American Indian Movement – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/4 – Una precisazione necessaria https://www.carmillaonline.com/2024/08/28/avanti-barbari-4-addenda-1/ Wed, 28 Aug 2024 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84073 di Sandro Moiso

«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento [...]]]> di Sandro Moiso

«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento intitolato «Avanti barbari!» dedicato alla recensione di un testo di Louisa Yousfi, sono state fatte alcune affermazioni che, a giudizio di chi scrive, occorre ancora approfondire e chiarire, in tutta la loro reale portata, con una serie di precisazioni. A partire da quella, contenuta nel testo di Amadeo Bordiga del 1951, che «questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà.»

Motivo per cui non vi sarà nessuna continuità tra l’ordine sociale capitalistico e la novella società futura, se questa rifiuterà i fondamenti del primo. Il comunismo non potrà essere in continuità con il capitalismo, poiché, per essere definibile come tale dovrà costituirne la radicale negazione. Infatti, soltanto la rottura dell’ordine sociale, politico ed economico del modo di produzione capitalistico, a partire dalla sua macchina statale, potrà condurre ad un altro ordinamento sociale e produttivo. Destinato a negare radicalmente i valori ordinativi che una interessata interpretazione della Storia ha attribuito a ciò che si intende per civiltà.

Chi continua ad affermare il contrario dimostra soltanto di voler ancora illudere, e illudersi, che la transizione verso il nuovo mondo, non più basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta e accumulata e lo scambio mercantile e monetario, anche del lavoro prestato, possa avvenire senza scosse e senza abolire i pilastri, appena citati, che la fondano fin dalle sue origini.

Un’illusione che porta spesso a credere e sostenere che tale passaggio possa addirittura avvenire in virtù del voto di una maggioranza combattiva, ma anche ben educata e asservita alla mentalità liberale e democratica della partecipazione elettorale e parlamentare. Ma che ha anche giustificato la leggenda del socialismo di stato e del socialismo reale, a partire dall’URSS stalinizzata, in cui salari, moneta, mercato, appropriazione della ricchezza da parte dello Stato e dei suoi apparati politici ed economici avevano continuato a sopravvivere e a svilupparsi sulla pelle e lo sfruttamento di coloro che avrebbero dovuto essere, in teoria, i reali beneficiari della Rivoluzione d’ottobre e delle sue conseguenze: i lavoratori e il proletariato.

Illusioni che giustificano la partecipazione elettorale agli occhi di chi immagina che soltanto piccoli spostamenti dell’asse parlamentare e governativo possano condurre al socialismo e che, sempre in nome di velleitarie democrazie popolari e antifascismo da operetta, possono invece soltanto condurre al rafforzamento del potere del grande capitale sulla società. Come hanno recentemente dimostrato le elezioni francesi, in cui una sinistra vociferantesi radicale ha aiutato il ritorno al centro della scena politica di Emmanuel Macron, sfiancato e sfinito dalle due precedenti tornate elettorali, in nome di un antifascismo istituzionale che non fa altro che rafforzare il fascismo stesso.

E non si tratta nemmeno di porre il proletariato e i suoi rappresentanti al posto della classe borghese, come invece una mal compresa idea di dittatura del proletariato sembra invece suggerire, riaffidando al proletariato la gestione degli “affari nazionali”, dei confini della nazione e dei suoi apparati senza nulla modificare nella sostanza e nella continuità della gestione capitalistica dell’ordine ereditato. Condannandolo a rimanere nei limiti definiti da una riduttiva interpretazione della sua funzione sociale. Mentre nella visione dei fondatori del comunismo moderno la classe oppressa, nel raggiungere i propri obiettivi, dovrà innanzi tutto negare se stessa.

Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità, nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile1.

Il proletariato negli scritti di Marx ed Engels è, prima di tutto, rivoluzionario contro se stesso, contro le proprie forme di esistenza e sopravvivenza impostegli dal Capitale e dai suoi funzionari. Il proletariato è estraneo per forza di cose all’ordine che sarà costretto a distruggere, perché la classe oppressa, che sempre secondo Marx «o lotta o non è», ne è esclusa e non troverebbe alcun vantaggio nel farsi definitivamente integrare nello stesso. Sforzo che tutte le forze opportuniste di sinistra e il fascismo hanno portato avanti nel tentativo di disarmarlo. Il proletariato è dunque barbaro per sua intima essenza, e solo questa barbarie, questa sua estraneità mantenuta e difesa, potrà liberarlo dal giogo dell’oppressione permettendogli di rimanere autenticamente umano.

Lo sforzo di integrazione del proletariato, bianco o internazionale che questo sia, rivendicato da socialdemocratici e liberali costituisce il tentativo di disarmarlo davanti al suo nemico per spingerlo ad accettare le regole del gioco decise dalla classe borghese e dai funzionari del capitale stesso. Un’integrazione in cui l’obiettivo finale è quello di uccidere ed eliminare definitivamente l’intrinseca tendenza alla ribellione compresa nelle condizioni di vita degli oppressi. Sia che si tratti di popoli oppressi e colonizzati, sia che si tratti dei lavoratori salariati, donne e uomini, delle metropoli colonialiste e imperialiste.

Coloro che non l’accettano devono essere per forza definiti “terroristi”, “banditi”, “delinquenti” e allontanati con la forza oppure eliminati fisicamente dal consesso civile. Questo diventa particolarmente visibile là dove popoli oppressi, e privati della possibilità di avere un propria organizzazione politica e militare riconosciuta, vedono definire come “terroristica” qualsiasi loro iniziativa o organizzazione in grado, pur tra mille difficoltà ed errori di valutazione, di mantenere l’iniziativa militare e politica nei confronti dell’oppressore.

Certo, l’ipocrisia borghese e liberale potrà sempre, in seguito, piangere sugli errori, le stragi e i macelli compiuti a danno degli oppressi. Che si tratti della Comune di Parigi oppure dello sterminio dei nativi americani oppure ancora del commercio degli schiavi africani e del mantenimento in condizioni di segregazione dei loro discendenti o ancora di mille altri casi, la commemorazione ex-post e il percuotersi istituzionalmente il petto per gli “errori commessi”, le giornate della memoria fasulle, non impediranno mai che, davanti all’aperta rivolta e azione armata degli oppressi, tutto possa ripetersi, con violenza sempre maggiore e sempre giustificata dalla necessità di difendere dagli estremisti e dai terroristi l’ordine costituito insieme alla libertà e alla democrazia che dovrebbe rappresentare.

Che si tratti di movimenti indipendentisti e anti-coloniali, di Black Panther oppure dell’American Indian Movementi degli anni Settanta o, ancora, dei movimenti di resistenza attuali in Palestina, poco cambia. La risposta sarà sempre la stessa: sangue e violenza senza limiti, giustificati dalla necessità di salvaguardare l’ordine occidentale e bianco, liberale e “democratico” del mondo.

Nel 1821, Nat Turner, che era nato in schiavitù nella contea di Southampton in Virginia, fuggì dalla schiavitù all’età di 21 anni. Circa un mese più tardi, ritornò alla piantagione del suo padrone dopo aver avuto una visione profetica che lo invitava a farlo. Le visioni continuarono mentre egli viveva in schiavitù ma, questa volta, Nat comprese che lo indirizzavano a guidare una rivolta di schiavi. Al fine di vendicarsi sui bianchi per la condizione di schiavitù in cui gli afro-americani erano tenuti. Così, nell’agosto del 1831, dieci anni dopo l’inizio delle sue visioni, Turner iniziò a pianificare la sua rivolta e, con altri schiavi – che raggiunsero al massimo il numero di quaranta – uccise il padrone, la sua famiglia e, nel giro di 48 ore, ogni altro bianco i rivoltosi trovassero sul loro cammino, giungendo ad ucciderne o ferirne circa sessanta. Turner fu catturato, imprigionato e condannato a morte per impiccagione, comprensiva di linciaggio e scorticamento del condannato. Come Randolph Scully ha annotato in Religion and the Making of Nat Turner’s Virginia Baptist Communty and Conflict 1740-1840, l’evento «scosse la confortevole illusione bianca del reciproco rispetto e affetto tra schiavi e proprietari.»2

Quella di Nat Turner è soltanto una delle prime ribellioni di schiavi sul territorio degli Stati Uniti, eppure sembra anticipare tutto ciò che sarebbe avvenuto in seguito e ancora avviene in ogni angolo di un mondo in cui la mannaia della supremazia bianca, travestita da giustizia, cade ancora su chiunque osi ribellarsi al suo sempre più frusto comando.

Che si tratti dei Mau Mau africani degli anni Sessanta del XX secolo, oppure dei piccoli gruppi di nativi che nell’Ottocento fuggivano dalle riserve indiane per portare, per poche ore o pochi giorni, la paura tra coloro che pensavano di averli definitivamente sconfitti o sottomessi, o della rivolta dei sepoy in India nel 1857, quando le truppe indiane della Compagnia delle Indie si ribellarono al dominio inglese, alzarono il vessillo della jihad prendendo il nome di mujahiddin e uccisero gran parte dei cristiani e degli europei di Delhi, la giustificazione per i successivi massacri è sempre stata la stessa: non nata sotto il fascismo, ma dalla stessa esigenza dell’imperialismo liberale di mantenere il proprio comando sugli oppressi in nome della civiltà e dei suoi diritti3, mai radicali e sempre inegualmente distribuiti, secondo linee in cui classe e colore si sovrappongono senza sosta.

Dedicato con affetto, stima e, allo stesso tempo, rabbia per la prematura scomparsa, alla memoria di Emilio Quadrelli, sempre e comunque schierato dalla parte della “zagaglia barbara”.


  1. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  2. Melissa A. Weber, Revolution Rebels: Nat Turner’s Rebellion, 2021.  

  3. Si vedano in proposito: Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Storia dell’Impero britannico, Einaudi editore, Torino 2024 (ed. originale 2022) e, sul tema della nascita del razzismo moderno con l’ordine coloniale imposto al mondo dall’Occidente a partire dal XIX secolo, Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Pratiche editrice, Parma 1992 (ed. originale Black Athena, 1987).  

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“Ci sono ancora persone sobrie nella Riserva” https://www.carmillaonline.com/2018/05/15/ci-sono-ancora-persone-sobrie-nella-riserva/ Tue, 15 May 2018 21:12:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45498 di Giacomo Marchetti

Il silenzio, dicono, è la voce della complicità Ma il silenzio è impossibile. Il silenzio urla. Il silenzio è un messaggio, così come fare nulla è un’azione (Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali. Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009. E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica. La pellicola è una co-produzione, anche italiana, [...]]]> di Giacomo Marchetti


Il silenzio, dicono, è la voce della complicità
Ma il silenzio è impossibile.
Il silenzio urla.
Il silenzio è un messaggio,
così come fare nulla è un’azione

(Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali.
Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009.
E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica.
La pellicola è una co-produzione, anche italiana, che nasce da un progetto del Torino Film Lab, selezionata per la sezione Panorama della Berlinale di quest’anno, svoltasi alcuni mesi fa.
“La terra” nella finzione filmica è una riserva indiana chiamata “Prairie Wolf”, ma nella realtà del set è un territorio di confine tra USA e Messico: Tijuana, a qualche km da quel muro che divide “artificialmente” gli States dal Messico
Un confine che è stato al centro della propaganda politica elettorale presidenziale di Orange Man, attuale inquilino della Casa Bianca.
Una cesura che non ha nulla di naturale, quella tra USA e Messico, ma è il prodotto storico di un esproprio compiuto dagli Stati Uniti a metà dell’Ottocento in una delle prime guerre di conquista che ne caratterizzeranno la storia, così come nulla di “naturale” ha l’attuale situazione dei nativi americani in cui l’inizio del loro Olocausto coincide con l’approdo di padri pellegrini sul Mayflower nelle coste orientali del continente Nord-Americano a Cape Cod l’11 novembre del 1620.

Buona parte del territorio del sud degli Stati Uniti è infatti il risultato di una “guerra di rapina”, recentemente rievocata da un bel romanzo di Pino Cacucci: Quelli del san Patrizio in cui si narra le vicende dei disertori, per la maggior parte di origine irlandese, che passarono dalla parte dei messicani, formando un battaglione d’artiglieria nominato appunto San Patrizio al comando di John Riley, uno dei primi fulgidi esempi di “traditori di razza” della storia popolare nord-americana.

La linea di confine, “il dentro” e il “fuori”, la costruzione dell’identità, sono al centro della riflessione filmica, così come anche il tema del “traditore” – in questo caso traditrice – di razza, un ruolo – quest’ultimo – riservato nella pellicola ad una teenager bianca scevra dei pregiudizi della propria famiglia sui nativi americani, curiosa di conoscere la Storia, anzi le storie, di un popolo che vive ridotto alla condizione di reietto.
I nativi sono ancora odiati dai parenti della giovane che non provano alcun rispetto per “gli indiani” ma di cui hanno ancora timore.
I nativi costituiscono ancora una delle maggiori fonti di ricchezza attraverso la vendita di alcolici, business che oltre a lucrare sull’esistenza dei “pellerossa” contribuisce alla loro “anestetizzazione” sociale, rendendoli dipendenti dall’alcol (e quindi da chi lo vende) e incapaci di difendersi dai propri carnefici.
L’alcol ha svolto, e svolge, per i nativi americani la stessa funzione della diffusione massiccia di droghe nei ghetti delle città metropolitane nei confronti degli afro-americani: “la guerra chimica” denunciata ai suoi tempi della Pantere Nere.

Per citare la strofa di un verso di una famosa poetessa chicano-americana Gloria Anzaldua: to survive the Borderlands / you must live sin fronteras / to be a crossroads…
Il regista sembra ispirarsi proprio a questa strofa e stimolato da un servizio, apparso sul Guardian, si reca – per produrre il film – due volte in Nord America, visita una trentina di riserve e compie la selezione degli attori attraverso un casting aperto tra i nativi americani, persone che hanno quindi vissuto sulla propria pelle quella condizione che vuole far emergere, rendendo il film una sorta di docu-fiction in stile iper-realista.

Siamo in uno dei tanti territori rimasti ai margini dello sviluppo economico americano, dopo esserne stato al centro, qui si tratta di quella frontiera mobile un tempo fondamentale per l’espansionismo statunitense, ma la condizione di esistenza potrebbe essere la stessa, mutando di paesaggio e di composizione “etnica”: la periferia di Detroit, un tempo Motorcity, un villaggio ex-minerario nei Monti Appalachi, un quartiere di New Orleans colpito dall’uragano Katrina, in una tante città della rust belt: umanità di scarto in qualsiasi di questi contesti…

È la storia di una famiglia di nativi americani che vive nella riserva, e che passa gran parte della sua esistenza fuori dal territorio nativo stesso: un fratello, Ray, ex alcolista e diabetico lavora con il figlio in un allevamento di bovini mentre un altro combatte nell’Air Force degli Stati Uniti in missione in Afghanistan, un altro, Wes, passa la sua giornata in uno store fuori dalla riserva a bere birra (l’alcol è vietato nella riserva) con la madre – cattolica praticante ma tutt’altro che remissiva e perno del nucleo familiare – che lo porta in macchina quando inizia la sua giornata e lo va a prendere al calar del sole, mentre un terzo, che sembra godere di una certa agiatezza, si dedica al contrabbando di alcol nella riserva e non vive nella casa familiare.
La narrazione filmica si svolge quasi esclusivamente dentro le mura domestiche della famiglia nella riserva, dentro e nelle vicinanze del negozio che vende prevalentemente alcolici, nell’allevamento di bovini e lungo le strade polverose che collegano questi punti.
La riserva è una specie di non-luogo, solcato raramente da chi non ci vive ed è raro che qualcuno l’attraversi per raggiungere “un’altra meta”: non è mai un approdo, se non per chi ci vive come fosse un quartiere dormitorio in cui l’autorità poliziesca è svolta dalla tribe police, il cui unico compito sembra essere quello di verificare la presenza di alcolici sulle persone che ritornano alla Riserva.

Fuori dall’esercizio commerciale la telecamera si adagia sui nativi che passano il proprio tempo a bere, ridotti ad uno stato larvale, mentre sulle pareti un murale raffigurante il prigioniero nativo americano Leonard Peltier, e alcune scritte murali come “native proud” non potrebbero dare un senso di maggior contrasto tra una storia fatta di resistenza e volontà di riscatto ed un presente di marginalità e rassegnazione, a cui nel corso del film i protagonisti reagiscono trasformando una narrazione distopica nel suo contrario.

Gli eredi dei cowboys, non sembrano essere meno aggressivi dei loro predecessori e la tensione è palpabile in ogni scambio verbale tra i membri della famiglia che gestisce lo store, tranne la già ricordata teenager (l’unica che si interessa del co-protagonista alcolizzato), e la famiglia di nativi americani: la linea di separazione tra le due comunità deve essere netta e invalicabile, l’ostilità reciproca il metro del loro relazionarsi, non ha caso alla ragazza viene impedito di frequentare Wes.
La linea del colore, per citare W.E.Du Bois è ancora una discriminante e demolisce le retoriche obamiane della società statunitense come post-razziale.
In questo tempo, fuori e dentro, la riserva il tempo sembra essersi fermato.
Sanno che con i fumi dell’alcol Wes, perde i suoi filtri, e riporta a galla la storia, anche recente, di sopraffazione che la giovane non deve ascoltare: ma è proprio dalla comprensione di ciò che è attraverso ciò che è stato che la ragazza diviene complice indiretta della reazione dei nativi americani, provando probabilmente quello stesso senso di identificazione che le prime abolizioniste provavano nella condizione degli afro-americani di fronte al potere degli WASP, come ci ricorda Angela Davis in un libro recentemente ri-tradotto e ri-pubblicato: Donne, razza e classe.

L’unica attività di svago sembra essere il combattimento tra galli, che la crudeltà umana piega alla sua etica di scontro mortale cingendo con una lama metallica affilata ricurva una zampa del volatile.
Il combattimento tra questi animali, che è una sequenza centrale di Land, è una metafora di questa lotta mortale tra discendenti dei coloni e quelli dei nativi su una terra arida, sullo sfondo di uno sviluppo che concede solo le briciole in quella terra di nessuno alla componente bianca e che continua quel rapporto di dominio iniziato con la “Conquista del West”.

Il motore filmico è la notizia dell’uccisione del fratello in missione in Afghanistan, e le vicende si svolgono lungo il tempo d’attesa della possibilità di riavere il corpo del defunto per celebrare il rito funebre.
La “locandina” del film riprende un frame della pellicola nella scena al confine tra il territorio degli Stati Uniti e quello della riserva, con la bara coperta dalla bandiera statunitense e cattura lo sguardo d’odio del padre verso la cassa da morto in cui un vi è il corpo senza vita del figlio.

I parenti di Floyd e gli abitanti della riserva attendono la salma, sostituendo la bandiera a stelle a strisce e il picchetto d’onore dell’aeronautica: uno dei dialoghi più intensi del film è quello della nonna e del padre con l’ufficiale dell’Air force che ha il compito di occuparsi del figlio morto.
Floyd è morto “per il proprio Paese” secondo l’ufficiale, mentre per la sua famiglia quello era solo il suo lavoro, saranno loro a seppellirlo e non i militari nonostante la prassi esiga il contrario.
I nativi americani sono tra coloro che sono destinati essere la “carne da cannone” per le imprese belliche dell’Impero americano, ed il mestiere delle armi è una delle poche possibilità, insieme al crimine, di emancipazione economica per le “minoranze razziali” statunitensi.

La cerimonia funebre è dilatata nel tempo a causa dell’inchiesta che deve rilevare i motivi del decesso, e se il militare si è attenuto al regolamento, il che permetterebbe di godere alla famiglia di una cifra pari a 100.000 di dollari di risarcimento come militare ucciso in combattimento, rispetto ad una decima parte che gli spetterebbe comunque come soldato in missione.
La voce dell’ufficiale sfuma in questa scena che si svolge nell’ufficio della base militare dell’aeronautica, mentre elenca i vari benefits di cui ha diritto comunque la famiglia a causa del decesso (tra cui l’accesso a cure mediche gratuite…).

Nel tempo dell’attesa l’aggressione fisica gratuita da parte dei figli dei gestori dello store nei confronti del fratello etilista è l’altro motore filmico che fa schizzare la tensione tra gli eredi dei cowboys e quello dei guerrieri “indiani”. L’attesa della vendetta e della possibile reazione a questa in un contesto in cui non c’è alcuna autorità legittima che tuteli l’incolumità dei cittadini e ne punisca i trasgressori proiettano la vicenda in un continuum storico in cui la violenza era e rimane il rapporto sociale tra questi raggruppamenti umani che si tratti dello stupro travestito da prostituzione, o del linciaggio vero e proprio come strumento per imporre con il terrore il proprio dominio se minacciato.

Ed è significativo che la violenza che si consuma su Wes da parte dei due giovani avviene a causa della sua insistenza nel volergli ricordare un linciaggio di due “cacciatori indiani” avvenuto in passato recente di cui loro padre dovrebbe serbare ricordo, cioè esserne probabilmente il responsabile e non è difficile supporre si tratti proprio dell’uccisione del padre di Wes, di cui non si parla mai esplicitamente nel film.

L’equilibrio dato dall’impunità della sopraffazione si rompe e se ne stabilisce un altro in cui la possibilità di rispondere agli attacchi perpetrati nei confronti dei nativi americani non solo vendica un torto subito, ma stabilisce un precedente: ci sono ancora persone sobrie nella riserva risponde la madre zittendo la gestrice dell’attività commerciale che gli paventa rappresaglie per la giusta punizione inflitta ai suoi figli per ciò che hanno fatto a Wes.
Ed anche il figlio etilista, può farcela, se aiutato a disintossicarsi…

E in questa riaffermazione di sé e della propria storia di resistenza, che le parole dell’ex leader dell’American Indian Movement, Leonard Peltier, citate all’inizio della recensione ritrovano la loro forza vitale.
Peltier ha scontato ingiustamente 40 anni di carcere e ora settantenne è chiuso dietro le sbarre di una prigione, per avere difeso armi in pugno la propria comunità dagli assalti alla riserva di Pine Ridge, sfuggita alla dinamiche “interne” di perpetuazione della dominazione dello Zio Tom.
La poesia citata si conclude con queste strofe: Voi siete le vostre azioni / voi siete il risultato delle vostre azioni / diventate il vostro messaggio / Voi siete il messaggio.

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