Altertumswissenschaft – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 20 Aug 2025 18:30:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il corollario razzista e imperialista del mito della Frontiera https://www.carmillaonline.com/2025/08/20/il-mito-della-frontiera-e-il-suo-corollario-razziale/ Wed, 20 Aug 2025 18:30:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89654 di Sandro Moiso

David W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 336, 16 euro

Sull’importanza della Frontiera nella storia degli Stati Uniti e, soprattutto, per la creazione del mito americano non vi può essere più alcun dubbio. Questo assunto è d’altra parte facilmente verificabile a partire dall’opera di Frederick Turner, intitolata The Frontier in American History pubblicata nel 1953, che raccoglieva una serie di saggi dello stesso autore editi tra il 1920 e il 1947.

Come ben riassumeva Mauro Calamandrei nell’introduzione all’edizione italiana dello stesso testo [...]]]> di Sandro Moiso

David W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 336, 16 euro

Sull’importanza della Frontiera nella storia degli Stati Uniti e, soprattutto, per la creazione del mito americano non vi può essere più alcun dubbio. Questo assunto è d’altra parte facilmente verificabile a partire dall’opera di Frederick Turner, intitolata The Frontier in American History pubblicata nel 1953, che raccoglieva una serie di saggi dello stesso autore editi tra il 1920 e il 1947.

Come ben riassumeva Mauro Calamandrei nell’introduzione all’edizione italiana dello stesso testo (il Mulino, Bologna 1959): «Cos’è la teoria o l’ipotesi della frontiera? La storia americana, secondo la teoria di Turner, è essenzialmente una storia di colonizzazione dell’Ovest. La chiave di questo processo è la presenza di una frontiera mobile che continuamente si ritira aprendo nuovi orizzonti economici e umani».

Aggiungendo poco dopo che il termine frontiera, nella lingua e nell’immaginario americani non ha mai avuto il senso di una linea di confine e di chiusura di spazi definiti, come nell’originale termine inglese “frontier”, ma piuttosto quello attribuitogli da Walter P. Webb, uno dei più significativi discepoli di Turner, secondo il quale: «La frontiera non costituisce una linea in cui fermarsi, ma un’area che invita ad entrare».

Originariamente il termine aveva lo stesso significato e in Inghilterra e nel continente europeo e nelle colonie inglesi del Nord-America. Il cambiamento di significato del termine fu determinato dalla consapevolezza che, attorno agli insediamenti coloniali, non c’era un confine rigido e impenetrabile se non sotto la pressione eccezionale di un conflitto bellico; c’era invece spazio aperto e disponibile. La scoperta di questo fatto dava al dinamismo espansionista, che era alla base della creazione delle colonie, nuovo vigore e nuova vitalità. La consapevolezza di trovarsi all’orlo di un continente, che aspettava solo di essere esplorato, conquistato e sfruttato, era travasato nel linguaggio stesso e nel significato traslato che parole come frontier venivano ad assumere. Mitford M. Mathews è in grado di citare esempi di un simile uso del termine che risalgono a prima della fine del ‘6001.

Ma in realtà il mito della frontiera ha costituito da sempre, e per questo è possibile far risalire l’uso traslato del termine a prima della fine del XVII secolo, l’orizzonte dell’espansionismo coloniale europeo che proprio sulle rotte atlantiche, e quindi ad Ovest del continente, aveva iniziato a costruire i propri imperi. Rompendo così quella tradizione antica, ancora riportata da Dante Alighieri nel XXV canto dell’Inferno, quello di Ulisse, secondo cui ad Occidente poteva estendersi soltanto il mondo dei morti.

Morti in effetti ce ne sarebbero poi stati parecchi, milioni addirittura, nel corso dell’espansione europea verso occidente, ma quasi tutti furono gli abitanti, fino allora ben vivi e felici, di quelle terre che si ritenevano disabitate e selvagge. Prive di civiltà e barbare. Motivazioni per cui una certa razzializzazione della storia poteva permettere di fare affermare a Jesup D. Scott nel 1859 che:« Il movimento verso Occidente del ramo caucasico della razza umana, dagli altopiani dell’Asia, prima verso l’Europa e poi, con crescente marea, verso il Nuovo Mondo, con gran moltitudine di uomini, è il fenomeno più grandioso della storia»2.

In un contesto in cui, come bene ha ricostruito lo storico e sinologo Martin Bernal nella sua opera più importante e controversa, Atena nera3, alle precedenti ricostruzioni delle origini della civiltà greca che trovavano spunto in quelle mesopotamiche ed egizie si stava ormai sostituendo una visione indo-europea o ariana della nascita della stessa. Ipotesi fortemente sostenuta, anche a livello di formazione scolastica e universitaria fin dai primi decenni dell’Ottocento, prima in Germania e poi anche nelle società di lingua inglese.
Come sostiene Bernal l’incoraggiamento dato all’istituzione di corsi di Altertumswissenschaft (Scienza dell’Antichità) all’interno delle Università tedesche determinava la visione di un uomo greco di carattere “divino”, poiché capace di arte e filosofia.

Era inoltre necessario che i Greci – così come voleva l’immagine idealizzata dai Tedeschi – fossero integrati al proprio suolo nativo, e fossero puri. Il modello antico, con le sue varie invasioni e frequenti prestiti culturali e le implicite conseguenze di mescolanza razziale e linguistica, divenne sempre più intollerabile4.

Ora al di là della persistenza e della validità o meno dell’esistenza di una lingua indoeuropea o di popoli accomunabili sotto questa definizione come ariani o arii5, la fascinazione esercitata da una cultura di tali origini per lo sviluppo delle società germaniche divenne di fondamentale importanza per lo sviluppo del razzismo dell’imperialismo e del colonialismo sia inglese che tedesco e più in generale di un Occidente che sempre più spesso avrebbe rivendicato le proprie origini culturali nella tradizione “classica”.

Ogni razza che ha lasciato segni profondi sulla comunità umana è stata la portavoce di qualche grande idea che ha imposto una direttiva alla vita nazionale una forma alla sua civiltà […] Le razze più nobili sono sempre state amanti della libertà. Quell’amore operava fortemente nel primigenio sangue germanico e ha profondamente fatto sentire il proprio influsso sulle istituzioni di tutti i rami della grande famiglia tedesca; ma venne riservata alla razza anglo-sassone la missione di riconoscere nella sua pienezza il diritto dell’individuo a se stesso e a dichiarare formalmente tale diritto fondamento del governo.

Così si esprimeva, nel 1885, Josiah Strong (1847-1916), un ecclesiastico e autore protestante, fondatore del Social Gospel movement, dedito alla difesa delle libertà e alla diffusione di un’opera missionaria che facesse sì che tutte le razze potessero essere migliorate ed elevate e quindi portate a Cristo. Nel suo libro Our Country da cui è tratta la precedente citazione, Strong sosteneva che gli anglo-sassoni costituiscono una razza superiore che deve “cristianizzare e civilizzare” le razze “selvagge”, il che sosteneva sarebbe stato un bene per l’economia americana e per le “razze minori”6.

E’ chiaro che tutto questo insistere sull’”amore per la libertà” rimandava inevitabilmente a quella civiltà classica, possibilmente ateniese dal punto di vista del pensiero politico e filosofico, che gli storici tedeschi e inglesi dell’Ottocento cercavano di avvallare come essenza di una civiltà che era sorta proprio combattendo la barbarie asiatica, poi rimasta nell’immaginario politico occidentale fino agli attuali deliri sulle autocrazie nemiche della libertà e della “vera” democrazia. Che poi, proprio ad Atene, questa democrazia e questa libertà riguardassero soltanto un ristretto numero di individui maschi e non le donne, gli schiavi e i meteci (gli stranieri più o meno integrati nell’economia della città-stato) sembra avere oggi, come allora, scarsa importanza nel dibattito politico liberale.

Secondo Albert J. Beveridge (1862- 1927), storico e senatore statunitense, infine, il generale dell’Unione e poi diciottesimo presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant (1822-1885):

Non dimenticò mai che siamo una razza conquistatrice e che dobbiamo obbedire agli imperativi del nostro sangue e conquistare nuovi mercati e se necessario nuove terre. Grant ebbe la virtù profetica di prevedere come, come parte dell’imperscrutabile piano dell’Onnipotente, la scomparsa delle civiltà inferiori e delle razze decadenti di fronte all’avanzata delle civiltà superiori formate dai tipi più nobili e più virili di uomini.
[…] Grant aveva l’istinto dell’impero. Sognò gli stessi sogni che Dio suscitò nelle menti di efferson, Hamilton, di John Bright e di Emerson, e di tutti gli intelletti imperiali della sua razza; il sogno dell’America che si espande finché tutti imari vedranno sbocciare il fiore della libertà e sventolare la bandiera della nostra repubblica […] E la legge americana, l’ordine americano, la civiltà americana e la bandiera americana verranno stabiliti su spiagge lontane che, fino ad oggi insanguinate e oscure, diventeranno magnifiche e felici.
Se questo significa un canale sull’istmo con bandiera a stelle e strisce che sventola anche sulle Hawii, su Cuba e sui Mari del Sud, se questo significa un impero americano nel nome della grande repubblica e delle sue libere istituzioni, accogliamo questo significato con gioia esultante e realizziamo concretamente questo significato, senza curarci di ciò chele forze della barbarie e dei nostri nemici possono dire o fare7.

Il discorso fu pronunciato in occasione della guerra ispano-americana con cui, nel 1898 e a seguito di un attentato inventato, gli Stati Uniti portarono i loro confini occidentali ancora più lontano, sul Pacifico con le isole Hawaii e al di là dello stesso oceano, nelle Filippine. Un discorso dal carttere “biblico” cui nulla ha aggiunto ogni promessa americana da Franklyn Delano Roosevelt a John Fitzgerald Kennedy (promotore di una Nuova Frontiera nello spazio), fino a Donald Trump e al suo pupillo e nemico Elon Musk.

Tutto questo per delineare il clima culturale che aveva circondato la stesura del romanzo appena pubblicato dalle edizioni Bibliotheka, che, più che per il suo valore letterario, vale la pena di essere letto come testimonianza di un periodo in cui, soprattutto nella cultura di lingua tedesca e anglofona, si andava affermando un mito ben preciso: quello della derivazione ariana della cultura greca, ritenuta all’epoca, e poi ancora successivamente, non soltanto fondativa di quello che allora era ancora un confuso, e non del tutto definito nei suoi confini geografici, “Occidente”, ma massima espressione di una civiltà destinata a sottomettere a sé tutti i popoli ancora barbari.

Il romanzo The American Family Robinson, pubblicato per la prima volta nel 1853 a Filadelfia, narra la storia della famiglia Robinson e delle sua avventure durante il trasferimento verso Ovest cui dà inizio il desiderio “innato” dei suoi componenti di trasferirsi sempre più a Ovest. Come afferma lo stesso autore nel Prologo:

Le altissime montagne, le possenti foreste, i fiumi e le valli del West, buona parte dei quali a tutt’oggi rimane inesplorata, sono spesso motivo di immensa gratificazione per i nostri valevoli naturalisti, lapidari e archeologi. E’ pertanto con l’intento di mettere in luce una tale tipologia di fonti che l’autore ha raggruppato in questa piccola opera i numerosi e sconvolgenti avvenimenti della vita nelle praterie, facendo qua e là cnno a resti del passato che inequivocabilmente testimoniano l’esistenza di una misteriosa e progredita civiltà, rispetto alla quale svariate scoperte hanno in seguito provato che le ipotesi da lui propagate erano corrette.
Del fatto che questo paese sia stato popolato da una civiltà che h apreceduto le tribù indiane, nonché i loro progenitori, non vi è ormai più dubbio alcuno. Ovunque nel West, e in molti luoghi ad est della valle del Mississippi, prove inconfutabili attestano l’antichità dei cimeli e dei monumenti lasciati da un popolo di cui razza, nome e costumi sono andati perduti nell’oscurità che sempre aleggia si di un passato maestoso. Al fine di richiamare con maggiore efficacia la curiosità del lettore su qqueste remote testimonianze, e per instillare nelle menti dei giovani la sete per l’indagine scientifica, l’autore ha incidentalmente accennato a queste vestigia mentre seguiva la famiglia di Mr. Duncan nella sua faticosa peregrinazione attraverso il Gran Deserto Americano8.

Con queste premesse e promesse il romanzo divenne ben presto un best-seller ed eguagliò in popolarità un romanzo come Robinson Crusoe di Daniel Defoe, che anticipava di quasi due secoli la teoria del White Man’s Burden, ovvero del fardello dell’uomo bianco, espressa da Rudyard Kipling nel 1899. Personaggio dai molteplici interessi, David W. Belisle (New Jersey 1827 – Philadelphia 1890) fu scrittore, poeta, giornalista nonché sindaco di Atlantic City dal 1866 al 1867, e, oltre al romanzo in questione, pubblicò anche una serie di guide turistiche sulla parte orientale degli Stati Uniti.

Nonostante il fatto che le vicende si svolgano tra foreste imponenti, montagne selvagge, fiumi e valli immortalati nella loro naturale bellezza, prima che lo sviluppo capitalistico contribuisse alla loro devastazione insieme alla scomparsa dei bisonti e delle tribù dei nativi, il testo finisce col costituire principalmente una anticipazione delle origini del mito della frontiera e delle giustificazioni razziste dell’espansionismo a stelle e strisce in territori e tra popoli quasi sempre definiti come “selvaggi”.

Ma a differenza di molti altri romanzi di tal fatta, tra i quali quelli di James Fenimore Cooper non sono certo i peggiori, quello di Belisle introduce una novità già anticipata nel prologo citato prima: quello di una civiltà anteriore sia a quella delle popolazioni amerindie che di quella europea giunte successivamente sul continente. Civiltà che si manifesta prima con il ritrovamento di manufatti di rame da parte di due ragazzini della famiglia Duncan e poi attraverso la narrazione dello zio che, durante la sua gioventù, avrebbe incontrato commerciando con una tribù di nativi, sulle sponde del Lago Superiore, uno strano individuo, un anziano, dalla barba fitta, pettinata, divisa in due sul labbro superiore, che gli ricadeva fin sul petto.

La sua doveva essere stata una corporatura forte, atletica, perché era alto più di sette piedi (circa due metri – N.d.R.), e sebbene barcollasse, aveva le ossa dritte e gli occhi blu, irradiati di uno spirito che la vecchiaia non era riuscita a sottomettere. Le sue caratteristiche fisiche, così come la sua carnagione, erano completamente diverse da quelle del resto della tribù. La fronte era alta e spaziosa, il mento largo e prominente; le labbra piene, dotate di un’espressività che non avevo mai veduto in nessun altro essere umano, gli conferivano un’aria di nobiltà mista ad agonia e infelicità senza speranza […] Era un vecchio strano, insomma; tanto diverso da chiunque altro, che la sua sola presenza bastava a suscitare rispetto e riverenza. Gli indiani poi non hanno barba. Questo particolare ci faceva supporre che si trattasse di un uomo bianco; ma a volerlo paragonare alle razze occidentali, ci si rendeva conto che non aveva nulla in comune né con gli europei né con i nativi9.

L’inserimento nella narrazione di questa via di mezzo tra un Neaderthal e un semidio greco, permette successivamente a Belisle di inserire, a mo’ di insegnamento per le giovani generazioni e tutti gli altri lettori, la sua visione del declino delle razze o della loro sopravvivenza, oltre che la convinzione di una razza superiore, quella evidentemente ariana nei tratti fisici descritti, di cui occorrerebbe ritrovare la purezza, così come la famiglia Duncan potrebbe fare spingendosi ai confini dell’Occidente.

Per comprendere appieno la narrazione tossica insita nel romanzo è qui d’uopo riportate le parole del vecchio, esposte dallo zio, la cui curiosità giovanile aveva commosso e spinto l’anziano e unico superstite di una “razza superiore” a raccontare il misterioso passato del continente americano.

Vieni qua, figlio di una razza degenere, e apprendi i segreti del passato. Molto prima che la tua razza sapesse dell’esistenza di questo continente, la mia gente viveva nel vigore e nella gloria della prosperità di una nazione. Dall’estremo Nord, dove gli iceberg resistono al sole, fino alle rocce brulle del profondo e torrido Sud, tutto era nostro, da un oceano all’altro!
[…] Ma sorsero problemi. I nostri re avevano accolto sul loro territorio due altre razze, in principio soltanto una manciata di uomini portati dai venti sulle nostre coste in due diverse ondate. Quelli che per primi erano stati condotti alla nostra ospitalità erano civilizzati, a loro modo, e superiori alle bestie, sebbene inferiori a noi per numero. Ma la differenza fra i nostri popoli era tale che il matrimonio misto veniva punito con la morte. Erano umani, e quindi li proteggevamo, e l’insignificanza era a quel tempo la loro più grande amica […] L’altra razza era invece composta da selvaggi della specie peggiore, rozzi più degli animali da preda. Fu così che si moltiplicarono e divennero forti […] Le nostre foreste si popolarono di bestie in forma umana, e le nostre regioni di una nazione di ebeti. Trascorsero i secoli, e i selvaggi si moltiplicarono e divennero arroganti […] Finalmente, ahimè troppo tardi, ci rendemmo conto del pericolo. Li scacciammo dalle nostre città fino alle montagne. Ma prima che potessimo vendicare i loro oltraggi, l’altra razza si mosse come uno sciame di locuste, e proclamandosi nostra pari chiese di essere riconosciuta come tale […] Poi cominciò una terribile guerra di sterminio. Il continente venne sommerso dal sangue. Noi combattevamo per le nostre famiglie e il nostro paese, loro per la supremazia […] Dopo tutti questi secoli siamo stati dimenticati, nella lotta fra la razza per metà civilizzata e i selvaggi, la mia gente morendo di anno in anno, si è completamente estinta, tranne che per me, l’ultimo padrone legittimo di questo continente10.

E’ incredibilmente riassunto qui, in poche pagine, tutto il variegato pregiudizio delle razze superiori e inferiori e del declino e scomparsa delle prime se non sapranno trattare come si deve, sterminandole e cacciandole da ogni consorzio umano, le altre. Dalla conquista del West allo schiavismo delle piantagioni del Sud, dai Protocolli dei Savi di Sion ai muri di Trump, passando per i campi di concentramento nazisti, la proibizione dei matrimoni misti, la paura nei confronti degli immigrati destinati a sostituirci fino a tutti i deliri di QAnon, è già tutto anticipato nelle pagine di Belisle.

Tutto servito in anticipo sui tempi: dalle teorizzazioni dell’ampliamento ad Ovest dell’impero alle leggi Jim Crow11, dai linciaggi degli afro-americani ai massacri del fiume Sand Creek e Wounded Knee dei nativi delle grandi pianure. Un fiume di sangue che, questo sì davvero, avrebbe accompagnato l’avanzare della Frontiera e del dominio statunitense sul mondo da allora fino al XXI secolo.


  1. M. Calamandrei, Introduzione a F. J. Turner, La frontiera nella storia americana, Società editrice il Mulino, Bologna 1975, pp. 9-10.  

  2. J. D. Scott, Westward the Star of Empire (Verso occidente volge la stella dell’impero), «De Bow’s Review», agosto 1859 cit. in P. Bairati (a cura di), I profeti dell’impero americano. Dal periodo coloniale ai nostri giorni, Giulio Einaudi editore, Torino 1975, p. 181.  

  3. M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore, Milano 2011 – ed. originale 1987, Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization.  

  4. M.Bernal, op. cit., p. 23.  

  5. Si veda, a solo titolo di esempio: G. Semeraro, La favola dell’indoeuropeo, Bruno Mondadori editore, 2005.  

  6. J. Strong, Our Country, cap. XIII, cit. in P. Bairati, op. cit., pp. 192-206, La razza anglo-sassone e il futuro del mondo.  

  7. A. J. Beveridge, Siamo una razza conquistatrice, 27 aprile 1898 , ora in P. Bairati, op. cit., pp. 242-243.  

  8. D. W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 11-12.  

  9. D. W. Belisle, op.cit., p. 40.  

  10. Ivi, pp. 43-45.  

  11. In proposito si veda: J. Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019 (recensito qui).  

]]>