ambiente – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il comune-azienda e le devastazioni della “crescita” https://www.carmillaonline.com/2024/05/14/il-comune-azienda-e-le-devastazioni-della-crescita/ Tue, 14 May 2024 20:45:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82506 di Mauro Baldrati

Una nave dei folli alla deriva. Questo sembra il nostro paese, ormai travolto da una sequenza impressionante di involuzioni e di malattie che lo divorano dall’interno. L’allineamento acritico con le politiche guerrafondaie e di riarmo, guerra contro i poveri e i diversi, la censura, il controllo del governo sui media e – presto – sulla magistratura, lo smantellamento di ciò che resta della costituzione, l’invio di squadristi nei consultori per terrorizzare le donne che vogliono, o devono abortire, politiche “ambientali” in favore dei cacciatori, aumento verticale delle disuguaglianze e molto, molto altro ancora.

E laggiù nelle terre di [...]]]> di Mauro Baldrati

Una nave dei folli alla deriva. Questo sembra il nostro paese, ormai travolto da una sequenza impressionante di involuzioni e di malattie che lo divorano dall’interno. L’allineamento acritico con le politiche guerrafondaie e di riarmo, guerra contro i poveri e i diversi, la censura, il controllo del governo sui media e – presto – sulla magistratura, lo smantellamento di ciò che resta della costituzione, l’invio di squadristi nei consultori per terrorizzare le donne che vogliono, o devono abortire, politiche “ambientali” in favore dei cacciatori, aumento verticale delle disuguaglianze e molto, molto altro ancora.

E laggiù nelle terre di mezzo, le ultime roccaforti delle amministrazioni progressiste annaspano per non farsi sostituire dalle truppe corazzate del Cartello fascio-leghista. Ma è una resistenza atipica, una resistenza partecipativa, che sembra lanciare questo messaggio: vedete, anche noi facciamo i bravi, anche noi siamo dei moderni fautori della crescita.

E allora vediamo di analizzare un po’ questa bestia vorace, uno dei Dioscuri generati dal padre Zeus/capitalista.

Senza la crescita -– ovvero senza la continua espansione, una tendenza che non può mai fermarsi – il sistema capitalista è destinato a crollare. Si salva con le guerre, ovvero distruggere per poi ricostruire, e quindi “crescere”.

Ma se scendiamo i gradoni della piramide della sussidiarietà, anche nelle amministrazioni locali questa divinità da molti anni ha iniziato a dettare legge. E tra queste, soffermiamoci sulla “città più progressista d’Italia”, Bologna.

Poiché, in ossequio del citato Dioscuro, i comuni, tutti, hanno abbandonato la vocazione di enti che si occupano del bene pubblico, i servizi, le manutenzioni, e si sono trasformati in aziende guidate da amministratori-manager, sembra che l’obiettivo sia trovare continuamente occasioni di crescita. E quando il meccanismo di puntamento individua il bersaglio si alza potente la musica wagneriana dei cantieri, le macchine scavatrici, i camion, i martelli pneumatici, e poi investimenti, contratti!

Ci siamo gà occupati di un progetto violento che l’amministrazione precedente a quella attuale ha elaborato, infilandolo di straforo in un’altra mega operazione – il nuovo stadio: la distruzione di un grande bosco all’interno della città, in zona Prati di Caprara, qui. L’ottica aziendale della crescita considera l’aspetto ambientale come oggetto di sfruttamento e di profitto, e l’abbattimento di un bosco è uno degli effetti collaterali inevitabili. Al posto di questa foresta doveva – deve? – sorgere il solito palazzo di appartamenti di lusso, con la foglia di fico di una piccola quota di “edilizia sociale”, e una scuola che è stata definita assolutamente inutile da parte dell’associazione di cittadini che, con una dura battaglia e una raccolta di migliaia di firme è riuscita a bloccarlo. Almeno per ora, perché il tempo lavora dentro, il tempo lavora per “loro”.

Poi ci sono le caserme militari dismesse. Di nuovo possibili magazzini pieni di occasioni di crescita, con ristrutturazioni, nuove costruzioni di… cosa? appartamenti di lusso, con la solita foglia di fico dell’edilizia sociale. Il caso più famoso è l’ex caserma Mazzoni, destinata a diventare una cittadella fortificata all’insegna dell’ordine e del decoro borghese, al riparo dagli sgradevoli segnali puzzolenti della povertà, i senzatetto, gli immigrati, i pazzi.

Oggi un altro evento si inserisce nel quadro descritto, questa volta elaborato dall’attuale amministrazione: una scuola elementare, la “Besta”, all’interno del parco Don Bosco: il progetto è di demolirla per ricostruirla più in là nel parco, abbattendo 42 alberi ad alto fusto. Un altro effetto collaterale un pochino doloroso, ma inevitabile per un obiettivo “elevato”. Di nuovo si è formato un comitato cittadino, composto, secondo l’amministrazione supportata dai media locali, da “violenti”, che si sono opposti, proponendo una ristrutturazione sul posto, che salverebbe gli alberi e avrebbe un costo pari alla metà della nuova costruzione. Ma l’amministrazione procede con una protervia che lascia interdetti: non solo la ristrutturazione non garantirebbe i requisiti della sismica e della termica – affermazione contraddetta dal comitato – ma sarebbe addirittura migliorativa dal punto di vista ambientale (ovvero dell’abbattimento di 42 alberi). Anche qui per l’accanita resistenza dei cittadini il progetto è stato bloccato. Ma il tempo…

Ora trasferiamoci in uno dei comuni più ricchi della cintura metropolitana bolognese, Casalecchio di Reno. Qui siamo nel gioco duro. Qui si fa sul serio. Casalecchio potrebbe diventare un modello di crescita, di sfruttamento scientifico dell’ambiente. E che ambiente. La natura è stata generosa, il territorio è ricco di verde, è attraversato dal fiume Reno, circondato da un grande, bellissimo parco, il parco della Chiusa (Talon), e altri boschi e boschetti sparsi. Proprio il Talon in passato fu oggetto di un progetto pericoloso, la realizzazione di tre villette ottenute da tre case coloniche, bloccato dalle proteste e dalle polemiche. Ma un’azienda può fermare la dinamica che la qualifica? Può tollerare che enormi aree siano lasciate intatte, esenti da progetti espansionisti? Può davvero rinunciare alla potenza della sua musica wagneriana? Così, più di dieci anni fa, ha preso forma un vero e proprio Godzilla edilizio. Lungo la via Ronzani, sulla sponda sinistra del Reno, un vasto terreno di proprietà di una cava dismessa, la Sapaba, entrò immediatamente nell’ottica espansionista del comune azienda (che per muoversi ovviamente ha bisogno dell’apporto delle aziende edili): un colossale edificio residenziale con la realizzazione di 300 appartamenti. Immediatamente l’efficiente apparato aziendale entrò in azione. Su quel terreno sorgeva un grande bosco, fatto di vegetazione spontanea e alberi ad alto fusto, che fu raso al suolo fino all’ultimo giunco. Poi fu realizzato un vasto altipiano perfettamente livellato che doveva sostenere l’edificio. Ci furono proteste, e anche allarmi, perché la zona era, ed è soggetta al rischio inondazione. Ma il meccanismo, una volta attivato, non si ferma. Non può farlo. Però avvenne un fatto non previsto. Il delirio post berlusconiano della continua espansione era in realtà la famosa “bolla” speculativa, che sembrava inarrestabile, per cui ogni metro quadrato era un’occasione di costruire. Ma come sappiamo la bolla scoppiò, i costi delle case precipitarono e molti progetti si arenarono. Come il Godzilla Sapaba. Intanto il territorio di Casalecchio ci ha rimesso un bosco. Però però… ora la crescita ha ripreso vigore, e il Godzilla non sembra morto, ma solo in sonno, e il tempo, il tempo…

Ma andiamo avanti, perché la crescita ha bisogno di andare avanti, sempre. Adiacente all’area ex Sapaba esiste un grande edificio dismesso che fu una sede operativa dell’Hatù. Una specie di balocco di lusso per il team comune-azienda e il socio costruttore. Così si è configurato un altro progetto, l’ennesimo condominio composto da 100 appartamenti, ovviamente di lusso con la foglia di fico eccetera. Purtroppo non si sta formando nessun comitato cittadino che si opponga a questo nuovo evento. Regnano indifferenza, forse rassegnazione. C’è qualche divisione tra la maggioranza che guida il comune, come una lista frazionista del partito di maggioranza PD, che – probabilmente per motivi elettorali, visto che in giugno sono in programma le elezioni per il rinnovo del consiglio comunale – mette in discussione il mostruoso Godzilla e l’ex Hatù, che potrebbe invece essere destinato a studentato. Un progetto sociale condiviso anche dalla lista Potere al Popolo, che si batte in eroica solitudine contro la devastazione ambientale operata dai futuri, titanici cantieri wagneriani.

E non è finita qui. In centro a Casalecchio era presente da anni un albergo dismesso, il Pedretti. Quale migliore occasione per attenuare il carico del traffico apocalittico che opprime la città, attraversata dalle vie Porrettana e Bazzanese, provenienti da Porretta, Sasso Marconi, Bazzano, che ogni giorno vi riversano migliaia di auto dirette a Bologna? Quale meravigliosa opportunità di creare un polmone verde, demolendo l’edificio e piantumando altri alberi oltre alla decina già esistenti?

Non scherziamo. L’area a di proprietà privata. Quindi il progetto è privato. E per tutti gli eventi ricorre sempre lo stesso mantra: i progetti sono stati approvati, i contratti sottoscritti. Premesso che la situazione normativa-contrattuale è alquanto complicata e pare che nessuno abbia la conoscenza dello stato attuale, la potestà dei suoli non compete ai privati, ma al comune. Lo dice la legge urbanistica, approvata addirittura durante il ventennio, la 1150 del 1942. Il privato per costruire deve chiedere il permesso di costruire al comune, che dopo una serie di valutazioni può concederlo o rifiutarlo. Per esempio con una valutazione negativa della CQAP (Commissione per la Qualità Architettonica e per il Paesaggio), o per una VIA (Valutazione di impatto ambientale). Sul suolo dell’ex Pedretti, abbattuto nel 2019 (insieme ad alcuni alberi ad altofusto, ma sono quisquilie) è in programma un palazzo di nove piani per 37 appartamenti, più una galleria commerciale al piano terra. La quale costituisce un ulteriore disagio per la città. Infatti ovunque avanza la tendenza di chiudere i negozi di vicinato, soppiantati dai grandi store e superstore, determinando così una desertificazione dei centri città, riducendoli a dormitori. Dunque quale CQAP può dare parere favorevole per il Godzilla 1 e 2 e per il troll Pedretti? Quale VIA può permettere l’impatto sul traffico di 447 nuovi appartamenti in una realtà come Casalecchio? Poiché ciò è avvenuto il comune-azienda è complice della devastazione del suo territorio. In nome di cosa? Ma che domande. Della crescita!

Un piccolo grande fenomeno Casalecchio. Infatti, oltre a essere attraversato da un’autostrada come la Bologna-Firenze, per cercare di risolvere il dramma del traffico ha pensato, desiderato, progettato un nuova autostrada da affiancarle, la Nuova Porrettana. Così questa cittadina di 36.000 eroici abitanti sarà equiparabile a megalopoli come Città del Messico, Tokyo, con un’autostrada di 10-12 corsie che solca il centro abitato in continua espansione.

]]>
Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

]]>
«Io sono una forza del Passato»: accenti ambientalisti in Pasolini https://www.carmillaonline.com/2022/07/24/io-sono-una-forza-del-passato-accenti-ambientalisti-in-pasolini/ Sun, 24 Jul 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73076 di Paolo Lago

Se permettete, comincio con una piccola osservazione personale: penso che nella tipologia A della prova di Italiano dell’ultimo esame di maturità, un brano di Pasolini non ci sarebbe stato male (visto che quest’anno ricorre anche il centenario della nascita). Invece, gli studenti si sono ritrovati Verga e Pascoli. È bene chiarire: non ho niente contro Verga e Pascoli, un grande scrittore (un po’ conservatore e destrorso, ma vabbè) e un grande poeta, tra l’altro uno dei più amati dallo stesso Pasolini (che su Pascoli fece anche la tesi di laurea) [...]]]> di Paolo Lago

Se permettete, comincio con una piccola osservazione personale: penso che nella tipologia A della prova di Italiano dell’ultimo esame di maturità, un brano di Pasolini non ci sarebbe stato male (visto che quest’anno ricorre anche il centenario della nascita). Invece, gli studenti si sono ritrovati Verga e Pascoli. È bene chiarire: non ho niente contro Verga e Pascoli, un grande scrittore (un po’ conservatore e destrorso, ma vabbè) e un grande poeta, tra l’altro uno dei più amati dallo stesso Pasolini (che su Pascoli fece anche la tesi di laurea) e, tra parentesi, anche da me. L’aspetto più inquietante è che siamo nel 2022 e quelle tracce potevano essere tranquillamente le stesse di cinquant’anni fa. Inutile rinnovare le modalità dell’esame, inutile guardare continuamente al nuovo, quando al livello contenutistico dei testi proposti si rimane inesorabilmente indietro, in un ‘vecchio’ che non finisce mai di perseguitarci. Chi ha preparato quelle prove, evidentemente, proviene da luoghi ammuffiti e rivestiti di cancerosa burocrazia, la stessa dell’Italia degli anni Cinquanta. Quelle stesse prove puzzano di muffa e di cantina. Del resto, anche i programmi ministeriali puzzano di muffa: si potrebbe obiettare che, nei programmi di scuola, a Pasolini non ci si arriva nemmeno, per mancanza di tempo. E allora sarebbe venuto il momento di rivedere quelle programmazioni una volta per tutte. Non possiamo fermarci a Verga e Pascoli come cinquanta, sessanta, settanta anni fa.

Siamo nel 2022, anno che può riecheggiare il titolo del film 2022 I sopravvissuti (1973, di Richard Fleischer) e che ha già superato il futuristico 2019 in cui si ambienta Blade Runner (1982, di Ridley Scott). Ma siamo in un 2022 ben reale (in cui non sfrecciano astronavi e non si sono colonizzati nuovi mondi), afflitto da numerose problematiche che non lasciano indifferente nemmeno la letteratura, problematiche che Verga e Pascoli non si sognavano nemmeno. Forse chi ha preparato le prove di maturità non ha mai sentito parlare di ecocritica o ecocriticism, una nuova branca della critica letteraria di provenienza anglo-americana, che si occupa delle tematiche legate all’ambiente e all’ecologia. Siamo in un momento cruciale, in cui di fronte al surriscaldamento del Pianeta, di fronte all’inquinamento e all’emissione indiscriminata dei gas serra i governanti del mondo dovrebbero prendere decisioni immediate e irremovibili, smettendola di giocare alla guerra (che, tra l’altro, oltre a provocare la perdita di innumerevoli vite umane, sta devastando ancora di più l’ecosistema della Terra). Adesso, nel momento in cui sto scrivendo, l’Italia è investita da un’ondata di caldo e di siccità, il Po e i suoi affluenti sono in secca e la Pianura Padana sta sempre di più assomigliando allo scenario distopico, brullo e inaridito, descritto da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori  (2016). Inutile dire che l’inquinamento ambientale è un problema particolarmente sentito dalle giovani generazioni che, giustamente, se la sono presa con i cosiddetti ‘adulti’ (soprattutto i governanti di cui sopra, che sanno investire il denaro pubblico solo in cacciabombardieri) perché stanno facendo poco o niente per un mondo nel quale loro, i ragazzi di adesso, saranno gli adulti di domani. Ma gli adulti di oggi non sono stati capaci – sembra – di farsi «acrobati del tempo», come, in modo suggestivo, ha scritto Carla Benedetti1. E poi, c’erano tutte le proteste dei Fridays for Future, un grande movimento degli studenti delle scuole medie e superiori, che stava montando e si sarebbe ingrandito a dismisura se non fosse stato inesorabilmente interrotto dall’emergenza Covid, dal lockdown, dai vari divieti di ‘assembramento’. Tutto finito, tutto imploso in un mondo devastato da un incubo. Anche nelle programmazioni scolastiche, nonché nei testi da proporre alla maturità, non si può più fare finta che questi problemi non esistano e vivere, come abbiamo fatto fino a adesso, in una sorta di aurea età dell’innocenza, in una inconsapevolezza separata dalla realtà. E la scuola non dovrebbe mai essere separata dalla realtà.

Ma allora, che c’entra Pasolini con l’ambiente e l’ecologia? C’entra, eccome se c’entra. D’altra parte, ogni volta che si voleva ricollegare Pasolini a tematiche ecologiche e ambientaliste, si è sempre tirato in ballo il famoso riferimento alla scomparsa delle lucciole, contenuto nell’articolo uscito sul «Corriere della Sera» il primo febbraio 1975 col titolo Il vuoto del potere in Italia e poi ribattezzato, nella raccolta degli Scritti corsari, come L’articolo delle lucciole. Certo, il riferimento all’inquinamento c’è ma si tratta solo di un fugace accenno in forma metaforica. Perché per Pasolini, qui, la scomparsa delle lucciole è soltanto una metafora per indicare la trasformazione del potere in Italia, prima della scomparsa delle lucciole e dopo la scomparsa delle lucciole2. Gli accenti ambientalisti in Pasolini, dei quali però qui possiamo offrire solo un rapido affresco, vanno ben al di là di questo articolo. Tali accenti prendono forma soprattutto nell’interesse per la trasformazione dello spazio, dell’ambiente italiano operato da un «Potere senza volto»3 fautore di rapide trasformazioni sociali. Il poeta e scrittore si concentra sul periodo del cosiddetto boom economico, che investe l’Italia nel secondo Dopoguerra. La società dei consumi, secondo Pasolini, appare apocalitticamente come un «nuovo fascismo» il cui «fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»4. Come accennato, questo «Potere», oltre che omologare le coscienze degli italiani, secondo lo scrittore, distrugge anche lo spazio agrario e contadino dell’Italia preindustriale.

Nel titolo di questo intervento è riportato il verso «Io sono una forza del Passato», tratto dalle Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa (1964). Leggiamo i versi successivi: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli»5. Da questi versi, Pasolini potrebbe apparire come un reazionario, un conservatore. D’altronde, il suo immaginario poetico ha creato due veri e propri universi in contrapposizione: da una parte, un universo arcaico e mitico, altamente idealizzato, dall’altra la modernità industriale e lo sviluppo, condannati senza requie. Addirittura, in una poesia appartenente alla raccolta La nuova gioventù (1975), dal titolo La recessione, composta nel 1974, inneggia alla recessione economica provocata dalla crisi petrolifera del 1973 (con tonalità che ci fanno pensare alla lontana alla «decrescita» di Serge Latouche): un mondo senza più automobili, perduto nel silenzio, con la gente che va a piedi, con gli antichi palazzi che torneranno al loro antico splendore, con le fabbriche inquinanti che crolleranno. Eppure, se guardiamo al di là delle apparenze, il pensiero di Pasolini potrebbe apparire molto simile a quello di un lucido e disincantato studioso della contemporaneità come Robert Kurz. Per il benessere degli individui, per la loro liberazione dalla ‘gabbia’ astratta del valore e della merce (si tratta, in fin dei conti, della stessa società dei consumi criticata da Pasolini, delineata dallo studioso tedesco in termini più strettamente marxisti), secondo Kurz, «è necessaria un’anti-modernità radicale ed emancipatoria, che non si limiti ad idealizzare qualche epoca del passato o qualche ‘cultura diversa’, conformemente all’antiilluminismo o all’antimodernità borghese, occidentale e ‘reazionaria’, ma che tagli i ponti una volta per tutte con la storia fin qui data, una storia di rapporti feticistici e di dominio»6.

Questa contrapposizione di universi – da una parte quello arcaico e contadino, dall’altra quello industriale e dello sviluppo – nell’opera di Pasolini assume diverse tonalità di tipo ambientalista. Ad esempio, nella poesia Il pianto della scavatrice, appartenente alla raccolta Le ceneri di Gramsci (1957), a piangere e a urlare è la scavatrice, cieco strumento di quel «Potere senza volto», che sta modificando il paesaggio italiano: «piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, / chiuso in un decoro ch’è rancore»7. Il poeta fa riferimento alla costruzione dei nuovi quartieri alla periferia di Roma negli anni Cinquanta, alla distruzione della campagna, alla trasformazione dell’«area erbosa» in «cortile, bianco come cera». Questi sono anni in cui l’Italia ha veramente cambiato volto, è stata ricoperta di cemento ogni dove: un processo che poi ha continuato inesorabilmente anche negli anni successivi e che non ha lasciato indifferenti neppure altri scrittori e intellettuali come, ad esempio, Italo Calvino che, tramite la scomparsa delle foreste descritta ne Il barone rampante (1957), intendeva denunciare quella stessa cementificazione selvaggia presa di mira da Pasolini. Del resto, anche nel cinema dell’autore bolognese c’è sempre una contrapposizione di spazi: da una parte la campagna, dall’altra la città che sta inesorabilmente avanzando, con le sue mostruose periferie. Basti pensare a molte sequenze di Accattone (1961) o Mamma Roma (1962), in cui i personaggi sottoproletari si muovono in spazi quasi ‘infernali’ lambiti dai nuovi palazzoni (ambienti in mutamento presenti anche nella narrativa pasoliniana di quegli anni, soprattutto in Una vita violenta, del 1959). Si può ricordare anche Uccellacci e uccellini (1966), in cui i personaggi di Totò e Ninetto percorrono lembi di periferia romana solcati da nuove strade e circonvallazioni in costruzione, frammenti di collegamenti stradali che, probabilmente, andranno a costituire il nuovo «Grande Raccordo Anulare».

Pensiamo poi a Teorema, un film che esce nel 1968 contemporaneamente anche come romanzo. Il personaggio di Emilia (Laura Betti), la domestica della famiglia dell’alta borghesia milanese destrutturata dall’arrivo dell’Ospite sacro (Terence Stamp), una sorta di nuovo Dioniso, dopo la seduzione di quest’ultimo, abbandona lo spazio borghese della villa per recarsi al proprio paese di origine. Il piccolo paese appare come un lembo di campagna sopravvissuto all’edilizia avanzante, uno spazio che presto verrà sommerso e distrutto. Metaforicamente, Emilia si farà seppellire proprio in uno spazio liminale, là dove la campagna sta per essere aggredita dai palazzoni di periferia. Siamo in un cantiere edile, tutto d’intorno palazzi in costruzione e una scavatrice ferma, pronta a riprendere il suo lavoro di devastazione, una scavatrice che tanto somiglia a quella della poesia sopra citata. Sono passati poco più di dieci anni ma il processo di devastazione, per Pasolini, appare come interminabile. Un processo che ancora oggi sta continuando perché, come leggiamo in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, nei pressi delle grandi città, è praticamente impossibile trovare una casa di campagna che non sia vicino a tangenziali o centri commerciali: «Il possesso del verde, anche quello della propria casa, aveva a che fare molto di più di quanto la gente non volesse ammettere con tangenziali, centri commerciali, lottizzazioni insensate e quartieri dormitorio. Questa era la realtà»8. Emblematica è anche l’espressione «possesso del verde» usata da Sarchi: la campagna e la natura, a partire da quel boom economico che, secondo Pasolini, ha devastato l’Italia, si sono ormai trasformate in merci, acquistabili come i prodotti di un supermercato. L’ideologia del possesso sta ormai investendo anche gli spazi naturali.

Anche in Petrolio (postumo, 1992), il romanzo a cui Pasolini stava lavorando al momento della morte, vi sono diversi accenni a questa mutazione di spazi, foriera di sempre maggiore inquinamento. Nell’Appunto 3 d, Prefazione posticipata (Petrolio, non concluso dall’autore, è infatti costituito da una congerie di appunti), il personaggio demonico di Tetis inizia un lungo viaggio, dapprima a piedi e poi in treno. A un certo momento giunge lungo le rive di un fiume «dai rapidi argini pieni d’immondizia, che puzza acutamente. È tuttavia un’immondizia organica: mancano ancora completamente la plastica e il polistirolo»9. La scena è ambientata nel maggio 1960 e Pasolini tiene a precisare che, in quel tempo, ancora mancavano elementi inquinanti come la plastica e il polistirolo. Successivamente, nell’Appunto 62, Carmelo: la sua disponibilità e la sua dissoluzione, in una sequenza narrativa ambientata all’inizio degli anni Settanta, i personaggi di Carlo e Carmelo si ritrovano in un prato della periferia di Roma, descritto come pieno di immondizia e di rottami di macchine, intorno al quale si stagliano i palazzoni delle nuove periferie, tratteggiati come anonimi cubi di cemento, perduti nella caligine invernale. Si tratta di uno spazio descritto quasi come un nuovo inferno: «Più indietro ancora c’era un capolinea pieno di autobus, un cinema e, insomma, l’inferno»10. Anche l’Appunto 70, Chiacchiere notturne al Colosseo, mostra le strade romane notturne intorno al Colosseo come attraversate da immondizia e cartacce sporche trascinate dal vento. Le stesse immagini di una Roma notturna, percorsa da spazzatura vagante, vengono offerte da Goffredo Parise ne L’odore del sangue, scritto nel 1979 ma pubblicato solo molti anni dopo la morte dello scrittore. Parise offre uno scenario davvero ‘infernale’, uno spaccato di violenza urbana in cui il degrado ambientale diventa anche degrado sociale e morale, attuando anche un riferimento all’uccisione di Pasolini: «Erano non so più se le tre o le quattro, e Roma mostrava il suo volto notturno fatto sostanzialmente di spazzatura vagante, di qualche pantera della polizia, urlante, di ragazzi in giubbotti di cuoio che sfrecciavano rombando in motocicletta. Eccoli, erano loro i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini, quelli che avevano stuprato le ragazze del Circeo, quelli che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni “per scherzo”»11.

In Petrolio, l’Appunto 70 introduce la lunga catabasi infernale che l’autore descrive nella sequenza di appunti denominata come Visione del Merda. Il «Merda» sarebbe un giovane di borgata ormai completamente abbrutito dalla società dei consumi dei primi anni Settanta. Nel momento in cui il protagonista Carlo affronta questa «visione», appaiono nuovamente le immagini di palazzoni di periferia, costruiti in lembi di spazio che prima erano campagna. La stessa spazialità rigida e geometrica dei palazzi, dei cortili e delle strade che li accompagnano e che formano percorsi obbligati da seguire, sembrano contribuire a manovrare le coscienze degli italiani, ormai abbrutiti dalla civiltà dei consumi. Le stesse immagini ritornano in una serie di appunti (121-124) intitolati La nuova periferia: palazzoni allineati gli uni agli altri «in forme gemelle»12, «ripetizioni di una stessa forma»13, i cui cortili sono caratterizzati da «vuoto assoluto». Del resto, sia in Petrolio che in molte altre sue opere, Pasolini tratteggia l’immagine quasi apocalittica di un mondo che sembra giunto alla sua fine: a partire da La Rabbia (1963), un documentario di una straordinaria forza poetica e tragica in cui, fra le immagini documentaristiche montate, ritorna ossessivamente lo scoppio della bomba atomica, fino a certi scorci paesaggistici di Roma in Poesia in forma di rosa, ad esempio ne La realtà, in cui leggiamo: «Poi compare Testaccio, in quella luce / di miele proiettata sulla terra / dall’oltretomba. Forse è scoppiata, / la Bomba, fuori dalla mia coscienza. Anzi, è così certamente. E la fine / del Mondo è già accaduta: una cosa / muta, calata nel controluce del crepuscolo»14. Se le immagini della Rabbia raccontano una bomba ben reale e terribile, che ha seminato morte e devastazione, i versi della poesia riecheggiano una bomba metaforica, che sta cambiando ambienti, spazi e coscienze degli individui.

L’inquinamento ambientale, per Pasolini, è anche inquinamento estetico. In un documentario dal titolo Pasolini e… la forma della città (1974), il poeta inquadra con la macchina da presa l’antica città di Orte. Muovendo l’obiettivo della macchina, a un certo punto, compare nel campo visivo un palazzo cubico, di nuova costruzione, che rovina la silhouette degli edifici medievali di Orte. La massa della città – dice Pasolini – è deturpata da qualcosa di estraneo, qualcosa che violenta in maniera abnorme quel paesaggio che, come molti altri scorci medievali in Italia, è stato dipinto dai grandi pittori del Trecento e del Quattrocento. Quegli scorci, ma anche qualsiasi insignificante vecchio muro appartenente ad epoche passate – afferma il poeta nell’intervista – andrebbero difesi con lo stesso accanimento con il quale ci battiamo per difendere un’opera di Dante, Petrarca o Boccaccio. Come scrive Serenella Iovino, «lo sguardo di Pasolini al paesaggio è cioè quello di un’etica dei luoghi, alla ricerca dei valori che vi si sono depositati nei secoli»15.

Per concludere, tornando al filo conduttore da cui siamo partiti, cioè la prova di italiano della maturità 2022, penso che di tematiche legate al pensiero di Pasolini (in relazione o no a temi ecologici) da proporre a un giovane studente ce ne sarebbero state tante, eccome. Ma, forse, di fronte alla gravità di molte problematiche che investono la società attuale, quel «Potere senza volto» – per utilizzare la definizione di Pasolini – continua a nascondere quel suo volto inesistente sotto la sabbia, come uno struzzo. Riproporre un testo di Pasolini avrebbe voluto dire anche riproporre la figura di un intellettuale disposto a lottare sempre e a non accettare nessun tipo di compromesso con qualsiasi potere, una figura che nell’Italia di oggi assomiglia sempre di più a quella di un latitante. E poi, a quel «Potere senza volto», intriso di oscuri rigurgiti di fascismo, credo che la figura di Pasolini, al di là delle facili ‘santificazioni’ e ‘riabilitazioni’, risulti ancora alquanto indigesta. Qualsiasi potere tende sempre a manipolare le menti dei cittadini per allontanarle dai veri problemi, seri e stringenti (e qui torna fondamentale la lezione di Pasolini), ora più che mai, in un universo digitalizzato in cui gli intellettuali, se ci sono, sono troppo impegnati ad autopromuoversi sui social. Siccità, caldo, fiumi in secca, alluvioni, eventi climatici estremi: sembrano lo scenario perfetto che, in molti film e romanzi distopici e apocalittici, prepara la catastrofe finale. Ma è estate, divertiamoci e, se dobbiamo pensare a un serio, stringente problema, c’è sempre la crisi di governo a tenerci compagnia.


  1. Cfr. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi, Torino, 2021, p. 4. 

  2. Cfr. P.P. Pasolini, Scritti sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 199, p. 404 e seguenti. 

  3. Cfr. ivi, p. 313, l’articolo dal titolo Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, uscito sul «Corriere della Sera» il 24 giugno 1974 col titolo Il Potere senza volto. 

  4. Cfr. ivi, p. 318. 

  5. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 2003, p. 1099. 

  6. R. Kurz, Ragione sanguinaria, trad. it. Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 20-21. 

  7. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 848. 

  8. A. Sarchi, Violazione, Einaudi, Torino, 2012, p. 69. 

  9. P.P. Pasolini, Petrolio, ora in Id. Romanzi e racconti, vol. II, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, p.1180. 

  10. Ivi, p. 1496. 

  11. G. Parise, L’odore del sangue, Rizzoli, Milano, 1997, pp. 90-91. 

  12. P.P. Pasolini, Petrolio, cit., p. 1765. 

  13. Ibid. 

  14. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 1100. 

  15. S. Iovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Edizioni Ambiente, Milano, 2015, p. 105. 

]]>
Cemento, arma di costruzione di massa https://www.carmillaonline.com/2022/06/10/cemento-arma-di-costruzione-di-massa/ Fri, 10 Jun 2022 20:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72137 di Gioacchino Toni

Schade, dass Beton nicht brennt (Peccato che il cemento non bruci). Così, riprendendo una scritta tracciata sulle mura della città dagli squatter berlinesi, è intitolato un film documentario realizzato dal Gruppo NovemberFilm nei primi anni Ottanta sul movimento di occupazione delle case vuote nella zona di Kreuzberg. L’ostilità espressa dagli autonomen berlinesi non è evidentemente tanto rivolta al calcestruzzo in sé – materiale utilizzato per edificare sin dall’antichità – quanto piuttosto al suo impiego moderno – nella variante “rinforzata”, il cosiddetto “cemento armato” –, con cui sono edificati i quartieri [...]]]> di Gioacchino Toni

Schade, dass Beton nicht brennt (Peccato che il cemento non bruci). Così, riprendendo una scritta tracciata sulle mura della città dagli squatter berlinesi, è intitolato un film documentario realizzato dal Gruppo NovemberFilm nei primi anni Ottanta sul movimento di occupazione delle case vuote nella zona di Kreuzberg. L’ostilità espressa dagli autonomen berlinesi non è evidentemente tanto rivolta al calcestruzzo in sé – materiale utilizzato per edificare sin dall’antichità – quanto piuttosto al suo impiego moderno – nella variante “rinforzata”, il cosiddetto “cemento armato” –, con cui sono edificati i quartieri degradati a cui sono costrette le fasce più povere della popolazione. Nonostante un glossario tecnico un po’ approssimativo, a questo slogan occorre riconoscere il merito di aver colto il legame esistente tra degrado urbanistico-abitativo, a cui è relegata una larga fetta di società, ed il materiale con cui tale habitat è edificato.

È proprio tale materiale ad essere preso di mira dal saggio di Anselm Jappe, Cemento. Arma di costruzione di massa (elèuthera 2022), saggio in cui l’autore riflette sul cemento armato a partire dal crollo del viadotto Morandi nel 2018 a Genova. Al di là di colpevoli e criminali incurie e di eventuali ricorsi a materiali di scarsa qualità, il cemento armato è un materiale destinato ad un precoce invecchiamento divenuto simbolo dell’architettura novecentesca, tanto dei grandi maestri del funzionalismo quanto dei più anonimi fautori del disastro urbanistico-ambientale di cui è ormai impossibile non prendere atto.

Dapprima integrato nei metodi di costruzione tradizionali e celebrato da alcune avanguardie storiche, la sua “rivoluzione” in Francia può dirsi avvenire nel primo dopoguerra con l’industrializzazione del settore delle costruzioni edili che lo elegge come materiale imprescindibile. Se il cemento armato tende ad essere associato alle costruzioni funzionaliste-razionaliste, non ha fatto mancare il suo apporto nemmeno negli edifici neogotici, nelle ville liberty e nell’architettura organica.

Il boom del cemento armato, almeno in Occidente, si ha tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso e se già dopo pochi decenni dalla loro costruzione le stretture realizzate con tale materiale iniziano il loro inesorabile processo di decadimento, per quanto possa essersi data una buona manutenzione, presto si dovrà fare i conti con l’obsolescenza di buona parte dell’ambiente edificato che ci circonda.

Se è vero che nella società contemporanea vengono da tempo mosse critiche nei confronti dei progettisti e delle imprese costruttrici – fedeli alle logiche del profitto – e si levano diverse voci contro l’imperativo di continuare a costruire senza sosta, forse, suggerisce Jappe, sarebbe utile mettere in discussione lo stresso cemento armato. Il legame tra cemento e capitalismo potrebbe non risolversi nel suo contribuire ai profitti di pochi, ma, secondo lo studioso, si potrebbe vedere in esso «la perfetta materializzazione della logica del valore della merce […] chiamato concrete in inglese e concreto nello spagnolo e nel portoghese latinoamericani, può ben essere considerato come il lato concreto dell’astrazione capitalista» (p. 18).

Se la gestione capitalista dello spazio, con l’ingiustizia sociale che ne deriva, è stata ed è oggetto di critiche, anche feroci, scarso interesse è stato sin qua rivolto ai materiali impiegati. Jappe propone dunque di trasformare in atto di accusa l’elogio che spesso viene fatto al cemento armato in quanto materiale che ha permesso l’architettura e l’urbanistica dei secoli XX e XXI. A scanso di equivoci è bene sottolineare che nel volume l’autore non propone il ritorno a murature prive di legnati; ciò che gli interessa è invece concentrare i suoi ragionamenti su di un materiale particolare come il cemento armato per il suo legame con il capitalismo industriale.

Con riferimento alla Francia, quando ha iniziato ad essere impiegato, il cemento armato è stato utilizzato soprattutto negli edifici pubblici, nelle opere di ingegneria civile e nelle abitazioni popolari. Servirà qualche tempo prima che questo venga accettato nelle dimore borghesi. La sua introduzione può dunque dirsi socialmente connotata tanto che finisce per essere “rivendicato” dal pensiero più progressista come “materiale proletario” da elogiare, inoltre, per la sua modernità.

Nonostante l’edilizia del cemento armato tenda ad indirizzarsi verso l’abitazione di massa, secondo Jappe non si deve scorgere una forma di emancipazione proletaria in quella che definisce una modernizzazione delle baracche.

L’architettura modernista del dopoguerra ha introdotto una novità degna di nota: i poveri sfogano la loro rabbia sulle loro stesse case. Il legame tra i grandi complessi residenziali e il continuo “degrado”, piccolo o grande che sia, è a tal punto visibile che ormai è considerato inevitabile, “naturale”. Non ci sono prove di tali pratiche nei tuguri proletari del XIX secolo. Il successo è innegabile: invece di attaccare le case dei ricchi, gli “esclusi” attaccano ora le loro stesse case (pp. 61-62).

Se precedentemente il proletariato urbano manteneva un legame orgoglioso con le abitazioni e i quartieri in cui dimorava, per quanto miseri fossero, nell’era del cemento armato tende invece a rivolgere l’odio non verso la classe avversa ma verso se stesso e verso i luoghi in cui vive ed a tale ribaltamento, sostiene Jappe, il ruolo dell’urbanesimo e della gestione del territorio è stato tutt’altro che secondario.

Il diffondersi delle nuove abitazioni è andato ad affiancare forme di inurbamento e modernizzazione forzati che hanno indotto a trasformare l’arredamento domestico, alla diffusione dell’automobile, all’abbandono dell’autoproduzione e alla perdita delle abilità nelle riparazioni domestiche anche più banali. Al di là dei miglioramenti reali, tutto ciò è stato reso possibile anche grazie alla capacità del capitalismo di far provare un senso di vergogna a quanti ancora vivevano “alla vecchia maniera”.

Il cemento armato è alla base anche della cosiddetta “architettura brutalista” spesso applicata nella costruzione di nuovi edifici universitari e, secondo l’autore, ciò appare del tutto in linea con l’avvento della “università di massa”

Nel corso degli anni Cinquanta del Novecento tanto negli ambienti lettristi che, successivamente, situazionisti si produsse una critica radicale all’urbanistica dell’epoca che prese di mira anche il funzionalismo a cui tanti, anche di tradizione progressista, erano devoti. Quelle mosse da tali ambienti non erano, però, critiche mosse da uno spirito nostalgico-tradizionalista – come invece accade ai nostri giorni in diversi critici della modernità di matrice libertaria –, si trattava piuttosto di prospettare un altro modello di modernità, libero tanto da rigurgiti passatisti quanto da acritiche celebrazioni dell’esistente:

l’urbanismo unitario, e qui stava la loro originalità, non doveva servire all’ordine esistente, al lavoro o alla vita familiare, alla circolazione delle automobili o agli “svaghi” autorizzati, alla standardizzazione o all’economia. Tutto al contrario, l’architettura immaginata da lettristi e situazionisti era volta al gioco e al nomadismo, al “comportamento sperimentale” e allo smarrimento: in breve, alla “costruzione di situazioni”. Un aspetto essenziale era quindi la struttura labirintica, così come la possibilità per gli abitanti di modificare gli edifici (p. 73).

Raoul Vaneigem nel 1961, nei suoi Commentaires contre l’urbanisme scrive:

Abitare è il ‘bevete Coca-Cola’ dell’urbanistica. Si rimpiazza la necessità di bere con quella di bere Coca-Cola. […] Mischiando il machiavellismo al cemento armato, l’urbanistica ha la coscienza a posto. […] Bisogna costruire in fretta, c’è molta gente da alloggiare, dicono gli umanisti del cemento armato. Bisogna scavare trincee senza tardare, dicono i generali, c’è la patria da salvare. Non c’è forse qualche ingiustizia nel lodare i primi e nel beffarsi dei secondi?1.

Il ricorso massiccio al cemento si rivela nocivo per la salute del pianeta; si pensi alla ricaduta ambientale dell’estrazione massiccia di sabbia e ghiaia, all’impoverimento dei terreni ed al consumo di energia con conseguenti ricadute in termini di emissione di anidride carbonica determinata dalla sua produzione, oltre a richiedere l’impiego di una grande quantità di risorse idriche. Trattandosi però di cemento armato, occorre considerare anche la presenza del ferro nel calcolo dell’impatto sul pianeta.

Al di là dei problemi di impatto sulla salute e sull’ambiente, occorre però, secondo Jappe, concentrarsi sulla responsabilità del cemento armato nell’aver permesso l’architettura moderna così come si è sviluppata con tutta la sua negatività, pertanto, sostiene l’autore, la domanda da porsi non è tanto cosa il cemento armato abbia reso possibile – nella consapevolezza che non mancano di certo esempi positivi –, quanto piuttosto occorre chiedersi cosa sia scomparso a causa sua e cosa abbia reso impossibile, quanto abbia inciso sulla perdita di savoir-faire e sul declino dell’artigianato edile, quante capacità e competenze nell’ambito dell’edilizia abbia cancellato…

L’omogenizzazione, la standardizzazione e l’anonimato dell’architettura e dell’urbanistica dell’età del cemento armato è sicuramente figlia della rottura operata dal capitalismo industriale nei confronti dello sviluppo millenario della civiltà.

Una delle prime esigenze del potere moderno è di vedere e controllare ogni cosa: conosciamo il ruolo emblematico del carcere detto “panottico” proposto in Inghilterra da Jeremy Bentham nel 1780. Le lunghe arterie dritte che attraversano le città moderne non servono solo a sparare sugli insorti, ma anche a impedire che qualcuno pensi anche solo di insorgere […] L’ideale panottico del potere si realizza non solo nella linea retta senza ostacoli, ma anche nel culto della trasparenza […] Questo fanatismo per la trasparenza corrisponde al desiderio di sorveglianza totale da parte di chi detiene il potere. L’architettura della visibilità è sorta quando la credenza in un Dio che tutto sa e tutto vede cominciò a intimorire meno le coscienze: Bentham era un protagonista dell’Illuminismo! Ed è anche una lotta contro il nostro lato oscuro, contro tutto ciò che sfugge al controllo della razionalità strumentale (pp. 155-156).

Il volume di Jappe termina dedicando un capitolo a William Morris ed alla sua lucida presa di coscienza, in pieno Ottocento, di come la meccanizzata produzione seriale dia luogo a realizzazioni di pessima qualità estetica derivata dalla logica profonda del “sistema fabbrica” e dalla parcellizzazione del lavoro svilente l’apporto creativo individuale. I meriti delle proposte di Morris sono probabilmente da ricercarsi più sul versante delle problematiche poste che su quello delle reali risposte praticate; la sua ambizione di unire etica ed estetica, di dare vita ad un’esperienza in grado di liberare tanto la creatività dei lavoratori, attraverso modalità produttive preindustriali, quanto la fruizione dei destinatari dal grigiore della produzione seriale, impatta, inevitabilmente, con la logica complessiva di un sistema economico che ne impedisce di fatto l’attuazione. Resta, tuttavia, un apprezzabile, per quanto romantico e utopistico, tentativo di invertire la rotta rispetto ai tempi correnti.

Insomma, un’alternativa al cemento armato, arma di costruzione di massa nelle mani del capitalismo, pare possibile soltanto mettendo davvero in discussione quest’ultimo.


  1. Raoul Vaneigem, Commentaires contre l’urbanisme, “Internationale situationniste”, n. 6, 1961, p. 33; riprodotto in Internationale situationniste 1958-1969, trad. it. Commenti contro l’urbanistica, Nautilus, Torino, 1994. 

]]>
L’imbroglio ecologico https://www.carmillaonline.com/2021/08/05/limbroglio-ecologico/ Thu, 05 Aug 2021 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67424 di Dario Paccino

Dario Paccino, L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura. Introduzione di Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini, Sirio Paccino, Ombre corte, Verona, 2021, pp. 235, € 20,00

[Torna in libreria il volume di Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, pubblicato originariamente nel 1972 da Einaudi, con una nuova edizione curata da Ombre corte che, nella scheda di presentazione, ricorda come alla sua uscita il testo accogliesse «quelle istanze sociali che dagli anni Sessanta cominciavano a denunciare con forza il nesso tra assetto capitalistico del lavoro, salute, nocività in fabbrica e degrado ambientale. Al centro del [...]]]> di Dario Paccino

Dario Paccino, L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura. Introduzione di Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini, Sirio Paccino, Ombre corte, Verona, 2021, pp. 235, € 20,00

[Torna in libreria il volume di Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, pubblicato originariamente nel 1972 da Einaudi, con una nuova edizione curata da Ombre corte che, nella scheda di presentazione, ricorda come alla sua uscita il testo accogliesse «quelle istanze sociali che dagli anni Sessanta cominciavano a denunciare con forza il nesso tra assetto capitalistico del lavoro, salute, nocività in fabbrica e degrado ambientale. Al centro del lavoro di Paccino vi è la dimostrazione che il rispetto dell’uomo e della natura è strutturalmente incompatibile con il modello di sviluppo capitalistico, con un’economia di mercato che produce a prezzi sempre più bassi beni di consumo sempre meno utili e con una obsolescenza programmaticamente sempre più breve. Denunciando la contraddizione fra l’apparente e improvviso amore per l’ecologia dei paesi ricchi e industriali, esploso nei primi anni Settanta, e i devastanti inquinamenti, guerre, distruzione delle foreste – inevitabili conseguenze del successo economico dei ricchi e che colpiva e rendeva più poveri i due miliardi di abitanti poveri del pianeta –, Paccino ribadiva con forza che l’ecologia pensata e tradotta politicamente senza aver presenti i rapporti di produzione e di forza sociali, rappresentava ipso facto un imbroglio. È quest’uso ideologico e mistificato della natura che l’autore contesta e problematizza in tutto il suo lavoro teorico e militante, cercando di mettere al centro del dibattito i rapporti di potere ed i meccanismi socio-economici che determinano lo squilibrio, con l’obiettivo di dare vita a una ecologia conflittuale finalizzata a costruire un rapporto equo ed armonico tra gli esseri umani, le organizzazioni sociali e la natura. Non c’è dubbio che quanto era già chiaro cinquant’anni fa, oggi appaia ancora più drammaticamente evidente, in epoca di pandemie, riscaldamento globale e sfruttamento illimitato delle fonti energetiche» – Dalla scheda di presentazione di Ombre corte].

Dario Paccino (1918-2005), partigiano nella Resistenza, è stato giornalista e saggista oltre che militante del movimento antinuclearista, anche attraverso la direzione delle rivista Rossovivo. Tra le sue numerose pubblicazione ricordiamo: Arrivano i nostri (1956); I colonnelli verdi e la fine della storia (1990); L’ombra di Confucio. Uomo e natura in Cina (1976); La guerra chiamata pace (1992); Gli invendibili (1994). È stato responsabile del periodico Natura e Società.

[Di seguito si pubblica un saggio sulle tematiche trattate dal libro scritto da Dario Paccino per la rivista Vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe n. 4, 1996. I riferimenti al testo riguardano ovviamente la sua prima edizione  – ght]

***

Naturalismo verde fine millennio

di Dario Paccino

Ovvio, a prima vista, l’attributo di naturalista a chi si qualifica come verde. Ovvio infatti lo è, ma non nel senso che suggerisce l’aggettivo naturalista in connubio col verde (col suo rappresentarsi la vita, il suo mestiere di ambientalista).

Ogni parola, si sa, è un poliedro, sicché immancabilmente necessita – nel discorso scientifico – un’indicazione preliminare circa il lato del poliedro prescelto.

Sia consentito in questo caso, nell’intento di fornire l’indicazione richiesta, un richiamo all’Imbroglio ecologico, nel quale si esplicita, fin dalle prime battute, l’intenzionalità liquidatoria del naturalismo ambientalistico, che per altro nel ‘72 – quando uscì il libro – ancora non s’era degradato all’attuale trasformismo politico.

L’Imbroglio apre con un’Avvertenza scandita in quattro brevi capoversi, di cui il primo così articolato: “Questo libro è dedicato a coloro che per guadagnarsi il pane devono vivere in habitat, che nessun ecologo accetterebbe per gli orsi del Parco Nazionale del Gran Paradiso: gli operai delle fabbriche e dei cantieri”.

Assunto dell’opera, si dichiara nel capoverso che segue “la proposta di mettere l’ecologia con i piedi sulla terra, la terra che tutti gli uomini, e perciò anche delle loro verità e ideologie: il sistema dei rapporti di produzione. E ciò in polemica sia con gli ecologi che si librano al di sopra delle parti, sia con quei materialisti storici che accolgono la riduzione idealistica della storia naturale alla storia umana”.

Pretesto della documentazione, tendono ad allargare il discorso sulla parzialità della scienza e sul disarmo teoretico di quei materialisti storici – ufficiali e no – che lasciano la natura agli scienziati”.

1. Non casualmente quel primo capitolo, che può essere saltato da chi “sappia tutto di ecologia”, ha come titolo Storia naturale, e si prende – fra testo e note – 24 pagine del libro. Ciò per spiegare come ecologia altro non sia che un ramo della storia naturale, inconcepibile astraendo dall’uomo, che è sì natura come tutti gli altri viventi, ma anche altro dal momento che ha coscienza della natura e di sé, e produce – attraverso un incessante ricambio organico con la natura – le proprie condizioni di vita, fondate sulla triade lavoro-guerra-discorso, donde il concretarsi e fluire della storia sociale. Storia che, in quanto tale, diviene incessantemente altra col divenire incessantemente altreo di uomo e natura, da lui senza tregua trasformata per le proprie esigenze di sopravvivenza materiale e di elaborazione culturale.

Puntuali, in proposito, i due capoversi finali di quel primo capitolo (p.25): “Vita, uomo, ecc., risultano (…) concetti astratti, oltre che nel discorso logico, anche in natura, dove vita è in realtà vita-ambiente, uomo è in realtà l’insieme degli uomini e degli elementi biotici e abiotici che consente agli stessi uomini di vivere, generare, stabilire rapporti di produzione”.

“Astratte, conseguentemente, sono biologia (che ci dà uno spaccato della vita tanto opportuno per l’apprendimento scientifico, quanto inadeguato per la conoscenza dei nessi ambientali) ed ecologia (che considera prevalentemente l’ambiente). Solo con la ricerca bioecologica (storia naturale) si può conoscere la natura vivente, fatta di inerte, organismi, ecosistemi. Senza peraltro trascurare storia umana, economia politica, sociologia, se si hanno di mira uomini ed ecosistemi, che non possono più identificarsi, dopo millenni di civiltà, con quelli della storia naturale”.

2. Biasimevole imbroglio, dunque, il naturalismo ambientalista alla luce di un marxismo critico anni settanta (che cercai di far mio nella redazione dell’Imbroglio), e che non può, non deve più essere quello di oggi, ma col quale non può non avere in comune il paradigmatico “umanesimo” marxiano riflesso nel concetto “uomo radice dell’uomo”.

Di qui la perdurante validità del dilemma rappresentato nell’imbroglio fra umanesimo nel senso del citato concetto marxiano, e naturalismo ambientalista, lo stesso, nella sostanza, di quello imposto al mondo dal capitalismo a partire dal diciottesimo secolo.

Parole – va da sé – che richiedono un’esauriente articolazione, che rimandiamo però al paragrafo che segue, premendo qui rilevare come, per focalizzare il biasimevole naturalismo verse, si possa partire, oltre che dall’umanesimo marxiano, anche dall’universo teologico del cristianesimo.

Esemplare, in questo caso, il testo del teologo Chrisstoph Turcke, Quanto è morale la difesa dell’ambiente?, pubblicato in Germania nel 1985, e tradotto in Italia (pp. 52-58 in Violenza e tabù, Garzanti editore) sei anni dopo.

Coerentemente con quanto dovrebbe essere di rigore nel discorso scientifico (e cioè quel che si è già rilevato: precisare preliminarmente il lato prescelto del “poliedro”), il Turcke dice di voler “chiarire subito quale sia la vera origine del concetto ‘ambiente’”. Esso, scrive, “proviene dalla biologia e indica il limitato ambito vitale di cui un organismo ha solitamente bisogno per conservare se stesso e la propria specie”.

Nel caso dell’uomo, però, l’ambiente è il pianeta, oltre che da un punto di vista naturale, anche sociale, visto che nell’epoca moderna il mondo antropologicamente abitato “è stato reso un tutto articolato dal colonialismo europeo che, nel corso della sottomissione pianificata del cosiddetto Terzo Mondo, ha tessuto intorno al globo una rete di commerci, cultura e sfruttamento, e ha così finito per rendere gli essere umani cittadini del mondo, creando un mercato universale del quale da allora siamo dipendenti. E mentre diventa sempre più chiaro che è soltanto questa interrelazione mondiale costruita negli ultimi secoli che minaccia prima o poi di spezzarsi, tutto il mondo parla di ambiente minacciato”.

Una semplice “trascuratezza di linguaggio, priva di importanza?”

In realtà trattasi di una “trascuratezza dalla quale si può desumere che gli uomini, che non sono padroni del proprio linguaggio, non lo saranno neppure delle proprie condizioni di vita. Se per definire un problema globale, del quale sono responsabili unicamente un determinato modo di produzione e un preciso tipo di economia, viene impiegato un concetto che appartiene al regno animale e vegetale, già nella scelta di questo vocabolo si nasconde una manovra diversiva”.

C’è di più. C’è il fatto che, grazie all’ambiguità linguistica del temine ambiente, non si considera natura quella “modificata dall’uomo”. Si “distilla” così il concetto, “finché diventi così puro come lo vuole l’uso linguistico odierno”.

Il risultato allora è che “l’ambiente è un contesto naturale fatto di acqua pura, ricche materie nutritive tratte dalla terra e grande varietà di piante e animali, che costituì un pacifico equilibrio biologico fino al momento in cui la grande industria vi portò lo scompiglio”.

“Così, non potendosi riesumare l’era preindustriale, e apparendo del tutto utopistico voler comandare a chi decide della produzione, si richiede “un mutamento sostanziale del modo di pensare, un cambiamento radicale nel rapporto con la natura”.

Si richiede “una nuova etica ecologica”, fondata su questi principi: a) rispetto per la vita, b) considerazione preventiva dei rischi e coscienziosa valutazione dei vantaggi e dei danni in caso di interventi umani in natura”.

Il secondo di questi principi “non riguarda affatto la morale: richiede solo un calcolo dei costi e degli utili (…). Quanto all’altro, all’apparenza lo è molto (morale, ndr), in quanto per rispetto per la vita non si intende solo quello per la vita umana: ogni vita dovrebbe essere considerata sacra”.

È Albert Schweitzer, osserva Turcke, “che rese popolare questa concezione”, senza però prenderla tanto sul serio, se è andato nella foresta vergine a Lambarenè per pianificare l’annientamento della vita di innumerevoli agenti patogeni”. Sicché “in quanto medico ha dato alla vita umana quella precedenza che le negava come moralista. Ha agito in modo umano, non restando fedele alla propria morale”.

Donde la conclusione che “prendere in parola il rispetto per la vita significa da un lato morte sicura (…); dall’altro significa lasciare tutto com’è: anche quella di chi vegeta nella fame e nella miseria è vita, e quindi sacra. E alla fine significa puro egoismo, in quanto si vuole sacra anche la propria vita. In tal modo questo tipo di etica rende impossibile ciò che essa stessa postula, e si annulla da sé”.

Parole apparentemente più grevi di macigni, ma che rispecchiano in realtà quell’istanza materialistica donde è necessario muovere mirandosi ad un’autentica conciliazione di uomo e uomo e uomo e natura, istanza che è tanto del razionalista Spinoza (che irrideva la fede nei miracoli in ragione della ferrea materialità della legge naturale) quanto del materialismo dialettico di Marx (sarcastico schernitore d’ogni filantropismo compatibile col naturalismo capitalistico).

Si richiede, osserva infatti a questo punto Turcke, “una maggiore connessione degli uomini con tutti gli altri esseri viventi, cose se la storia umana non ne avesse mostrata abbastanza, cose se gli uomini non avessero trattato reciprocamente se stessi e anche la natura in modo bestiale, come se non avessero impiegato contro la natura – quella umana e quella non umana – mezzi desunti dalla natura stessa: come quello spietato e brutale del divorare ed essere divorati (…) quale oggi (…) viene nobilitato attribuendogli il titolo di equilibrio biologico”.

E qui si dispiega la salutare contrapposizione da noi più sopra contraddistinta come umanesimo e naturalismo.

“Il cieco progredire della natura sopra i cadaveri dei suoi figli, che non è assolutamente così pacifico come vorrebbero i propugnatori dell’equilibrio ecologico, scrive infatti Turcke, è stato in passato, per gli antichi, la quintessenza dell’orrore mitico. l’etica dovrebbe sottrarre gli esseri umani a questo orrore. Che non vi sia mai riuscita, non dipende dal fatto che essi fossero troppo poco legati alla natura, ma dal fatto che lo erano troppo. Nel dominio di pochi uomini su molti, dei liberi sugli schiavi, sulle donne e sui bambini, la violenza naturale trova la propria prosecuzione; nelle guerre e nelle carneficine assume dimensioni ignote alla creatura priva di ragione, e in queste circostanze la violenza contro gli esseri umani è sempre stata accoppiata a quella contro il resto della natura. Gli abusi che si commettono sulle creature sono soltanto il rovescio della sottomissione alla natura della società umana”.

Si deve al mistificante concetto di ambiente dei verdi, se si è ormai così volenterosamente soggetti al dominio della natura, da ritenersi apodittica la mancanza di alternative al naturalismo, sicché “le leggi del mercato mondiale passano come leggi di natura in modo cieco e spietato sopra tutto ciò che è loro sottomesso; che ancora esse abbiano reso necessità economica l’avvelenamento delle acque, l’inquinamento dell’aria e lo sterminio degli animali allo stesso modo delle crisi di mercato, della disoccupazione di massa e della catastrofe della fame…”

Quel che i Verdi lamentano è che “gli esseri umani stanno per distruggere la natura, quando invece stanno in realtà sottomettendosi ad essa, in quanto stanno per estinguere se stessi e produrre un equilibrio naturale fatto di acque marine, paesaggio lunare e forse qualche ameba…” Il tutto non già per un ineludibile operare di industria e tecnica, non essendo problema industriale e tecnico “quello di impedire che il petrolio si disperda in mare, le automobili scarichino gas, e che gli esseri umani vengano rovinati alla catena di montaggio. La concorrenza costringe a calcolare ciò che è più vantaggioso, e in tale calcolo le materie prime, la forza-lavoro e gli acquirenti sono ridotti a meri numeri. È la concorrenza economica (la naturalistica guerra di tutti contro tutti, ndr) che costringe ad un costante logoramento di cose ed esseri viventi per mantenere attiva la macchina della produzione, che non può procedere senza continuare a gonfiarsi, ma che minaccia di morte tutte le creature appena non sia in grado di correre o si fermi. Un capitalismo senza plusvalore è come un cattolicesimo senza papa”.

Sicché “la morale della difesa dell’ambiente è fondamentalmente d’accordo con il corso attuale (il naturalismo capitalistico, ndr) del mondo. (…) Il nuovo rapporto con la natura di cui tanto parla (l’ambientalismo verde, ndr), potrebbe instaurarsi soltanto se venisse intrapreso qualcosa di serio contro la sottomissione della società umana alla natura”.

3. Qualcosa di serio, in buona sostanza, per l’abrogazione della produzione capitalistica, che segna l’avvento del naturalismo della modernità, la cui fenomenologia digiungla a dimensione planetaria è irrefutabilmente dimostrata dal grafico che va sotto il nome di Coppa di Champagne.

Grafico di cui ha la paternità la sezione delle Nazioni Unite per lo sviluppo, che ha condotto una ricerca, a livello mondiale, sulla distribuzione del reddito.

Grafico, riprodotto in Cuba e la ragione cinica di Heinz Dieterich (la piccola Editrice, Cellano, 1994), che raffigura stilizzata una coppa con un gambo che si va via stringendo dall’alto al basso.

Nel concavo della coppa figura il reddito del 20% della popolazione mondiale più ricca: nel gambo si indicano via via (un 20% dopo l’altro) i restanti quattro quinti. dal che risulta che il 20% della popolazione più ricca dispone dell’82,7% del reddito mondiale, mentre al 20% più povero tocca l’1,4. Fra il concavo della coppa e la fascia più bassa, il primo dei tre quinti incamera l’11,7%, il secondo il 2,3, il terzo l’1,9.

Percentuali che danno ragione ben al di là di quanto immaginasse a Karl Polanyi della grande trasformazione.

Polanyi, esule ungherese rifugiato a Londra nel 1933 dopo l’avvento di Hitler al potere, pur attingendo all’opera di Marx, ne prese le distanze in conseguenza della propria concezione storiografica, nella quale non c’era posto per la dialettica nei processi della storia, donde l’assurdità, ai suoi occhi, di pensare che dal male del capitalismo possa venire il bene della futura liberazione dell’umanità: il marxiano passaggio dal regno della necessità naturalistica del capitalismo al regno della libertà dell’uomo radice dell’uomo.

La grande trasformazione vide la luce a Londra nel 1944, e fu poi tradotta dall’Einaudi trent’anni dopo con aggiunta del sottotitolo Le origini economiche e politiche della nostra epoca.

Occupava la scena del mondo, nel ‘44, la seconda guerra mondiale con i suoi due fronti contrapposti fascista e antifascista, quest’ultimo sostituitosi dopo che l’Urss aveva arrestato, nell’inverno ‘41 – ‘42, quella che era stata fino a quel momento l’invincibile armata tedesca. Ed è dunque più che naturale che Polanyi abbia cercato di spiegare, alla luce del passato, il fenomeno fascista, specie quello in veste nazista, ch’era il nemico da battere.

“Per capire il fascismo tedesco, scriveva Polanyi (p. 39, ed. italiana), dobbiamo ritornare all’Inghilterra ricardiana”, l’Inghilterra della “economia classica” di Ricardo, appunto, e di Adam Smith, fondamentali teorizzatori della “società di mercato”, nata in Inghilterra con l’affermarsi del capitalismo.

Sempre, nel corso storico, prima del capitalismo, i mercati, rammentava Polanyi, erano stati “un elemento accessorio del sistema sociale regolato e controllato dall’autorità politico-amministrativa”. È quando il capitalismo s’impone, dapprima con l’accumulazione originaria frutto di un’espropriazione su scala mondiale che può ben dirsi nazista ante litteram, e poi con la rivoluzione che ha spalancato le porte al moderno, che il mercato diventa centrale, sicché tutto ha un prezzo, compresi “uomo, terra (la natura, ndr), moneta”.

Come dunque pensare, se questa è l’origine del capitalismo, che la società di mercato possa mai produrre effetti benefici? Non era il fascismo, nella Germania sconfitta della prima guerra mondiale, frutto dell’estrema violenza di un capitalismo come quello tedesco, proteso alla rivincita per ridare alla Germania il ruolo di potenza egemone nel continente europeo?

D’altra parte, se la centralità del mercato tutto riduce a merce, uomo e natura compresi, come non dedurne che il capitalismo, oltre che come promotore di guerra permanente, opera pure come processo distruttivo del sistema socio-naturale?

“Permattere al meccanismo di mercato (Polanyi, pp.94-95), di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale, e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto, porterebbe alla demolizione della società. la presunta merce ‘forza lavoro’ non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano, che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre (come avviene attualmente nell’universo della “flessibilità”, ndr) della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale ‘uomo’ che si collega a questa etichetta. Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali (come avviene nella presente “mondializzazione”, ndr), gli esseri umani perirebbero per gli effetti stessi della società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini e denutrizione”.

Quanto alla natura “essa verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio e la capacità di produrre cibo e materie prime distrutta. Infine, l’amministrazione da parte del mercato del potere d’acquisto liquiderebbe periodicamente le imprese commerciali poiché le carenze e gli eccessi di moneta si dimostrerebbero altrettanto disastrose per il commercio quanto le alluvioni e le siccità nelle società primitive”.

4. La grande trasformazione, s’è visto, è del ‘44. L’anno prima c’era stata, con Stalingrado, la svolta decisiva della guerra, e Roosevelt e Churchill s’erano affrettati a Teheran (novembre-dicembre) per incontrarsi con Stalin col quale firmare il comunicato (1 dicembre ‘43) nel quale è detto fra l’altro (Da Teheran a Yalta, ed. Riuniti, 1965, pp. 81-82): “La perfetta intesa cui siamo giunti è sicura garanzia che la vittoria sarà nostra. Nei riguardi della pace, abbiamo la certezza che la nostra concordia la farà durevole”.

Dopo aver garantito che “i nostri attacchi non conosceranno tregua e andranno aumentando d’intensità”, Churchill, Roosevelt e Stalin, firmatari del Documento, annunciamo al mondo: “Alla fine di questi nostri cordiali colloqui, guardiamo con fiducia al giorno in cui tutti i popoli della Terra potranno vivere una vita libera, non oppressa da tirannide e conforme ai desideri e alla coscienza di ciascuno”.

Il compimento dei minacciati attacchi alleati, che non conosceranno tregua, e andranno aumentando d’intensità, si concretò l’anno seguente con i due eventi che non lasceranno sussistere dubbio alcuno circa la disfatta tedesca: lo sbarco in Normandia e l’inizio dell’offensiva sovietica che avrebbe portato l’Armata Rossa a Berlino (rispettivamente 6 e 23 giugno 1944).

È in questa atmosfera di sicura vittoria sull’imperialismo tedesco e di altrettanto sicuro sradicamento del fascismo dal mondo, che l’11 febbraio ‘45 sarà firmato da Churchill, Roosevelt e Stalin il Comunicato di Yalta (pp.189-196), nel quale campeggia la solenne promessa al genere umano di “distruggere il militarismo tedesco e il nazismo, e far sì che la Germania non sia mai più in grado di turbare la pace mondiale”.

Ciò nel quadro di “una organizzazione generale internazionale per il mantenimento della pace e della sicurezza”. In particolare, per quanto concerne il nostro continente, si dichiarava “La fondazione dell’ordine in Europa e la ricostruzione della vita economica nazionale (dei vari paesi, ndr) devono essere perseguite mediante procedimenti che mettano in condizione i popoli liberati di distruggere le ultime vestigia di nazismo e di fascismo, e di creare istituzioni democratiche di loro propria scelta”.

Scopo dichiarato dei tre firmatari: “Un ordine mondiale retto dalla legge e rivolto alla pace, alla sicurezza, alla libertà e al benessere generale del genere umano”.

In conclusione (i due capoversi finali): “Solo attraverso una continua e sempre maggiore collaborazione e comprensione tra i nostri tre grandi paesi e tra tutte le nazioni amanti della pace si potrà realizzare la più alta aspirazione dell’umanità: una pace sicura e duratura che, secondo le parole della Carta atlantica “garantisca a tutti gli uomini di tutti i paesi di vivere liberi dal timore e dal bisogno”.

“Si ritiene che la vittoria in questa guerra e la costituzione della progettata organizzazione internazionale creerà la maggiore opportunità che si sia mai avuta di creare negli anni futuri le condizioni essenziali della pace”.

5. È in questa temperie che Polanyi, pur cogliendo l’essenziale verità dell’essere il fascismo generato dal capitalismo, si illuse che si trattasse di parto non inevitabile.

Non combattevano “democrazie” e “comunismo” la stessa guerra contro il mostro nazista, assicurandone l’irreversibile estinzione? E non si impegnavano per una pace di compromesso fra “libero mercato” capitalista ed economia dirigista sovietica?

E’ il teologo Leonardo Boff che rileva, ai nostri giorni, che quel dirigismo, qualunque sia la valutazione che par giusto darne circa la sua natura (socialismo, capitalismo di stato, ecc.), ha realizzato, in Urss e nei paesi del “Terzo mondo” nei quali s’è affermato, la “rivoluzione della fame”, lo scorporo dal mercato dei bisogni primari dell’uomo, cosa che il capitalismo non potrà mai fare, anche se, per assurda ipotesi, se lo proponesse.

Non si può dire, naturalmente, se Polanyi avrebbe condiviso questo giudizio di Leonardo Boff. Certo, in ogni caso, che non può non aver influito sul suo pensiero la prospettiva d’una pace di compromesso fra la giungla “democratica” del mercato e l’”umanesimo” sociale sovietico concernente i bisogni primari della comunità. Donde la liceità, per cosìdire, della sua illusione circa la non inevitabilità della filiazione del fascismo dalla matrice capitalistica.

Non si illuse invece sulla fondatezza di quel compromesso Klaus Fuchs, figlio, informa Robert Jungk (Gli apprendisti stregoni, Einaudi, 1958, pag. 196) “di un pastore evangelico tedesco (esule in Inghilterra, ndr) che si professava quacchero socialista religioso”. Fisico nucleare, era considerato “uno dei membri più intelligenti del team inglese” (dell’organizzazione tecnico-scientifica del Progetto Manhattan, ndr).

Giunto negli Usa alla fine del 1943, e a Los Alamos (dove si lavorava alla megabomba) nel dicembre 1944, “aveva stretto molte amicizie, e col suo modo di fare quanto mai timido aiutava come poteva i suoi colleghi”.

Fu proprio in quel dicembre ‘44 che venne la resa dei conti di scienziati e tecnici del Progetto con la propria coscienza. È in quel mese infatti che il fisico di Liverpool Joseph Rotblat fece le valigie tornando in Inghilterra.

Era stato Einstein a garantire a Roosevelt, in forza della propria autorità scientifica, il “miracolo” di una bomba contro la quale non si dà difesa, determinando la scissione dell’atomo. L’aveva fatto (un suggerimento del fisico ungherese Leo Szilard) per il timore che gli scienziati tedeschi, rimasti in patria nonostante l’avvento al potere di Hitler, stessero preparando l’arma che avrebbe permesso al nazismo di impadronirsi del mondo.

Quando però alla fine del ‘44, l’intelligence americana poté accertare senza ombra di dubbio che la Germania non stava costruendo la bomba, si impose a scienziati e tecnici il che fare in coerenza con i propri principi morali.

L’unico a decidere lì per lì fu Joseph Rotblat, che oggi, ottantacinquenne, motiva la propria scelta dichiarando: a) d’aver appreso che lo scopo del Progetto era di “sottomettere i russi”, b) d’aver sempre pensato che la scienza “debba lavorare per il benessere dell’uomo, e non per la sua distruzione” (Repubblica, 21-6-95).

(Inciso che non par esagerato definire pedagogico: due mesi prima, il 21 aprile, l’Unità aveva stimato opportuno pubblicare un’intervista di De Felice a Norberto Bobbio, che, alla domanda dell’intervistatore se lui l’avrebbe buttata la bomba su Hiroshima, aveva risposto: “Probabilmente sì. Gli americani furono costretti a costruire una bomba atomica e a buttarla”).

Invece, Klaus Fuchs, altrettanto “umanista” di Rotblat, ma più politico di lui, restò presenziando (per lo più in silenzio) al dibattito nel quale si affrontavano tre correnti: a) quella dell’estremista (“ipernaturalista”) Edward Teller, deciso fin da allora a passare, una volta realizzata la bomba con la scissione, a una incomparabilmente più distruttiva, risultante dalla fusione nucleare; b) quella moderata di Leo Szilard, che si rivolse nuovamente a Einstein per convincerlo a spiegare, in una lettera a Roosevelt che, dileguatasi la paventata prospettiva dell’atomica tedesca, l’eventuale uso dell’atomica americana avrebbe aperto un’apocalittica corsa agli armamenti atomici, non potendosi pensare che l’Urss non avrebbe a sua volta realizzato questo strumento di sterminio irreversibile; c) quella opportunista di Oppenheimer, prono, con Fermi e gli altri suoi pari (la grande maggioranza di scienziati e tecnici), ai voleri dell’esecutivo.

Esecutivo che il 12 aprile ‘45 cessò di essere impersonato da Roosevelt, morto improvvisamente, sicché le due lettere (quella di Einstein e quella di accompagnamento di Szilard) “giacevano ancora inevase sulla sua scrivania” quando Truman gli succedette alla Casa Bianca (p.188).

Invano Szilard cercò di avvicinare Truman, dovendo infine accontentarsi di parlare con un suo collaboratore, James Byrnes, esponente del partito democratico al potere, che, ascoltato l’autorevole postulante “con la cordialità ‘routiniere’, cole l’hanno innata i politici di professione”, commentò “Non sarà che lei si preoccupa troppo senza motivo? A quel che so io, in Russia non esiste uranio”. (p.189).

Così Fuchs, al corrente come Rotblat, che il vero obiettivo della superbomba era la Russia, con minaccia di mortale pregiudizio, in ragione delle contaminazioni, per un’area ben più vasta (comprensiva fra l’altro del nostro continente), non vide alternativa all’applicazione dell’aurea massima naturalistica della realpolitik: essere l’equilibrio militare necessari, anche se non sufficiente, per garantire la pace.

Massima che fece propria nell’unico modo che gli era possibile: “Rivelando all’agente sovietico Raymond (…) tutto quel che sapeva della bomba atomica”. (p. 196)

Impossibile dire, per quanto ne sappiamo, se questa rivelazione sia giunta ai sovietici come informazione determinante per la costruzione della propria superbomba, o se invece, come pare, stessero già costruendola dal momento che passarono solo quattro anni da Hiroshima all’esplosiaone dell’atomica “rossa”, e che arrivarono prima di Teller alla bomba nucleare.

Più che probabile comunque che le motivazioni di Klaus Fuchs siano riflesse in queste parole del padre (pp. 197-198):

“Mi rendo conto del suo (di Klaus, ndr) grande sgomento dal momento in cui s’accorse di lavorare alla bomba (destinata alla Russia, ndr). Se avesse detto ‘Non ci sto’, tutto il pericolo sarebbe continuato a incombere sull’umanità. Così trovò la via d’uscita da una situazione senza uscite. Né lui, né io abbiamo mai rimproverato al popolo inglese di averlo condannato. Egli sopporta la sua sorte coraggiosamente e decisamente e chiaramente. Secondo la legge inglese è giustamente condannato. ma ci saranno sempre uomini che si macchieranno di una simile colpa e sopporteranno le conseguenze con forza e volontà, pensando di vedere più chiaramente dei potenti che per il momento decidono. Non dovrebbe già essere chiaro che anch’egli ha agito nell’interesse del popolo inglese più chiaramente del suo governo? Ha messo a repentaglio una splendida posizione lautamente pagata e un futuro ancora più splendido. Io non posso che chinarmi rispettosamente dinanzi alla sua decisione…”.

6. Abbia o no contribuito Klaus Fuchs a promuovere nel breve periodo un equilibrio atomico, che ha scongiurato l’annientamento nucleare dell’Unione Sovietica, e, per effetto delle contaminazioni (come può inferirsi da Cernobil), del resto d’Europa, annientamento che era nei piani di Truman e Churchill, perfettamente al corrente che il governo giapponese aveva già chiesto la resa ben prima di Hiroshima, sicché la stessa Hiroshima non può intendersi altrimenti che come minaccia di morte all’alleato sovietico, se Stalin non avesse rinunciato a quanto, in forza dell’epica difesa e controffensiva dell’Armata Rossa, gli era stato riconosciuto a Yalta. Abbia o no contribuito Klaus Fuchs a scongiurare questo disegno (che per altro per Churchill sarebbe stato un suicidio), va preso atto che con Hiroshima e Nagasaki s’è determinata una cesura nella storia del mondo.

La cesura tra il tempo della guerra come calamità “naturale” inidonea ad arrestare il cammino dell’umanità, e il tempo della guerra come sterminismo totale e irreversibile, donde non si vede come non possa non venirne la fine del mondo, sia che l’atomica e lo sviluppo tecnologico militare che ne è conseguito (come s’è visto nel Golfo) valgano a sottomettere ogni antagonista del sistema raffigurato nel grafico della Coppa di Champagne, sia che il livello di scontro (Sud-Nord, Est-Ovest) porti ad un’inarrestabile generalizzarsi del terrorismo che fanno presagire, per un verso, la formula del Pentagono (operante attualmente nei Balcani) “Guerra dal cielo, pace in terra”, e, per l’altro la metodica serie di attentati nella Francia di Chirac, vindice di musuln-bosniaci e fascisti croati nello stesso tempo che dissemina la morte atomica nel Pacifico.

Ciò sul piano militare: l’altra faccia – abbinata con quella sociale – della stessa medaglia, pervenuti come siamo a quella che David Harvey (La crisi della modernità, Il Saggiatore, 1993) definisce “l’accumulazione flessibile”.

L’accumulazione del tempo in cui la disoccupazione, da “fisologica” (operante col cosiddetto esercito di riserva), s’è fatta di massa, su scala planetaria, con la conseguenza di un’organizzazione del lavoro che Harvey chiama del centro e delle due periferie: il centro dato da una sorta di task-force d’élite, garantita e ben remunerata, con una prima periferia costituita dalla truppa, malpagata, comunque con possibilità di accasermamento, e la seconda (la più numerosa) del caporalato (istituzionale e no) e dell’emarginazione, marca di confine tra lavoro legale e criminalità diffusa.

Invendibilità e malvendita, planetaria e irreversibile della forza-lavoro, condizione che costituisce la materialità sociale di quella che, negli Invendibili (Datanews, Roma, 1994) si presenta come la quarta guerra mondiale, dopo le prime due fra il ‘14 e il ‘45, e la terza, “fredda”, conclusa con l’egemonia mondiale degli Stati Uniti.

Quarta guerra esplosa nel ‘90-’91 nel Golfo, e ora in atto nei Balcani in un conflitto che, comunque vada a finire, ridurrà il numero dei “grandi” da sette a due: Usa e Germania, gerente (quest’ultima) di un’Europa in via di libanizzazione, e sottoposta a un’organizzazione del sistema finanziario mondiale in condizioni di teleguidare anche gli Stati più potenti (non importa se di sinistra o di destra), dei quali si avvale come di altrettanti bracci armati nella quotidiana rapina planetaria.

Cosa che Harvey documenta col più scrupoloso screening scientifico, ma che basta avere occhi per coglierne fattezze e operare, a incominciare dal nostro paese, dove il “dilemma” elettorale è ormai fra un centro-sinistra con sponsor la trimurti Agnelli-Cuccia-Bundesbank, e un polo di destra condizionato dalla Fininvest, diversa, politicamente, dalla “galassia nordica” solo perché finanziariamente meno poderosa, e, quanto a cultura, meno “illuminata”.

7. Non dispera tuttavia David Harvey, come si può dedurre dalla parole che seguono: “Anche se la attuali condizioni sono molto diverse sotto svariati aspetti, non è difficile notare come gli elementi e le relazioni invariabili che Marx riteneva fondamentali per ogni modo di produzione capitalistico siano ancora ben evidenti, in molti casi più evidenti che nel passato, sotto la spuma superficiale e l’evanescenza – caratteristiche dell’accumulazione flessibile. E allora l’accumulazione flessibile è semplicemente una versione più vivace della stessa vecchia storia del capitalismo? Questo sarebbe un giudizio troppo semplicistico; vorrebbe dire considerare il capitalismo in modo astorico, come un modo di produzione non dinamico, mentre tutto sembra dimostrare (anche le argomentazioni espresse da Marx) che il capitalismo è una forza costantemente rivoluzionaria nella storia del mondo, una forza che rimodella eternamente il mondo in configurazioni nuove e spesso inattese. l’accumulazione flessibile, quindi, sembra essere quanto meno una nuova configurazione, e perciò è opportuno analizzare le sue manifestazioni, utilizzando, tuttavia, gli strumenti teorici ideati da Marx”.

Parole nelle quali sarebbe bello poter avere assoluta fiducia, se non l’impedissero: a) il fatto che l’accumulazione flessibile avviene nel quadro della quarta guerra mondiale diretta, oltre che contro il Sud e l’Est, anche contro il nostro continente; b) il quadro tracciato dallo stesso Harvey di sussunzione reale del mondo da parte del capitalismo finanziario al punto che oggi non fa più differenza fra destra e sinistra, l’una e l’altra funzionali, quanto ai verdi, al naturalismo del mercato.

Ma allora, si chiederà, come non disperare? E, in tal caso, perché continuare, da parte del sottoscritto, a redigere articoli, saggi, libri?

Quesiti pertinenti in generale, ma non è di questo – nello specifico – che si tratta.

Non è ammissibile, evidentemente, non si dice disperazione, ma semplicemente scoramento sul piano rivendicativo in questo nostro tempo in cui l’espropriazione capitalistica tende – al pari del nazismo – a un utilizzo del lavoro a costo zero. Niente dunque è da tralasciare (sempre che si tenga fede ala propria coerenza) per arrestare, e, possibilmente, capovolgere il processo in atto.

Ma guai se ci si nega alla consapevolezza di trovarci in una situazione analoga a quella che indusse Klaus Fuchs al “tradimento”. Come dire, in concreto, che se veramente si opta per una speranza non semplicemente autogratificante, s’ha da porre a discrimine tra la nostra politica e quella del nemico il più fermo impegno di lotta per liberarci dal naturalismo, umanizzando la natura, nello stesso tempo che si naturalizza noi stessi, prendendo atto del nostro fondamento naturale, donde la necessità del ricambio organico con la natura attraverso un lavoro non più salariato.

Concetto, chiaramente, che esigerebbe un testo ben più diffuso e argomentato del presente sul naturalismo verde fine millennio, che è tanto dei Rambo di Greenpeace quanto dei revenants (fantasmi) “comunisti”, fabulatori di una decisiva riscossa sociale sulla base del concluso accordo elettorale col centrosinistra inteso a “battere la destra”. Evidente però che sarebbero necessari altro tempo, altra carta, nonché appelli alla pazienza dei lettori, donde la necessità di un rinvio – per chi ci sta – a un’altra “puntata”.

Vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe n. 4, 1996

]]>
Contro il non luogo universale https://www.carmillaonline.com/2021/06/02/contro-il-non-luogo-universale/ Wed, 02 Jun 2021 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66291 di Sandro Moiso

Franco La Cecla, Mente locale, con la prefazione di Paul K. Feyarebend, Eléuthera editrice, 2021, pp. 208, 16,00 euro

Chiunque si sia interessato alle vicende e alla storia dei movimenti di classe e delle loro resistenze al dominio capitalistico sulla società e sulla specie, prima o poi avrà sbattuto il naso nella figura di Georges Eugène Haussmann meglio noto come barone Haussmann, prefetto del dipartimento della Senna dal 23 giugno 1853 al 5 gennaio 1870 o, per semplificare, prefetto di Parigi al tempo del secondo impero.

E’ noto che [...]]]> di Sandro Moiso

Franco La Cecla, Mente locale, con la prefazione di Paul K. Feyarebend, Eléuthera editrice, 2021, pp. 208, 16,00 euro

Chiunque si sia interessato alle vicende e alla storia dei movimenti di classe e delle loro resistenze al dominio capitalistico sulla società e sulla specie, prima o poi avrà sbattuto il naso nella figura di Georges Eugène Haussmann meglio noto come barone Haussmann, prefetto del dipartimento della Senna dal 23 giugno 1853 al 5 gennaio 1870 o, per semplificare, prefetto di Parigi al tempo del secondo impero.

E’ noto che in tale veste egli svolse anche la funzione di urbanista, imprimendo definitivamente la sua visione della città e delle sue funzioni nella struttura urbana della ville lumière così come tutti la conosciamo ormai da più di centocinquanta anni: i grand boulevard che la caratterizzano ancora oggi nella sua parte centrale sono infatti la conseguenza dello sventramento dei vecchi quartieri che Haussmann attuò all’interno di un più vasto piano di ristrutturazione urbana.

Già nel XVII secolo Parigi era stata oggetto di un vasto piano di riassetto urbanistico voluto da Jean-Baptiste Colbert, consigliere del Re Sole, che demolì le fortificazioni poste sulla riva destra della Senna per sostituirle con un ampio viale alberato «per un maggior decoro della città e per servire da passeggiata agli abitanti». Nell’Ottocento, però, quando la città iniziò ad essere interessata da un maggior afflusso di contadini, allettati dalla prospettiva di un salario sicuro nelle fabbriche e negli opifici della città, Parigi non era affatto pronta a fare i conti con una simile trasformazione, che comportò la costruzione di agglomerati edilizi, officine, ferrovie in modo congestionato, febbrile, quasi parossistico, che lasciò una traccia profonda nella vita materiale e morale del proletariato parigino.

In tale contesto il barone Haussmann operò un immenso e radicale ammodernamento urbanistico della capitale francese, portando alle estreme conseguenze l’esperienza precedente. Il Barone, infatti, sventrò il fitto tessuto dell’antica città medievale, perenne focolaio di epidemie e di insurrezioni, mediante la costruzione di nuove arterie stradali, rettilinee, ampie e alberate, che si snodano per 165 chilometri in tutta la capitale.

Attraverso tale trasformazione di Parigi Haussmann intendeva infatti impiegare e ingigantire gli enormi profitti dell’epoca e riorganizzare la rendita immobiliare parigina, spesso al limite della speculazione edilizia. Importante era anche la valenza politica e sociale dell’intero progetto, che mirava a conferire alla capitale un aspetto moderno e grandioso. Più significativo, dal punto di vista di classe, era il terzo scopo, legato a ragioni di pubblica sicurezza e di ordine pubblico. Haussmann vide nei boulevard un ottimo strumento per consentire il rapido ed efficace spostamento di truppe militari a Parigi in caso di insurrezione e, contestualmente, per impedire la costruzione di barricate, cosa che avveniva assai di frequente nello stretto labirinto di strade medievali.

Per più di un secolo si è interpretata quest’ultima scelta soltanto dal punto di vista militare e repressivo, mentre in realtà ben più importante si rivela oggi, soprattutto dopo la lettura della seconda edizione, ampliata e aggiornata del libro di Franco La Cecla, ri/pubblicata da Elèuthera, dal punto di vista del necessario sradicamento sociale e culturale richiesto dallo sviluppo industriale e capitalistico nei confronti dell’organizzazione territoriale delle classi lavoratrici e meno abbienti.

Più volte chi scrive, proprio sulle pagine di Carmilla, ha sottolineato l’importanza che una sorta di psico-geografia (intesa ben al di là della sua formulazione debordiana e situazionista) può rivestire nell’analisi del ruolo che i territori, grandi o piccoli non è qui importante, possono rivestire nella conservazione della memoria delle lotte e delle organizzazioni che queste si sono date dal basso nel tempo ai fini della permanenza di una conflittualità diffusa, residua o ampia non importa che sia, all’interno e intorno agli stessi. Lo si è detto per la Val di Susa oppure per la tradizione della resistenza occitana, solo per fare rapidamente due esempi facili da comprendere.

Il testo di La Cecla, senza neppure sfiorare gli esempi sin qui riportati, sviluppa magnificamente l’analisi dell’utilizzo della trasformazione urbanistica e territoriale per contrastare le resistenze, attive o possibili, proprio per il tramite della demolizione di ogni possibile orientamento spaziale o riferimento culturale, visivi o psichici che questi siano. Per intendere meglio il discorso fin qui fatto vale la pena di fare alcuni esempi tratti da Mente locale, a partire da quegli spazi “indigeni” studiati dagli antropologi.

Mary Douglas ha un aneddoto molto efficace a proposito di ciò che uno spazio nasconde:
«La natura dello spazio abitato è tale da non essere deducibile solo dai suoi aspetti fisici. Nel caso di resti archeologici, ad esempio, sono noti i casi di storiche cantonate a partire dalla sola evidenza architettonica. Morgan costruì una teoria su una cultura pueblo degli alti versanti dell’Ohio, i cui cortili spaziosi e le case strategicamente ben disegnate si sono rivelati in seguito a più ampie ricerche tumuli funerari».
La forma dello spazio indigeno è “agita” da chi la abita. René Thom parla di uno “spazio eccitato”,
intendendo uno spazio globale flessibile. In altri termini, i raccordi tra le mappe locali che definiscono lo spazio d’uso non sarebbero fissi, ma potrebbero essere modificati a volontà da certi individui (maghi e stregoni) e ciò in virtù di procedure specifiche (rituali magici, sacrifici). Altrove Thom afferma che la «topologia dello spazio cesserà di essere la stessa per tutti, perché le esperienze percettive di un osservatore possono essere a loro volta affette da un’azione magica». Qui Thom chiama magico ciò che dal punto di vista dell’antropologia psicologica può essere anche l’immaginario quotidiano, un immaginario che sostiene e costituisce la mappa mentale condivisa. E’ il gioco del “punto di vista” spaziale, il cui organo e tutto il corpo in movimento, il corpo individuale e sociale. La mappa mentale di un insediamento e un’esperienza intersoggettiva. Nello spazio vengono “lasciati” indizi che richiamano per analogie e passaggi una mappa più ampia […] Francoise Levy e Marion Segaud hanno cercato di raggruppare, da un grande numero di esempi di culture antiche, tradizionali e indigene, le categorie spaziali che concorrono a formare la mappa mentale di un insediamento […] Insediarsi vuol dire ritagliare un posto tra la genericità dei luoghi, porre un confine tra l’abitato e il non abitato. Questo gesto e un gesto di fondazione, e ogni fondazione implica un orientamento. Questo luogo, adesso abitato, e in relazione con ciò che gli sta intorno secondo alcune direttrici orientate. Ogni insediamento viene cosi incardinato non solo da un circoscrivere, ma anche da un legare al cosmo intero.1.

Un luogo, uno spazio umano è agito, immaginato, abitato, concepito dai suoi abitanti attraverso linee di interpretazione che definiscono comportamenti cresciuti e condivisi all’interno della collettività seguendone i ritmi e le necessità, sia materiali che ideali. Un luogo, uno spazio umano cresce dall’interno della collettività che lo abita e lo condivide. E’ chiaro, pertanto, che qualsiasi modificazione imposta dall’esterno, di carattere urbanistico o politico che sia, finisce con lo stravolgere la stessa comunità che lo abita e che è destinata a disperdersi, anche rimanendo apparentemente vicina allo spazio iniziale, una volta che se ne siano dispersi o distrutti i punti di riferimento architettonici, spaziali o immaginari.

Un’azione come quella di Haussmann andava quindi molto al di là dell’aspetto militare, repressivo, speculativo o di rinnovamento estetico poiché andava a colpire in profondità la comunità che abitava precedentemente gli stessi spazi, da cui veniva brutalmente allontanata oppure violentemente integrata in quelli nuovi e più razionali.
In giorni in cui lo scontro tra lo Stato israeliano e i Palestinesi di Gerusalemme Est e di Gaza è tornato ad occupare le prime pagine dei media internazionali, è difficile non cogliere come l’opera di espulsione anche di poche famiglie, dagli spazi abitati da decenni se non più, significa intervenire sull’indipendenza culturale, politica, sociale della comunità palestinese con un’operazione di rimozione del ricordo, della memoria e delle tradizioni che è altrettanto violenta di quella militare dell’aviazione israeliana sui territori.

Le decine di barricate che avevano chiuso il Faubourg Saint-Antoine, la rue de Charenton, la rue de Charonne e quella de la Roquette nel 1848 costituirono la testimonianza non solo dell’insorgenza proletaria, ma anche della resistenza della comunità che abitava il quartiere contro la violenza di uno Stato con cui la stessa non poteva più o ancora riconoscersi.
Situazione che in maniera simile, ma con motivazioni diverse, così come è diversa ogni comunità da tutte le altre, si ripete in una delle vicende narrate nell’interessantissimo testo di Franco La Cecla: quello dell’insurrezione di Palermo del 1866 e delle sue motivazioni e conseguenze.

La storia qui raccontata è un episodio della guerra furiosa ingaggiata nelle grandi città europee, dalla metà del diciannovesimo secolo in poi, contro la vita di strada. Gli attori sono da una parte le municipalità, ora investite di un ruolo del tutto nuovo di gestione, controllo e amministrazione della vita quotidiana dei cittadini, e dall’altra gli abitanti, la cui vita è naturalmente “indisciplinata” essendo orientata alle ragioni del bastare a se stessi dentro
un tessuto urbano che ancora gli appartiene e a cui appartengono.
L’esemplarità del caso Palermo è sbozzata dentro a una situazione di grande cambiamento generale […] Chi, del popolo minuto o delle settanta corporazioni di mestiere che allignano a Palermo, ha appoggiato l’ingresso del Generale Garibaldi in città difficilmente (per quanto inventivo o abituato alle cose dell’isola sia) può immaginare le proporzioni del cambiamento cui ha dato una mano. Che la libertà possa assumere i caratteri di un governo talmente attento alla vita della gente comune da pretendere netti cambiamenti di costume, che tutto il sistema di vita precedente, nei minimi dettagli, possa essere oggetto di drastiche condanne e ferrei regolamenti, è qualcosa di impensabile. Tra tante dominazioni, mai ce n’è stata una che abbia preteso di entrare nella vita del vicolo, nel cortile, a decidere tra moglie e marito come ci si debba comportare, a che santo sia giusto o meno votarsi, quali mosse siano consentite ai cocchieri per strada. […] E dire che Palermo e la terza città d’Italia per popolazione e la quarta in Europa per incremento di nati (dopo Londra, Vienna, Berlino).
Eppure, qualcosa fa si che il nuovo governo abbia in odio, in smisurato sospetto, i modi e le industrie del popolo siciliano […] Non contento di ciò, ha aggravato i dazi e le tasse impopolari e moltiplicato i servizi della guarnigione di polizia. Una cosa così non può essere a lungo sopportata e, appena sei anni dopo l’ingresso del Generale, la città insorge, per sette giorni, furiosamente.
Ci vuole l’aiuto delle guarnigioni napoletane per riportare la calma, e con essa il “cholera”. Il morbo percuote l’isola e si ferma lungamente a Palermo. Fa dimenticare tra le crudeltà altre crudeltà e rende un buon servigio ai nuovi amministratori, i quali proseguono nell’impresa certo ardua, ma senza dubbio modernizzatrice, di educare le plebi a nuovi costumi.
Come già prima della rivolta, anche dopo, con ancora più forza e arroganza, carabinieri, ufficiali e bandi intimano di stare in casa, di non sedersi per strada, di non pullulare per i cortili, di non svolgere alcuna attività industriosa al di fuori delle persiane della propria dimora. Come se quelle stanze fossero servite da sempre a questo, e non invece semplicemente a dormirvi e solo nella stagione fredda, come se non si sapesse che tutto il resto avveniva (come era stato per padri e nonni) all’aria aperta, dirimpetto ai vicini, sul selciato e sui ballatoi, tra le pergole e i santi. E gli stessi santi e madonne vengono proibiti nella guerra baggiana condotta ai frati e alla religione da un popolo lontano che adesso governa e nutre interesse per le proprietà dei preti.
[…] I lunghi elenchi di ciò che è ora proibito e consentito vanno ben oltre la rivolta, il colera, la sua fine e il suo ritorno. Diventano la costante di un governo che sembra avere più a cuore questo della stessa riscossione di nuove tasse, che peraltro non mancano puntualmente di esacerbare gli animi.
Eppure, il progetto della nuova municipalità e molto chiaro e ambizioso: trattare la città come uno stato di emergenza patologico. Disciplinare le sue moltitudini e il primo compito da svolgere, ricorrendo alle tecniche igieniche e di polizia che in quel momento, in tutta Europa, si vanno affinando.
[…] Nel 1888, un regolamento di igiene che corona vari tentativi precedenti si apre con la proibizione di «andare in giro nudi o seminudi» (in una città di mare dove le abitudini e le attività danno occasione di mostrarsi ben oltre il polpaccio). Ma viene anche vietato di “pettinarsi e pettinare” o di «tosare pecore per la pubblica via»; o ancora di «asciugare panni
per le strade, stendere o sciorinare biade, salami o sostanze di qualunque specie che per fermentazione, putrefazione o altra causa tramandino fetide e nocive esalazioni». Non si può più tagliar legna dinanzi alla porta, ne ferrare o curare un cavallo «in vista del pubblico». E’ proibito lasciar vagare polli, oche e anatre.
Viene colpito, insomma, tutto il regime di sussistenza, reso illegale ogni atto “produttivo” esercitato nel proprio ambito di vita. Ora, «salare i pesci entro la città e altresì prosciugarli innanzi le porte di entrata, nonché le finestre e nei balconi» è vietato per misura igienica e per prevenire miasmi contagiosi.
[…] Più avanti, con altri regolamenti, si colpirà il lavoro di singole corporazioni, troncando il legame tra esso e la sua “residenzialità”: «Viene fatto divieto ai bottai di stare in via dei bottai». Sarà d’ora in avanti il sindaco che provvederà a destinare «un luogo apposito, a tempo debito, fuori città». L’intera economia sociale, strada per strada, insieme ai legami che essa sosteneva e da cui era sostenuta, vengono cosi scardinati. E’ lo stesso effetto ottenuto con l’abolizione dei diritti comuni e degli abusi civici nelle campagne dell’isola. Si capisce perché gli anni della fine del secolo siano gli anni della miseria nera, della mafia che comincia, della spaventosa emigrazione2.

Chi scrive deve, a questo punto, scusarsi con l’autore per la lunghissima citazione ma, d’altro canto, la stessa si è resa necessaria al fine di far comprendere ai lettori il legame strettissimo che intercorre tra l’uso delle leggi e dei regolamenti urbanistici e sanitari e la rimozione delle abitudini e forme di resistenza e sopravvivenza comunitarie. E’ qualcosa che va al di là dei concetti di classe e lotta di classe, i quali, a loro volta, finiscono col rivelarsi più di carattere sociologico e generalizzante che non realmente utili per la piena comprensione delle contraddizioni scatenate dall’uso capitalistico degli spazi, del lavoro umano, dell’ambiente e delle trasformazioni dell’economia e della tecnica. Così come finiscono col rivelarsi riduttive anche le categorie, oggi fin troppo abusate, di popolo e nazione.

Anche se il testo di La Cecla porta ancora alla luce una infinita varietà di esempi, casi e problemi collegati al tema della funzione “modernizzatrice” dell’urbanistica borghese, quanto è stato fin qui detto può benissimo funzionare come sunto di un’opera che della critica della trasformazione dell’intero spazio sociale in “non luogo”, in un’accezione ben più ampia di quella suggerita originariamente da Marc Augé, in cui perdersi, sia soggettivamente che collettivamente, fa il suo obiettivo centrale e importantissimo.

Non soltanto però, poiché è possibile leggere in filigrana nelle pagine di La Cecla un uso della scienza e del progresso in chiave ricattatoria e fobica che richiama l’attenzione, soprattutto in un periodo in cui l’evidente emergenza pandemica è stata utilizzata prima di tutto per ristrutturare il lavoro e ridefinirne le sue condizioni, mentre classi sociali un tempo sicure del proprio tenore di vita hanno visto sgretolarsi sotto i loro occhi e sotto i colpi delle misure anti-Covid le proprie certezze e abitudini.

Alla metà degli anni sessanta, nel pieno della guerra del Vietnam, una grande e misconosciuta folksinger americana, Hedy West, fu la prima ad affermare che in futuro “We’ll be controlled by manipulated fear”, saremo stati controllati attraverso l’uso della paura. Negli ultimi vent’anni, ma forse anche già da molto tempo prima, tale ipotesi è stata pienamente confermata dalle politiche di sicurezza e salute pubblica messe in atto dai governi, soprattutto nei paesi considerati “avanzati”.


  1. F. La Cecla, Mente locale, Elèuthera 2021, pp. 56-58  

  2. F. La Cecla, op. cit., pp. 117-123  

]]>
Una nuova elettricità https://www.carmillaonline.com/2021/04/28/una-nuova-elettricita/ Wed, 28 Apr 2021 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65907 Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, pp. 224, 20 euro

Ancora una volta la piccola, ma sempre interessante, Krisis Publishing di Brescia coglie nel segno con un testo sugli sviluppi attuali dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nei settori della comunicazione, dell’economia, della conoscenza e dell’arte. Lo fa non accontentandosi però dei soliti luoghi comuni a favore o contro lo sviluppo dei sistemi relazionali o di controllo resi possibili dalla stessa, ma sottolineando in maniera particolare il conflitto o i conflitti che derivano dal [...]]]> Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, pp. 224, 20 euro

Ancora una volta la piccola, ma sempre interessante, Krisis Publishing di Brescia coglie nel segno con un testo sugli sviluppi attuali dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nei settori della comunicazione, dell’economia, della conoscenza e dell’arte. Lo fa non accontentandosi però dei soliti luoghi comuni a favore o contro lo sviluppo dei sistemi relazionali o di controllo resi possibili dalla stessa, ma sottolineando in maniera particolare il conflitto o i conflitti che derivano dal suo uso.

Scrivono i due curatori nell’introduzione:

L’intelligenza artificiale (AI) occupa una posizione chiave nell’ecosistema culturale contemporaneo. È una risorsa fondamentale per interpretare il mondo e per interagire con le grandi architetture di dati che lo popolano.
Nel 2016, un’era geologica fa in questo ambito, Andrew NG, professore a Stanford ed ex direttore di Google Brain, ne celebrava l’imminente avvento: “Come l’elettricità ha trasformato quasi tutto cento anni fa, fatico ad immaginare un settore che non verrà trasformato dall’AI nei prossimi anni”. Ebbene, il cambio di paradigma previsto da NG sembra oggi essere già in atto. L’AI non riguarda più il nostro futuro, ed è impiegata negli ambiti più disparati dell’attività umana, dalla medicina all’industria, dalla finanza alla domotica, dal marketing alla guerra. Non solo: essa modella il modo in cui sperimentiamo il mondo. Reti neurali e algoritmi “intelligenti” sono ampiamente utilizzati per rilevare, classificare e mappare il nostro comportamento, riconoscere le nostre emozioni, e influenzare le nostre scelte. Lavorano come “curatori invisibili” 1, prescrivendo ciò che dovremmo vedere, ascoltare, leggere e comprare. Ci sorvegliano, plasmano la nostra comprensione della realtà sociale e politica, e contribuiscono in definitiva a costruire il nostro quadro cognitivo. Essi intervengono inoltre nella creazione, nella manipolazione e nella disseminazione dei media e dei dispositivi di interazione sociale.
Un simile cambiamento non è certo passato inosservato alle attenzioni della critica. Negli ultimi anni, un’intera generazione di artisti, ricercatori e professionisti ha indagato la natura dei sistemi AI e delle loro relazioni con i contesti in cui opera2.

Proprio per questo motivo, in questo primo volume, i due curatori si sono avvalsi dei testi prodotti da FINN BRUNTON che insegna Media, Culture and Communication alla NYU Steinhardt dove si occupa di storia e teoria dei media digitali; KATE CRAWFORD, ricercatrice presso il Microsoft Research Lab e co-fondatrice dell’AI Now Institute della New York University, il primo istituto universi­tario dedicato alla ricerca sulle implicazioni sociali dell’intelligenza artificiale; SOFIA CRESPO, un’importante artista nel campo dell’arte AI; VLADAN JOLER insegnante presso il dipartimento di New Media (Università di Novi Sad), è a capo di SHARE Lab, un laboratorio di ricerca che esplora gli aspetti tecnici e sociali dello sfruttamento del lavoro digitale, delle infrastrutture invisibili e delle black box; LEV MANOVICH, uno dei più importanti teorici dei media studies; FEILEACAN MCCORMICK, un artista e ricercatore norvegese; HELEN NISSENBAUM, insegnante presso il Dipartimento di Scienze dell’Informazione della Cornell University; TREVOR PAGLEN, artista e ricercatore statunitense il cui lavoro si muove tra i confini di scienza, arte, giornalismo e tecnologia; MATTEO PASQUINELLI docente di Filosofia dei media all’Università di Arte e Design di Karlsruhe; SALVATORE IACONESI e ORIANA PERSICO che sono autori di diverse performance, pubblicazioni e opere esposte in tutto il mondo e lavorano insieme dal 2006; EYAL WEIZMAN che insegna Spatial and Visual Cultures presso la Goldsmiths University of London.

Come suggerisce il titolo, è il conflitto a dominare il discorso, nelle varie forme che è destinato ad assumere con l’applicazione dell’AI nel contesto di un capitalismo globalizzato che, più che tardo come qualcuno si ostina a chiamarlo oppure neo-liberale, si rivela semplicemente ancora una volta capace di trasformare, sempre più in profondità, le relazioni tra individuo e società, società e ambiente, conoscenza e controllo sociale, in funzione di un’accumulazione che sembra non potersi mai fermare. Una ricerca esasperata di nuove forme di estrazione di plusvalore e plusvalenze che stravolge tutti gli assetti economico-sociali e cognitivi, dal rapporto sempre più distruttivo con l’ambiente alle forme di conoscenza che ne derivano.

L’immagine dell’AI come un’ingombrante scatola nera che si inserisce nel tessuto ambientale e sociale globale introduce il terzo termine che dà titolo a questo volume. All’interno dei dispositivi e delle infrastrutture AI si nascondono infatti innumerevoli conflitti che, come abbiamo detto, investono l’intero ecosistema contemporaneo. La dimensione politica dell’AI va intesa come un campo di forze attraversato da vettori umani e non umani che, spesso in contrasto tra loro, generano frizioni, tensioni e conflitti: “l’intera
Realtà (proprio come la Storia) è un campo di battaglia, in cui miriadi di agency sono perennemente in lotta per affermare nuovi sistemi di interdipendenza”.
[…] Il primo conflitto ad emergere dal tentativo sopra descritto riguarda le condizioni, materiali e non, che abilitano l’ecosistema dell’AI. La comunità scientifica ha ricondotto l’emergere prepotente dell’intelligenza artificiale negli ultimi 20 anni ad almeno due recenti eventi significativi: l’aumento esponenziale della capacità di calcolo, grazie soprattutto allo sviluppo di schede video di nuova generazione, e l’enorme disponibilità di informazioni verso cui la computazione viene rivolta. Entrambi questi accadimenti affondano le proprie radici nello sviluppo industriale del XIX secolo e si sono consolidati nel corso del XX in due forme diverse, ma affini, di estrattivismo.
L’industria dell’hardware, necessaria ad alimentare i processi di apprendimento, è il prodotto dell’estrattivismo materiale, analizzato soprattutto nel saggio di Crawford e Joler. Come dimostra il caso del palaquium gutta riportato nel loro Anatomia di un sistema AI, lo sfruttamento delle risorse materiali — con conseguente distruzione di interi ecosistemi e interruzione di processi geologici millenari — non è solo un prodotto dell’infrastruttura AI: è condizione imprescindibile per la sua stessa esistenza. Visualizzare l’anatomia di un assistente vocale domestico e le storie di sfruttamento che vi si annidano diventa dunque un atto insieme linguistico e politico, che coinvolge cioè la sua narrazione e la nostra possibilità di comprenderlo e metterlo in discussione. È un gesto, questo, che si pone in aperta opposizione con “la metafora eterea del ‘cloud’” e che cerca invece di far emergere “la realtà fisica delle estrazioni minerarie e dell’espropriazione di intere popolazioni che la rendono possibile” (p.61).
L’industria che gravita intorno alla produzione, alla raccolta e alla distribuzione dei dati si rifà invece ad un altra forma di estrattivismo. Un estrattivismo cognitivo si sovrappone a quello materiale. Anche se il primo data center venne costruito nel 1965, è con la nascita e l’esplosione di massa del World Wide Web che vengono creati i presupposti per la società dei big data. Da allora, in pochi decenni la produzione di dati è diventata un’attività parassita, che si annida in qualsiasi ambito dell’agire umano: dalla tessera fedeltà del supermercato all’abbonamento alla metropolitana, dall’account su un social network al navigatore GPS. Ciascuna di queste attività genera dei dati che “possono essere impacchettati, venduti, raccolti, organizzati e acquisiti in molti modi, e infine riutilizzati per ragioni di cui noi, i sorvegliati, non siamo a conoscenza e a cui non abbiamo dato approvazione” (p.117). Nel loro saggio, Brunton e Nissenbaum ci mettono in guardia di fronte alle condizioni di profondo disequilibrio che sempre accompagnano questo tipo di attività: una asimmetria sia epistemica (“non sappiamo cosa ne sarà delle informazioni prodotte attraverso questo processo, né dove andranno o quale sarà il loro utilizzo”) che di potere (“raramente possiamo decidere se essere monitorati o no, cosa succede alle informazioni che ci riguardano e cosa accade a causa di queste informazioni”, p.118).
Appare dunque chiaro come l’emergere delle tecnologie AI sia già inscritto all’interno di un campo di forze che si articola secondo il modello dell’estrattivismo. Secondo Sandro Mezzadra e Brett Nielson3 esso costituisce il paradigma dello sviluppo capitalista e neoliberista del XXI secolo, e ci costringe a estendere il concetto stesso di estrazione per considerare “non solo l’appropriazione delle risorse naturali, ma anche, e per certi versi soprattutto, i processi che sfruttano la cooperazione umana e l’attività sociale”4.


  1. “The invisible curation of content. Facebook’s news feed and our information diets”, World Wide Web Foundation (aprile 2018), https:// webfoundation.org/research/ the-invisible-curation-of-con­tent-facebooks-news-fe­ed-and-our-information-diets/  

  2. Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Una nuova elettricità, introduzione a F. D’Abbraccio, A. Facchetti (a cura di), AI & Conflicts Volume 1, Krisis Publishing, Brescia 2021, p. 13  

  3. Sandro Mezzadra e Brett Nielson, On the multiple frontiers of extraction: excavating contemporary capitalism, Cultural Studies 31 (2017), pp.185-204  

  4. F. D’Abbraccio, A. Facchetti, op. cit., pp. 20-23  

]]>
Per Murray Bookchin, a cento anni dalla nascita (e a quindici dalla sua morte) https://www.carmillaonline.com/2021/03/10/per-murray-bookchin-a-cento-anni-dalla-nascita-e-a-quindici-dalla-sua-morte/ Wed, 10 Mar 2021 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65187 di Sandro Moiso

Murray Bookchin: L’ecologia della libertà, elèuthera, Milano 2020 (prima edizione 1988), pp. 560, 24,00 euro e Per una società ecologica, elèuthera, Milano 2021 (prima edizione 1989), pp. 240, 18,00 euro

Scriveva Murray Bookchin nella sua introduzione a Per una società ecologica: «Le idee fondamentali che ho sviluppato in quasi tutti i miei scritti sono riconducibili al concetto che la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali e che l’attuale disarmonia tra umanità e natura può essere ricondotta essenzialmente ai conflitti sociali». Basterebbero queste [...]]]> di Sandro Moiso

Murray Bookchin: L’ecologia della libertà, elèuthera, Milano 2020 (prima edizione 1988), pp. 560, 24,00 euro e Per una società ecologica, elèuthera, Milano 2021 (prima edizione 1989), pp. 240, 18,00 euro

Scriveva Murray Bookchin nella sua introduzione a Per una società ecologica: «Le idee fondamentali che ho sviluppato in quasi tutti i miei scritti sono riconducibili al concetto che la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali e che l’attuale disarmonia tra umanità e natura può essere ricondotta essenzialmente ai conflitti sociali». Basterebbero queste poche righe per comprendere l’importanza e la centralità dell’autore e militante anarchico statunitense all’interno della più ampia riflessione sui movimenti sociali, e ciò che li rende protagonisti anche della difesa dell’ambiente e delle altre specie, avvenuta nel corso degli ultimi trenta-quarant’anni.

In occasione del centenario della sua nascita la casa editrice elèuthera ha pertanto deciso di ristampare due delle sue opere più importanti, già precedentemente edite dalla stessa.
Non c’è mai in Bookchin la ricerca di una presunta e mitica età dell’oro in cui situare un paradiso perduto, probabilmente mai esistito nella storia della nostra specie una volta affacciatasi sul pianeta che ci ospita, ma piuttosto una nitida ricerca delle cause che hanno impedito alla stessa di stabilire un rapporto più equilibrato con l’ambiente e le sue risorse, soprattutto a partire dall’avvento della società capitalistica o ancor prima, più semplicemente, da quella divisa in classi, finalizzata al superamento cosciente e collettivo di ciò che ancora ci separa dal nostro essere natura.

Continuando con le sue stesse parole:

Non credo che si possa giungere ad un equilibrio tra umanità e natura se non si trova un nuovo equilibrio – basato sulla libertà dal dominio e dalla gerarchia – in seno alla società. Per l’appunto, ho chiamato ecologica questa nuova società ipotizzata e ho definito il mio pensiero come ecologia sociale. L’ecologia sociale non è né ecologia umana né ecologia profonda, termini e concezioni che tendono a deviare la nostra attenzione dagli aspetti sociali dell’attuale crisi ecologica. E’ necessario affrontare onestamente il fatto che, se non trasformiamo la società in senso libertario, gli atteggiamenti e le istituzioni che ci spingono follemente verso il disastro ecologico continueranno a operare, nonostante tutti gli sforzi messi in campo per riformare il sistema sociale dominante1.

Parole che si rivelano ancor più profetiche oggi, nel momento in cui la pandemia da Covid-19 ha portato con violenza alla ribalta il tema del rapporto della specie con l’ambiente che ha ri/creato attraverso il modo di produzione dominante e con tutte le altre forme di vita (virus compresi).
Idee che, indirettamente, sono state anche accolte nel testo che ha accompagnato l’invito all’assemblea on line di Rise Up 4 Climate Change, prevista per il 7 marzo di quest’anno (qui).

Idee, occorre dirlo, che bisogna oggi riscoprire anche a causa di un marxismo che, accecato dall’idea dello sviluppo delle forze produttive, ha potuto accantonarle e rimuoverle, per quasi tutto il secolo passato, dal suo percorso politico e ideologico, tranne che per alcuni rarissimi casi all’interno della Sinistra Comunista, ma che erano già presenti nell’opera giovanile di Marx (soprattutto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844).

Potrebbe sembrare qui fuori luogo reintrodurre il discorso sul marxismo e sul giovane Marx all’interno del ricordo di uno dei più importanti pensatori dell’anarchismo contemporaneo, ma si rende anche necessario ricordare ai lettori che Murray Bookchin ha avuto modo di percorrere da critico radicale quasi l’intero ‘900, confrontandosi con le principali ideologie del movimento operaio e militando all’interno delle sue due correnti principali, marxismo e anarchismo, in periodi differenti della sua vita.

E’ forse stato questo percorso a marcare la differenza della sua riflessione sul rapporto uomo-natura da quella di un altro importante esponente dell’anarchismo contemporaneo, John Zerzan, teorico del primitivismo. Mentre, infatti, l’ecologia sociale di Bookchin costituisce un primo punto di arrivo di un’evoluzione della specie, non soltanto biologica o tecnologica ma innanzitutto politica, destinato a migliorarne la vita senza abbandonare i risultati più significativi delle conoscenze acquisite nelle epoche precedenti, per il secondo si tratta di abbandonare tout court la civiltà per tornare alle primitive radici della società umana in cui la specie si confondeva con le altre, senza alcuna linea di demarcazione culturale e sociale.

La distanza tra i due pensatori è però meno grande di quanto si potrebbe in un primo momento supporre, come dimostrano le domande e le proposte che Bookchin poneva alla base del suo Per una società ecologica, ancora estremamente attuali e pertinenti:

L’interesse generale che deve stare alla base del nuovo programma libertario va riformulato tenendo presente quello che invece è il limite certo del capitalismo: il limite ecologico che il mondo naturale oppone alla crescita incontrollata. E se questo interesse generale può incarnarsi in una richiesta non gerarchica, questa è la richiesta femminile di una sostanziale uguaglianza dei disuguali, che espande gli ideali di libertà. Il punto è se il movimento ecologista e quello femminista saranno in grado di farsi interpreti di questa sfida storica. In altre parole, se sapranno estendersi fino a divenire un movimento sociale, dando vita ad una New Left libertaria che parli di un interesse umano generale, o se viceversa si frammenteranno in una molteplicità di interessi particolari dediti al parlamentarismo riformista, al misticismo nelle sue varie forme, allo sciovinismo sessuale.
Infine, qualunque sia stata in passato la prospettiva che presiedeva alla costruzione di una società libera ed ecologica, è certo che oggi questa società non potrà essere costruita se l’umanità non abbandona il concetto borghese di abbondanza e questo perché l’abbondanza è accessibile a tutti. Non viviamo più in un mondo che valuta più il dono dell’accumulazione di ricchezza, o dove ci sono vincoli morali che limitano la crescita. Il capitalismo ha distorto i valori del mondo antico a un punto tale che solo la prospettiva dell’abbondanza può eliminare il consumo insensato e insieme il senso di penuria esistente presso i ceti meno privilegiati […] Abbiamo di fronte non solo l’esigenza di migliorare la società, o modificarla, ma la necessità di ricostruirla. Le crisi ecologiche che dobbiamo affrontare e i conflitti sociali che ci hanno travolti (e che hanno trasformato il ventesimo secolo nel secolo più sanguinario della storia) possono essere risolti soltanto se riconosciamo che ciò che viene qui messo in discussione è la civiltà dominante e non semplicemente un assetto sociale malamente organizzato2.

Anche nel suo testo L’ecologia della libertà Bookchin aveva sviluppato, senza intermittenze e contraddizioni, la riflessione sul legame che intercorre tra lo sviluppo capitalistico, appropriazione privata della ricchezza sociale e della terra, potere, gerarchie politiche, di genere e appartenenza etnica e la catastrofe ambientale (e sociale) che sembra attendere la nostra specie nell’immediato futuro.

Non è più possibile, oggi, considerare i problemi ecologici poco importanti, marginali, «borghesi». I dati sull’incremento planetario delle temperature dovuto al crescente tasso di anidride carbonica nell’atmosfera (il cosiddetto effetto serra) […] e l’inquinamento massiccio degli oceani, dell’aria, dell’acqua e del cibo, la diffusa deforestazione causata dalle piogge acide e dai tagli insensati, la disseminazione di materiale radioattivo lungo la catena alimentare…tutto ciò ha dato all’ecologia un’importanza che non ha mai avuto in passato. La società attuale sta danneggiando il pianeta a livelli tali da superare le sue capacità di auto-risanamento. Ci stiamo sempre più avvicinando al momento in cui il pianeta non sarò più in grado di mantenere la specie umana e le complesse forme non umane di vita che si sono sviluppate in miliardi di anni di evoluzione organica.
Ora, di fronte a questo scenario catastrofico, c’è il rischio (a giudicare dalle tendenze in atto in Nord America e in alcuni paesi dell’Europa occidentale) che ci si volga a curare i sintomi anziché le cause, che la gente impegnata ecologicamente cerchi soluzioni cosmetiche anziché risposte durevoli. Certo, la crescita dei movimenti verdi un po’ in tutto il mondo, compreso il Terzo Mondo, testimonia dell’esistenza di un nuovo impulso ad occuparsi correttamente del disastro ecologico. Ma ciò che appare sempre più chiaro è che non basta certo dare un «impulso». Per quanto sia importante fermare la costruzione di nuove centrali nucleari, di autostrade, di grandi agglomerati urbani o bandire l’uso di sostanze chimiche micidiali in agricoltura e nell’industria alimentare, bisogan rendersi conto che le forze che conducono la società verso la distruzione planetaria hanno le loro radici in un’economia mercantile da «crescere-o-morire», in un modo di produzione che deve espandersi in quanto sistema concorrenziale. Quello che è in ballo non è una semplice questione di «moralità», di «psicologia», di «ingordigia». Dato un mondo concorrenziale […] in cui ogni impresa deve espandersi in un contesto economico di cane-mangia-cane, la crescita illimitata è inevitabile. Essa acquisisce l’inesorabilità di una legge fisica che funziona indipendentemente dalle intenzioni individuali, dalle propensioni psicologiche, dalle considerazioni etiche3.

Basterebbe aggiungere ancora, all’elenco fatto da Bookchin, l’auto elettrica e l’uso smodato di farmaci e vaccini, in nome di una scienza completamente asservita alle esigenze del mercato e di una medicina dedita quasi esclusivamente alla cura dei sintomi più che delle cause della malattia, per completare e aggiornare il quadro di riferimento. Ma quanto fino ad ora riportato dimostra soprattutto l’estrema attualità e utilità del pensiero dell’anarchico americano all’interno della riflessione e dell’azione necessarie a modificare le condizioni dei rapporti di classe attuali all’interno della nostra specie e del rapporto tra questa e le altre e il mondo circostante. Tanto da poterci far, ancora e sempre, esclamare: Compagno Bookchin, presente!

N.B.
Per il centenario di Bookchin, l’Archivio Pinelli ha realizzato questo video.


  1. Murray Bookchin, Perché ho scritto questo libro, introduzione a Per una società ecologica, elèuthera, Milano 2021, pp.7-8  

  2. Murray Bookchin, Per una società ecologica, pp. 196-197  

  3. Murray Bookchin, Prefazione all’edizione italiana (1988) di L’ecologia della libertà, elèuthera, Milano 2020, pp. 7-8  

]]>
La via dell’aceto e la strada della lotta https://www.carmillaonline.com/2021/02/14/la-via-dellaceto-e-la-strada-della-lotta/ Sun, 14 Feb 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64855 di Sandro Moiso

Chiara Sasso, A Testa Alta. Emilio Scalzo, Prefazione di Livio Pepino, Postfazione di Nicoletta Dosio, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2020, pp. 134, 10,00 euro

Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. (L’estate del 1964 – S. M.)

La valle di Susa e i suoi resistenti della lotta No Tav sono stati percossi, intimiditi, perseguitati, imprigionati, molestati, minacciati, uccisi, denigrati, insultati, processati, multati, pestati a sangue, controllati, incriminati, allontanati, reclusi nelle proprie abitazioni, repressi (ma mai depressi), vivendo [...]]]> di Sandro Moiso

Chiara Sasso, A Testa Alta. Emilio Scalzo, Prefazione di Livio Pepino, Postfazione di Nicoletta Dosio, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2020, pp. 134, 10,00 euro

Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. (L’estate del 1964 – S. M.)

La valle di Susa e i suoi resistenti della lotta No Tav sono stati percossi, intimiditi, perseguitati, imprigionati, molestati, minacciati, uccisi, denigrati, insultati, processati, multati, pestati a sangue, controllati, incriminati, allontanati, reclusi nelle proprie abitazioni, repressi (ma mai depressi), vivendo ormai da almeno trent’anni in una sorta di lockdown permanente e di bolla spazio-temporale militarizzata che invece di piegarli non ha fatto altro che rafforzarne sempre più la vitalità, l’energia e le convinzioni.

Per comprendere come questo sia stato possibile, sia a livello individuale che collettivo, si rende assolutamente necessaria la lettura del testo appena pubblicato di Chiara Sasso, dedicato alla ricostruzione della vita e delle “avventure” di Emilio Scalzo, forse più noto come Emilio “il pescivendolo”, uno dei militanti più conosciuti e colpiti da provvedimenti giudiziari del movimento di resistenza valsusino.

Vorrei qui soffermarmi per una breve riflessione proprio su quest’ultima definizione poiché, anche se il movimento popolare della Valsusa ha preso le mosse e continua a battersi principalmente per impedire la realizzazione dell’orrenda e devastante operazione meglio nota come nuova linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, nel corso degli anni gli obiettivi delle sue lotte e della sua critica sono andati ben oltre i limiti spaziali della Valle e gli aspetti economico-mafiosi della grande opera da realizzarsi in loco.

Trent’anni di lotte e riflessioni hanno infatti “materialisticamente” costretto gli abitanti della Valle e coloro che fin dall’inizio li hanno appoggiati a spingere lo sguardo ben oltre quello che avrebbe potuto essere soltanto, come in altri casi, il giardino di casa. La coabitazione tra specie e Natura, tra Uomo e Ambiente e la correlazione tra salute ambientale e salute sociale (ancora così tanto rimossa dal dibattito politico pubblico anche in occasione dell’attuale pandemia) sono diventati da subito argomenti importanti a sostegno delle ragioni della lotta. Così come lo stretto legame tra capitale, mafie politiche ed economiche e grandi opere ha contribuito a dimostrare l’ultima, vera essenza di una società che si rivela sempre meno perfettibile e che è sempre più necessario combattere respingere in ogni suo aspetto, sia politico-economico che di riproduzione della vita.

Emilio, con i suoi 65 anni e i 26 provvedimenti giudiziari che lo riguardano, costituisce un bel campione (in altri ambienti si direbbe case study) per comprendere la forza e l’evoluzione di questo movimento, esemplare ed eroico. Si badi bene non c’è alcun intento retorico nell’uso di questi ultimi due aggettivi, al contrario assolutamente necessari per descrivere le vite, le lotte delle e dei militanti No Tav e la loro esperienza umana e politica.

Ce lo raccontano in questi giorni le vicende delle detenute resistenti nel carcere delle Vallette, ce lo dimostrano i giovani asserragliati da mesi e con ogni clima presso i Mulini della Val Clarea, ce lo dicono i giovani occupanti del presidio di San Didero, dove la grande opera inutile cercherà di allungare i propri tentacoli nelle prossime settimane o mesi. Prima con gli espropri e poi con il tentativo di realizzare un autentico fortino dedito a controllare il centro della Valle.

Ma torniamo a Emilio e alla sua vita, iniziata il 5 maggio (come per una reminiscenza manzoniana di grandi personaggi) 1955 a San Cataldo in Sicilia. In una famiglia di umili condizioni, ma orgogliosa di carattere, che affronterà come moltissime altre la necessità di spostarsi al Nord per motivi economici e l’impossibilità di garantire ai figli un percorso completo di educazione scolastica.
Emilio inizierà infatti a lavorare molto presto, proprio per essere di sostegno, e, anche se per i fratelli che intraprenderanno la “strada dell’aceto” ovvero della delinquenza e della violenza questo potrebbe non essere del tutto vero, a raccogliere per strada un altro tipo di educazione alla vita che comunque mai nessuna scuola, statale o meno, avrebbe potuto altrettanto garantirgli.

Una vita in cui, comunque, il coraggio e la forza fisica contano come il saper leggere e scrivere, soltanto utilizzando un diverso tipo di quaderni e di grammatiche. Quaderni in cui le righe sono costituite dalle prevaricazioni subite dai più deboli, dal punto di vista socio-economico, del genere e dell’etnia di appartenenza, e le grammatiche dalle logiche, strettamente individualiste oppure rette da un più alto senso etico e morale, messe in atto per esprimere ciò che si vuole. D’altra parte, senza scadere in una sorta di darwinismo sociale, è chiaro che un mondo che si regge sugli odi, le differenziazioni di classe, genere, nazione e razza e sulla violenza più o meno legale degli apparati di controllo e giurisdizione statali non può che far sorgere spontaneamente dal basso una reazione uguale e contraria che, però, non essendo indirizzata ad un unico scopo (la valorizzazione del capitale in ogni suo aspetto per la higher class nel suo insieme) può dar vita a percorsi non solo diversi, ma anche divisivi e contrari.

Emilio giunge in Piemonte nel 1968. Ha tredici anni è ha già accumulato l’esperienza di vita in una Sicilia dove

Lo Stato non aveva nessuna forza, non esisteva. Quattro carabinieri che stavano rintanati in caserma, a volte uscivano a cavallo per battere la campagna. Ma un giorno il marresciallo non tornò più e non trovarono neppure più il suo cavallo. Chi lo sostituì pensò bene di farsi gli affari suoi e di occuparsi delle carte. La mia famiglia non era mafiosa, non apparteneva a nessuna cosca, per niente, ma viveva in un contesto dove tutto era molto promiscuo1.

Sarà per questo che confessa di non tornare volentieri nella regione d’origine, nonostante i drammi, la fatica, le delusioni che spesso lo circonderanno lungo il suo percorso.
Percorso che, va qui però detto, è sempre affrontato con slancio ed entusiasmo vitale, che fanno sì che più che di disavventure il racconto ci lasci in bocca il sapore di un’unica, lunga avventura.
Narrarla tutta sarebbe qui inutile, poiché si vuole lasciare al lettore il piacere di scoprire il gusto della militanza e della sua scoperta, a patto che lo stesso, come Emilio, sappia sempre da che parte stare e quale parte scegliere, al di là dell’interesse personale o famigliare.

Come ricorda Nicoletta Dosio nella sua postfazione

Emilio ci racconta la sua vita con semplicità e sincerità, anche quando essere sinceri costa sacrificio.
«I miei fratelli mi prendevano in giro: noi siamo lupi, tu sei un sanbernardo». Una metafora perfetta per definire Emilio: forte e generoso, pronto ad intervenire in difesa dei più deboli, senza arretrare mai2.

Chiara Sasso ha raccolto la testimonianza di Emilio durante gli arresti domiciliari di quest’ultimo e ha avuto il merito di lasciar spesso scorrere il discorso attraverso le parole del protagonista di una vita sempre rivolta al prossimo: che si trattasse di ingiustizie sul luogo di lavoro, della lotta NoTav o del sostegno attivo ai migranti in cui si è sempre distinto.

Ciò che vien da suggerire alla brava autrice, in un contesto valligiano, in particolar modo legato a Bussoleno, in cui numerose e numerosi militanti si trovano attualmente in carcere o agli arresti domiciliari (non si offendano se qui, per ragioni di spazio, non li cito tutti per nome e cognome), è quello di non lasciare che questa biografia di Emilio costituisca un unicum, ma piuttosto far sì che diventi il primo volume di una serie dedicata ad un’autentica storia orale dei protagonisti, conosciuti e meno, delle vicende degli ultimi trent’anni, andando a ricostruire nel dettaglio un’autentica storia dal basso che la storiografia accademica sembra da tempo aver dimenticato o rimosso. Troppo esplosiva, troppo “calda”, troppo pericolosa da maneggiare nei polverosi manuali di Storia, anche quando sono magari nati con i migliori intenti.

Avanti NO Tav!


  1. Chiara Sasso, A Testa Alta. Emilio Scalzo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2020, p. 17  

  2. Nicoletta Dosio, Postfazione in C. Sasso, op. cit., p. 117  

]]>
Pandemia, economia e crimini della guerra sociale. Stagione 2, episodio 2: il falò delle vanità https://www.carmillaonline.com/2021/01/31/pandemia-economia-e-crimini-della-guerra-sociale-stagione-2-episodio-2-il-falo-delle-vanita/ Sun, 31 Jan 2021 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64697 di Sandro Moiso

“Possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.” [Ottimismo (malgrado tutto) – Noam Chomsky]

Il falò della vanità della scienza medica (al servizio del capitale)

Ormai più di un mese fa, domenica 27 dicembre, avrebbe dovuto avere inizio la terapia miracolosa, sospesa tra interessi economici, miracoli degni del cinema di Vittorio De Sica, creduloneria mediatica e (pseudo) [...]]]> di Sandro Moiso

“Possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.” [Ottimismo (malgrado tutto) – Noam Chomsky]

Il falò della vanità della scienza medica (al servizio del capitale)

Ormai più di un mese fa, domenica 27 dicembre, avrebbe dovuto avere inizio la terapia miracolosa, sospesa tra interessi economici, miracoli degni del cinema di Vittorio De Sica, creduloneria mediatica e (pseudo) scienza. Successivamente i ritardi nelle consegne, gli ingarbugliati (a dir poco) contratti firmati dall’Unione Europea con le ditte produttrici, il malfunzionamento degli apparati sanitari preposti e l’incompetenza delle amministrazioni locali, basata su anni di tagli della spesa per la salute dei cittadini e di prevaricazioni politiche in nome dell’interesse privato sbandierati come “eccellenza sanitaria”, hanno finito col fare più danni di qualsiasi protesta No Vax1.

Come se ciò non bastasse anche il nazionalismo economico si è ritagliato il suo spazio vitale nella corsa ai vaccini così che, nonostante la contrarietà manifestata da numerosi virologi ed esperti (o almeno presunti tali)2, anche il governo italiano, insieme al suo commissario straordinario Arcuri, ha deciso di investire in patria per sostenere quello della Reithera, di cui non si conosce assolutamente il grado di efficacia e la cui prima consegna è stimata per l’autunno di quest’anno. Ma si sa…piatto ricco mi ci ficco!

Forse può essere sufficiente un titolo, pubblicato su Repubblica il 23 dicembre 2020, per svelare il tentativo di confondere le idee del pubblico sulle questioni legate alla pandemia, alla salute pubblica e al vaccino: Peste, colera e vaiolo. Tutte le volte che i vaccini hanno cambiato la storia. L’articolo, a firma di Corrado Augias, riportava correttamente che quello per il vaiolo, scoperto nella seconda metà del XVIII secolo ad opera del medico inglese Edward Jenner, fu il primo vaccino utilizzato per sconfiggere una malattia che a lungo ha afflitto l’umanità e che soltanto all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso è stata dichiarata sconfitta. Ma il titolo sembra suggerire che anche altre gravi malattie epidemiche, come la peste e il colera, siano state sconfitte dall’invenzione di vaccini ad hoc.

In realtà, come già si è riportato in una precedente recensione pubblicata qui su Carmilla, per fare i conti con le grandi epidemie manifestatesi nella storia della nostra specie occorre ricordare che

Comprese in un arco cronologico esteso dall’antichità greca e romana ai primi decenni del XVIII secolo, le epidemie di peste coinvolsero in ogni epoca tutti i possibili aspetti della vita economica, politica, sociale, pubblica e privata, dando ampia materia di discussione a svariate discipline. La storia della medicina e quella sanitaria, la psicologia, la letteratura, la demografia, la storia economica e quella politica, hanno affrontato nel corso dei secoli questo tema affascinante e terribile, mettendo in evidenza impressionanti analogie.
E’ incredibile soprattutto constatare come, nonostante i progressi straordinari delle discipline mediche, gli strumenti a disposizione ai nostri giorni per la prevenzione delle epidemie siano ancora quelli elaborati nel ‘300 a partire dal Nord della Penisola (Milano, Firenze, Venezia, Genova, Lucca), recepiti tardi dal resto dell’Europa (tardissimo dall’Inghilterra), e adottai con successo fino al 17203.

Due scienziate e ricercatrici del King’s College di Londra e dell’università di Bristol, Caitjan Gainty ed Agnes Arnold-Forster, raccontano, poi, ancora un’altra storia. Ad esempio, anche sull’eradicazione del vaiolo – una spietata malattia virale provocata da due varianti del virus Variola, Variola maior e Variola minor, con un tasso di letalità del 30-35% – per la quale non è corretto affermare che solo i vaccini contro il vaiolo abbiano condotto alla sconfitta del patogeno, di cui l’ultimo caso venne diagnosticato nel 1977 in Somalia.
La malattia del vaiolo ha ucciso 300 milioni di persone solo nel corso del Novecento, prima di essere ufficialmente dichiarata eradicata l’8 maggio 1980, ma non ci si è arrivati da un giorno all’altro e non solamente attraverso la vaccinazione. Che è condizione necessaria ma non sufficiente di fronte a certe pandemie.
In un certo senso, dicono le due esperte, per quanto l’eradicazione della malattia sia appunto ricordata come la prova del definitivo successo dei vaccini, “non dovremmo dimenticare che il vaiolo ha imperversato per secoli prima di essere sconfitto”. I 150 anni seguenti alla prima inoculazione del vaccino da parte di Edward Jenner sono stati contraddistinti dalle preoccupazioni sull’efficacia del vaccino, dalla sicurezza e dagli effetti collaterali e ancora nel 1963 i medici britannici erano allarmati dalla scarsa adesione alla vaccinazione rutinaria contro il vaiolo, avvertendo che questa indifferenza avrebbe richiesto un vasto programma rieducativo4.

Basterebbe poi scorrere le pagine di un qualsiasi manuale di Storia delle scuole superiori per venire a sapere che, ad esempio, la peste è stata sconfitta soltanto da un miglioramento delle condizioni di vita (igieniche ed alimentari) anche se oggi non è stata debellata del tutto. Mentre il colera si annida proprio laddove ancora regnano miseria, scarsa igiene e cattiva alimentazione. Tutti e tre elementi più legati alla povertà che a fattori “naturali”.

A ricordacelo, per esempio, è stato anche Richard Horton, direttore della celebre rivista scientifica “The Lancet”, tra le cinque più autorevoli al mondo, secondo il quale:

Abbiamo ridotto questa crisi a una mera malattia infettiva. Tutti i nostri interventi si sono concentrati sul taglio delle linee di trasmissione virale. La “scienza” che ha guidato i governi è composta soprattutto da epidemiologi e specialisti di malattie infettive, che comprensibilmente inquadrano l’attuale emergenza sanitaria in termini di peste secolare. Ma ciò che abbiamo imparato finora ci dice che la storia non è così semplice. Covid-19 non è una pandemia. È una sindemia.

Aggiungendo poi ancora:

Il particolare svantaggio dei ceti meno abbienti e istruiti è stato certificato dalle analisi sui morti condotte negli Stati Uniti e in America Latina, dove decessi e contagi risultano prevalenti tra comunità afroamericane e minoranze. E anche dai dati dell’Istituto nazionale di statistica italiano: a partire dai mesi primaverili del 2020 è stato registrato un aumento dell’incidenza della mortalità tra le persone meno istruite rispetto a quelle più istruite. Nelle donne, il divario porta alla situazione per cui ogni 4 decedute meno istruite ne muoiono 3 con un grado di istruzione superiore, riporta l’Istat.
Le misure restrittive decise dai governi inoltre possono creare un vero e proprio circolo vizioso che riduce i redditi già bassi, diminuendo contemporaneamente condizioni di lavoro e aspettative di vita dei più deboli5.

«Parlare solo di comorbilità è superficiale», ammonisce lo scienziato.
Soprattutto, se i programmi per contrastare l’attuale epidemia, o quelle successive, non terranno conto di fenomeni come la crescita dell’inquinamento, degli effetti della povertà sulla salute psico-fisica e della mancanza di investimenti in sanità pubblica e della diffusione di malattie come obesità, diabete, malattie cardio-vascolari, respiratorie e cancro, questi programmi saranno destinati al fallimento, perché non potranno mai garantire la salute di tutti..

Certamente, il direttore di una delle più autorevoli riviste scientifiche, che al problema sindemia, ovvero quella sovrapposizione di elementi patogeni, degrado ambientale e socio-economico in grado di scatenare nuovi eventi epidemici a partire dal rafforzamento e dall’aggravamento di ognuno dei tre fattori, dedica da diverso tempo una notevole attenzione (qui), non potrà essere accusato di essere un No Vax, termine che sembra oggi definire il campo del “nemico” ogni qualvolta una voce si levi per collegare l’attuale pandemia e i suoi rimedi miracolosi, sia in campo economico (Recovery Fund, Mes, bonus, etc.) oppure scientifico (gli infiniti vaccini promessi e promossi dai governi, dall’industria farmaceutica e dai cittadini di “buona volontà” di ogni colore e risma), alle strutture sociali e ai risvolti climatici, ambientali e medici che queste portano con sé, ma occorre anche dire che non abbiamo mai sentito, in questi lunghi mesi, a livello politico e mediatico ufficiale qualcuno che affrontasse la questione in tali termini.

Anzi, sia il Cnr che l’Arpa Lombardia si sono sforzati di dimostrare, ancora nei primi giorni di gennaio che l’inquinamento non avrebbe nulla a che fare con la diffusione del/dei virus6. Si parla qui di virus al plurale poiché l’esplosione delle varianti scoperte dalla Gran Bretagna al bresciano passando per il Sud Africa e il Brasile, pur ammessa la profonda similitudine all’interno delle stesse, permette ragionevolmente di credere che l’evoluzione del virus sia piuttosto rapida e, nonostante tutte le rassicurazioni, destinata a sviluppare, come già sta accadendo, forme, forse meno letali, ma più aggressive in termini di infettività e in grado di limitare l’efficacia dei vaccini così rapidamente proposti dall’offerta commerciale delle grandi industrie farmaceutiche.

I “fattori naturali” entrano in gioco principalmente là dove la natura e l’ambiente sono stati stravolti e intossicati dall’incontrollabile sviluppo di quelle che un tempo anche la Sinistra chiamava “forze produttive”. Forze produttive il cui sviluppo ha sempre più rivelato l’autentico volto, fatto non soltanto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma anche di devastazione, sfruttamento e distruzione di quell’ambiente e di quelle risorse di cui la specie ha un estremo bisogno per sopravvivere.

Come ha affermato David Quammen, autore del noto ed inizialmente citatissimo Spillover (Adelphi, Milano 2012), ma oggi (chissà perché) sempre meno citato:

Certi gruppi di virus si adattano e cambiano molto più velocemente degli altri. I più rapidi fanno parte di un gruppo di famiglie di virus noto come virus Rna a singolo filamento. Significa che i loro genomi sono composti di un singolo filamento della molecola Rna, invece che il Dna, che è a doppio filamento. Un genoma Rna a singolo filamento commette molti più errori quando si copia mentre i virus si stanno replicando: e quegli errori, che si chiamano mutazioni, sono le materie prime dell’evoluzione per selezione naturale. Il vecchio meccanismo di Darwin. Quindi questi virus Ss-Rna, in costante mutamento e adattamento, sono più capaci di trasferirsi a nuovi ospiti, come gli esseri umani, e proliferare. E tra i più noti virus Rna a filamento singolo ci sono i coronavirus […] siamo parte della natura, di una natura che esiste su questo pianeta e solo su questo. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo […] consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus.
Una soluzione? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse”7.

Gli esperti dell’Intergovernmental Science Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes – organismo itituito dalle Nazioni Unite per monitorare la biodiversità) ipotizzano che esistano attualmente da ottocentomila a un milione e settecentomila virus sconosciuti pronti a fare il salto di specie (zoonosi)8 con conseguenze sanitarie sempre più allarmanti, se la nostra società non deciderà di fermare la deforestazione, la cementificazione e l’urbanizzazione sempre più devastanti dei territori in ogni angolo del mondo cui si ricollegano sia il cambiamento climatico in atto che lo sviluppo di un’agricoltura sempre più intensiva.

Se la Scienza “ufficializzata” non vorrà farsi carico di tutto ciò, con un indirizzo chiaro, per continuare invece a servire la ricerca disperata di profitti ed investimenti del capitale in ogni campo, e non solo nel settore farmaceutico, è chiaro che qualsiasi serio discorso sulla diffusione del Covid-19 o di qualsiasi altro virus, sui suoi possibili rimedi e la difesa della salute pubblica rischia di essere castrato e ridotto, fin dalla partenza, ad una spettacolarizzazione di opinioni asservite e inutili, se non dannatamente pericolose per l’intera specie.

Quanto scritto fin qui va letto come ipotesi provocatoria poiché è chiaro a tutti, o quasi, che la struttura classista di una società fondata sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, delle risorse naturali e della conoscenza in nome dell’accumulazione di profitti e capitali non è certo favorevole ad un salto epocale come quello che sarebbe attualmente necessario.
Ma poiché chi scrive è ben lontano dalle posizioni No Vax e ancor meno è complottista, si rende necessario soffermarsi per un attimo su alcuni concetti.

Il capitale approfitta di qualsiasi occasione, ma non per istinto malevolo, piuttosto per sua intrinseca natura. Questo non vuol dire che il capitale e i suoi funzionari, governanti o imprenditori non importa in che ordine di importanza, siano in grado di affrontare o risolvere sempre qualsiasi situazione a proprio vantaggio, né che i suoi piani strategici siano di così lunga durata. Anzi occorre dire che la “continuità strategica” di certe azioni del medesimo, ad esempio le guerre imperialiste o di controllo dei mercati e delle materie prime, è dovuta più ad una errata percezione di azioni molto più vicine nel tempo di quanto si pensi, più che a reali strategie di lungo periodo. E di questo si deve rendere conto chi lo vuole osteggiare e inviare all’Inferno. Modificando una percezione del tempo che si presenta sempre più velocizzata e che nell’immaginario condiviso globalmente allontana gli avvenimenti grandi e piccoli come fossero sempre enormemente distanti, anche quando non lo sono. Un tempo percepito sulla base del qui, dell’adesso, dell’istante e del momento che impedisce di cogliere come siano i secoli e i millenni a scandire il tempo reale della storia della specie e del pianeta che abita. Che non corrisponde affatto a quello scandito dai media, dai social e dall’alta velocità come fine ultimo del cammino umano.

Le ipotesi espresse poco sopra sono poi confermate anche dagli ultimi dati forniti dall’Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief il nome esteso in inglese).

L’ultimo rapporto, intitolato non a caso “The inequality virus”, rivela con abbondanza di dati come la pandemia abbia “portato alla luce, nutrito e aumentato le disuguaglianze esistenti dal punto di vista della ricchezza, del genere e della razza”. Sono oltre due milioni le persone che nel mondo sono morte finora a causa del virus, e “in centinaia di milioni sono precipitati in povertà, mentre dall’altra parte della barricata i più ricchi del mondo – individui e società – stanno prosperando”, si legge nel report.
A partire dalla militarizzazione dei territori, delle decisioni politico-sanitarie e delle imposizioni cui i cittadini dovrebbero sottostare in tutti gli stati coinvolti. Accettarne compostamente e in silenzio le conseguenze, anche lavorative segnerebbe sicuramente un bel punto per il controllo capitalistico della specie e dell’ambiente negli anni a venire.
[…]L’87% degli economisti interpellati da Oxfam ritiene che il coronavirus porterà a un aumento delle disuguaglianze nel loro Paese, il 56% pensa che la pandemia peggiorerà le disparità di genere e oltre due terzi che porterà a maggiori disparità razziali. “Come una radiografia, il covid-19 ha rivelato le fratture nel fragile scheletro delle società che abbiamo costruito”, ha commentato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. “La pandemia sta portando alla luce ovunque errori e false convinzioni: come l’idea sbagliata che il mercato libero possa garantire a tutti le cure sanitarie, o ancora l’illusione di vivere in un mondo post-razzista o il mito in base al quale siamo tutti sulla stessa barca. In realtà stiamo navigando tutti nello stesso mare, ma è chiaro che qualcuno si trova su un super yacht, mentre molti altri non possono far altro che aggrapparsi ai relitti galleggianti”9.

Un altro esempio? Eccolo: mentre il rigoroso controllo degli spostamenti individuali prosegue, accompagnato da tutta una serie di limitazioni destinate ad impedire non l’affollamento nelle vie dei centri urbani o nei grandi centri commerciali per la celebrazione dei riti del consumo, ma l’eventuale adunata “sediziosa” di coloro che volessero organizzare resistenze e proteste, il governo ha tirato fuori dal cappello magico i 67 siti individuati per lo stoccaggio del materiale radioattivo formato dalle scorie nucleari provenienti dalle centrali di quel genere, forse non solo italiane (qui).

Si son levate le voci di sindaci e governatori regionali, preoccupati forse più per la salvaguardia del proprio serbatoio elettorale che per la salute dei cittadini e dell’ambiente, ma sembra difficile che chi abita quei territori possa nel giro di poco tempo mobilitarsi significativamente per opporsi alla proposta. Eppure, eppure…

Più che farsi sorprendere da ogni singola iniziativa gestionale o politico-economica del capitale e dei suoi servitori, come se queste costituissero costantemente una novità o un’emergenza assoluta (travisamento prospettico che regala al nostro avversario proprio il vantaggio su cui da sempre conta), si rende sempre più necessario anticiparne e prefigurarne le mosse e il destino, individuandone per tempo i punti deboli e le linee di frattura in cui poter inserire la leva adatta ad ampliarne le contraddizioni. Prima che questo riesca recuperare il tempo o il vantaggio, sempre e solo, momentaneamente perduto.

(2continua)


  1. Secondo i dati “reali” forniti dall’Iss e Istat, la campagna vaccinale in Italia, continuando di questo passo e anche senza tener conto del blocco del vaccino di AstraZeneca per gli over 65, potrebbe aver termine nel novembre 2025: Giampiero Maggio, Vaccini anti Covid, altro che marzo 2021: la campagna in Italia finirà a novembre 2025, “La Stampa”, 28 gennaio 2021  

  2. Gli scettici del vaccino italiano. “Due che funzionano già ci sono, che senso ha?”, “Huffpost”, 30 gennaio 2021  

  3. Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste, Editoriale Jouvence, Milano 2020, p. 13  

  4. Si veda: Simone Cosimi, Perché non bastano i vaccini per sconfiggere un virus, e varrà anche per il Covid-19, “Esquire”, gennaio 2021  

  5. Si veda ancora: Edmondo Peralta, “Covid-19 is not a pandemic”: non una pandemia, ma una “sindemia” (qui e qui)  

  6. Si veda, ancora: L’inquinamento non favorisce la diffusione del Covid: lo studio di Cnr e Arpa Lombardia (msn.com)  

  7. Si veda https://www.wired.it/play/cultura/2020/03/09/coronavirus-david-quammen-spillover-intervista/?refresh_ce  

  8. Si veda: Davide Michielin, Le nuove epidemie: dopo Covid quali sono i rischi per l’umanità, la Repubblica, 20/11/2020  

  9. Chiara Merico, Covid e disuguaglianze: i Paperoni hanno recuperato in 9 mesi, i poveri ci metteranno 10 anni. Italia, 10 milioni “senza rete”, “Business Insider Italia, 25 gennaio 2021  

]]>