendo e sostenere il cambiamento”.

Nel frattempo una folla spontanea, immensa e festante inonda Insurgentes e Reforma, le maestose avenidas che tagliano a croce la capitale messicana da nord a sud e da est a ovest. Il rituale è impressionante. Un eterno studente passeggia per il centro, non sembra nemmeno più uno straniero dopo tanti anni, con la sua barba incolta e la pelle bronzea nella perenne primavera messicana. Ha visto tanti colori della terra in questi anni, ha visto la polvere del Messico tingersi di sangue e la speranza ingrigirsi di pallottole e macabri conteggi di vittime. Ma oggi, come nel novantaquattro, sono colorate e ribelli le grida che s’inzuppano di pioggia nel giubilo. Vede aprirsi le nubi, si siede, scorge l’ombelico della luna e sa di non essere più solo mentre aspetta l’alba della verità e della giustizia.

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La lotta degli insegnanti in Messico https://www.carmillaonline.com/2013/09/07/la-lotta-degli-insegnanti-in-messico/ Sat, 07 Sep 2013 03:25:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9151 di Fabrizio Lorusso

EZLN warrior MegaMarcha 4S Mex DF 085 (Medium)

C’è un Messico in lotta contro le cosiddette “riforme strutturali” che scende in piazza (e ci resta). Il conflitto degli insegnanti con il governo e i parlamentari federali per la riforma educativa dura da alcuni mesi, ma nelle ultime due settimane ha raggiunto l’apice. Un presidio di insegnanti nel centro della capitale era presente già dall’8 maggio, ma pochi se n’erano accorti. Invece da agosto la CNTE, Coordinamento (Coordinadora in spagnolo) Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione, è in [...]]]> di Fabrizio Lorusso

EZLN warrior MegaMarcha 4S Mex DF 085 (Medium)

C’è un Messico in lotta contro le cosiddette “riforme strutturali” che scende in piazza (e ci resta). Il conflitto degli insegnanti con il governo e i parlamentari federali per la riforma educativa dura da alcuni mesi, ma nelle ultime due settimane ha raggiunto l’apice. Un presidio di insegnanti nel centro della capitale era presente già dall’8 maggio, ma pochi se n’erano accorti. Invece da agosto la CNTE, Coordinamento (Coordinadora in spagnolo) Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione, è in sciopero indefinito e l’anno scolastico 2013-2014 non è ancora cominciato in migliaia di scuole. La combattiva Sección 22 di Oaxaca, forte di 74mila affiliati e già protagonista del conflitto del 2006, soffocato nel sangue dall’allora governatore dello stato di Oaxaca, Ulises Ruiz, rappresenta il gruppo più nutrito di professori in resistenza, ma i rinforzi questa volta sono arrivati da tutto il paese.

Il plantón

Dal 19 agosto il presidio dei maestri è diventato una tendopoli quindi l’attenzione mediatica s’è rivolta verso gli oltre 40mila occupanti, insegnanti di asili, scuole primarie e secondarie, che ormai vivono nella piazza principale del Messico. Ogni giorno realizzano atti di resistenza, bloccano le strade e l’aeroporto internazionale, chiudono le entrate dei palazzi del potere, fanno assemblee, sistemano le tende scardinate dai violenti acquazzoni di questa stagione piovosa e inclemente, e infine portano avanti le negoziazioni estenuanti con funzionari e parlamentari inviati dai partiti per fare melina. Le minacce avanzate da alcuni deputati della destra (PAN, Partido Accion nacional) di incarcerazione dei leader, che in realtà sono i “portavoce” del movimento, e di repressione violenta della protesta non hanno fatto desistere i docenti.

Ho provato a descrivere con una galleria fotografica (link qui), non solo con le parole, l’enorme tendopoli allestita dalla CNTE nella piazza centrale (lo zocalo) di Città del Messico. Nel plantón, il presidio-tendopoli, ore e ore di pioggia non spazzano via la speranza, anche se funzionano per scacciare i curiosi, i venditori ambulanti, in maggior parte commercianti della capitale, e le cattive notizie che arrivano dal Palazzo: nella notte dell’1S (primo settembre), con una sortita dei legislatori, è stata approvata dalla Camera dei deputati la Legge del Servizio Professionale Docente, oggetto delle negoziazioni tra i rappresentanti della CNTE, il governo e alcuni parlamentari. Uno sberleffo in piena regola.

Scene di vita e resistenza civile compongono un quadro di lotta metropolitana nella povertà e nella solidarietà, prestata da tanti abitanti della capitale e dalle famiglie dei maestri che da Oaxaca, dal Chiapas, dal Guerrero, dal Michoacan, dal Durango o dalla Bassa California, insomma da molto lontano, mandano viveri, sacchi a pelo, tende e vestiti, incoraggiamenti e affetto. Per i servizi igienici gli insorti si devono rivolgere ad alcuni abitanti della zona che prestano docce e bagni, a volte in cambio di piccole somme.

Nel pomeriggio del 31 agosto, quando sono stato per qualche ora in alcune tende del plantón, solo un gruppo ridotto di docenti, circa 10mila, si trovava a presidiare la zona visto che la maggior parte degli insorti era nelle rispettive comunità d’origine per il fine settimana. Mille insegnanti del Chiapas si sono integrati alla tendopoli in serata. Durante la settimana, anzi  già da domenica primo settembre in poi, sono state realizzate decine di manifestazioni.

MegaMarcha 4S Mex DF 472 (Medium)Ma che cos’è la CNTE?

C’è chi la vede come un vecchio rimasuglio di un mondo che fu, anacronistico e d’ostacolo per lo sviluppo e la “modernità” del paese, ma c’è chi la difende come ultimo baluardo contro il neoliberismo selvaggio, come un’organizzazione plurale e democratica a difesa dei veri interessi delle classi lavoratrici. Sicuro è che non va confusa con il SNTE, Sindacato Nazionale Lavoratori dell’Educazione, che è il sindacato ufficiale, allineato al governo.

Dall’aprile scorso la sua leader storica, Elba Esther Gordillo, è sotto processo per “uso di risorse dalla provenienza illecita” e attende la sentenza in prigione. E’ stata quindi sostituita da Juan Diaz, uomo fedele al presidente. La CNTE è un coordinamento, fondato nel 1979, che raccoglie gli insegnanti che hanno un pensiero critico nei riguardi del sindacato ufficiale. Questo è quasi un apparato paragovernativo del PRI (l’ex partito di regime tornato al potere nel 2012), mentre la CNTE si struttura come corrente democratica all’interno del SNTE e non è un sindacato a parte.

Fabrizio Mejía sulla rivista messicana Proceso del primo settembre spiega che “la CNTE è ciò che resta dei cosiddetti ‘coordinamenti di massa’, un tentativo di democratizzare i sindacati a partire dalle basi, in cui ogni sezione arriva ad accordi assembleari solo quando esiste un punto generale su cui si possono programmare azioni. Gli insegnanti, i lavoratori a cottimo ‘jornaleros’ e alcuni gruppi operai fecero parte, due decenni or sono, di questa dissidenza sindacale, ma oggi di tutto questo resta solo la CNTE”.

Attualmente la CNTE mantiene viva l’opposizione alla riforma educativa, che più che “educativa” pare una riforma (regressiva) del lavoro e dell’amministrazione, inviata al parlamento dal presidente Peña Nieto. Il Sindacato (SNTE) dorme. Anzi, fa spot a favore dell’iniziativa di Peña. La stragrande maggioranza dei mass media, TeleVisa e TV Azteca in testa, spara a zero sui maestri dissidenti, tacciandoli di “pigri e sovversivi” e mandando in onda programmi ridicoli atti a provocare ostilità da parte della popolazione della capitale, soprattutto della classe media imbambolata: interviste a conducenti incazzati per il traffico, bambini e genitori in lacrime perché la scuola non comincia, storie edificanti di maestri moderati e coraggiosi che sì “amano lavorare” e così via.

La riforma costituzionale

Dopo aver promosso la riforma degli articoli costituzionali riguardanti l’istruzione (il 3 e il 73) che è stata approvata dai tre partiti più grandi (PRD, PRI, PAN) nel febbraio scorso, il presidente ha spinto e ha ottenuto un’approvazione fast track delle leggi secondarie in parlamento. La riforma costituzionale di febbraio ha stabilito le basi per i cambiamenti nella carriera dei professori, nell’accesso a posti dirigenziali nella scuola e nel disegno e implementazione della politica educativa a livello primario e medio.

MegaMarcha 4S Mex DF 372 (Medium)Per esempio, è nato l’Istituto Nazionale per la Valutazione dell’Educazione e s’è stabilito che l’entrata nel “servizio docente” e la promozione a posti direttivi avverrà tramite valutazioni che garantiscano “l’idoneità delle conoscenze e delle capacità che corrispondono a ciascuna funzione”, e così gli stimoli e la permanenza in servizio dipenderanno dalla valutazione obbligatoria. Viene anche previsto, ed è un punto positivo, l’allargamento del tempo pieno, anche se buona parte delle strutture scolastiche attualmente non sono attrezzate a tal proposito. Molto polemica è stata l’approvazione di una specie di corresponsabilità gestionale ed economica per cui alunni, docenti e genitori, con il coordinamento della direzione, possono essere coinvolti (cioè dovrebbero in parte pagare di tasca propria) nel miglioramento delle infrastrutture, nell’acquisto dei materiali educativi e nella risoluzione di problemi operativi. Quindi le “quote volontarie” che versano per la scuola potrebbero diventare “obbligatorie”. Questi processi sono regolati dalle leggi secondarie che in questi giorni muovono la protesta nazionale.

Le leggi secondarie

A fine agosto quella sull’Istituto Nazionale per la Valutazione (INEE) e la Legge Generale sull’Educazione sono state approvate senza che l’opinione delle parti sociali e, soprattutto, degli insegnanti direttamente coinvolti nella riforma venisse presa in considerazione. In settembre è passata la terza legge, quella che tocca più da vicino la vita delle persone, dei maestri, e i diritti del lavoro acquisiti: la Legge sul Servizio Nazionale Docente.

In primavera mesi di dibattiti e convegni sul tema, in cui i docenti sono stati invitati a partecipare e hanno presentato le loro proposte dettagliatamente, non sono serviti a modificare la posizione dei parlamentari e del governo, per cui la CNTE ha provato a intavolare una discussione costruttiva, ma è stata scavalcata e beffata da false volontà di dialogo e prevaricazioni autoritarie. Dunque le ragioni delle manifestazioni sono molte e comprendono le richieste di migliori condizioni per le aule e i salari, oltre al nucleo costituito dalle tre leggi di riforma approvate frettolosamente.

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Settembre di piogge e manifestazioni: 1S e stato d’eccezione

Di nuovo come risposta all’indifferenza ufficiale, a Città del Messico il primo settembre c’è stata un’importante manifestazione di studenti, facoltà universitarie, organizzazioni sociali, parti del MoReNa (Mov. Rigenerazione Nazionale), semplici cittadini e alcuni gruppi anarchici contro la Riforma energetica e in sostegno degli insegnanti. Le iniziative in tutta la città e nel paese sono state tantissime. La manifestazione, nel primo pomeriggio, s’è unita a quella degli insegnanti della CNTE che si sono diretti a San Lazaro, sede della camera dei deputati messicana. Ci sono stati numerosi episodi di tensione, avvenuti durante la manifestazione e anche al termine della stessa, quando gli insegnanti, che formavano un cordone indipendente, stavano per ripiegare.

“L’imbottigliamento coatto” da parte della polizia puntava al controllo totale. L’effetto “collaterale” era quello di asfissiare e snervare, in particolare nei momenti in cui la doppia fila di granaderos in testa al corteo spezzava il ritmo della marcia e chiudeva i manifestanti, cosa che s’è ripetuta praticamente ad ogni curva. Nel contempo, gli scudi dei corpi antisommossa chiudevano la coda e i lati del corteo. E’ una modalità già sperimentata dal governo del presidente Peña Nieto e dai corpi di polizia della capitale a partire dalla giornata dell’1D, il primo dicembre 2012, in cui i poliziotti della capitale hanno serrato le file, chiuso ogni passaggio nel centro storico e infine hanno effettuato decine di arresti e pestaggi arbitrari. L’accerchiamento dell’intera massa popolare da parte della polizia (6mila elementi  in tenuta antisommossa) e l’enorme, sproporzionato, dispiegamento di forze rappresenta una strategia di contenimento che sfocia nella provocazione e nello stato d’eccezione. 

MegaMarcha 4S Mex DF 091 (Medium)

La reazione della polizia dopo gli scontri s’è concentrata su “obiettivi casuali”, cioè persone individuate perché indossavano vestiti neri, o proprio senza criterio, che andavano fermate. Alla fine della giornata di protesta dell’1S ci sono stati sedici arresti di alcuni attivisti e giornalisti indipendenti. Nonostante la strategia intimidatoria, le manifestazioni vanno avanti e, va detto, per ora (per fortuna) non sono accaduti “incidenti” gravi né situazioni paragonabili a quelle vissute nel 2006 (terribili repressioni di Atenco e Oaxaca in particolare), ma non si può ancora prevedere come evolveranno la protesta e le forze in campo.

In questo video (LINK): l’arresto arbitrario di un giornalista dell’agenzia messicana indipendente Subversiones che ha filmato la propria cattura (leggi l’appello qui: lo stato sta imponendo cauzioni enormi per il suo rilascio!). Si chiama Gustavo Ruiz e stava filmando una squadra di poliziotti che trascinavano su una camionetta alcuni giovani e, come si fa in questi casi per evitare abusi o addirittura sparizioni e sequestri ai danni dei detenuti, stava chiedendo agli studenti i loro nomi e la facoltà di appartenenza. Come se niente fosse, all’improvviso, si ritrova lui “dall’altra parte”, viene strattonato, la sua videocamera cade e fa in tempo a registrare le sue urla e il suo nome.

4 settembre – 4S

La strategia di contenimento minaccioso e militarizzato della protesta non è stata applicata alle manifestazioni, durate oltre 8 ore, del 4 settembre organizzate nella capitale e in 22 stati. Questa galleria fotografica (Link qui per lo slideshow e foto) della manifestazione della CNTE è del 4 settembre (4S): dalle 10 del mattino oltre 30.000 insegnanti hanno manifestato a Oaxaca e 40.000 in Chiapas mentre in 20.000 hanno camminato per 8 ore nelle strade della capitale messicana, dall’Auditorio Nacional al palazzo del Senato. Proprio questa ramo del parlamento il giorno prima aveva approvato la Riforma Educativa dopo che la camera l’aveva fatto la settimana prima.

La cosiddetta riforma educativa è in realtà una riforma del lavoro dei docenti e dell’amministrazione di stampo neoliberista ed è parte del piano di riforme strutturali (lavoro, fisco, energia, educazione, politica) che il governo di Peña intende portare a termine entro i prossimi quattro mesi. Il grande scoglio, cioè queste proteste dei “maestri dissidenti”, gli unici per ora che abbiano saputo articolare un’opposizione vera, è stato superato, per ora, grazie a un falso dialogo depistante con i maestri e a una serie di votazioni notturne e blindate alle camere. Infatti, i tre principali partiti (PRI, PAN, PRD) stanno approvando riforme legislative e costituzionali in fretta e furia, nell’ambito delle larghe intese alla messicana, cioè dall’accordo di governo chiamato “Patto per il Messico” e sottoscritto dai loro leader all’inizio del governo di Peña 9 mesi fa. La CNTE ha fornito la cifra di 700.000 insegnanti mobilitati per il 4S a livello nazionale.

Quali sono gli elementi controversi della riforma da poco approvata dalle camere?

024 (Medium)Ormai esaurite le discussioni e approvazioni in parlamento, la CNTE ha chiesto al presidente di bloccarla con un veto perché:

Si applica retroattivamente contro chi già lavora nel settore educativo pubblico prescolastico, primario e secondario, in contrasto con l’articolo 14 della Costituzione, e colpisce tutti i lavoratori dell’insegnamento a livello federale, statale e comunale derogando i diritti acquisiti. Infatti, le autorità educative possono annullare i diritti dei lavoratori senza necessità di un intervento giudiziario e con la riforma il “lavoratore” diventa “soggetto amministrativo”, in contrasto con l’articolo 123 costituzionale.

Quattro questioni importantissime come il reddito/salario, la promozione, il riconoscimento e la permanenza nel posto di lavoro sono ora condizioni amministrative e smettono di essere considerati diritti lavorativi.

Si dà piena facoltà al Ministro della Pubblica Istruzione federale e al ministero (SEP), quindi anche al presidente della repubblica, di scavalcare la sovranità dei singoli stati per autorizzare i principi riguardanti i quattro punti precedenti e ordinare ai governatori locali di seguirli. Il ministero potrà imporre linee generali per la prestazione del servizio di assistenza tecnica alla scuola a livello di istruzione primaria.

Viene creato l’Istituto Nazionale per la Valutazione dell’Educazione (INEE) che potrà imporre e autorizzare, anche sorpassando l’autorità degli stati, i lineamenti ad ogni tipo di autorità educativa e organi decentralizzati per la valutazione riguardante le 4 questioni citate. La SEP e l’INEE potranno interpretare unilateralmente la legge per effetti amministrativi e l’INEE imporrà i processi di valutazione.

Non si contempla la partecipazione sindacale ai processi di osservazione delle valutazioni e si annulla l’intervento di qualunque associazione dei docenti. Le 4 tematiche di cui sopra (salario, promozione, riconoscimento e permanenza nel posto di lavoro) non saranno oggetto delle “Condizioni Generali del Lavoro” e il Lavoro Docente sarà sostituito dal Servizio Professionale Docente che implica la rappresentazione dell’insegnante come soggetto amministrativo isolato di fronte allo stato.

095 (Medium)I tribunali del lavoro sono sostituiti da tribunali amministrativi in caso di conflitto nei punti specificati. Scompare il posto fisso e si crea la figura dei contratti “a tempo fisso” di natura temporanea e quella dei contratti “provvisori” per coprire un vuoto, cioè un posto non occupato per meno di sei mesi. I contratti a tempo fisso e le vecchie “plazas”, i posti fissi a tempo indeterminato, saranno subordinati alle condizioni di questa legge e saranno assegnati solo dopo 6 mesi di servizio senza nessuna “nota negativa”.

Il cosiddetto “processo di compattazione” prevede contratti ad ore e così permette di frazionare il pagamento del salario ai maestri. Scompare il diritto di inamovibilità dal posto di lavoro. Chi decide di accettare un impiego o un incarico (anche nel sindacato) che gli impedisca di svolgere la sua funzione docente, o quella di supervisione o direzione, dovrà “allontanarsi dal servizio” senza ricevere il salario.

S’instaura un procedimento autoritario che permette il licenziamento o allontanamento immediato dalle funzioni docenti (con riassegnazione ad altre funzioni) senza che vi sia la garanzia di ascolto e contraddittorio prevista dalla legge sul lavoro. Inoltre si stabilisce come causa di licenziamento senza alcuna responsabilità da parte delle autorità il rifiuto di partecipare ai processi di valutazione, senza considerare il livello accademico e di esperienza/anzianità.

Stessa modalità anche nel caso in cui il docente non partecipi ai programmi di regolarizzazione docente o non ottenga un risultato soddisfacente nel primo o nel secondo processo di valutazione e non s’incorpori al processo di regolarizzazione. Se, nonostante la partecipazione ai programmi formativi, il maestro non supera il terzo processo di valutazione, viene escluso dalla docenza e riassegnato ad altre mansioni. Queste decisioni si considerano unilaterali.

Si cancella il diritto al reinserimento nel posto di lavoro o di indennizzo, tramite il pagamento degli stipendi sospesi, in caso di licenziamento ingiustificato Si stabiliscono 8 causali ulteriori per la cancellazione degli effetti della nomina senza responsabilità alcuna dell’autorità e senza previa risoluzione del Tribunale Federale di Conciliazione e Arbitrato. 

Infine è permessa la separazione dall’incarico quando il docente si assenta, senza una causa giustificata, per più di tre giorni consecutivi o tre non consecutivi in un periodi di 30 giorni: la separazione dal posto di lavoro è una decisione unilaterale e l’autorità che la applica è la stessa che decide circa la sua eventuale revisione, quindi è giudice e parte in causa. Dopo settimane di proteste il senato ha inserito una clausola all’ultimo momento, un semplice “contentino” per i maestri, che dice che il personale allontanato dal suo incarico per l’applicazione di questa legge potrà impugnare la decisione presso gli organi giurisdizionali competenti. Il quadro generale di precarietà del lavoro, però, non cambia.

176 (Medium)Cosa dice la CNTE?

La CNTE sostiene che l’entrata, la promozione e la permanenza dei docenti devono legarsi al diritto del lavoro e ai diritti sociali “senza banalizzare il processo etico e della pratica educativa” e in un manifesto d’opposizione alla riforma specifica alcuni punti fermi: la distinzione tra la CNTE e il sindacato SNTE di cui questa è parte ma come “corrente critica”, la difesa dell’istruzione pubblica e la sua trasformazione tramite una visione critica della realtà messicana, l’inutilità delle leggi in materia educativa per risolvere i veri problemi del paese come la disuguaglianza e la povertà, la costruzione di una controproposta è stata ignorata dalle autorità malgrado abbia visto la partecipazione di numerosi interlocutori, il riconoscimento dell’istruzione come un diritto sociale universale al di sopra di interessi privati, il rispetto dei diritti lavorativi, il compromesso con una formazione professionale docente iniziale e permanente che deve essere anche rispettato dal governo messicano, secondo le specificità di ogni regione del paese.

Sulla valutazione docente la CNTE ha proposto che 1) sia un processo formativo e qualitativo nelle sue tre modalità (autovalutazione, co-valutazione e valutazione dall’esterno, 2) rispetti la diversità culturale del Messico, basata su una pratica educativa integrale, che includa tutti gli attori educativi, 3) sia una valutazione intesa come mezzo e non come fine, che consideri le condizioni di vita dei bambini, dei giovani e degli adulti che formano l’universo degli studenti del paese, 4) che riconosca i bisogni di base della popolazione e 5) che migliori le condizioni dell’insegnamento e dell’apprendimento riconoscendo l’importanza dei loro contenuti universali.

Riguardo alla Legge Generale del Servizio Professionale Docente, la quale avrà effetto a partire dal 2015, la CNTE ribadisce il proprio impegno e compromesso con gli studenti e il popolo in generale per contribuire alla formazione di soggetti che sappiano reclamare per il rispetto alla propria forma di vita e sostiene che ha sempre rispettato le richieste e gli accordi pattuiti con il governo della repubblica attraverso il ministro degli interni. Infine, viene criticata la fretta con cui si vogliono legittimare leggi che non aiutano il miglioramento del processo educativo e lacerano il diritto sociale all’educazione. E di fatto camera e senato hanno approvato tutto (tre leggi secondarie) in un paio di settimane e hanno finto di negoziare con gli insegnanti che ora continuano ad occupare mezza città del Messico e minacciano di estendere la resistenza agli stati una volta che saranno tornati a casa.

Altro week end di fuoco

Marcha 1S Mex DF 032 (Medium)Sabato 7 è previsto il primo incontro nazionale degli insegnanti a Mexico City convocato dalla CNTE. Domenica 8 la CNTE, insieme ad altre organizzazioni sociali solidarie come gli studenti di YoSoy132 e Movimiento de los 400 pueblos di Veracruz, scenderanno in piazza per accompagnare l’evento dell’ex candidato presidenziale delle sinistre, Andrés Manuel López Obrador, e del suo Movimento di rigenerazione nazionale (MoReNa). Non è prevista un’adesione formale della Coordinadora all’evento, ma solo una libertà di scelta delle singole persone e un sostegno alla lotta più generale contro la riforma energetica. Non si sa ancora se l’occupazione dello zocalo di Città del Messico continuerà, ma è sicuro che la CNTE non abbandonerà la sua resistenza civile pacifica, dichiarata dopo l’approvazione della legge al senato il 4 settembre, che potrebbe trasferirsi nei diversi stati della federazione ed essere condotta a livello locale: disobbedienza civile, negoziazione di alcune condizioni stato per stato, proteste locali, riapertura del dibattito sulle leggi approvate, conquista progressiva della maggioranza all’interno del sindacato nazionale, aumenti salariali e scioperi sono alcune possibilità.

Marcha 1S Mex DF 063 (Medium)La CNTE ha comunque chiesto a Peña Nieto di porre un veto presidenziale sulle leggi e di ridiscutere, nell’ambito di un gran dibattito nazionale, l’intero sistema educativo. Ciononostante è poco probabile che il presidente segua il suggerimento dei maestri su una riforma che lui stesso ha proposto al parlamento…

Sono a rischio anche le famose “Feste patrie” per la celebrazione dell’indipendenza del 15-16 settembre che si svolgono nelle piazze centrali, presso la sede del potere politico nazionale o locale, in cui il sindaco della città o il presidente tengono un discorso e gridano il patriotico “¡Viva México!” per ricordare il grido lanciato dal prete Miguel Hidalgo che diede inizio al processo d’indipendenza dalla Spagna nel 1810. Quindi forse quest’anno il “grido” non sarà solo quello del capo di stato o dei governatori, ma risuonerà pure quello degli esclusi, quello del lavoro degno, quello della resistenza pacifica che sfida chi ormai non grida più e s’accontenta delle promesse.

 

 

 

 

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