america – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Odissea americana https://www.carmillaonline.com/2025/10/17/odissea-americana/ Fri, 17 Oct 2025 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91003 di Giovanni Iozzoli

“Arrivammo a Denver con l’indicatore del carburante quasi vuoto e l’Hudson che tossiva polvere da mille miglia di deserto. Era quel periodo selvaggio, sacro e folle in cui Dean e io eravamo inseparabili…”

La notizia è rimbalzata dall’America, ma non ha prodotto un grande clamore letterario. All’inizio si era parlato di un manoscritto inedito, poi dopo la cosa è stata ridimensionata a racconto breve – giusto un paio di cartelle su carta a rotolo da telescrivente. Stiamo parlando del ritrovamento recente di un dattiloscritto di Jack Kerouac, finito in un’asta pubblica al prezzo base di 8500 dollari. Niente di [...]]]> di Giovanni Iozzoli

“Arrivammo a Denver con l’indicatore del carburante quasi vuoto e l’Hudson che tossiva polvere da mille miglia di deserto. Era quel periodo selvaggio, sacro e folle in cui Dean e io eravamo inseparabili…”

La notizia è rimbalzata dall’America, ma non ha prodotto un grande clamore letterario. All’inizio si era parlato di un manoscritto inedito, poi dopo la cosa è stata ridimensionata a racconto breve – giusto un paio di cartelle su carta a rotolo da telescrivente. Stiamo parlando del ritrovamento recente di un dattiloscritto di Jack Kerouac, finito in un’asta pubblica al prezzo base di 8500 dollari. Niente di strano, anzi, sta capitando sempre più spesso che i ritrovamenti postumi riportino grandi autori in libreria. Ma in questo caso a destare curiosità è il luogo del ritrovamento: il manoscritto stava dentro un lotto di oggetti vari appartenuti a Paul Castellano, smaltiti probabilmente dopo lo sgombero di una proprietà di famiglia da parte di eredi, forse inconsapevoli del valore artistico che “The Guardian” definisce “very significant”.

Paul Castellano è stato uno degli ultimi boss riconosciuti del periodo d’oro di Cosa Nostra americana, prima che il ribelle e irriguardoso John Gotti mettesse fine alla sua carriera criminale, rompendo il tessuto di lealtà e omertà che aveva tenuto insieme le cinque famiglie di New York per decenni. Non pochi fanno coincidere la fine della epopea mafiosa negli States, proprio con l’omicidio di Paul Castellano, nel dicembre del 1985. Fu quel “golpe” messo in atto da John Gotti davanti allo Sparks Steak House di Manhattan, a far saltare la regola numero uno – il boss è sempre il boss. Dopo quella violazione salteranno tutte le remore e i pentimenti diventeranno all’ordine del giorno – lo stesso Gotti ne pagherà il prezzo morendo in galera 15 anni dopo quell’omicidio, condannato proprio grazie alla testimonianza chiave del suo uomo, Sammy Gravano.

Il manoscritto di Kerouac pare sia del 1956. Probabilmente si trattava di un primo spunto di quello che diventerà On the road, un libro ormai assurto al rango di monumentale stereotipo letterario, ma che alla sua pubblicazione irruppe sulla scena come opera di portata rivoluzionaria, in grado di segnare per sempre una grande stagione della letteratura mondiale. Usando un canone stilistico originale, Kerouac racconta l’ansia di vita della gioventù americana uscita disorientata dalla guerra, smarrita dentro la vastità dell’Impero vincitore, dove ogni conseguimento ma anche ogni paranoia distruttiva, sembrava effettivamente possibile. La poesia, le sostanze, la strada; oggi sembrano insopportabili luoghi comuni, allora rappresentarono uno squarcio sulla realtà e sull’utopia degli anni 50/60. Un potente viaggio letterario ed esistenziale in bilico tra estasi e tedio nichilista.

Costantino Paul Castellano, che per vie misteriose divenne il proprietario di quel manoscritto, fu invece un figlio esemplare di Cosa Nostra. Suo padre era un macellaio del Bronx, mafioso e benestante. Sua sorella sposò Carlo Gambino, l’unico boss americano che finì i suoi giorni nel letto di casa, circondato dall’affetto della famiglia e della sua cerchia. Gambino non prese mai la cittadinanza americana. A lui si ispirò vagamente Mario Puzo, ma mentre Coppola e Marlon Brando disegnarono la figura epica, eroica e tragica di un boss al tramonto, Gambino amava presentarsi come un ometto insignificante, senza carisma; ispirato sempre da una certa idea “all’antica” di basso profilo, vestiva in modo dimesso e godeva fama di uomo saggio e morigerato. Paul Castellano ereditò alla sua morte il titolo di capo della omonima famiglia Gambino – e leader delle 5 famiglie – ma evidentemente non volle ripercorrere la biografia furba e dimessa dì suo cognato. Castellano aveva la faccia da mafioso, vestiva da boss e fu arrestato sui Monti Appalachi mentre partecipava a quell’incredibile summit ripreso in tanti film e in tanta letteratura di genere. Però coltivava il sogno di legalizzare se stesso e le sue attività entrando a testa alta nel business pulito dell’alimentaristica e del calcestruzzo. Un boss in transizione dunque, un uomo da giacca e cravatta – e anche queste sue aspirazioni legalitarie gli costeranno la vita.

Nel 1956 Jack Kerouac è ancora alla disperata ricerca di un’identità, di un riferimento, segnato dalla mancanza eterna di un “padre” – trasfigurata nella figura del suo Dean Moriarty, perennemente in cerca del suo vecchio lungo le vie desolate del Colorado, le banchine di San Francisco e le strade ferrate dell’Ovest. Dieci anni dopo la guerra Kerouac vive ancora con la nonna e non è apprezzato dagli editori. Paul invece sa benissimo chi è e cosa vuole dalla vita. Il corso della sua esistenza è segnato fin dall’infanzia, nella tronfia sicurezza dei vincenti, dei protetti. Non possono esserci due americani più diversi tra loro.

Jack si lascia affascinare dallo zen laico di Suzuki e prova a diventare un “vagabondo del Dharma”; se le vecchie certezze sono fragili, cerca nella vacuità buddista un senso al suo vuoto interiore, a quella sua dannata incapacità di aderire all’America e ai suoi miti pur amandola disperatamente. Paul invece, in quegli anni non ha problemi di identità. Se Jack è uno sradicato Paul è un treno saldamente installato sul suo binario: il quartiere, i soldi, una bella famiglia, una carriera importante in quella mafia italoamericana, che è una delle aziende emergenti dell’economia post-bellica. Anche lui ama l’America, ma sa come prenderla. Solo passati i 60 anni comincerà a sbandare. Diventerà un velleitario. Dimenticherà le sue radici. Diceva di lui Sammy Gravano:  – il problema di Paul è che non era mai stato un gangster, non aveva mai rapinato nessuno, lui era un taglieggiatore, non aveva mai fatto la fame.

Paul Castellano era borghesia mafiosa. Come tutti i borghesi sognava l’emancipazione, la scalata, il perbenismo sociale. Cominciò a rompere con il suo ambiente, con la sua storia. Non frequentava l’ambiente criminale, timoroso di cimici e fotografi. Rimaneva chiuso nella sua lussuosa villa di Staten Island (vagamente ispirato a lui è il boss italo-americano che tratta con Denzel Washington  in American Gangster); lasciava ai suoi luogotenenti la gestione di affari e territorio – la vita di strada, le rappresaglie, il potere armato. Non voleva più immischiarsi in fatti di sangue. Pensava tutto il giorno a come investire i proventi criminali nell’economia legale che poteva trasformarlo finalmente in un vero uomo d’affari, riconosciuto dalla comunità dei businessmen newyorkesi. Quando Aniello Dalla Croce, il suo braccio destro che tanti problemi gli aveva risolto, muore di cancro, Paul sceglie di non partecipare al suo funerale, per non dare argomenti ai giudici e alla legge Rico.  E’ una rottura simbolica potente con la morale del suo mondo. Una esibizione pubblica di irriconoscenza. Il boss è solo, con le sue velleità. Il barbaro spaccone John Gotti, figlio di un miserabile muratore casertano, è pronto ad ammazzare Cesare ed ereditare il trono maledetto dei Gambino.

Jack, lo sradicato per eccellenza, trasformò il suo racconto di due paginette e mezza, ritrovate oggi, nel prologo del suo capolavoro. Visse i suoi giorni nel dolore e nell’incompiutezza: per il suo personaggio, Sal Paradise, erano combustibile poetico, ma per lui – nella vita vera – furono alcol, vomito, solitudine e delusione amorosa. Visse come era abituato a scrivere, in maniera rapsodica e casuale, su un rotolo bianco senza capo né coda. Jack e Paul condivisero solo una cosa: la frustrazione sessuale ed affettiva. Il primo fu un omosessuale represso e pieno di sensi di colpa; il secondo si innamorò, ormai anziano, della sua domestica centramericana, Gloria Olarte, che poi fu usata dall’FBI contro di lui. Per lei Big Pauly era disposto al divorzio – bestemmia estrema nell’etica del familismo mafioso. Forse sognavano entrambi, Paul e Jack, una seconda giovinezza, una seconda occasione che non riuscirono mai a cogliere – uno per la cirrosi epatica, l’altro per le pallottole. Lasciarono prematuramente la grande odissea americana che prima li esaltò e poi li fagocitò. In modo diverso recitarono un ruolo classico e tragico nell’immaginario collettivo statunitense – che resta un immaginario prevalentemente hollywoodiano, l’affresco di una nazione inseparabile, letteralmente, dal suo cinema e dai suoi libri: non ci sarebbe America senza un boss ammazzato – sulla sedia da barbiere o all’uscita di un ristorante di lusso – e non ci sarebbe America senza un poeta disperato e solo, con la testa piena di dharma e di rum.

Resta la domanda senza risposta – almeno io non ho l’ho trovata sui giornali che riportano la notizia: cosa diavolo ci faceva a casa del boss del Bronx Big Pauly Costantino Castellano quel racconto battuto a macchina su una Underwood oggi conservata al Beat Museum di San Francisco,? Si può solo immaginare che gli eredi, chissà come e chissà quando, abbiano sgomberato il villone – 18 milioni di dollari, la più fastosa costruzione di Staten Island – e che da qualche cassetto siano saltate fuori quelle pagine. Ma erano consapevoli del suo valore? E soprattutto, ne era consapevole Paul Castellano? Quel materiale gli fu venduto da qualche collezionista dopo la morte di Kerouac, come si fa con un dipinto prezioso? Fu il pegno per un debito di gioco non pagato? E Big Pauly lesse mai quelle due pagine? Non era un gretto, le sue velleità di arrampicatore sociale forse lo avevano portato anche a qualche lettura impegnativa. Cosa poteva mai pensare il boss di quella scrittura compulsiva, di quella parabola laica di uomini perduti nella ricerca del succo della vita? Lui quell’essenza l’aveva trovata. Era un novello Gatsby, viveva tra ricchi e imprenditori, amava la sua ciquita Gloria. Non capiva perché mai uno scrittore di successo avesse sentito il desiderio di suicidarsi con la bottiglia. La vita era bella, piena di cose interessanti, di possibilità e poteri e sogni infiniti – e ascese vertiginose, con vista sulla baia e sul ponte Da Verrazzano. E un killer, più fulminante di ogni cirrosi epatica, appostato davanti allo Sparks Steak House di Manhattan, in un freddissimo dicembre del 1985.

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Dare una forma al caos: una lettera di Howard P. Lovecraft https://www.carmillaonline.com/2025/08/27/ridare-una-forma-al-caos-una-lettera-di-howard-p-lovecraft/ Wed, 27 Aug 2025 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89910 di Sandro Moiso

Howard P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 161, 14 euro.

La cosa più misericordiosa al mondo è l’incapacità della mente umana di correlare tutti i suoi contenuti. Il sonno della ragione genera mostri; la veglia ininterrotta della ragione ne genera di più, forse peggiori. (Ottavio Fatica, Senza soluzione di continuità)

Ci informa il curatore del testo, nella sua postfazione, che H. P. Lovecraft ha dato vita ad uno dei più copiosi epistolari di tutti i tempi. Un autentico diario in pubblico composto, [...]]]> di Sandro Moiso

Howard P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 161, 14 euro.

La cosa più misericordiosa al mondo è l’incapacità della mente umana di correlare tutti i suoi contenuti. Il sonno della ragione genera mostri; la veglia ininterrotta della ragione ne genera di più, forse peggiori. (Ottavio Fatica, Senza soluzione di continuità)

Ci informa il curatore del testo, nella sua postfazione, che H. P. Lovecraft ha dato vita ad uno dei più copiosi epistolari di tutti i tempi. Un autentico diario in pubblico composto, si vocifera, di 100.00 lettere scritte tra i venti e i quarantasette anni, più o meno dal 1910 al 1937, anno della sua morte. Lettere lunghe anche 20, 30 o, come quella scelta per l’attuale pubblicazione presso Adelphi, 70 pagine.

Lettere che, però, non trattavano soltanto degli incubi di uno scrittore che, fin da quando aveva sei anni, aveva cominciato a trascrivere il sogno di «un ragazzino che origliò un orribile conclave di esseri sotterranei in una spelonca», così come, ad esempio, quelle riportate nelle sue “Lettere dall’altrove” scritte tra il 1915 e il 19371 estratte dall’ampia selezione di lettere, raccolta in cinque volumi, da August Derleth e Donald Wandrei tra il 1965 e il 1968 e pubblicate dalla Arkham House nel 1976.
Autentiche testimonianze di una mente, allo stesso tempo, enciclopedica e disturbata, anche al di fuori dei riferimenti, ben noti a tutti i lettori, al Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred o all’immondo e folle universo retto da Yog-Sothoth, Subb-haqqua Nyarlathotep, Shubb-Niggurath, Azathoth, Dagon e Cthulhu.

Una lettera, quella pubblicata da Adelphi, indirizzata all’amico Harris il 9 novembre 1929 (tenga ben presente tale data il lettore di queste righe), nella quale sembra essere racchiusa l’autentica cosmogonia del solitario di Providence e in cui, tra pessimismo, razzismo, arianesimo, ateismo, fiducia nella scienza e letture che andavano da quelle di stampo classico fino a quelle svolte sul già allora popolare «Reader’s Digest», il padre dell’orrore cosmico rivela «una vena da eterno dilettante, da veemente autodidatta».

Le cui convinzioni ruotavano intorno al rifiuto di alcuni mostri sacri del sentire comune del tempo, e forse ancora di oggi: la religione, l’amore romantico, il macchinismo e la democrazia. Con un’interpretazione di quest’ultima non lontana dal «grigio diluvio», in cui tutte le responsabilità si confondono annullandosi, di pirandelliana memoria. In particolare Lovecraft, che si definì sempre come un conservatore, se la prende con il declino di una civiltà, quella anglo-sassone e soprattutto in America, che sembra ai suoi occhi essere stata travolta dalla modernità industriale e dai suoi, inevitabili, corollari.

Per come la vedo io, la civiltà americana è quasi estinta ma autentica laddove sopravvive: in certi gruppi sparsi per tutto il paese e in certe aree geografiche, nella Virginia occidentale in particolare e in alcuni punti del New England. Quella che i conservatori deplorano e combattono non è certo la nostra cultura ancestrale ma una nuova e oltraggiosa barbarie di villani rifatti fondata sulla quantità, il macchinismo, la velocità, il commercio, l’industria, l’opulenza e l’ostentazione del lusso, che è spuntata in mezzo a noi come una pianta infestante intorno al 1830 con l’ascesa della massa becera. Ha poco a che spartire con la nostra civiltà – la corrente principale di pensiero e sensibilità classica e inglese instaurata in queste colonie da oltre due secoli di presenza ininterrotta, 1607-1820 –, non più della barbarie polinesiana o degli indiani Sioux. Si tratta di una piaga da estirpare, qualora possibile, altrimenti da fuggire, tutto qui. Ma chiamarla « civiltà americana » sarebbe un affronto ai nostri antenati. È « americana » solo in senso geogra$co e tutto è meno che una « civiltà », se non secondo la definizione spengleriana del termine. È una barbarie totalmente avulsa e totalmente puerile, basata sul benessere fisico anziché sulla superiorità mentale, e non ha titoli per essere tenuta in considerazione dai discendenti dei coloni.2.

Da questa paura del dissolvimento della società americana così come poteva essere raffigurata dalla tradizione del New England e della Virginia occorre iniziare per entrare nelle riflessioni dello scrittore americano, a partire dalle originali considerazioni polemicamente svolte a proposito di William Shakespeare.

Vorrei correggere la tua impressione radicalmente sbagliata che Shakespeare avesse un atteggiamento o un metodo da intellettuale. Santiddio! Non ti rendi conto che quel tipo era l’esatto opposto! un poeta incolto, imprevedibile, spontaneo, non accademico, non curante, che credeva di seguire le mode popolari e si serviva della lingua più comune e colloquiale del periodo. Shakespeare, come artista immortale, è stato un puro caso di genio. Era dotato di una naturale combinazione di senso della lingua e percezione dei moventi umani che pochi hanno mai posseduto, però non lo sapeva e visse tutta la vita come un teatrante da strapazzo e uno scribacchino, raccogliendo i racconti popolari che trovava in giro (ballate a buon mercato, cronache storiche da quattro soldi e traduzioni popolari di autori classici e stranieri) e rimaneggiandoli nel sapido vernacolo del giorno per il consumo di massa. Era un grande artista suo malgrado e senza volerlo. Tutte le sue aspirazioni erano sociali, non estetiche. Voleva semplicemente elevarsi al di sopra della classe borghese-contadina e fondare una famiglia con tanto di stemma. Mirava alla nobiltà e al rango, non all’arte e alla dottrina. Gli sarebbe dispiaciuto essere preso per uno studioso serio o per un esteta: ai suoi tempi i signori non andavano oltre il livello dilettantesco nel coltivare il sapere o l’arte. Analizza una qualunque delle sue opere e troverai più errori assurdi per centimetro quadrato che in qualunque altro autore riconosciuto nella nostra lingua. E paragona la sua dizione […] per vedere quanto fosse lontano dal letterario o dall’accademico in fatto di stile. Era spigliato e colloquiale quanto Sherwood Anderson o Ring W. Lardner: se lo troviamo assurdo oggigiorno è solo perché la lingua è cambiata. Ai suoi tempi si serviva degli accenti semplici che sentiva in giro, tenendo conto della differenza ben nota e comunemente accetta tra la prosa letterale e la poesia colorata dalle metafore. A dire il vero era ritenuto sciatto e incolto proprio dai contemporanei […] Che diavolo! Se c’è una cosa che il povero vecchio Bill non era è un intellettuale!3.

Una descrizione che rimanda alla cultura popolare da cui Lovecraft, che per tutta la vita pubblicò su riviste pulp o popolari, era contemporaneamente attratto e infastidito un po’ come il Philip K. Dick del Ritratto di un artista di merda. Una riflessione che sembra anticipare, però, anche quelle di Valerio Evangelisti sulla paraletteratura, la letteratura d’evasione e la cultura di massa che sottende il lavoro degli scrittori in essa coinvolti oppure ad essa confinati dalla critica4.

La parte più corposa della lettera, però, è rappresentata da una sorta di storia universale in pillole che non sarebbe forse dispiaciuta al Donald Trump dei muri, alle alleanze ariane ancora attive oggi negli Stati Uniti e ai membri del Ku Klux Klan. L’evoluzione della civiltà, greca prima e anglosassone poi, ma quest’ultima solo fino ad un certo punto, sembra infatti articolarsi intorno alla convinzione che:

le razze più isolate e più aristocratiche sono sempre quelle che salgono più in alto sulla scala che porta fuori dall’ottusità, dall’ignoranza e dall’insensibilità animale. Ricostruisci qualsiasi teoria antagonista e scoprirai che nasce da sofismi etici, religiosi o politici, non da un esame imparziale dei fatti. Tu citi l’attuale tendenza all’amalgamazione e all’appiattimento tra le razze esistenti e sostieni che futuri crolli culturali – frutto di noia estetico-mentale – coinvolgeranno un numero sempre più grande di persone finché da ultimo se ne presenterà uno in grado di coinvolgere tutte le specie umane. Il principio è senz’altro valido, anche se c’è da dubitare fino a che punto sia dato applicarlo. La repulsione tra certi estremi razziali è ancora molto forte e, in taluni casi, insormontabile. Una fusione bianco-mongola non è quasi concepibile, meno ancora lo è un’inclusione dei neri. Perfino un gruppo con una vena di mulatto eviterebbe la fusione con i neri puri, quindi la scomparsa di una razza nera separata è quanto mai improbabile se non per un massacro. In pratica è assai probabile che i filoni occidentale, mongolo, indù e negroide non s’incontreranno mai e che l’unica forma di contatto sarà il conflitto5.

Alle genti “ariane”, naturalmente, viene riservato uno sguardo di riguardo così come, paradossalmente ma non così tanto, alla Cina.

La condizione di semplicità animale non è certo una cosa così decisamente ignobile per un ariano bianco come il termine – o il paragone con il selvaggio non bianco – sembrerebbe insinuare. Il caucasico ha la sua bella riserva di trucchi radicati negli istinti e, finché conserva puro il sangue, non si avvicinerà mai molto al gorilla o, se è per questo, al negro o all’eschimese. Gli antichi galli e germani selvaggi non erano il porco o lo zerbino di nessuno; in realtà erano audaci, abbastanza disciplinati, razionali e amanti della bellezza […] sbagli di grosso a dire che una cultura non può prosperare in perfetto isolamento. Basta guardare alla Cina per avere un esempio calzante. La Cina, fino a tempi recenti, non ammetteva alcuna influenza esterna; eppure ha goduto di un periodo di esistenza lungo e pieno, con fasi di fioritura culturale pari a quelle mai conosciute da qualsiasi altra nazione. Bertrand Russell la ritiene la cultura più grande che questo pianeta abbia mai prodotto: nel suo periodo supremo superò perfino l’Atene di Pericle nella piena padronanza della vita e della bellezza, unico indice razionale del livello culturale raggiunto. Non c’erano contatti con il mondo esterno: tutti i forestieri erano « diavoli stranieri » […] La stessa Grecia era altrettanto eccezionalmente isolata. Sapeva del mondo esterno, ma solo per respingerlo e rifiutarlo. Il termine βάρβαρος (barbaro) serviva a indicare sia uno straniero sia un selvaggio6.

Torniamo ora a quanto sottolineato all’inizio, ovvero la data della lettera: 9 novembre 1929, esattamente quindici giorni dopo il “giovedì nero” di Wall Street che avrebbe trascinato con sé e fatto sprofondare in un autentico maelstrom l’economia e la società statunitense, i suoi lussi, i suoi risparmi e le speranze riposte in un progresso infinito del capitalismo industriale e finanziario.

Così c’è è traccia di quello che stava succedendo e di ciò che, all’epoca, sarebbe potuto avvenire in diverse parti della lettera, in cui si rimpiange la scomparsa di una vera aristocrazia a vantaggio di una nuova il cui prestigio si sarebbe basato sul denaro e l’industria.

Il futuro socio-politico degli Stati Uniti è quello di essere dominati da vasti interessi economici consacrati a ideali di guadagno materiale, attività priva di scopo e comodità fisica; interessi controllati da autorità astute, insensibili e di rado educate, reclutate in mezzo a un branco omologato mediante una competizione di acume affilato e furbizia pratica, una lotta per la posizione e il potere che eliminerà il vero e il bello come obiettivo, per sostituirli con il forte, l’enorme e il meccanicamente efficace. Detesterei avere discendenti che vivono in una simile barbarie, una barbarie così tragicamente diversa dalla vecchia civiltà del New England e della Virginia che appartiene di diritto a questa terra. Grazie a dio sono l’ultimo della mia famiglia: requiescamus in pace!7

Per contrapporsi a ciò, senza affidarsi a «tipi completamente irrazionali e ossessionati dall’etica quali i comunisti o sindacati come gli Industrial Workers of the World», sarebbe occorso:

scoraggiare i contadini e gli operai dal voler diventare borghesi e commercianti alzando quanto più possibile il salario e migliorando le condizioni di vita. Con maggiori benefici e agi per il plebeo e minori per il mercante e l’industriale si potrebbero gettare le basi per una struttura culturale più solida. E […] l’agricoltore andrebbe favorito per primo in quanto proprietà terriera e posizione economica lo vincolano più strettamente alla struttura storica tradizionale della nostra civiltà. Il cambiamento più grande dovrebbe essere un sottile cambiamento spirituale instillato dall’educazione e dalla propaganda, cioè l’insegnamento di una grande verità fondamentale: che volume e « prosperità » non significano niente in sé, e che il solo bene dal valore permanente nella vita è l’agio e la libertà di sviluppare una personalità intelligente e immaginativa. Cambiare lo scopo popolare dalla velocità, dal denaro facile e dalla ricchezza, alla parsimonia, alla sicurezza e al tempo libero riempito con gusto; sradicare l’invidia del plebeo per l’aristocratico agiato dimostrando il valore dell’esistenza di quell’aristocratico nello stabilire criteri che inducono a sopportare il lungo fardello della vita8.

Tralasciando ora, e soltanto per motivi di spazio, altre due lunghe trattazioni riguardanti i disastri e l’eventuale utilità della guerra e la separazione tra amore romantico, attività sessuale e erotismo femminile, diventa importante sottolineare come nel delirio onnicomprensivo e ordinativo dello scrittore sia ravvisabile una sorta di scrittura della crisi, così come poi, ma con ben altri risultati, sarebbe avvenuto con Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (1925), che in qualche modo anticipava la crisi morale prima ancora che economica degli Stati Uniti dei “ruggenti” anni Venti, oppure Le avventure di un giovane americano di John Dos Passos (1939) che, sulla scia del disastro economico e sociale che le riforme del New Deal non bastarono a colmare, giunse a denunciare con fermezza gli errori e le illusioni legate allo sviluppo dei partiti comunisti stalinizzati, sia negli Stati Uniti che nel corso della guerra civile spagnola.

Ma, ovviamente, la crisi di Lovecraft non è soltanto socio-economica e politica: è anche una crisi della ragione che si rifiuta di accettare l’ovvietà del presente e dei suoi disastri e cerca di correggerla con ricostruzioni, indicazioni e modelli, in questo caso quello aristocratico anglo-sassone d’antan oppure in altri quello bolscevico-proletario, che spesso conducono al delirio o a qualcosa di simile se presi troppo alla lettera.

Ecco allora che all’interno di quel caos primordiale, insondabile e orrendo, che fonda l’universo ideato da Lovecraft per dare spazio ai suoi miti e ai suoi incubi e «al cui centro balla un dio cieco, nudo e idiota al suono di una cacofonia di flauti e tamburi blasfemi», possiamo individuare la causa reale del malessere dell’autore che, ancora una volta, si ricollega ad un più generale malessere della società e della cultura americana degli anni Venti e Trenta.

Un disordine irrecuperabile che svela il vero volto di una società sorta dal sogno dell’eguaglianza e del progresso, della libertà e dell’affermazione del singolo individuo; di una Land of Freedom che per essere tale, aveva già fatto scontare col sangue e lo sfruttamento intensivo il proprio predominio ai nativi, agli schiavi e a tutti gli immigrati non WASP. Con una autentica ossessione per la purezza del sangue, di cui si è già parlato qui con la recensione di I Robinson d’America di David W. Belisle, in un disordine morale, economico, sociale il cui autentico dio Azathoth è rappresentato soltanto dall’espansione e dalla voracità del capitale.

Cosa che il conservatore, come amava definirsi, Lovecraft non avrebbe mai del tutto accettato consciamente, ma che sarebbe trapelata in altri scritti non fantastici successivi, come A Layman Looks at the Government (1933), dove guardando da profano al governo avrebbe affermato: «il sistema economico attuale dovrà perire, in primis la concezione attuale della proprietà privata su larga scala, non regolamentata, e del profitto individuale»9. Un’affermazione che costringe i lettori a considerare la possibilità che l’uomo della Maschera di Innsmouth non possa essere sempre e soltanto relegato al ruolo di scrittore razzista, ossessivo e “fallito”, come invece ebbe ancora a definirlo Ursula Le Guin10.


  1. H. P. Lovecraft, Lettere dall’altrove. Epistolario 1915-1937, a cura Giuseppe Lippi, Oscar Mondadori, Milano 1993.  

  2. H. P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 13-14.  

  3. Ivi, pp. 27-28.  

  4. In proposito si vedano i saggi raccolti in V. Evangelisti, Le strade di Alphaville. Conflitto, immaginario e stile nella paraletteratura, a cura di A. Sebastiani, Odoya, Bologna 2022 e L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, a cura di S. Moiso e A. Sebastiani, Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2023.  

  5. H. P. Lovecraft, op. cit., pp. 37-38.  

  6. Ibidem, pp. 36-37  

  7. Ivi, p. 99.  

  8. Ibid, pp. 117-118.  

  9. Cit. in O. Fatica, Senza soluzione di continuità, postfazione a H. P. Lovecraft, op. cit., p. 157.  

  10. Sulle contraddizioni in tal senso di H. P. Lovecraft, si veda H. P. Lovecraft, Cthulhu Rivoluzione. Il pensiero politico del solitario di Providence, a cura di M. Spiga, Heinserb3rg Studio, 2017.  

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Di cosa l’America è il nome? https://www.carmillaonline.com/2025/05/25/di-cosa-lamerica-e-il-nome/ Sun, 25 May 2025 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88408 di Sandro Moiso

Roberto De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025, pp. 205, 20 euro

La raccolta si saggi appena pubblicata dalle edizioni Mimesis traccia, utilizzando un’ampia antologia di scritti dell’autore pubblicati sul quadrimestrale Fata Morgana, di cui è direttore, e Fata Morgana Web, un interessante percorso attraverso i possibili significati attribuiti all’America, così come è stata “immaginata” nel corso del tempo, e al mito che ne è derivato, in patria e altrove. De Gaetano, che è docente di Cinema e scrittura critica presso l’Università Sapienza di Roma, affronta temi legati, come afferma già il [...]]]> di Sandro Moiso

Roberto De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025, pp. 205, 20 euro

La raccolta si saggi appena pubblicata dalle edizioni Mimesis traccia, utilizzando un’ampia antologia di scritti dell’autore pubblicati sul quadrimestrale Fata Morgana, di cui è direttore, e Fata Morgana Web, un interessante percorso attraverso i possibili significati attribuiti all’America, così come è stata “immaginata” nel corso del tempo, e al mito che ne è derivato, in patria e altrove. De Gaetano, che è docente di Cinema e scrittura critica presso l’Università Sapienza di Roma, affronta temi legati, come afferma già il sottotitolo, alla filosofia, alla letteratura e al cinema. Per gentile concessione dell’editore si fornisce qui un ampio stralcio dell’introduzione allo stesso testo.

Sogno, incubo, scena, stile di vita, uomo, natura, deserto, prassi, romanzo, cinema, democrazia: per tutto questo e altro l’accostamento con l’aggettivo “americano” identifica subito una forma specifica e ben individuata in cui l’essere viene a espressione. Tale espressione riguarda tutti. Sicuramente il mondo occidentale, di cui l’America ha rappresentato l’attuazione di una possibilità ulteriore, l’invenzione del nuovo, l’immaginazione di una seconda nascita.
L’America porta a espressione una vera e propria ontologia, radicata e profonda, che ha al centro l’azione, concetto che attraversa tutte queste pagine.
Le forme di vita americane mostrano all’opera nel quotidiano la ristrutturazione continua dell’esperienza, il cambio costante di regola, l’affermazione di una pura potenza di cui il denaro è simbolo. Tant’è che il denaro per gli americani – ci ha detto Margaret Mead – non è esposizione del lusso. L’austerità di abbigliamento e di costumi è il contrassegno dell’americano, anche quando è molto ricco. Il denaro non va accantonato (nessuna logica del risparmio), va fatto crescere in modo continuo. Il denaro è possibilità e tale deve restare.[…] È una vertigine del possibile che attrae e paralizza. E che non riesce a fermarsi. Lo sguardo morale con cui giudichiamo il mondo americano è spesso indicativo più di cattiva coscienza che di altro.
In gioco c’è piuttosto l’impasse di una possibilità pura. Lo stallo di tale condizione deriva dal non prevedere che la possibilità possa riguardare anche il non. Qui Melville nel suo Bartleby, con la formula I would prefer not to, lo ha immaginato nel modo più potente: non esiste potenza effettiva che non sia anche potenza di non. È il contromovimento che la grande letteratura americana ha saputo costruire e immaginare: sospendere l’azione mettendosi in pausa o in fuga. Fuga dalla società e fuga da sé stessi. Così nasce l’America, e così tale nascita viene riproposta nella vasta terra americana. D. H. Lawrence lo dice in un testo che rimane epocale, dove l’America e gli americani, visti dall’Europa, emergono nella loro differenza, e proprio attraverso la letteratura: “They came largely to get away […]. To get away. Away from what? In the long run, away from themselves. Away from everything”.
Come nel racconto di Hawthorne, Wakefield, in cui il protagonista esce di casa, abbandona la famiglia, prima di ritornarvi dopo vent’anni. O come nel racconto fondativo della narrativa americana, Rip Van Winkle di Washington Irving, in cui il personaggio si addormenta per poi risvegliarsi a Rivoluzione americana avvenuta, con il mondo radicalmente cambiato.
[…] La grande potenza della letteratura americana, di quello che Matthiessen ha chiamato il “Rinascimento americano” di metà Ottocento, risiede nell’essere stata allo stesso tempo la letteratura di una nuova nazione, capace di trovare i poeti in grado di cantarla (il poeta chiesto da Emerson), ma anche la letteratura della fuga, della linea di fuga, per mare, foresta, wilderness. Fuga nello spazio, nel tempo, nel sonno, fuga sur place, fuga dalla vita morale, per entrare in un divenire dove la comunità si fa gruppo di incontro, dove il cameratismo conta più della famiglia (marcata a fuoco dalla colpa morale come in The Scarlet Letter). A contare sono l’individuo e le sue relazioni con il compagno, la natura, l’altro. L’individuo in viaggio, dove l’essere senza radici è una precondizione per costruire quello “Spirit of Place” lontano dal “blood”, dai legami di sangue europei.
Nessuna prescrizione morale può bloccare tutto questo divenire, dove ogni inizio porta con sé una fine, dove il desiderio di fondare è accompagnato da quello di fuggire.
L’America ci mostra qualcosa della nostra condizione umana: nascere non significa entrare in un mondo dato, ma aprirne uno nuovo, fondarlo. E questo significa divenire, mettere in questione ogni identità fissa, ogni legame con una terra. Si approda a qualcosa di nuovo solo se si lascia qualcosa di vecchio. Nascere è separarsi, così come rinascere. L’Europa ha dimenticato tutto questo, i suoi imperi hanno perimetrato spazi e assoggettato popoli, rendendo impossibile il divenire.
La democrazia americana è in primo luogo la forma in cui un divenire è possibile. Il suo fondamento è al fondo anarchico.
[…] La potenza immaginaria, simbolica e reale dell’America, la perennità del suo mito, risiedono nella congiunzione all’interno della prassi dell’annuncio del Nuovo Mondo e del suo dissolversi, della fiducia che anima l’uomo nuovo (cantata da Emerson in Self-Reliance) e di quella carpita dal truffatore (che ci racconta Melville in The Confidence Man), di una natura che è romanticamente il Tutto che salva ma anche la wilderness in cui ci si perde. Il confine è sottile, i ribaltamenti possono essere repentini e imprevisti, ma senza correre il rischio di percorrere tale linea la vita faticherebbe a esprimersi.
È di questo che l’America è il nome: del contemporaneo venire a espressione, e dunque a realtà, della vita, del nuovo, della nascita, ma anche, e allo stesso tempo, della dissoluzione, della linea di fuga, della deriva. L’incubo non è qualcosa di diverso dal sogno, è la sua piega interna. La vita, proprio perché democratica, è strutturalmente anarchica, fondata su accordi e convenzioni che possono cambiare, anche velocemente.
In tutto questo, l’antiamericanismo come slogan è un epifenomeno rispetto alla portata mitica e antropologica dell’America, di chi nella immanenza creatrice della prassi ha saputo inscrivere la sua trascendenza. L’America è stata e continua comunque a essere la scena in cui vediamo la nostra vita, la vita di tutti, in tutta la sua maestosa ambivalenza e contraddittorietà1.


  1. R. De Gaetano, Di cosa l’America è il nome introduzione a R. De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025, pp. 9-13.  

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La terra promessa di Sion non è per i Giusti https://www.carmillaonline.com/2025/01/29/la-terra-di-sion-non-e-per-i-giusti/ Wed, 29 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86567 di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” [...]]]> di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” e la “vitalità” di una nazione bianca, protestante e “libera” quanto quella della sua anima più oscura e il suo volto più feroce, in cui è quasi sempre la morte a trionfare sulla vita. Come nei romanzi di Cormac McCarthy e Larry McMurtry.

Si potrebbero citare decine o, meglio, centinaia di romanzi, film, narrazioni di ogni ordine e grado e una miriade di fumetti usciti fin dall’inizio del XX secolo per dimostrare sia l’una che l’altra ipotesi. A partire da The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), un film del 1903, scritto, prodotto e diretto da Edwin S. Porter e considerato una pietra miliare nella storia del cinema in quanto fu il primo ad utilizza una serie di tecniche innovative, come il montaggio incrociato, in cui due scene venivano mostrate in svolgimento simultaneo anche se ambientate in luoghi diversi, e frequenti movimenti della cinepresa e che costituì sia il primo film americano d’azione, di fatto il primo western della storia del cinema, che uno di quelli più popolari fino all’uscita di Nascita di una nazione (The Birth of a Nation) diretto da David W. Griffith.

Quello di Griffith fu immesso nel circuito cinematografico nel 1915 e anche il primo film muto dotato di una completa colonna sonora, ottenendo uno dei maggiori incassi della storia del cinema fino ad allora, ma che, nonostante la perizia della sua realizzazione, fin dalla sua uscita, fu sempre aspramente contestato per i contenuti razzisti verso la popolazione afroamericana, il sostegno al Ku Klux Klan e la sua misoginia.

Da una parte, quindi, il cinema dei banditi del West, pur puniti dalla legge, ma sempre rappresentati come uomini liberi e selvaggi, mentre dall’altra il film fondativo dell’immaginario cinematografico di una nazione dai contorni razzisti e patriarcali. Due narrazioni, due trame apparentemente distanti, ma appartenenti al medesimo luogo mitopoietico di cui si parlava all’inizio.

Poco dopo si sarebbero uniti al genere, oltre a quelli ispirati dalle storie di sceriffi e fuorilegge o dal lavoro dei cow-boys con le mandrie, i film che avrebbero avuto al loro centro lo scontro tra pionieri e nativi americani, questi ultimi rappresentati per molti decenni come i cattivi da combattere ed eliminare. Tesi fortemente presente e virulenta in particolare negli anni della Guerra Fredda, quando la somiglianza tra “uomini rossi” e “rossi” comunisti e, possibilmente, sovietici non aveva certo bisogno di essere sottolineata poiché la sollecitazione era davvero scoperta.

Però, già sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio del decennio successivo, due film di John Ford, Sentieri selvaggi (The searchers, 1956) e Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, 1964), oltre che Cavalcarono insieme (Two Rode Together, 1961), sempre dello stesso Ford, e Gli inesorabili (The Unforgiven, 1960) di John Huston iniziarono a ribaltare, almeno parzialmente, lo sguardo sul rapporto tra bianchi e nativi e, fatto non secondario, sulla possibilità di convivenza e accettazione nella comunità o nelle famiglie bianche di chi nella tradizione nativa fosse cresciuto, anche se bianco.

Ma, com’è d’uopo per ogni produzione artistica degna di rispetto, sarebbero stati gli anni successivi, infiammati dalle lotte per i diritti civili oppure contro la guerra in Vietnam o, ancora più semplicemente dalla lotta di classe in pieno sviluppo sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, a rimuovere gli ultimi ostacoli alla politicizzazione e radicalizzazione di un genere che aveva costituito uno dei pilasti della settima arte e di Hollywood.

Così alla cinematografia anarchica e ribelle, oltre che ultra-violenta, di Sam Peckimpah con Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) e Pat Garrett e Billy the Kid (1973), si sarebbero aggiunti i western di Sergio Leone, con tutto il seguito di spaghetti western spesso radicali e inneggianti alla rivoluzione oppure alla lotta contro i potenti trust bancari e ferroviari, e quelli ancora incentrati sullo sterminio dei nativi americani che la “conquista del West” aveva portato con sé.

Furono infatti film come C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971) dello stesso Leone oppure Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, solo per citarne alcuni, a portare la Rivoluzione fin dentro il genere western, mentre Soldato blu (Soldier Blue, 1970) di Ralph Nelson, Il piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn, Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, 1969) di Abraham Polonsky e, soprattutto, lo splendido Ulzana’s Raid (Nessuna pietà per Ulzana, 1972) di Robert Aldrich avrebbero contribuito ad una radicale revisione storica del dramma delle tribù dei nativi sterminate e della prolungata persecuzione nei confronti degli stessi.

D’altra parte quelli erano gli anni del Rinascimento indiano, del Red Power e della rivolta di Wounded Knee degli Oglala Lakota, durante i quali, comunque, molti attivisti nativi furono ancora uccisi o imprigionati1.

Tutto questo, però, per giungere a parlare di American Primeval, che chi scrive non ha timore di definire come una delle migliori serie televisive mai realizzate, scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg per la piattaforma statunitense Netflix. Una miniserie western (sei puntate) che aggiunge un drammatico riferimento all’attualità pur partendo dalle basi e dalle svolte avvenute nel genere e fin qui anticipate e riassunte.

Ambientata, con estrema precisione storica, nello Utah del 1857, la serie rinvia visualmente alla ricostruzione e all’attenzione per i particolari della vita degli indiani e dei mountain men che già aveva contraddistinto l’opera fino ad ora più famosa di Mark L. Smith come sceneggiatore: Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, del 2015 e interpretato da Leonard Di Caprio. Opera cinematografica che ebbe, però, il difetto di tradire nella sostanza il romanzo dallo stesso titolo di Michael Punke (2002), edito in Italia da Einaudi nel 2014.

Anche questa, se si vuole, è una storia di sopravvivenza in un ambiente estremamente ostile sotto tutti i punti di vista, ma invece di essere basata sulle vicende individuali di un unico personaggio principale, il cacciatore di pellicce Hugh Glass, questa “America primordiale” si trasforma in un’autentica tragedia collettiva che vede coinvolti uomini, donne, bambini, soldati, nativi americani di varie tribù tra loro ostili, uomini delle montagne, coloni e profeti religiosi di una terra promessa soltanto per i fedeli “bianchi”.

Ma, ancor prima di passare all’analisi dei vari aspetti di una serie assolutamente innovativa dal punto di vista assunto per narrare le vicende, vanno qui sottolineate sia la plumbea e magnifica fotografia di Jacque Jouffret, già cameraman per il film Into the wild diretto da Sean Penn nel 2007, di cui ritornano le atmosfere fredde e selvagge legate ad una Natura molro più grande dell’uomo, e l’interpretazione, molto ben calibrata sui personaggi, degli interpreti principali.

Taylor Kitsch è un solitario mountain man, Isaac Reed, cresciuto in una tribù di Shoshone dopo essere stato rapito da bambino, e perseguitato dal ricordo della morte della moglie, appartenente a quella stessa tribù, e del figlio per mano di cacciatori di scalpi bianchi. Mentre Betty Gilpin veste i panni di Sara Holloway-Rowell, in fuga per portare suo figlio Devin dal padre, dopo essere stata accusata per l’omicidio e la rapina del suo ricco e violento marito, e per questo motivo inseguita da una spietata posse di cacciatori di taglie.

Kim Coates interpreta invece Brigham Young, il primo governatore autonominatosi del Territorio dello Utah e il secondo presidente della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, dopo la morte del suo fondatore Joseph Smith2.
Shea Whigham riesce invece a dare corpo e volto a Jim Bridger, il fondatore e leader della stazione commerciale di Fort Bridger intorno a cui ruotano i principali interessi di espansione territoriale e politica dei mormoni di Young. Entrambi, Brigham (1801-1877) e Bridger (1804-1881), realmente esistiti.

Saura Lightfoot-Leon una giovane donna mormone, Abish Pratt, moglie più per dovere che per amore o convinzione di Jacob, un credente nella Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, da cui sarà separata violentemente nel corso di un massacro compiuto da Mormoni e da mercenari della tribù Paiute, ai danni di una carovana di coloni diretta in California, interamente, o quasi, sterminata a Mountain Meadows. Ma che troverà tra gli Shoshone, dopo l’iniziale rifiuto, il proprio destino di donna coraggiosa e ribelle al patriarcato bianco.
Infine, altrimenti l’elenco risulterebbe troppo lungo, Derek Hinkey, nei panni di Piuma Rossa, un guerriero Shoshone, capo del Clan del Lupo, che disprezza e combatte con orgoglio e determinazione gli americani bianchi per la loro aggressione contro il suo popolo e la sua terra.

Nel corso delle sei puntate tutte le contraddizioni e gli orrori che stanno alla base della formazione di un paese che si vorrebbe “grande e felice”, vengono violentemente e spietatamente al pettine. Non c’è carità, non c’è pietà, non c’è altruismo nelle vicende narrate. Per ognuno la prima cosa è sopravvivere, a costo di tradire gli amici oppure i soldati che si comandano, mentre la miseria non è motore di altro che non sia la brutalità o l’efferatezza dei crimini che ne derivano.

Sullo sfondo rimane tangibile la presenza di una guerra civile, una guerra di tutti contro tutti come viene spiegato fin dalla prima puntata, iniziata ben prima delle tradizionali date fornite ancora oggi dai libri di storia e continuata, pressoché ininterrotta, fino ai nostri giorni3. La stessa tenuta dei soldati a cavallo dell’epoca sembra, oggi, già contenere in sé la futura divisione tra Sud e Nord degli Stati Uniti, tra Confederazione e Unione: divisa blu e mantella grigio-azzurra. Così come la disputa tra due ben distinti presidenti: quello dei mormoni e quello ufficialmente in carica.

Ognuno va ad ovest inseguendo un sogno, per cercare fortuna, non importa se a danno di chiunque altro, non importa se “bianco” o “rosso”, ma soprattutto rosso. Il sogno va realizzato. Che si tratti di una città che dovrebbe sorgere sulla pista per l’Oregon a partire da un miserabile posto di scambio per pellicce, merci, rye whiskey, puttane e cacciatori di taglie oppure del Regno dei Santi degli Ultimi Giorni, la terra di Sion voluta dal Signore per i suoi fedeli e i suoi, feroci, profeti.

Ed è proprio il tema dell’occupazione mormone dello Utah a parlare allo spettatore di realtà ben più vicine, come quella della guerra in Palestina e del genocidio perpetrato a Gaza in nome del sionismo più sanguinario. Le premesse sono le stesse: un popolo perseguitato a lungo per la propria fede religiosa ritiene “sacro” e intangibile il diritto di fondare un proprio Stato. Retto da leggi religiose e governato da uomini spietati nella difesa del popolo di Dio, sia che si tratti della religione ebraica che di quella ispirata all’insegnamento di Joseph Smith.

Così, la terra di Sion dovrà essere fondata e difesa ad ogni costo, senza pietà per chiunque non ne accetti i precetti o i comandamenti. Il denaro scorre silenziosamente sotto le vaghe promesse del Regno e, come nel caso di Jim Bridger, può contribuire alla risoluzione di fittizie occasioni di contrasto, create soltanto per alzare il valore della posta in gioco. Soltanto Jack London, in uno dei sogni narrati nel Vagabondo delle stelle4, era stato così spietato e lucido nei confronti degli appartenenti ad una chiesa, quella mormone appunto, che della propria fede avrebbero fatto motivo di esclusione e dominio territoriale nei secoli a venire. Cosa prolungatasi fino ad oggi proprio nello Utah.

E’ giusto ricordare London poiché le vicende di American Primeval prendono spunto proprio dal massacro di Mountain Meadows narrato nelle pagine di Il vagabondo delle stelle che come ricorda, nella nota a cura del traduttore Stefano Manferlotti, l’edizione Adelphi:

L’episodio ricostruito da London è rigorosamente storico. Nel maggio del 1857 una carovana di pionieri che comprendeva centoquarantadue persone lasciò l’Arkansas diretta in California. Giunti nella località di Mountain Meadows, vennero attaccati da un folto gruppo formato da milizie mormoni e indiani. Dopo una prima scaramuccia i mormoni, allora in rotta con il governo del presidente James Buchanan, convinsero i pionieri ad arrendersi, promettendo loro salva la vita. Li sterminarono tutti, risparmiando solo i bambini più piccoli. Dovettero trascorrere vent’anni prima che i fatti fossero ricostruiti con una precisione sufficiente a mandare davanti al plotone di esecuzione John Dee Lee, il capo religioso mormone al quale London fa riferimento5.

Gli unici ad uscire dalle vicende nobili e integri nel loro orgoglio, anche se destinati al massacro, saranno proprio gli Shoshone con la loro sciamana e matriarca Winter Bird, la madre di Piuma Rossa e madre adottiva di Reed. Consci di appartenere ad un mondo ben più vasto di quello ricostruito dall’immaginario dell’avidità bianca e dei suoi precetti religiosi. Un mondo per cui vale la pena di morire in sua difesa e non per appropriarsene, di cui soltanto il capitano Edmund Dellinger, l’ufficiale comandante il distaccamento di cavalleria destinato ad essere distrutto dalla violenza dei mormoni, prenderà pienamente coscienza nelle sue ultime riflessioni notturne.

Un mondo, quello dei nativi, in cui le donne combattono come gli uomini, ferocemente, per la difesa della terra e della tribù e che condurrà anche la giovane Abish ad appartenergli e difenderlo. Fino alla morte.
Un discorso complessivo, quello della serie, in cui la difesa dell’ambiente e la ricostruzione del ruolo della donna in società strutturalmente lontane da quella patriarcale bianca, ben si accompagnano alla critica del colonialismo e del suo prodotto peggiore, quello di carattere messianico che, all’epoca come oggi, non può far altro che alimentare le peggiori violenze e i più oscuri impulsi nelle società che ancora in esso si riconoscono. Accettandone crimini e abusi in nome di un preteso diritto alla difesa di chi è stato perseguitato, in nome di una giustizia superiore che, certamente, per i Giusti non può essere tale.

Ancora una volta quindi, come avrebbe detto Elio Vittorini: «L’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la Terra.» Mai come in questo caso.

***

Questo intervento è dedicato, per ragioni che si sperano evidenti, a Leonard Peltier, militante per i diritti dei nativi americani uscito dal carcere il 20 gennaio 2025, dopo quasi cinquant’anni di detenzione per essere stato condannato a due ergastoli per gli incidenti alla riserva indiana di Pine Ridge dove due agenti speciali dell’FBI, Ronald A. Williams e Jack R. Coler, morirono nel 1975 nel corso di una sparatoria.


  1. Si vedano in proposito: A. Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Giulio Einaudi editore, Torino 2024; J. Brand, L’FBI contro l’American Indian Movement. Vita e morte di Anna Mae Aquash, Xenia Edizioni, Milano 1997 oltre ai fondamentali J. V. Deloria, Custer è morto per i vostri peccati. Manifesto indiano, Jaca Book , Milano 1994 (ed. in lingua originale 1969) e S. Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

  2. Joseph Smith Jr. (1805 – 1844), primo presidente della Chiesa dei santi degli ultimi giorni e predicatore del Libro di Mormon, che fu lui stesso a pubblicare il 26 marzo del 1830 e considerato dai membri della Chiesa da lui stesso fondata un libro rivelato. Il cui titolo deriva da Mormon, un profeta che, secondo il testo stesso, avrebbe compendiato la storia del suo popolo incidendola su tavole d’oro.  

  3. Si veda in proposito: S. Moiso, E il folle mondo viene avanti rotolando. Immagini della Guerra Civile nel sogno americano, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 287- 329 e, ancora, S. Moiso, Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 (qui).  

  4. J. London, Il vagabondo delle stelle, Adelphi, Milano 2005, pp. 131-185.  

  5. J. London, op. cit., p. 185.  

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USA: dissenso pseudo-conservatore e mito dell’allegro possidente terriero https://www.carmillaonline.com/2024/12/08/usa-dissenso-pseudo-conservatore-e-mito-dellallegro-possidente-terriero/ Sun, 08 Dec 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85506 di Gioacchino Toni

A proposito della raccolta di saggi di Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi (Luiss University Press, 2024), di cui ci si è occupati relativamente alla diffusione della violenza e delle armi negli Stati Uniti su “Carmilla”, vale la pena soffermarsi anche sui testi più datati presenti nel volume. Per quanto le riflessioni espresse dallo storico americano contenute in La rivolta pseudo-conservatrice vadano contestualizzate al momento in cui le scrive, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, non mancano di essere di una qualche utilità ancora oggi [...]]]> di Gioacchino Toni

A proposito della raccolta di saggi di Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi (Luiss University Press, 2024), di cui ci si è occupati relativamente alla diffusione della violenza e delle armi negli Stati Uniti su “Carmilla”, vale la pena soffermarsi anche sui testi più datati presenti nel volume. Per quanto le riflessioni espresse dallo storico americano contenute in La rivolta pseudo-conservatrice vadano contestualizzate al momento in cui le scrive, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, non mancano di essere di una qualche utilità ancora oggi al fine di comprendere meglio le radici che hanno condotto ad un immaginario politico americano in cui l’universo liberal sembra aver totalmente perso la sua spinta al cambiamento.

Se negli anni Trenta «la forza dinamica della politica americana era il dissenso liberal», che si proponeva di «riformare le ingiustizie del nostro sistema sociale ed economico e cambiare il modo di fare le cose», negli anni Cinquanta «la vita politica non trae più il suo dinamismo dai liberal […] che hanno inconsapevolmente assunto la psicologia di chi li ha preceduti»; molti dei soggetti marginali a cui si rivolgeva il New Deal hanno nel frattempo trovato una collocazione stabile nella società tanto da indurli ad un certo “conservatorismo”. «I vecchi liberal», negli anni Cinquanta, scrive Hofstadter, «non auspicano certo qualche nuovo ambizioso programma, ma si limitano a difendere quanto possibile i traguardi già raggiunti e la libertà di espressione» (p. 62).

Secondo lo storico, le nuove forme di dissenso non solo non possono dirsi radicali, ma nemmeno del tutto conservatrici: a differenza del passato, queste presentano una richiesta continua di conformismo, tanto che si potrebbe parlare di «pseudo-conservatorismo». A palesarsi è infatti una forma di evidente «insoddisfazione per la vita americana, le sue tradizioni e le sue istituzioni»; sono lontane dal moderatismo incline al compromesso del conservatorismo classico esprimendo infatti «un odio profondo, seppure inconsapevole, per la nostra società e le sue dinamiche» (p. 63).

«Lo pseudo-conservatore», scrive Hofstadter, «crede di vivere in un mondo dove qualcuno lo spia, sta tramando contro di lui, lo sta tradendo e lo porterà alla rovina, crede che le sue libertà siano state invase in modo arbitrario e intollerabile. È contrario a quasi tutte le novità degli ultimi vent’anni di politica americana» (p. 65). Questa figura non sopporta la burocrazia così come la partecipazione del proprio Paese ad organismi sovranazionali, come l’Onu, detesta avere a che fare con altre nazioni e soprattutto rifiuta di doverle aiutare economicamente e militarmente, percepisce la debolezza degli Stati Uniti, che vede in balia di azioni eversive provenienti da ogni dove, ed imputa ogni fallimento internazionale ad un tradimento. «L’ostilità latente e diffusa verso le istituzioni americane prende la forma di una valanga di proposte per stravolgere i corpus delle nostre leggi fondamentali» (p. 66).

Secondo lo storico si è di fronte a qualcosa di profondamente diverso dal vecchio ultra-conservatorismo isolazionista; questo fenomeno di pseudo-conservatorismo deriverebbe direttamente dalla «vita americana, eterogenea e senza radici, e soprattutto [dal] modo caratteristico con il quale gli americani da sempre ambiscono a uno status e a un’identità stabile» (p. 71). Un universo, quello americano, che negli anni Sessanta fa sempre più fatica a rapportarsi con quel melting pot celebrato dallo storytelling ufficiale, che non vede più funzionare la mobilità sociale e occupazionale, ormai ridotte a ricordi del passato.

Oltre ad essere un’arena in cui si confrontano interessi materiali contrastanti dei diversi gruppi sociali, la politica è anche luogo in cui vengono proiettate «le aspirazioni e le frustrazioni relative allo status; luogo in cui si intersecano temi politici, di interessi, e problemi individuali, di status, in cui questi ultimi tendono ad avere la meglio. Se nei momenti di depressione e malcontento economico il dissenso tende ad incanalarsi in richieste di riforme concrete, nei momenti di maggior prosperità, quando sono le questioni di status ad avere il sopravvento, il dissenso assume la forma della lamentela priva di proposta concreta, di rivalsa, rancore e ricerca di capri espiatori. «Le preoccupazioni di status accomunano paradossalmente due tipi di persone che giungono da direzioni opposte. Il primo tipo è quello degli anglosassoni di antica tradizione, protestanti, il secondo quello delle famiglie d’immigrati, soprattutto di discendenza tedesca e irlandese, spesso cattoliche» (pp. 74-75). I primi guardano allo pseudo-conservatorismo nel momento in cui sentono di perdere privilegi di casta, i secondi quando li guadagnano. Se molti liberal tendono a vedere nel dissenso pseudo-conservatore una minaccia alle libertà in direzione totalitaria, Hofstadter si dice restio a bollarlo come puramente fascista o totalitario.

Con Pseudo-conservatorismo revisited. Un post-scriptum dei primi anni Sessanta, lo storico americano torna su quanto scritto a metà del decennio precedente soprattutto per apportare alcune modifiche a proposito del concetto di politica di status.

Alla metà degli anni Cinquanta appartiene lo scritto Il mito dell’allegro possidente dedicato alla trasformazione del piccolo agricoltore proprietario della terra che lavora in imprenditore. Hofstadter ricostruisce le discrepanze tra la figura del reale piccolo proprietario terriero al lavoro nei campi e la narrazione che di esso è stata a lungo fatta negli Stati Uniti, che ha continuato a presentarlo come esempio di lavoratore industrioso, indipendente, autosufficiente e dotato di spirito egalitario anche quando, ormai, questo si era trasformato in imprenditore commerciale. Paradossalmente, spiega lo studioso, più lo yeoman ai allontanava da un’attività incline all’autosufficienza in favore di un’agricoltura imprenditoriale, più cresceva una narrazione incline alla nostalgia per il passato rurale, probabilmente in ossequio alla presunta innocenza delle origini.

Lo yeoman, proprietario di una piccola fattoria conduzione famigliare, incarnava la «persona semplice, onesta, sana, indipendente e felice [che] viveva in comunione con una natura benevola» (p. 99), vera e propria base di una società virtuosa, figura secolare e al tempo stesso religiosa, in quanto espressione del lavoro della terra creata da Dio. Un mito, quello agreste, non nato in seno al popolo, bensì come concetto letterario ideato dalle classi più agiate che lo avevano derivato dalla cultura inglese dalla seconda metà del Settecento, che a partire dal secolo successivo si sarebbe diffuso nell’immaginario popolare statunitense. La Rivoluzione americana avrebbe poi contribuito a fare dello yeoman una sorta di simbolo della nuova nazione. Nel guardare alla città, questa figura vi scorgeva una sorta di alieno ed ostile «coacervo di strozzini, dandy, damerini e aristocratici pieni di idee europee» (p. 105) che lo trattava da bifolco.

Se nel corso del periodo coloniale, fino all’Ottocento inoltrato, ancora era ravvisabile una certa corrispondenza tra lo yeoman reale e la narrazione che di esso veniva fatta, con lo spostamento verso le praterie e la possibilità di introdurre macchinari nel lavoro nei campi, il contadino inizia ad abbandonare forme di autosufficienza per occuparsi della “coltura da reddito” modificando non solo la vita quotidiana ma anche l’immaginario.

Si sviluppò così una società agricola che a differenza di quella dello yeoman non si sentiva legata alla terra, ma al valore della terra. Il vero frutto della società rurale americana, sviluppatasi su praterie e pianure, non era lo yeoman o il tranquillo abitante del villaggio, ma uno stressato piccolo affarista di campagna che lavorava sodo, si trasferiva fin troppo spesso, giocava d’azzardo con la propria terra, e si faceva strada con le sue forze. […] Divenne un uomo d’affari molto prima di cominciare a considerarsi tale (p. 111).

Con la fine dell’Ottocento questa figura, per quanto ancora attiva direttamente sui suoi possedimenti terrieri, iniziò a guardare ai propri dipendenti, aumentati decisamente di numero, con il medesimo sospetto con cui guardava ai lavoratori di città, soprattutto se sindacalizzati, come un tempo guardava ai “damerini e aristocratici”. A spazzare definitivamente via il vecchio yeoman saranno però soprattutto i mezzi di comunicazione novecenteschi – dai trasporti ai mass media radiofonici, cinematografici e televisivi – con il loro affievolire sempre più le differenze tra il mondo rurale e quello cittadino.

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In rifle we trust. Individualismo, violenza ed armi nella storia statunitense https://www.carmillaonline.com/2024/12/01/in-rifle-we-trust-individualismo-violenza-ed-armi-nella-storia-statunitense/ Sun, 01 Dec 2024 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85500 di Gioacchino Toni

Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi, Traduzione di Paolo Bassotti, Saggio introduttivo di Emanuele Bevilacqua, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 192, € 17,00

Per capire qualcosa di più degli Stati Uniti contemporanei, più che ai resoconti confezionati dai commentatori dei media nostrani, spesso derivati dai grandi network statunitensi con l’aggiunta di qualche nota di colore, ed alle analisi che anche a sinistra sembrano spesso più inclini a soddisfare desideri che non a confrontarsi con la realtà statunitense, potrebbe essere di qualche aiuto ricorrere a qualche vecchio scritto di Richard [...]]]> di Gioacchino Toni

Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi, Traduzione di Paolo Bassotti, Saggio introduttivo di Emanuele Bevilacqua, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 192, € 17,00

Per capire qualcosa di più degli Stati Uniti contemporanei, più che ai resoconti confezionati dai commentatori dei media nostrani, spesso derivati dai grandi network statunitensi con l’aggiunta di qualche nota di colore, ed alle analisi che anche a sinistra sembrano spesso più inclini a soddisfare desideri che non a confrontarsi con la realtà statunitense, potrebbe essere di qualche aiuto ricorrere a qualche vecchio scritto di Richard Hofstadter che, da storico che si confronta con le scienze sociali, ha incentrato i suoi studi sulla politica e sulla mentalità statunitensi, soprattutto sugli aspetti populisti, mettendo al centro del dibattito questioni fino ad allora trascurate. Per quanto si tratti di studi datati ed in parte superati da ricerche più recenti e per quanto siano nel frattempo cambiati l’universo sociale ed il panorama politico, risultano ancora di una certa utilità al fine di comprendere un po’ meglio un universo come quello statunitense che in Europa si conosce e comprende forse meno di quel che si pensa.

Dopo essersi occupato nel corso degli anni Quaranta degli aspetti ferocemente competitivi del capitalismo americano del periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo – Social Darwinism in American Thought, 1860-1915 (1944) e The American Political Tradition and the Men Who Made It (1948, tr. it. Il Mulino 1960) –, nei due decenni successivi Hofstadter ha concentrato la sua attenzione sul populismo che ha caratterizzano la storia politica americana sin dall’Ottocento – The Age of Reform (1955) – indagando in particolare gli aspetti “paranoici” che si ritrovano in essa, questione al centro di The Paranoid Style in American Politics (1964), testo recentemente pubblicato da Adelphi1.

L’insistito ricorso all’appello al popolo e le visioni paranoiche e complottiste che caratterizzano gli Stati Uniti di Trump hanno dunque una storia radicata in America a cui si ricollega anche la diffusa quanto viscerale ostilità nei confronti di tutto ciò che “odora di intellettuale” e che viene percepito come parte integrante di quella élite che imbriglia la vita dei “veri e genuini americani”, che Hofstadter indaga nel volume Anti-Intellectualism in American Life (1963; tr. it. Einaudi 1967), testo che sarà a breve riproposto da Luiss University Press2.

Venendo a La repubblica dei fucili, il volume raccoglie alcuni testi scritti da Hofstadter a metà degli anni Cinquanta – La rivolta pseudo-conservatrice (1955), sui cui torna all’inizio del decennio successivo con Pseudo-conservatorismo revisited. Un post-scriptum (1962), ed Il mito dell’allegro possidente (1956) – ed un paio di scritti del 1970, anno in cui scompare: L’America come cultura delle armi (1970) e Riflessioni sulla violenza negli Stati Uniti (1970). Ad introdurre il volume è un saggio di Emanuele Bevilacqua che proietta nell’attuale universo digitale alcune riflessioni di Hofstadter circa la violenza ed il culto delle armi negli Stati Uniti.

Secondo lo storico americano, la violenza negli Stati Uniti deriverebbe in maniera considerevole da alcune condizioni culturali specifiche che si sono evolute nel tempo: la cultura della frontiera ed il mito del pioniere armato; il diritto costituzionale a possedere armi, sancito dal Secondo emendamento, vissuto come baluardo della libertà individuale al fine di proteggersi da ogni forma di oppressione; la normalizzazione della violenza a cui avrebbero concorso gli strumenti di intrattenimento popolare come il cinema e la televisione.

Tutte le culture di massa hanno i loro eroi stereotipati, e nessuno è del tutto privo di violenza, ma niente è paragonabile all’insolita passione degli Stati Uniti per figure solitarie e individualiste come il detective, lo sceriffo o il cattivo della situazione. Nelle narrazioni drammatiche americane rispetto a quelle inglesi, per esempio, è molto più difficile che un conflitto venga risolto con l’intelligenza o secondo un ordine morale piuttosto che con un atto di violenza audace e improvviso (p. 50).

Per quanto il ruolo della frontiera sia stato importante nello strutturarsi della cultura delle armi tra gli americani, secondo lo studioso forse ancora di più ha influito la radicata avversione nei confronti dell’esercito organizzato, derivata dai Whig radicali inglesi, da cui è desunta l’idea della creazione di milizie di cittadini armati al fine di difendersi da eventuali forme di autoritarismo statale. Il possesso delle armi è al centro della

tradizione antimilitarista dei Whig radicali inglesi, ripresa e intensificata dall’America coloniale, soprattutto dalla generazione che precedette la Rivoluzione americana, per poi divenire parte integrante della tradizione politica americana. […] Gli americani si convinsero che l’unica soluzione possibile al perenne conflitto tra militarismo e libertà fosse la loro proposta alternativa: un popolo armato (pp. 52-53).

Tale preferenza per la milizia popolare ha esercitato un ruolo importante nella stesura del Secondo emendamento della Costituzione. «Il diritto di possedere armi era un diritto collettivo e non individuale, strettamente correlato all’esigenza civile (soprattutto in mancanza di un esercito nazionale adeguato) di una “ben organizzata milizia”; con esso, il Congresso si impegnava a non impedire agli Stati di fare il necessario per il mantenimento di milizie ben regolate» (p. 55).

Storicamente, l’idea del diritto ad essere armati non è un convincimento esclusivo dei fanatici cultori di pistole e fucili; per molti americani l’accesso diffuso alle armi è visto come contrappeso fondamentale e necessario ad una possibile tirannia. Tale convincimento è «sopravvissuto in tutta la sua gloria e la sua ingenuità anche nell’era tecnologica moderna, venendo ripreso, ad esempio dai giovani neri, soprattutto dalle Panthers, che hanno fatto incetta di armi in modo più letale per loro che per chiunque altro» (p. 57). Così scrive Hofstadter nel saggio L’America come cultura delle armi, pubblicato in apertura degli anni Settanta, palesando una presa di distanza dalle lotte afroamericane che non hanno disdegnato il ricorso ad armi da fuoco. Mentre in altre società la presenza di piccoli gruppi armati non autorizzati viene vista come un pericolo da eliminare a partire dal contrasto all’accesso alle armi, gli Stati Uniti, sostiene lo storico, preferiscono contrastare il pericolo di tali gruppi armandosi maggiormente a loro volta.

Facendo riferimento al periodo in cui scrive, Hofstadter motiva l’accentuata devozione alle armi del Sud e del Sud-Ovest degli Stati Uniti non solo con le radici rurali che contraddistinguono quelle zone, ma anche ricordando che le armi al Sud sono a lungo state prerogativa riservata ai bianchi per esercitare un maggior controllo sugli schiavi, dunque il possesso di armi è nel tempo divenuto un simbolo di status del maschio bianco per poi venir fatto proprio dagli stessi maschi afroamericani.

Per quanto gli Stati Uniti fossero urbanizzati e industrializzati, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento i parlamenti, tanto a livello locale che nazionale, erano composti in buona parte da uomini di una certa età provenienti dalla provincia rurale. È su tali basi che si sarebbe strutturata la convinzione della legittimità del ricorso alla violenza armata come modalità attraverso cui difendere i diritti individuali. Lo studioso sottolinea anche come tra gli americani sia riscontrabile una tendenza alla rimozione degli effetti negativi della violenza; un’amnesia che minimizza episodi e cause sistemiche e si rivela utile al mantenimento di un’immagine idealizzata della storia nazionale.

In Riflessioni sulla violenza negli Stati Uniti, altro scritto datato 1970, dopo aver sottolineato come gli storici americani abbiano sempre evitato di soffermarsi su quanto la violenza sia ricorrente nella storia del loro Paese e come, nonostante ciò, gli statunitensi tendano a pretendersi una nazione virtuosa come nessun’altra, Hofstadter evidenzia come, a differenza di ciò che accade in altri Paesi, la violenza negli Stati Uniti tenda a dispiegarsi più facilmente tra cittadini piuttosto che tra questi e lo Stato: in America «la violenza non nasce dal desiderio di sovvertire lo Stato, e per questo non danneggia mai la legittimità dell’autorità» (p. 127) e così è sempre stato, con la non irrilevante eccezione della Guerra civile, scrive lo studioso in questo testo del 1970.

Che una mole di violenza come quella che si è dispiegata negli Stati Uniti nel corso della sua storia non abbia preso le mosse dall’intenzione di sovvertire l’autorità statale, induce Hofstadter a passare in rassegna alcune tra le principali forme di violenza che hanno caratterizzato la vita del Paese ponendo l’accento su come in tutte queste sia in qualche modo presente la componente razziale.

Nella storia americana, in conflitto di classe è stato messo nettamente in secondo piano dal conflitto etnico-religioso e razziale. Gli scontri tra gruppi hanno sostituito la lotta di classe, o si sono posti come possibile alternativa. Gli episodi di lotta di classe effettivamente avvenuti raramente si sono svolti “in purezza”, scevri da antagonismi etnico-razziali e dalla nostra complessiva gerarchia d status fondata su caratteristiche religiose, etniche e razziali (p. 132).

Secondo Hofstadter, la violenza legata al mondo dell’industria ha avuto la sua fase più significativa ai tempi delle società segrete Molly Maguires nelle città ove si estraeva l’antracite, tra gli ultimi decenni dell’Ottocento ed i primi del secolo successivo. L’imponente sciopero delle ferrovie del 1877 coinvolse una dozzina di città provocando scontri che condussero a quasi un centinaio di morti. «Per la prima volta, si paventò lo spettro di una forza rivoluzionaria nazionale impossibile da gestire (per quanto l’idea neanche sfiorasse gli scioperanti), cosa che portò al rafforzamento della Guardia nazionale e alla creazione di una catena di armerie nelle città più importanti» (p. 140). Lo stesso grande sciopero delle ferrovie del 1886 si rivelò particolarmente violento così come molti altri scoppiati in apertura di Novecento soprattutto ove erano radicati la Western Federation of Miners e l’Industrial Workers of the World (IWW).

Se la conflittualità di classe negli Stati Uniti, pur rifacendosi meno che in altri Paesi a motivazioni ideologiche, ha dato luogo ad esplosioni di violenza che non trovano forse paragoni altrove, secondo lo storico ciò è da ricercarsi più nell’ethos dei capitalisti americani che non in quello dei lavoratori.

Alcune considerazioni Hofstadter le dedica a come anche la sinistra americana si sia fatta affascinare dall’esercizio della violenza nel corso degli anni Sessanta. In tali riflessioni lo storico statunitense, che in età giovanile aveva per qualche tempo militato nel Partito comunista americano, salvo poi uscirsene in dissenso con la deriva stalinista dei paesi socialisti e dei partiti comunisti occidentali, manifesta più volte il suo distacco dalle frange più radicali delle proteste statunitensi sia del mondo del lavoro che dei movimenti studenteschi ed afroamericani.


Ai saggi stesi da Hofstadter negli anni Cinquanta e Sessanta, presenti in La repubblica dei fucili, sarà dedicato un nuovo scritto su “Carmilla online”.

 


  1. Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, tr. it. di Francesco Pacifico, Adelphi, Milano 2021. Si veda a tal proposito Sandro Moiso, Il “grande complotto” nella tradizione politica americana (e altrove), in “Carmilla online”, 28 Giugno 2021. 

  2. Del meccanismo di eroicizzazione dell’individuo qualunque che, come un novello David, trova la forza ed il coraggio di opporsi al Sistema ed alla sua grande cospirazione, che caratterizza la cultura, soprattutto audiovisiva, americana si è recentemente occupato, tra gli altri, Tom Nichols (The Death of Expertise (2017); id., La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, tr. it. di Chiara Veltri, Luiss University Press, Roma 2023. 

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Mutualismo, autodifesa, lavoro sociale. Il caso delle Pantere Nere – pt.3 https://www.carmillaonline.com/2024/11/24/mutualismo-autodifesa-lavoro-sociale-il-caso-delle-pantere-nere-pt-3/ Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85575 di Jack Orlando

Sotto torchio.

C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente. Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale. L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni [...]]]> di Jack Orlando

Sotto torchio.

C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente.
Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale.
L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni pantera.1
Ma era anche un aspetto facilmente demonizzabile dai media e respingente per la parte più moderata degli afroamericani. I programmi sociali erano fondamentali nell’immediato soprattutto per colmare questa lacuna.
Se nella strategia tali programmi dovevano rappresentare delle infrastrutture di resistenza per affrontare la guerra, nonché dei germi di organizzazione collettivista della società; nella tattica essi erano fondamentali al consenso.
Attraverso le mense e gli ambulatori le pantere non erano solo dei militanti armati che proteggevano dalla polizia e dai razzisti, ma coloro che si caricavano sulle spalle i bisogni concreti della società nera. Che nutrivano i bambini e curavano i malati. Lancia e scudo.
Ogni madre o padre del ghetto poteva riconoscere in loro quelli che al mattino davano la colazione ai figli prima della scuola, che nel pomeriggio gli permettevano di avere davvero un’educazione completa tenendoli fuori dalla strada e alla sera li tenevano al sicuro.
Questa ricerca del consenso, di per sé necessaria ad ogni partito, diventava via via più necessaria man mano che la repressione si stringeva attorno al BPP.

Tanto il partito cresceva, tanto la pressione degli apparati si faceva feroce, più acuta di giorno in giorno.
Da minacce, molestie e arresti arbitrari si passò rapidamente ad una vera e propria offensiva militare coordinata dal FBI: vengono infiltrati decine di provocatori e informatori, i militanti di spicco sono incarcerati in massa, vengono uccisi in scontri a fuoco o in veri e propri omicidi mirati, le sedi sono attaccate, date alle fiamme o distrutte con esplosivi.
Anche i programmi sociali vengono sabotati: poliziotti disturbano le colazioni per bambini, commercianti che forniscono risorse vengono minacciati, le tipografie sequestrate, addirittura si progetta di avvelenare il cibo che le pantere distribuiscono nei quartieri.
È una guerra totale e sporca, condotta fuori da qualsiasi parametro e controllo legale: il famigerato programma controinsurrezionale COINTELPRO di cui nell’immediato non si sa nulla ma che emergerà nel medesimo 1971, quando verranno alla luce una serie di documenti sequestrati in un blitz di cittadini in una base federale della Pennsylvania.

Quando si parla della brevissima stagione delle Pantere e della loro metodologia politica bisogna tenere sempre a mente che tutta la vita del BPP è stata condizionata pesantemente dal dover fare i conti con questa repressione barbara.
Nel sabotarne il cammino, il COINTELPRO ha viziato pesantemente la dialettica interna, spingendo una parte delle Pantere a radicalizzarsi ulteriormente spingendo per una prassi più insurrezionale (coloro che, dopo la scissione, daranno vita al Black Liberation Army), e portando un’altra parte più “moderata” ad arroccarsi sulla via elettoralista e l’incremento dei programmi sociali (questa sarà la parte che avrà la guida del partito, con scarsi risultati fino al suo scioglimento).
Nessuno dei due elementi poteva bastare a sé stesso senza il suo contraltare: venuta meno la loro compresenza, tutta la strategia ha finito per crollare su sé stessa.

È probabile che in ogni caso, anche senza il peso della repressione, le Pantere non sarebbero riuscite a fare il definitivo salto di qualità; ma c’è un episodio significativo, che illumina il senso della vicenda: nel 1969 Fred Hampton, giovanissimo dirigente del BPP di Chicago e plausibile successore di Newton, appena 21 anni, viene ucciso nel sonno durante un raid della polizia nel suo appartamento.

Tralasciando gli inquietanti dettagli sul suo omicidio, non possiamo fare a meno di notare come gli apparati non persero un momento a spezzare la prima vera possibilità di balzo in avanti che si era presentata.
Hampton infatti era il leader di una delle sezioni più forti del partito e soprattutto architetto di una strategia innovativa; non solo era riuscito a tenere in equilibrio il lavoro sociale e le armi, ma aveva superato la tradizionale base di riferimento.
Alleandosi con la League of Black Revolutionary Workers, sindacato degli operai neri, era riuscito a garantirsi una testa di ponte all’interno del settore delle fabbriche, fondamentale nella città, era la prima pantera ad affrontare in modo esplicito, seppure abbozzata, la contraddizione capitale-lavoro ed il ruolo dei sindacati.
Non solo, facendo leva sulla composizione delle bande giovanili, era riuscito a politicizzarne diverse e a portare attraverso queste l’esempio del BPP nelle altre comunità svantaggiate: portoricani, bianchi poveri del sud, messicani. L’agglomerarsi di partiti simili (Young Lords, Young Patriots, Brown Berets ecc.) in una alleanza (la Raimbow Coalition, poi ripresa anni dopo in chiave elettorale dal reverendo Jesse Jackson) faceva di Hampton la possibile guida definitiva del BPP e il detonatore di un’offensiva congiunta dei segmenti di classe finora tenuti separati dalla linea del colore.
Venne ammazzato per prevenire lo stabilirsi di una strategia unica per un fronte allargato con reali possibilità di vittoria.

Per concludere, l’analisi delle pratiche politiche del BPP2 non può esimersi dal partire dagli elementi fondamentali che l’hanno generato e che ne hanno determinato lo sviluppo. Abbiamo qui portato brevemente alla luce i tre nodi determinanti: la strategia (e l’immaginario) politica, la comunità storica d’appartenenza e la contingenza politica.
Più esplicitamente, le forme di lotta ed organizzazione delle pantere possono essere lette solo considerando A) il loro inserirsi in una strategia di lotta anticoloniale novecentesca, la guerra popolare, che prevedeva istituti di sussistenza dell’avanguardia rivoluzionaria e dei suoi territori; B) l’innestarsi all’interno della tradizione nera che, dalla schiavitù in poi, ha sviluppato forme di cooperazione mutualistica per sopperire agli scompensi della segregazione; C) la loro valenza di strumento di propaganda e consenso, tanto più necessario quanto più era forte l’attacco repressivo cui erano sottoposte.

Nota a margine.

Spesso e volentieri nei movimenti occidentali degli ultimi vent’anni3 , una certa dose di entusiasmo si accompagna all’adozione di pratiche politiche, sopperendo spesso a una lacuna di visione strategica, ossia la capacità di vedere lontano e inserire le singole pratiche all’interno di un percorso articolato, mutevole e non lineare.
È così che ciò nasce come tattica finisce per essere strategia, da mezzo a fine; ciò che era secondario assume l’importanza della parola d’ordine.
Allo stesso tempo questo si accompagna ad un innegabile senso orientalista: lotte distanti geograficamente e culturalmente da noi vengono assunte come modello senza considerarle nella loro specificità.

È stato così per le comunità zapatiste, per il Rojava dei kurdi. Lo è anche per le pantere nere ed il BLM.
Spesso non si considera la cultura indigena e la dimensione coloniale del sud del Messico, oppure la turbolenza geopolitica che ha investito il popolo kurdo nel terzo millennio; dei loro contesti dove la civiltà tardocapitalista non ha imposto il controllo né la sussunzione pervasivi assunti in Europa, né la centralità assunta dallo stato sociale qui (anche nel suo smanetellamento); solo in minima parte si guarda a come si siano dati in condizioni di frattura o insufficienza dell’ordine statale sui propri territori.4
Soprattutto non si considera il loro essere dotarsi di strutture organizzative pensate per agire e guardare sul lungo periodo; laddove in Europa si è assistito piuttosto all’esplodere ciclico di mobilitazioni popolari anche importanti, al fiorire di piccoli gruppi ed esperienze, ma solo in minima parte alla costruzione di strutture politiche durevoli e articolate.

In questa adozione quasi spasmodica di linee frammentate il mutualismo è tornato alla ribalta come uno degli ultimi ritrovati, trasmutato da mezzo a fine.
Questo in parte è spiegabile con la lunga presenza di pratiche sociali simili, specialmente nei movimenti di derivazione libertaria e orizzontalista; in parte con la necessità, dopo la fine del movimento operaio storico, di riadattare strumenti per una soggettività orfana.

Ecco che si sono assunte le categorie dei movimenti extraeuropei per colmare un’insufficienza tutta occidentale, con la tendenza molto occidentale di poterle utilizzare a prescindere dalla loro genesi.
E questo è tanto più evidente se si pensa che allo stesso tempo si è andata dimenticando la dimensione europea del mutualismo, altrettanto lunga e profonda.
Se il socialismo è un prodotto della cultura europea dell’800, questo non è nato semplicemente dentro la mente geniale di Marx e Engels.
Quello che è emerso nella prima internazionale e nel Manifesto è il picco di un percorso di lungo periodo che lì trovava compimento e si evolveva in qualcosa di altro.
Un percorso disordinato e contraddittorio dove filantropia, aspirazioni nazionali, rivolte locali e tutti i processi materiali e simbolici innescati dalla resistenza all’estendersi della rivoluzione industriale finivano per agglomerarsi in un’opera di categorizzazione teorico-politica.

Furono non pochi i tentativi di dotare la nascente classe operaia di istituti di sopravvivenza e opere mutualistiche. A volte da parte degli appartenenti alla classe dirigente, animati da spirito filantropico e sentimento cristiano; altre volte da aggregati popolari in autonomia (senza dimenticare che tra Rivoluzione Francese e Manifesto del Partito Comunista corrono appena cinquant’anni).

Questa eredità verrà raccolta dai partiti socialisti e poi da quelli comunisti. Si articolerà in una fioritura di progetti diversissimi tra loro che copriranno praticamente tutto lo spettro delle attività umane. Scuole per i figli degli operai, orti per i loro quartieri, casse di assistenza reciproca, cooperative di lavoro, centri ricreativi.
I partiti presero in carico tutte le esigenze della classe, spesso attraverso articolazioni associative piuttosto che direttamente, ma nel cammino verso “il sol dell’avvenire”, utilizzarono il lavoro sociale per popolare e dare profondità al mondo che incarnavano.
Far parte di un partito socialista significava, per un operaio, essere partecipe di un vero e proprio universo materiale e simbolico.

Il tempo lungo della storia ha disegnato un percorso estremamente ricco e sfaccettato, lo ha portato al suo apice e poi al suo declino.
Durante il suo corso, ha condizionato lo sviluppo delle nazioni innervandole di uno Stato Sociale che altrove è impensabile, nonostante i pesanti attacchi del neoliberismo.
Intanto, svanito il sogno rivoluzionario, quelle classi dirigenti che avrebbero dovuto gestire il mondo socialista, si sono convertite in ceto amministratore della miseria presente.

Tutto ciò non vuole essere in alcun modo una riproposizione nostalgica di una tradizione ormai bell’e morta; né tantomeno si cerca di svilire le esperienze rivoluzionarie extraoccidentali, che anzi hanno rappresentato il maggior terreno di innovazione e sperimentazione degli ultimi sessant’anni.
Piuttosto vogliamo qui spingere verso un metodo di analisi, di interpretazione della realtà che, con qualche approssimazione, possiamo definire come “storicizzare i processi politici” per orientarne la prassi.
Se non consideriamo l’onda lunga da cui proveniamo non possiamo interpretare la realtà, ogni innesto che verrà tentato si svilupperà su un terreno arido e sarà quindi sterile, incapace di mettere radici.

Parte 1 qui
Parte 2 qui


  1. Ribadiamo la specificità dell’uso delle armi nel programma del BPP, mai utilizzate in una pratica offensiva ma come elemento anzitutto simbolico di propaganda e in secondo luogo come strumento di difesa in caso di attacchi di polizia e suprematisti. 

  2. Ma analogamente vale per l’analisi di qualsiasi fenomeno politico. 

  3. nello specifico possiamo parlare di quelli italiani ma crediamo che qualcosa di simile sia vero per la restante parte del mondo in cui siamo inseriti 

  4. guerra civile siriana, narcoguerre e debolezza endogena dello Stato messicano alla sua periferia. 

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Mutualismo, autodifesa, lavoro sociale. Il caso delle Pantere Nere – ep.2 https://www.carmillaonline.com/2024/11/17/brothers-on-the-blocks/ Sat, 16 Nov 2024 23:15:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85425 di Jack Orlando

Brothers on the blocks C’è una famosa immagine del 1971, ritrae dei bambini afroamericani in uniforme da scolari che marciano nel cortile di una scuola del ghetto. È la “Intercommunal Youth Istitute”, una delle diverse scuole aperte e gestite dalle pantere nei quartieri neri. In quel momento i militanti del partito potevano vantare la creazione e amministrazione di ambulatori e cliniche autogestite, ambulanze, programmi di recupero per tossicodipendenti, centri analisi, scuole elementari ed accademie politiche, programmi di distribuzione alimentare, mense gratuite, case comuni, un giornale da migliaia di copie al giorno e sedi di partito in tutto [...]]]> di Jack Orlando

Brothers on the blocks
C’è una famosa immagine del 1971, ritrae dei bambini afroamericani in uniforme da scolari che marciano nel cortile di una scuola del ghetto.
È la “Intercommunal Youth Istitute”, una delle diverse scuole aperte e gestite dalle pantere nei quartieri neri.
In quel momento i militanti del partito potevano vantare la creazione e amministrazione di ambulatori e cliniche autogestite, ambulanze, programmi di recupero per tossicodipendenti, centri analisi, scuole elementari ed accademie politiche, programmi di distribuzione alimentare, mense gratuite, case comuni, un giornale da migliaia di copie al giorno e sedi di partito in tutto il paese.
Ovunque ci siano le pantere sorgono programmi di sussistenza per la popolazione nera.
C’è un solo problema: il partito è al capolinea.
Poco prima di quella foto si è spezzato irreparabilmente il legame tra il BPP e il resto del movimento e, circa un mese dopo, il conflitto ai vertici sancirà una frattura definitiva che spaccherà il partito in due fazioni rivali, impegnate in una guerra fratricida che lascerà sul campo più di un morto.

Un passo indietro.
La prima iniziativa sociale1 del BPP è sempre del 1966 e, per strano che possa sembrare, consiste nel far attraversare la strada davanti scuola a dei bambini.
Come fanno da noi i pensionati.
La cosa nasce quasi spontaneamente: l’autodifesa non si esplica solo armandosi e controllando i fermi di polizia, bensì nella cura costante della comunità e del suo territorio. Così, volantinando in giro e parlando con le persone del quartiere emerge che alcuni bambini sono stati investiti all’incrocio della scuola perché manca un semaforo.
Detto fatto, le pantere scendono in strada e controllano il traffico, accompagnano gli scolari da un lato all’altro della strada, e soprattutto si dirigono in municipio minacciando di occuparlo se non verrà messo in sicurezza l’incrocio.

Quel semaforo è la prima vera vittoria del partito e segna la strada per la futura politica del bisogno. Abitando nei quartieri in cui militano, le pantere hanno gioco facile a misurarne i problemi poiché li vivono o li hanno vissuti sulla propria pelle.
Sapendo quanti ragazzini andavano a scuola a stomaco vuoto, iniziano il programma di colazioni gratuite per bambini, che evolverà presto portando anche alla costruzione di mense e alla distribuzione alimentare gratuita alle famiglie indigenti, il “Free Food Program”. Da qui si svilupperanno centri educativi con corsi di alfabetizzazione, supporto scolastico e formazione politica, ma anche centri di raccolta di beni di prima necessità, abiti compresi.
Nella stessa maniera, la genealogia della battaglia sulla salute che porta in breve tempo alla costruzione di diverse cliniche ed ambulatori, parte da una particolare forma d’inchiesta: il test per l’anemia perniciosa. L’altissimo tasso di incidenza di questa sindrome, legata essenzialmente a carenze nell’alimentazione, praticamente inesistente nei quartieri della middle class bianca, nel ghetto era una piaga immediatamente riconducibile alle condizioni materiali degli afroamericani.
Se ne soffrono i neri, e se è legata ad una alimentazione carente, è perché la dieta del ghetto e insufficiente e di scarsa qualità, e lo è perché la povertà impedisce di nutrirsi a dovere, rendendosi così strumento di dominio attraverso la debilitazione dei corpi.
Risolvere questo problema significa rimettere in salute il corpo sociale del ghetto, aiutarlo a rimettersi in forze per scuotersi di dosso le catene, cosa che nell’immediato si traduce in condizioni di vita migliori per le famiglie.
La dialettica teoria prassi è ben presente anche nel semplice atto di offrire colazione e vitamine a un bambino.

Bisogna tenere a mente un fatto: se è stato possibile per il BPP sviluppare tutta questa mole di programmi in tali dimensioni, lo è stato per il supporto fornito dalla comunità. Piccole botteghe che hanno donato abitualmente le rimanenze dei negozi, medici ed infermieri che hanno prestato la propria opera, vicini che hanno fatto collette, parrocchie che hanno offerto i propri spazi per le attività.
In effetti le pantere non hanno inventato proprio nulla. Iniziative di solidarietà e mutuo aiuto innervano nel profondo la vita dei ghetti, molto più dei diversi programmi sociali messi in campo dalle istituzioni.
È una galassia fatta di chiese e congreghe, associazioni, collettivi, gruppi di vicinato, famiglie e amicizie che si prendono in carico come possono dei problemi comuni.

Per comprendere questa realtà bisogna andare a interrogare le forme specifiche di costruzione storica della comunità afroamericana: essa non nasce nei ghetti o nelle marce pacifiche, ma sulle navi negriere e nelle baracche al margine dei campi di cotone.
È la schiavitù il mito fondatore e la genesi sociobiologica condivisa di ciascun singolo afroamericano, e questo è un dato che permea la coscienza individuale tanto quanto quella collettiva, è un elemento talmente forte che la sua realtà può essere considerata a tratti come la spina dorsale della storia degli Stati Uniti.
Lo spettro della schiavitù è una presenza quasi fisica, così dolorosa e profonda da farsi tradizione, retroterra culturale, straborda dalla Storia e lo si rintraccia nella musica, nella letteratura, nel senso comune e, ovviamente, nelle forme materiali in cui la comunità afroamericana è andata costruendosi.

È noto che l’organizzazione del tempo e del lavoro durante il lavoro dei campi, non comprendesse la rigida divisione dei ruoli di genere tra la sfera produttiva e riproduttiva della società bianca: uomini e donne lavoravano dall’alba al tramonto nei campi ed i bambini, quelli non ancora abili al lavoro almeno, venivano accuditi dagli anziani, la cui sussistenza era a loro volta assicurata dalla comunità degli schiavi.
I momenti di preghiera e di festa, il pasto condiviso, le notti passate a stare insieme per imparare a leggere di nascosto, per risentirsi umani e proteggersi da un mondo ostile e alieno hanno cementato le basi di un rapporto collettivo che era in grado di accogliere i figli altrui quando venivano venduti da una piantagione all’altra, ritagliarsi dei margini di autonomia e scampoli di benessere, così come di organizzare vere e proprie rivolte ed evasioni.
Un tale modello sociale, con tutte le sue contraddizioni, evoluzioni ed ibridazioni, è finito per sopravvivere alla schiavitù, attraversando la segregazione legale e quella de facto, tessendo il filo di quelle relazioni sociali che compongono la “nazione” afroamericana ancora oggi.
Detto altrimenti, bisogna interrogare il fiume carsico della costruzione storica di una comunità per leggere l’impatto e il senso delle sue pratiche e il modo in cui esse vengono recepite.


[continua…]
[qui il primo capitolo]


  1. È bene sottolineare la differenza tra l’iniziativa sociale e la pratica mutualistica: laddove questa presupponga una relazione paritetica e soprattutto di reciproco scambio, spesso su una base di spontaneità o di consuetudine; l’iniziativa sociale opera sullo stesso piano di risoluzione di un bisogno ma lo fa in maniera organizzata ed unidirezionale, ossia da un soggetto che elargisce ad uno che usufruisce. Nel caso specifico: dal partito, al fine del suo radicamento e consenso, verso la base. 

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Vivere di niente, morire per nulla https://www.carmillaonline.com/2024/08/18/vivere-di-nulla-morire-per-niente/ Sun, 18 Aug 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83856 di Sandro Moiso

Nel profluvio di complimenti istituzionali e premi pomposi per i soliti film italiani buonisti e privi di qualsiasi spigolosità e ruvidezza, come quelli recenti di Paola Cortellesi e Edoardo De Angelis, gran parte del pubblico cinematografico si sarà sicuramente perso un buon film di un regista italiano, pur premiato all’ultima edizione del festival del cinema di Cannes.

Si tratta di I dannati di Roberto Minervini, che ha vinto il premio ex aequo per la migliore regia nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2024. Un film duro, spoglio, secco e spietato; che non ha [...]]]> di Sandro Moiso

Nel profluvio di complimenti istituzionali e premi pomposi per i soliti film italiani buonisti e privi di qualsiasi spigolosità e ruvidezza, come quelli recenti di Paola Cortellesi e Edoardo De Angelis, gran parte del pubblico cinematografico si sarà sicuramente perso un buon film di un regista italiano, pur premiato all’ultima edizione del festival del cinema di Cannes.

Si tratta di I dannati di Roberto Minervini, che ha vinto il premio ex aequo per la migliore regia nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2024. Un film duro, spoglio, secco e spietato; che non ha bisogno di effetti speciali ed eroismi di qualsiasi specie per parlare della guerra e della sua unica, intrinseca e definitiva finalità: trasformare i vivi in morti. Prima nella coscienza e poi anche dal punto di vista della nuda carne.

Minervini è un regista e sceneggiatore italiano nato a Fermo nel 1970 che, fin dai primi anni duemila, vive e lavora tra Italia e Stati Uniti, soprattutto come documentarista. Le sue opere sono, quasi tutte, a metà strada tra documentario e fiction, senza mai entrare nella sfera dei docudrama basati su eventi reali. Il suo film Stop the Pounding Heart ha fatto parte della Selezione ufficiale del Festival di Cannes del 2013 e ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il David di Donatello come miglior documentario nel 2014. Il film precedente, Bassa marea (Low Tide) era stato presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2012 e insignito del premio Ambassador of Hope. Mentre il film Louisiana (The Other Side) è stato selezionato per la sezione Un Certain Regard al Festival del cinema di Cannes del 2015. Ed è forse quest’ultimo ad anticipare, in qualche modo, lo sguardo sulla violenza e l’America da cui occore partire per comprendere anche l’ultimo film ambientato durante la Guerra civile americana del XIX secolo.

Louisiana pone al suo centro la vita di un personaggio che si autodefinisce criminale e tossicomane, inserito in un ambiente di emarginazione che contrasta con la bellezza del paesaggio e la natura intorno al corso del fiume Mississippi. Natura e bellezza che non toccano la vita di sofferenza della sua famiglia allargata composta da minorenni dediti, come la sua donna, all’uso di stupefacenti, dalla madre malata di cancro e da un nonna disperatamente attaccata alla vita.

Le uniche prospettive del protagonista sembrano essere costituite dalla prossima morte della madre e dal fatto che dovrà scontare tre mesi di carcere che gli dovrebbero consentire di disintossicarsi. Gli altri personaggi che si aggirano intorno a lui come fantasmi sono reduci del Vietnam alcolizzati e obnubilati dalla retorica americana, nella speranza che qualcosa possa ancora cambiare nelle loro vite tossiche. Ciò che unisce tutti è il profondo disprezzo nei confronti di Obama, così nell’ultima parte del film la scena si sposta su altri personaggi che armati fino ai denti si preparano (idealmente) a sconfiggerne la “dittatura”.

Il film si conclude con l’immagine di un’auto, su cui campeggia su una fiancata una scritta irriguardosa nei confronti di Obama, distrutta dal fuoco delle armi e dai successivi colpi dei miliziani impegnati a difendere, nella loro visione del mondo, la libertà di possedere armi e di usarle per difendere le loro famiglie, mentre il tutto sfuma in un melanconico tramonto.

Natura selvaggia, violenza, vite inutili, ideali vaghi e confusi sono gli stessi elementi alla base della trama di I dannati. Un ottimo esempio di film antimilitarista che, a differenza di molti altri, non si sofferma mai su alcun momento epico o commovente della guerra, sottolineandone piuttosto la noia dei gesti e della quotidianità cui si contrappone soltanto la sorpresa di una morte tanto improvvisa quanto crudele.

Unici modi per sfuggirla rimangono la fuga e la diserzione, per chi riesce, oppure il tradimento: per esempio non lanciare l’allarme per l’arrivo degli scorridori nemici pur di provare a salvare la pelle, anche se questo costerà la vita di tutti gli altri membri del distaccampamento. Una guerra fatta di nemici invisibili, di egoismi individuali e piccini, di fede fasulla e paura (tanta).
Un film che sembra rinviare a quello bellissimo di Ermanno Olmi, Torneranno i prati (2014), tratto da un magnifico racconto di Federico De Roberto, La paura (1921).

La natura circostante primeggia sulle ansie, le paure e le guerre degli uomini ed è racchiuso proprio lì il senso della scena finale, esattamente come nel precedente Louisiana; mentre l’ambientazione americana è sicuramente dovuta non solo al fatto che da anni Minervini si occupa di vari aspetti della rovina sociale degli Stati Uniti, ma anche a ciò che un certo antiamericanismo di maniera spesso non permette di cogliere negli aspetti importanti del paradigma americano, irrinunciabili per comprendere il “nostro mondo” e le sue barbare leggi.

Pertanto ciò che ad alcuni potrebbe apparire come moda o dipendenza non è altro che la volontà di mettere a nudo come anche una guerra considerata “giusta”, quella del Nord contro il Sud secessionista nella guerra civile americana, può essere altrettanto stupida e crudele di quelle sbagliate (Vietnam, Prima e Seconda guerra imperialista, etc.).

Così i soldati dell’Unione destinati a soccombere uno dopo l’altro, senza gloria e senza memoria, non sono altro che dannati della guerra e delle sue sempiterne infamie. Magari contornate dai sogni infantili ispirati dalle letture bibliche o da quelli di contadini che nel selvaggio territorio del Montana, dove il film è stato ambientato e girato, non vedono altro che terre buone da coltivare o per allevare cavalli.

«I Dannati nasce, cinematograficamente, dalla voglia di affrontare la finzione e di ‘riscrivere’ un genere, quello dei film di guerra, senza la solita rappresentazione muscolare, interrogandomi sul significato di parole come ‘vittoria’» – così aveva detto il regista nel presentare, a Cannes, un film che, come in tutte le guerre, non vede nessun vincitore reale tra i combattenti.

Per chi, come il sottoscritto, è stanco di retorica e demagogia di ogni colore e provenienza, il film è davvero una benedizione. Anche per le immagini estremamente belle ed efficaci nella loro nudità e apparente semplicità, frutto di una regia dal tratto stilistico essenziale e, soprattutto, ben lontana dal populismo che da sempre, in Italia, caratterizza opere come quelle cui si è fatto riferimento all’inizio.

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Delinquenti politici. Il lato sporco e vivo delle rivolte. https://www.carmillaonline.com/2024/06/10/delinquenti-politici-il-lato-sporco-e-vivo-delle-rivolte/ Sun, 09 Jun 2024 22:10:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82911 Di Jack Orlando

Ed Mead; Lumpen, autobiografia di una canaglia; Edizioni Malamente; Urbino 2024; pp. 513 18€

A metà tra Eddie Bunker e i Weather Undergrond, la vita e le parole di Ed Mead rendono giustizia ad una America doppiamente dannata. Quella sottoproletaria e militante.

La grande stagione della New Left americana ha determinato un quasi trentennio di sperimentazione politica, sociale e culturale probabilmente senza eguali e, proprio per questo, impossibile da leggere sotto una lente univoca. Nessuna contrapposizione tra le punte avanzate di una militanza rivoluzionaria dura, tra antimperialismo e Potere nero, e una generale esplosione di forme di [...]]]> Di Jack Orlando

Ed Mead; Lumpen, autobiografia di una canaglia; Edizioni Malamente; Urbino 2024; pp. 513 18€

A metà tra Eddie Bunker e i Weather Undergrond, la vita e le parole di Ed Mead rendono giustizia ad una America doppiamente dannata. Quella sottoproletaria e militante.

La grande stagione della New Left americana ha determinato un quasi trentennio di sperimentazione politica, sociale e culturale probabilmente senza eguali e, proprio per questo, impossibile da leggere sotto una lente univoca.
Nessuna contrapposizione tra le punte avanzate di una militanza rivoluzionaria dura, tra antimperialismo e Potere nero, e una generale esplosione di forme di vita altre, comunitarie, lisergiche.
Sentieri che si intrecciano e sovrappongono fino ad essere inestricabili.

Poi la chiusura brutale. Le trame di FBI, l’eroina, le vite sepolte sotto anni di galera, le morti di polizia, i pentimenti e le diserzioni, i sogni spezzati di quelle comunità che avevano pensato per un momento di uscire dal cono d’ombra e miseria cui erano state destinate.

Sono sopravvissuti un innocuo immaginario di hippie fatti di acido, la consolante formula sesso-droga-rock’n’roll e un bel pezzo della classe dirigente liberale degli USA, quasi sempre la parte bianca, benestante e moderata di quella parentesi.
Le storie e i sogni interrotti di quella stagione hanno ricominciato a prendere di nuovo ossigeno e ritornare via via che la crisi dell’Occidente metteva incrinava l’ordine americano.
Le braci covano sotto la cenere e periodicamente un soffio di vento riattizza il fuoco.

Quella di Mead è una delle storie interrotte, che riesce a risalire finalmente dal baratro della galera e della damnatio memoriae.
Cresciuto nella white trash, il sottoproletariato bianco delle famiglie che vagano per gli States a caccia di lavori iperprecari e sottopagati, tra case miserabili, alcolismo e violenza domestica; è solo uno degli innumerevoli dannati che ha il cammino segnato in partenza: delinquenza e carcere o fame e fatica.
È in uno dei numerosi soggiorni in carcere che si politicizza, entra ladro ed esce militante, nel tentativo di difendersi dal sistema legale punitivo.

Un ex detenuto che torna in libertà nel pieno delle contestazioni contro la guerra in Vietnam e trova una nuova casa e nuova soggettività all’interno del movement.
L’incontro col marxismo e le teorie rivoluzionarie che portano a riflettere sulla propria condizione da un punto di vista inedito, non più legge naturale del “cane mangia cane” ma condizione soggettiva determinata dal sistema di sfruttamento capitalista; e poi l’azione anti imperialista nel Ventre della Bestia, al fianco dei vietnamiti, degli afroamericani e dei nativi.

È qui che germoglia la George Jackson Brigade, uno degli innumerevoli gruppi armati che portarono la guerra in casa a Washington, in un profluvio di attacchi dinamitardi, rapine e sabotaggi compiuti a ritmo quotidiano.
Poi di nuovo la galera, ma stavolta da prigioniero politico, Prisoner Of War, e gli innumerevoli tentativi di portare rivolta ovunque vada. I gruppi e le azioni per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, per farne un corpo politicamente cosciente, non solo dell’oppressione legale e semischiavile operante dentro le prigioni, ma dei meccanismi del dominio operanti all’interno delle viscere e delle menti dei subalterni.
È il caso del Men Against Sexism, esperimento collettivo volto a ridare potere e dignità ai detenuti queer e spezzare la perversa dinamica di sfruttamento e violenza sessuale attiva nel corpo carcerario.

È una dote immancabile degli animali politici, quella di vedere sempre e ovunque i fili che muovono i meccanismi della realtà, dalla struttura al soggetto, dalla tendenza alla contingenza e viceversa; e di poterli toccare nel tentativo costante di spezzare degli equilibri iniqui e dare nuova forma alla vita.

E quello di Mead è un tentativo che non cessa mai, anche dopo anni di galera e di semilibertà. Sempre rimodulato sull’esigenza transitoria e sempre centrato sulla sovversione del presente e sulla solidarietà con gli ultimi.
Ed è a questi ultimi che si rivolge direttamente nelle sue pagine conclusive: ai detenuti, ai delinquenti, agli sbandati, nella speranza che possano trovare una via d’emancipazione collettiva.
Ricorda un po’ il nostrano Andrea Bellini che sognava di finire la sua storia davanti al plotone d’esecuzione per salvare cento, mille cafoni come lui.

Perché, ed è questo il lascito prezioso di Mead, al netto delle teorie, dell’organizzazione e di tutto quello che si vuole, a ribaltare la Storia sono sempre dei delinquenti che scalpitano e a un certo punto, incontrano una scintilla che li trasforma in rivoluzionari.
L’energia ipnotica e inarrestabile che sprigionano rivolte e rivoluzioni, ha sempre radici sporche ma vive, nella più piena accezione del termine.

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